Il 12 e 13 Giugno 1859 a Ravenna nella narrazione del Conte Luigi Guaccimanni

Luigi Montanari

In Almanacco Ravennate 1960

 

Nelle celebrazioni del centenario del 1860 non mancheranno riferimenti agli avvenimenti dell’anno precedente e non essendo ancora spenti gli echi delle celebrazioni del centenario del 1859, non è inopportuno vedere il racconto di ciò che avvenne in Ravenna nelle fatidiche giornate del 12 e 13 Giugno del 1859, seguendo la narrazione lasciataci dall’ing. Conte Luigi Guaccimanni il quale, va detto subito, fu padre dei pittori Vittorio e Alessandro e figlio dell’avv. Giovanni, benemerito presidente del Tribunale di Ravenna, persona integra1. Di Lui l’avv. Pio Poletti, nel suo libro “Addio Vecchia Ravenna”2, così scrive: “L’avvocato presidente del Tribunale più che avverso alle nuove idee fu un devoto al dovere: aveva giurato fedeltà al Governo Pontificio, avrebbe mantenuto il giuramento a costo della vita.

Compreso soltanto del suo alto magistero di Giudicante, di altro non era preoccupato, e da tutto che lo circondava la sua mente era distratta. Un giorno in Tribunale il Cancelliere, certo Cleto Calderoni, bellissimo spirito, al vederlo entrare gli osservò: “Ma Signor Presidente, è diventato un rivoluzionario?” Aveva le mani entro un paio di guanti a liste bianche, rosse e verdi. Egli, portando gli occhi alle mani, bonariamente esclamò: “Sono stati quei benedetti ragazzi, Gioventù! Gioventù!” Gli avevano cambiato i guanti nelle tasche del paletòt!”.

Uno di quei benedetti ragazzi, suoi figli, fu il conte dott. Domenico che, sempre a quanto ci dice il Poletti3, nel 1860 fu capitano Garibaldino, e un altro fu il conte Luigi, ingegnere, uno dei più attivi componenti del comitato ravennate della Società Nazionale per il quale fece il messaggero. Infatti essendo egli per ragioni professionali alle dipendenze del Comune di Alfonsine, poteva uscire quotidianamente da Ravenna senza destare sospetti nella Polizia. Potè così, attraverso strade remote, spingersi oltre Alfonsine verso Bologna per mantenere i collegamenti tra il comitato di Ravenna e quello bolognese della Società Nazionale.

Il conte Luigi Guaccimanni era nato il 29 Luglio 1832 e morì il 5 giugno 1917. Negli ultimi anni di sua vita scrisse un volume di memorie, rimaste manoscritte, che il figlio Vittorio donò alla Classense ove sono conservate. Sono memorie, come scrisse il figlio nella lettera che accompagnava il dono, di un “ultra-liberale”, ma non per ciò prive di importanza, sopratutto quando si consideri che l’autore racconta dei fatti dei quali fu testimonio e talvolta parte. Tralasciando gli apprezzamenti che ogni tanto possono peccare dell’ultra-liberalismo del Guaccimanni, quelle memorie hanno valore di documento importantissimo, perché sono la testimonianza di un galantuomo che ebbe esperienza personale nei fatti narrati.

Il Guaccimanni, che nel liberalismo ravennate fu dell’ala progressista capeggiata da Alfredo Baccarini, ebbe anche importanti cariche pubbliche nella sua città e fu uno dei consiglieri Comunali eletti nelle prime elezioni che furono fatte a Ravenna. L’autore del manoscritto così ci narra i fatti del 12-13 Giugno 18594, da p. 219 a p. 234.

L’entusiasmo5 delle popolazioni dell’Italia superiore si comunicò subito alla media Italia, ed anche le Romagne insofferenti del giogo papale, chiedevano di insorgere e di unirsi al Piemonte per incominciare a por mano al grande edifizio dell’Unità Italiana. Dopo lungo attendere e vista l’inerzia dei capi, finalmente fu deliberata una riunione dei rappresentanti dei diversi comitati romagnoli per stabilire il giorno nel quale si dovesse por termine ai lunghi indugi e tentennamenti ingiustificati, per passare dallo Stato di una semplice aspirazione a quell’azione così propria del nostro carattere e così ardentemente voluta e aspettata dalle masse.

La riunione venne stabilita pel giorno 12 Giugno (1859) a Prada nella Villa dei Conti Laderchi di Faenza – posizione assai centrale e comoda per la Romagna tutta6.. Intanto che nel mattino di quel giorno i rappresentanti dei nostri Comitati stavano discutendo sul giorno e sulle norme da seguirsi per la contemporanea comune insurrezione, quivi giunse la notizia che Bologna, rimasta improvvisamente sgombra dalle truppe austriache, in gran fretta chiamate a Mantova, era già insorta, e aveva senza ostacolo alcuno, proclamato decaduto il governo papale, nominano – in attesa delle decisioni di Prada7 – una Giunta provvisoria di Governo.

I congregati allora, cessata subito ogni altra discussione stabilirono che l’esempio di Bologna sarebbesi senz’altro seguito nel giorno susseguente da tutta la Romagna, e subito scioltosi fecero sollecito ritorno alle rispettive sedi per predisporre ovunque, che il cambiamento del governo avvenisse l’indomani mattina pacificamente evitando per quanto fosse stato possibile tutti gli inconvenienti come a Bologna.

