Ermando Ottani
Abstract
Nel suo Uomini e caporali Alessandro Leogrande (2008), giovane scrittore pugliese collaboratore de “Il Corriere del Mezzogiorno”, individua un chiaro legame storico e un’attinenza politico-sociale tra lo sfruttamento dei braccianti pugliesi ai tempi dell’eccidio di Marzagaglia1 (1° luglio 1920) e le condizioni disumane dei “nuovi schiavi”, provenienti dall’Africa o dall’Europa dell’Est, che devono ancora oggi subire l’arrogante arbitrio dei “nuovi caporali” (sempre più spesso, della loro stessa nazionalità).
Quest’anno si è celebrato il 90° anniversario della strage di Marzagaglia ed è significativo che questa ricorrenza sia caduta in un periodo segnato da una crisi economico-sociale globale, di rilevante portata soprattutto per l’Occidente.
D’altra parte, se dobbiamo riconoscere una certa correlazione nelle pratiche dello sfruttamento tra passato e presente, dobbiamo anche distinguere la natura, le cause strutturali e gli effetti politico-sociali della profonda crisi, che attanagliò tutta l’Europa nel primo dopoguerra, da quelli della crisi odierna. Questi due scenari di crisi, che pure hanno storicamente qualche importante elemento in comune, divergono sostanzialmente ad un’analisi più attenta delle cause e, soprattutto, delle ripercussioni a livello economico-sociale.
La crisi che investì l’Europa intera nel corso del cosiddetto “biennio rosso” fu, certamente, più virulenta e rovinosa di quella odierna e costituì un passaggio epocale che travolse sia le potenze uscite sconfitte dalla Grande guerra sia quelle che invece riuscirono a prevalere militarmente.
Miseria, fame, disoccupazione e inflazione rappresentarono, soprattutto in Italia, i presupposti sociali di una crisi politica dello Stato e di legittimazione della vecchia classe dirigente liberale, già responsabile della disastrosa partecipazione al conflitto e delle sue nefaste conseguenze