Sebbene allora nei felici Stati Pontifici non esistesse ancora il telegrafo, la notizia dell’avvenuta partenza degli austriaci da Bologna e dell’immediata proclamazione della caduta del Governo teocratico subito si sparse per tutte le Romagne, ed assai prima del ritorno dei rappresentanti nelle singole sedi. Grande fu l’entusiasmo subito nato, ed a stento si poté trattenere queste ardenti popolazioni dal seguire l’esempio di Bologna ed aspettare il ritorno dei capi da Prada. Ritornati essi nel pomeriggio fu stabilito d’attendere l’indomani, secondo quanto erasi convenuto nella riunione del mattino a Villa Laderchi ed anche si disse, per avere tempo di preparare una ben ordinata dimostrazione, che sarebbe stata seguita dalla proclamazione della caduta del Governo dei Preti, e dalla nomina del Governo Provvisorio. Attesa che fu causa di gravissimi inconvenienti.

Da parecchio tempo anche a Ravenna il Governo Pontificio non esisteva più che di nome. Il Comitato ormai agiva apertamente e trasmetteva ordini e disposizioni, senza che la polizia azzardasse affatto di impedirlo e di porvi il più piccolo ostacolo. Succedeva anzi ormai assai spesso che al giungere dei nostri particolari corrieri con gli annunzi delle giornaliere vittorie, la popolazione che subito, come chiamata da una voce superiore, riunivasi nella Piazza maggiore, prorompesse in fragorose entusiastiche acclamazioni, alle grida di Viva l’Italia, abbasso il Papa. Monsignor Pro-Legato8, che mancava affatto di notizie ufficiali, si rivolgeva per mezzo di qualche impiegato al Comitato, e a qualcuno dei suoi membri, ormai pienamente conosciuti, per avere informazioni su quanto stava accadendo. Così quando nel 12 Giugno giunse la notizia dell’avvenuto cambiamento di governo a Bologna, e perciò le grida e l’entusiasmo sorpassarono di molto quelle dei giorni precedenti, e molto si insisteva per gli evviva, e anche più sugli abbasso e sui fischi. Monsignor Ricci, temendo forse che la dimostrazione eccedesse e che la consueta guardia, che sempre montava a tutti gli ingressi del palazzo governativo9, fosse insufficiente a trattenere la folla, che esultava, tentasse di invadere la residenza stessa, fece occupare da un forte gruppo di Carabinieri, completamente armati, la grande sala che precede l’abitazione del rappresentante il Governo e gli Uffici. Nello stesso tempo fece avvertire il Comitato che si trattava puramente di una misura prudenziale, e che, risoluto come era, di non avere conflitto colla popolazione, pregava, che lo si avvertisse qualche ora prima di procedere alla proclamazione del nuovo Governo, perché egli sarebbe pacificamente e spontaneamente partito, abbandonando il potere nelle mani del Comitato stesso.

Difficile è descriversi lo stato di entusiasmo in cui si trovava l’intera città, e la smania che tutti aveva invaso, e che a stento si giungeva a frenare, di seguire subito l’esempio di Bologna senza attendere l’indomani. Tutti i capi e i cittadini più influenti si adoperavano per impedire inopportune escandescenze, e per frenare il patriottico ardore delle masse che volevano l’immediata proclamazione della decadenza dell’aborrito governo dei Preti, e l’unione al Piemonte.

Fu subito dal Comitato disposto che cominciasse a funzionare una Giunta Provvisoria di Governo, fino a che dal Piemonte fosse mandato un funzionario munito della fiducia del Re e adatto per assumere il governo della provincia. Furono nominati a far parte della Giunta Provvisoria il Conte Gioacchino Rasponi10, il Conte Ippolito Gamba11, e il signor Domenico Boccaccini12 che subito ne assunsero le funzioni, insediandosi intanto nella residenza Municipale.

Si decretò che alle 7 del mattino seguente due giovani cittadini appartenenti al Comitato F.F. E L.G.13 si recassero a nome della giunta provvisoria di governo da Monsignor Prolegato, invitandolo a norma degli accordi con Lui già presi, ad abbandonare il potere e la Legazione affidatagli da un Governo già decaduto di fatto. E, qualora per sua personale sicurezza fosse da Lui richiesto, di accompagnarlo fino al confine della Provincia.

A reggere l’Ufficio di Polizia furono delegati Pietro Gueltrini colle funzioni di Direttore, ed Achille Corbelli con quello di Segretario; non potendosi lasciare nemmeno per breve istante quell’importantissimo ufficio nelle mani dei funzionari, che lo avevano fino allora retto, essendo essi troppo conosciuti per la loro assoluta inettitudine e invisi per le loro idee politiche, e per l’odio ferocemente nutrito contro la parte liberale.

E, poiché la rivoluzione doveva effettuarsi all’acqua di rose, furono scelte diverse località nelle quali, l’indomani, appena giorno, i cittadini dei Rioni affini si sarebbero riuniti armati per porsi sotto la direzione di ben conosciuti capi, già nominati, i quali appena ricevutone avviso, li avrebbero accompagnati tutti all’istessa ora, ed in ordinate colonne, nella piazza Maggiore per proclamare decaduto il Governo Pontificio, non che l’Unione al Piemonte.

Da parte dell’agonizzante Governo non si dava affatto segno di vita, tranne che dall’ufficio di Polizia, dal quale a quando a quando un agente, certo Oddo, (detto il zoppo, perché claudicante) si vedeva sortire con grossi involti, che portava nel vicolo delle melarance (ora Mentana) nella casa abitata da un certo Salvatore Greco, agente della Contessa Giuseppina Ghirardini, per poi ritornare in Ufficio, e riprendere l’operazione.

Fu subito di ciò avvertita la Giunta Provvisoria di Governo ed anche chi doveva l’indomani prendere possesso dell’Ufficio di Polizia. Gli informatori si ritenevano sicuri che sarebbe loro stato ordinato, come proponevano, di andare a sequestrare subito gli involti, che indubbiamente contenevano carte importanti, e i segreti della Polizia Pontificia, ed i nomi dei suoi confidenti. Ma con grande loro meraviglia, e di tutti, fu ordinato invece di lasciar fare, di continuare unicamente a sorvegliare per assicurarsi se, e in quale altra località, venissero nascosti altri involti: così più completamente, dicevano, si sarebbe il giorno dopo recuperate quelle carte e quei documenti senza dar luogo a procurare in quella sera, reazioni che si voleva far credere possibili per parte delle sfinite Autorità pontificie.

Il giorno dopo troppe cose premevano, e i famosi pieghi depositati e trafugati non furono più trovati, e probabilmente nemmeno ricercati, dando così luogo a molti commenti specialmente a carico di qualcuno che aveva influito per impedirne il sequestro nella sera precedente.

Da tutto ciò risulta, che sino dalla seconda metà del giorno 12 il governo della cosa pubblica era completamente in mano della cittadinanza, sebbene il potere del Papa non fosse ancora proclamato decaduto, tutte le moribonde autorità erano minutamente sorvegliate per impedire che ordini provenienti dal di fuori, o un tardo, sebbene assai improbabile, risveglio di energia le inducesse a tentare di riprendere il potere sfuggito dalle loro mani! Anche tutte le porte della città erano state occupate da forti nuclei di cittadini armati con l’incarico di attentamente sorvegliare chi entrava o usciva, e di sorvegliare che, specialmente tra quelli che entravano, non fossero persone sospette, le quali in caso dovevano essere senz’altro arrestate e messe a disposizione della Giunta Provvisoria.

Era pure sorvegliato strettamente ogni movimento nel quartiere di S. Vitale, ove risiedevano gli avanzi di un battaglione di fanteria e i Carabinieri. Il Comandante di questo battaglione, che, come monsignor Delegato portava il cognome di Ricci, era uomo assai mite, e nutriva gli stessi sentimenti del suo omonimo. Con esso aveva la Giunta di già concertato che la truppa da Lui dipendente sarebbe rimasta in quartiere in attesa dell’ordine di partirne per recarsi nella Piazza Maggiore a dar atto di adesione al nuovo ordine di cose, e mettersi a completa disposizione del nuovo Governo.

La mattina del 13 all’ora stabilita, e cioè alle 7, i due delegati della Giunta Provvisoria si recarono alla residenza di Monsignore Delegato per dare esecuzione all’incarico ricevuto. Ma con loro grande sorpresa si sentirono annunciare, che da circa un’ora Monsignore era partito col Gonfaloniere, C.te Giuseppe Pasolini14, che era andato a prenderlo con la sua carrozza, e lo aveva condotto fuori della città sortendo per porta Sisi.

Il capo della rappresentanza Comunale in quel momento di suprema importanza non avrebbe dovuto per qualsiasi ragione abbandonare il suo posto in Municipio ove gli incombeva una missione assai più interessante e doverosa di quella di accompagnare – per quanto personalmente buono – il capo di un governo così infamemente vissuto e così indecorosamente caduto15.

E ciò tanto più, in quanto Egli ben sapeva, che appunto per un riguardo personale a Monsignor Ricci, la Giunta Provvisoria di Governo aveva già delegato a quella missione due giovani da Lui ben conosciuti, che godevano la stima e la fiducia generale, e che però lo avrebbero potuto, in ogni peggior caso, completamente garantire ed assicurare da qualsiasi offesa e pericolo. Purtroppo in quel momento, in cui era tanto necessaria, mancò la presenza del Gonfaloniere, e la Magistratura cittadina rimase acefala.

Si disse che il Conte Pasolini, amico personale di Pio IX sino da quando era vescovo di Imola e uno dei suoi più stimati Ministri quando era ancora un Papa liberale, non avesse voluto partecipare alla proclamazione ufficiale della sua decadenza dal potere temporale.

Ai due incaricati della Giunta Provvisoria di recarsi da Monsignore per invitarlo alla partenza, non restò che una più umanitaria missione, quella di provvedere di cibo i Carabinieri, che da circa 24 ore erano nella residenza Governativa, ed al cui sostentamento nessuno aveva pensato. Per la fame, la sete, il sonno, e forse per lo stato di incertezza in cui si trovavano, la loro condizione era tale da destare una compassione anche in chi sentiva assai scarsa simpatia per quell’arma allora tanto odiata. Adempiuto con tutta premura a quell’obbligo imposto dall’umanità, furono poi i Carabinieri richiesti se intendevano di prendere servizio sotto il nuovo governo: nel qual caso avrebbe potuto rimanere in palazzo finché tutta la truppa, che ancora era in quartiere, fosse venuta in Piazza a afre atto di solidarietà colla popolazione.

Essi però unanimemente dichiararono di voler raggiungere i loro compagni, rimanendo ad essi uniti, e fedeli al loro giuramento. Il che, né sorprese, né rammaricò alcuno.

Riuscì invece di molta sorpresa, ed anche di rammarico, il fatto che l’esempio loro fosse seguito da un giovane maresciallo, certo Ambrosi, appartenente a distinta famiglia umbra, il quale era sempre stato legato al partito liberale da sinceri vincoli di reciproca stima ed amicizia, cosicché in varie occasioni importanti aveva date prove sicure e spontanee di nutrire sentimenti italiani, e contrari al governo clericale. La sua risoluzione, che invano si tentò con ogni sforzo di scuotere, provenne certo dall’essere egli cognato del Colonnello De Dominicis, e dal timore di recare troppo grave dispiacere alla sorella, che era una bellissima e distinta signora che molto si interessava di Lui, e i suoi sentimenti tanto differenziavano da quelli del marito. Forse anche per questo temette che la sua accettazione di prendere servizio sotto il nuovo Governo avesse potuto procurare rimproveri alla sorella dal marito che era un fiore di reazionario. Comunque, il fatto è che ogni nostra replica per quanto insistente e sinceramente fatta rimase inutile, ed egli seguì i colleghi.

Per quanto doloroso è obbligo di constatare che la giunta Provvisoria cominciò subito col dar prova di mancanza di quel tatto, energia e risolutezza assolutamente indispensabili in simili momenti, e che inconcepibili furono le titubanze e le ingiustificate disposizioni di ogni suo atto. Mentre infatti la Piazza Maggiore sino dal primo spuntare del giorno andava riempiendosi di gente e cittadini che secondo quanto era stato stabilito nel dì precedente dovevano dai convenuti ritrovi, discendere armati in piazza, erano invece per inspiegabile ordine della Giunta avviati al convegno completamente disarmati e recanti soltanto per ogni gruppo una bandiera a tre colori! Il maggiore Ricci, forse consapevole, o almeno in sospetto di quanto più tardi avvenne, insistentemente richiedeva l’ordine di recarsi colla sua truppa in piazza, come avevano di già fatto le Guardie di Finanza; e la Giunta che avrebbe dovuto prevenire il desiderio del Comandante quasi seccata dall’insistenza lodevolissima, rispose di attendere.

Nel frattempo da Porta Nuova, ora Garibaldi, entrava al grande trotto una carrozza chiusa, entro la quale stava il Colonnello Guth, svizzero, al servizio del Papa. Il gruppo di cittadini, capitanati da Aristide Fabiani, ex ufficiale della Repubblica Romana, che sino dalla sera precedente era di guardia a detta porta, ad onta che il Colonnello vestisse l’uniforme militare, ad onta che fossero ben precisi gli ordini di non lasciare passare persone sospette, no usò della forza per fermare la vettura, e per una incomprensibile e fatale mancanza d’obbedienza agli ordini ricevuti, si limitò a gridare: ferma, ferma, senza impedire con qualsiasi mezzo il proseguire della vettura e facendo anche uso delle armi per arrestare il Colonnello come sarebbe stato suo imprescindibile dovere.

Il Guth, evidentemente uomo energico e risoluto, corse subito alla caserma di S. Vitale, e là trovò di già schierato il battaglione che stava ancora aspettando gli ordini della Giunta!

Ne assunse senz’altro il Comando, entro il più breve tempo possibile lo fece uscire per la Porta Adriana, e, seguendo la strada di circonvallazione, marciare alla volta di Rimini.

Arrivata tale notizia in Municipio, allora finalmente la Giunta di Governo si scosse, e mandò in quartiere l’ordine che avrebbe dovuto mandare la mattina allo spuntare del giorno. Saputo però che la truppa si disponeva invece, guidata dal Colonnello svizzero, a partire verso Rimini dispose (sembra uno scherzo) che i cittadini riuniti in piazza, condotti in gruppi dai rispettivi loro capi colla musica in testa, e preceduti da una bandiera bianca (che era portata dall’amico Federico Fabbri), prendendo la strada di Porta Sisi procedessero all’incontro dei partenti e li inducessero a retrocedere.

Giunti infatti alla Porta prima della truppa, che era stata costretta a ritardare alquanto l partenza per provvedersi di carri e cavalli pel trasporto dei bagagli si attese alquanto colà e appena apparve il Maggiore Ricci, che a cavallo marciava alla testa della colonna, fu invitato a fermarsi e mantenere la parola. Il Ricci si fermò visibilmente titubante, e parve anche disposto a mantenere rientrare in città: ma arrivato di corsa il Colonnello che stava in coda per evitare diserzioni, colla spada sfoderata ordinò: Comandante, avanti, avanti! La truppa, per quanto forse a malincuore, fu per la seconda volta costretta a seguire il Colonnello svizzero… ed ai cittadini, che si erano recati disarmati e colla banda in testa per fermare soldati completamente armati, non rimase altro che rassegnarsi, e riprendendo la musica e la bandiera dell’amico fabbri ritornare al punto di partenza. Ivi giunti, dopo di averne al suono degli inni nazionali gridata a lungo: abbasso il Governo Pontificio, abbasso il Papa, Viva l’Italia Unita, Viva V. E. ecc… si sciolsero, non certo troppo soddisfatti di chi aveva diretto le cose.

Così qui cadde per sempre il Governo temporale dei Preti”.

  Qui termina il racconto degli avvenimenti del 12 e 13 giugno che è bene far seguire dalla narrazione di quanto avvenne nei giorni seguenti, per completare il quadro. Ecco come prosegue il Guaccimanni:

“Quei poveri papalini intanto con così poca accortezza lasciati partire, guidati dal Guth proseguirono per Cervia. Il patriotta Eugenio Billi per impedire l’ingresso nella piccola città fa chiudere le porte, appena la truppa è in vista.

Dalle mura partono alcune fucilate alla quali si risponde dalla truppa avanzante e dai carabinieri producendo la morte di un cittadino e diversi feriti in un gruppo di curiosi del tutto disarmati, accorsi unicamente per vedere il passaggio dei soldati. Ma tanta era la convinzione, la fede, la disciplina tra quei soldati mercenari, che una parte immediatamente si sbanda e l’altra a stento può farsi proseguire per Cesenatico, Rimini, Ancona: continuando però a seminare di disertori lo stradale percorso sino a Rimini. Giunta la notizia a Ravenna, e saputosi che gli sbandati andavano raggruppandosi verso la borgata del Savio, per evitare che costoro trovandosi privi di tutto, e senza capi influenti commettessero atti di brigantaggio, fu subito organizzata una compagnia di Guardia Nazionale, che condotta dal buon patriotta Augusto Branzanti16, a marcia forzata, si diresse senza indugio verso la località indicata. Al Savio infatti si erano riuniti gli sbandati, con una parte dei poliziotti più compromessi. Nella fretta di proseguire, il Comandante le poche truppe rimaste unite non si curò, o forse non pensò ai carri, che erano rimasti indietro, e che oltre al bagaglio degli Ufficiali, contenevano anche le casse dei poliziotti. Di costoro era capo un certo Cesare fabbri, che ben si sapeva aveva con sé portati i documenti più importanti e compromettenti, che erano stati nella sera precedente sottratti all’Ufficio P. S. in Ravenna.

I carri erano guidati da vetturali borghesi assunti lì per lì in servizio al momento dell’improvvisa partenza, e quando costoro sentirono le fucilate, e videro che in seguito a queste la truppa si disperdeva, non pensarono che a solvere i cavalli e tagliate in fretta le tirelle fuggirono abbandonando lungo la strada tutto il carico di bagagli e salmerie dei quali si impossessò la colonna di Guardia Nazionale che giungeva da Ravenna. Questa, circuiti subito i fuggitivi, invece di catturarli tutti senza distinzione alcuna, e condurli insieme ai carriaggi a Ravenna, cercò i mezzi per farli proseguire e raggiungere il resto del battaglione che erasi diretto a Rimini!! – non riconducendo con sé che coloro che si rifiutarono di proseguire.

Questa eccessiva mitezza, chiamiamola così, produsse essa pure una penosa impressione, perché poteva ammettersi, che si restituissero i bagagli personali agli Ufficiali, ma non mai le casse della polizia; e tanto meno poi in quantochè, non essendo queste per un solo istante state abbandonate dal famigerato Fabbri, si aveva una prova sicura che contenevano documenti della massima importanza e che però era dovere sequestrare”.

Dato il notevole interesse facciamo seguire il racconto di quanto avvenne nei giorni successivi:

“Erano trascorsi pochi giorni da questi avvenimenti, quando di improvviso giunse la notizia che le truppe austriache che presidiavano Ancona (una brigata e sei pezzi di artiglieria) avevano ricevuto ordine di abbandonare gli Stati Pontifici, e a marcie forzate raggiungere l’esercito, che sui campi di Lombardia subiva quotidiane sconfitte dagli alleati.

Fu subito riunita la Giunta Provvisoria ed il Comitato della Società Nazionale per stabilire la condotta che si sarebbe dovuta seguire in tale frangente. Da un giovane già appartenente al Comitato Repubblicano fu con ardore sostenuta la tesi di opporre una energica resistenza e costringere così la truppa straniera a deporre le armi ed arrendersi prigioniera. La proposta non presentava certo difficoltà grave di riuscita perché sebbene tanto in Ravenna, quanto nelle limitrofe città tutta la gioventù atta alle armi fosse già accorsa ad arruolarsi in Piemonte, o a Terra del Sole nei confini tosco-Romagnolo ove si stava organizzando una divisione composta quasi esclusivamente di romagnoli, pure la marcia degli Austriaci poteva venire validamente ostacolata dalla Guardia Nazionale e da quella divisione appunto in formazione nei confini tosco-Romagnoli comandata dal valente Gen. Mezzacapo, se questa divisione avesse ricevuto ordine di scendere in Romagna ed opporsi alla prosecuzione della marcia degli Austriaci il suo intento sarebbe stato sicuramente raggiunto. Era infatti a tener conto che quella truppa giungeva stanca ed estenuata da Ancona dopo le lunghe e faticose marcie mai interrotte, che era composta di Italiani e di Boemi, e che avrebbe molti fiumi da attraversare. Tutto induceva quindi a ritenere sicuro che avrebbe ceduto al primo incontro anche nella considerazione che ancora lungo era il tragitto che doveva percorrere e sempre in mezzo a popolazioni ostilissime prima di raggiungere il Tirolo ancora in possesso dell’aquila grifagna.

Ma purtroppo non furono condivise queste saggie considerazioni a proposito e la Giunta di Governo ben lontana dall’ispirarsi all’esempio di Garibaldi che con pochi volontari eguali in tutto a quelli che stava organizzando il Mezzacapo pur esso valentissimo Generale, batteva continuamente gli Austriaci, per numero assai più forti capitanati dal gen. Urban non isolati in paese nemico, ma ben equipaggiati ed attivamente armati in perfetto contatto coll’I. R. Esercito, decretò dopo breve discussione ed all’unanimità meno uno dei convenuti, che si lasciasse passare il nemico senza opporre alcuna resistenza. Poi quando partite le truppe Austriache da Rimini senza indicare se avrebbero preso la via di Cesena per Forlì, o quella di Cesenatico per Ravenna17 – si ebbe la sicurezza che seguivano quest’ultima strada, e che qui sarebbero giunti nelle prime ore del mattino, la Giunta di Governo stabilì di rimettere provvisoriamente il Governo della cosa pubblica nelle mani del Municipio18, ancora mancante del Gonfaloniere, e composto di buona gente, ma tutti vecchioni e in massima parte ligi al caduto regime – e di ritirarsi alle Torri di Mezzano, nella villa di proprietà dei C.ti Rasponi Murat che rimaneva abbastanza lontana dallo stradale che si riteneva dovessero percorrere le truppe austriache.

Questa non troppo eroica risoluzione fu presa per evitare il pericolo di essere catturati e tenuti quali ostaggi dalle truppe transitanti per impedire conflitto colle popolazioni in mezzo alle quali dovevano ancora passare prima di raggiungere l’agognata destinazione.

Era già alta la notte quando furono chiamati dalla Giunta di Governo riunita in Municipio, quei cittadini che già avevano fatto parte del Comitato della Società Nazionale per informarli di quanto era stato stabilito, invitandoli a seguire il loro esempio.

Non molti furono quelli che aderirono all’invito ritenendo dai più che nessun pericolo si sarebbe incontrato rimanendo, e che in ogni caso, non pareva loro conveniente abbandonare il paese nel momento nel quale poteva rendersi necessaria la opera di coloro, che maggiormente godevano la fiducia e la stima della popolazione.

Giunti la mattina seguente gli Austriaci agli ordini del Gen. Molinaris, questi visto la gran quiete che ovunque regnava, temette di un agguato, e tenendo in considerazione lo stato di spossatezza della sua truppa, tale da renderla incapace di sostenere l’urto impetuoso di una popolazione ardente ed entusiasta, non azzardò di entrare in città, e ritenne prudente di accamparsi a circa due chilometri da essa sulla sinistra dei Fiumi Uniti nella proprietà Forani.

Qui si trattenne sino al tramonto per accordare un indispensabile riposo a quei poveri soldati affranti dalle lunghe ininterrotte marcie: e non accettò di entrare in città nemmeno quando una rappresentanza del Municipio si recò all’accampamento per fare formale invito, asserendo che sarebbero stati accolti senza ostilità.

Senza lasciar conoscere lo stradale che avrebbero percorso, anzi facendo credere che si sarebbero diretti a Faenza, sul far della sera partirono, e solo si conobbe la via che avrebbero seguito, quando abbandonata la strada faentina si diressero per la Reale ad Alfonsine, non lasciando a Ravenna che un solo disertore, un giovane sergente Boemo.

L’indomani la Giunta di Governo riprese il suo posto e dopo pochi giorni19 il C.te di Cavour aderendo al desiderio delle nostre popolazioni, che agognavano insistentemente all’immediata annessione quali R. Commissari per le ex Legazioni il M.e Massimo D’Azeglio a Bologna, il M.e Migliorati a Ferrara, il Mayr a Forlì e mandò il Marchese Emanuele Luserna di Rorà quale Governatore della Provincia”.

Si può concludere che nonostante alcune inesattezze dovute forse all’età dell’autore al momento in cui scrisse le memorie e forse anche al suo spirito polemico, le memorie del Guaccimanni costituiscono una testimonianza storicamente attendibile in quanto provenienti da persona che visse quelle giornate e quei fatti, da persona colta e onesta e che perciò dà affidamento di attendibilità.

Da quel documento apprendiamo come i capi del movimento risorgimentale ravennate fossero colti alquanto di sorpresa dalla rapidità dello svolgimento della guerra nei campi di Lombardia.

I componenti del comitato della Società Nazionale di Ravenna certamente non pensavano alla vittoria di Magenta che determinò la necessità negli austriaci di richiamare improvvisamente le truppe tedesche che erano nello stato pontificio e che ormai costituivano, nelle Romagne e nelle Marche, la sola forza sulla quale si reggeva lo stato e il potere temporale dei Papi.

Quindi gli avvenimenti del 12 e del 13 Giugno non erano previsti così prossimi come invece furono. Di qui le incertezze e forse anche le ingenuità, che furono allora compiute. Ingenuità fu certamente quella di non sapere trattenere le truppe pontificie dal far ritorno verso il centro dello Stato Romano. Altra debolezza fu forse quella rilevata dal Guaccimanni di non aver fermato le truppe austriache. Ma a questo proposito c’è da rilevare che gli uomini responsabili di allora avevano anche fondati motivi per temere che una resistenza opposta al passaggio dei tedeschi potesse sconvolgere o annullare quanto fino allora era avvenuto di favorevole. Altra ingenuità fu, forse, quella compiuta dalla Giunta di Governo assentandosi da Ravenna quando passarono le truppe tedesche. Ingenuità ma non viltà perché di coraggio quegli uomini ne avevano già data prova più che sufficente e perché il semplice ritiro a Savarna non poteva costituire fuga. Era soltanto un momentaneo tirarsi da parte per non correre rischio di essere catturati ed essere così liberi e pronti a partecipare alla lotta qualora fosse stato necessario.

In quei frangenti risalta notevolmente la figura del C.te Pasolini il quale (e ciò basta a respingere ogni accusa del Guaccimanni), nel momento del maggiore pericolo, ritornato da Bologna a Ravenna, ricevette il comandante tedesco e riprese il suo posto nel palazzo pubblico in un momento nel quale c’era da aspettarsi rappresaglie anche personali da parte delle truppe tedesche. Il contegno del Pasolini nei confronti del Pro-Legato è quello di un uomo che pur nei contrasti politici tiene sempre nel dovuto rispetto la persona e in quel caso quella del Prolegato che era, come ammette anche il Guaccimanni, individuo buono.

Anche se nella narrazione del Guaccimanni troviamo delle pagine che ci muovono al sorriso, vediamo tuttavia negli uomini che agirono in quei giorni vivissima la fiamma dell’idealità e lo spirito di sacrificio per la causa nazionale.

  1. Nei registri e nelle memorie della polizia (1832-1845), pubblicate col titolo Patriotti e legittimisti della romagna, a cura di Piero Zama, e Giovanni Maioli, il Guaccimanni è qualificato bene per onestà in mezzo a tanti disonesti. Viene chiamato “religioso e giusto nel suo ministero” nonché affezionato al governo. Si dice anche che “in molte circostanze, essendo alquanto debole, si lascia attirare dalla corrente”. []
  2. Pio Poletti, Addio Vecchia Ravenna, Ravenna, S.T.E.M., 1924, p. 121. []
  3. Pio Poletti, Addio Vecchia Ravenna, Ravenna, S.T.E.M., 1924, p. 121. []
  4. Del manoscritto del Guaccimanni è stata data notizia e qualche pagina, su segnalazione mia, è riportata nel “Resto del Carlino” del 20 Giugno 1959 nel supplemento dedicato alla Liberazione della Romagna. []
  5. L’entusiasmo fu particolarmente vivo dopo la vittoria di Magneta. Il Comitato, di cui si parla nelle pagine che seguono, è quello della Società nazionale in Ravenna, che era l’anima delle dimostrazioni popolari. []
  6. La Villa Laderchi è stata demolita in principio di questo secolo e si trovava sulla strada di Prada (che dalla strada Faentina, attraversa Prada, Villafranca e S. Martino per raggiungere Forlì). Era posta sulla parte estrema, verso Faenza, del territorio del Comune di Russi, e proprietario era, nel 1859, il conte Achille Laderchi. Oltre ad essere in posizione centrale e comoda per chi proveniva da altri centri di Romagna, offriva il rifugio di una camera segreta, ben celata che la famiglia Laderchi aveva fatto costruire per la sua attività cospirativa a favore del riscatto nazionale. Anche Don Giovanni Verità ebbe occasione di recarsi alla Villa Laderchi, che fu centro di cospirazione data la fervida fede liberale della famiglia dei proprietari. []
  7. Sembrerebbe che a Prada si fosse dovuto decidere per tutta la Romagna e anche per Bologna, secondo il Guaccimanni. Ma non ho trovato altre prove. []
  8. Era Monsignor Achille Maria Ricci da Rieti, persona innocua. []
  9. La sede dei Legati era l’attuale palazzo della prefettura. []
  10. Il conte Gioacchino Rasponi fu presidente del Comitato della Società nazionale in Ravenna, personaggio molto influente data la parentela con l’imperatore Napoleone III che era cugino della principessa Luisa Murat (figlia del Re Gioacchino di Napoli) madre del Rasponi. Nello stesso 1859 sarà eletto deputato alla Costituente della Romagne. []
  11. Il conte Ippolito Gamba fu un ardente liberale che partecipò ai moti del ‘31; proveniente da una delle famiglie più liberali di Ravenna, fu attivissimo nel 1859 nel quale anno fu pure eletto deputato alla Assemblea Costituente della Romagna, tenendo, poi, la carica di ministro dei Lavori pubblici sotto il governatorato di Lionetto Cipriani e la dittatura di L.C. Farini. []
  12. Domenico Boccaccini nel 1849 era stato nominato Preside della provincia di Ravenna carica dalla quale ben presto si dimise. Ricomparve sulla scena politica nel 1859 nel quale anno fu anche eletto deputato all’Assemblea Costituente delle Romagne. Fino al 12 giugno fu Consigliere Comunale di prima classe. []
  13. Una nota di pugno di Vittorio Guaccimanni dice che le prime due sigle stanno ad indicare Federico Fabbri e le altre due Luigi Guaccimanni autore delle memorie. Di Federico Fabbri si ricorda che nella sua giovinezza fu cospiratore e che fu attivo componente del Comitato Società nazionale di Ravenna. Si dedicò poi al giornalismo e nella Massoneria ebbe i più alti gradi. Politicamente fu un liberale progressista che seguì sempre Alfredo Baccarini. []
  14. Il conte Giuseppe Pasolini nel ‘59 era Gonfaloniere di Ravenna. Nel 1859 fu commissario di governo delle Romagne per la soppressione delle dogane tra gli Stati dell’Italia Centrale. []
  15. Qui il Guaccimanni non è sereno. Il Pasolini rimase fuori Ravenna per poche ore per cui non può parlarsi di abbandono della città. Quando, come vedremo, la città di Ravenna sarà in pericolo per il passaggio dei tedeschi, il Pasolini sarà al suo posto ove si comporterà egregiamente. Il manifesto che annunciava ai ravennati la nomina di una giunta provvisoria di governo era firmato dal Pasolini e dagli altri componenti la magistratura comunale per cui non si può assolutamente parlare di amministrazione acefala. La magistratura era composta dal conte Giuseppe Ginnasi Monaldini, dott. Agostino Malagola, dott. Giambattista Pasolini, ing. Gaetano Monghini, dott. Emilio Ghezzo, conte Cesare Rasponi e m.se G. Battista Spreti. []
  16. Uno dei primi atti della giunta provvisoria di governo, fu la istituzione della Guardia urbana di cui fu nominato comandante Pietro Boccaccini e suoi aiutanti Giovanni Venturi e Augusto Branzanti il quale, come risulta dagli atti della giunta, fu mandato contro le due compagnie di linea pontificie sbandate tra Cervia e Savio. Del Branzanti ci dà ampie notizie biografiche Pio Poletti in Addio Vecchia Ravenna ove, a p. 1 ss., si legge che “Nato nel 1820, morì nel 1888 e volle essere cremato. La sua vita fu tutta consacrata all’apostolato per la libertà e unità della Patria. Apostolato non di parole ma di fatto. Combatté volontario le battaglie contro l’Austria nel 1848-49, nel 1859, 1866: in questa ultima fu decorato della medaglia d’argento al valore”. Il Poletti forse erra scrivendo che combatté la guerra del ‘59 perché in quell’anno lo troviamo a Ravenna mentre si combatteva sui campi della Lombardia. È probabile che il Poletti abbia voluto dire che combatté nel ‘59 genericamente. Il Branzanti nel 1855 fu arrestato e rimase detenuto per due anni per motivi politici. []
  17. L’amico avv. Giacomo Comandini di Cesena mi assicura che, secondo studi e indagini sue, le truppe tedesche dopo aver sostato per un giorno in Cesena, nel letto del fiume Savio, ripresero la via per Ravenna percorrendo la strada di Cesenatico. Attraversare Ravenna insorta era un grave rischio. []
  18. Il Guaccimanni non è esatto. P.D. Pasolini nelle memorie di suo padre scrive che GiuseppePasolini dopo aver preso accordi con taluni, per promettere ai tedeschi vettovaglie, purché avessero evitato Ravenna passando per altra via, tutto era naufragato, per cui il 17 giugno 5300 uomini tedeschi con 150 cavalli furono alle porte di Ravenna. Il Pasolini che funzionava sempre come primo magistrato della città, ritornò da Bologna a Ravenna ove gli si presentò il Comandante delle truppe tedesche che chiedeva quanto gli occorreva. Ecco come rispose il Pasolini e quel che avvenne (memorie pp. 294-295). “Vedrò di fare tutto quello che posso. In pari tempo permetta che io le ricordi che le sue truppe oggi sono entrate in un paese inerme certamente, ma nemico, insorto da pochi giorni. Molti volontari sono partiti di qui per fare la guerra contro l’Austria, e le speranze, i voti di tutti noi sono per la vittoria del Piemonte. Ella lo sa bene, ma piuttosto che dissimularlo, mi sembra più leale di ricordarglielo schiettamente. Ora, in questo stato di cose, io mi affido a lei perché non si pretendano cose impossibili e perché non si venga a nessuna specie di provocazione o di prepotenza. Del resto, creda che sentendo che molti poveri soldati sono giunti qui ammalati, che molti sono rimasti morti per il viaggio, io mi sento commosso da un sentimento profondo di umanità e di rispetto; sentimento che, se non verrà turbato ad arte, sarà, le assicuro, naturalmente, cordialmente diviso da tutta la popolazione”. L’Austriaco, che dapprima si era alquanto accigliato, si rasserenò subito, un leggero sorriso gli sfiorò le labbra, s’intrattenne alquanto a parlare, e poi rispettoso e fidente strinse la mano a mio padre in atto di chi vuol dire: “Stia tranquillo, noi ci siamo intesi”. Contentati nelle cose possibili che richiedevano, gli Austriaci ci parvero persuasi che non si poteva soddisfarli per altre richieste da loro fatte, e così il giorno passò meno male di quanto si temeva. Mio padre dormì la notte in Palazzo, nella notte alcuni ufficiali divennero inquieti ed insolenti, fecero minacce e volevano ciò che volevano.  []
  19. Il Guaccimanni non è esatto perché il Marchese Emanuele Luserna di Rorà giunse a Ravenna il 23 luglio 1859. []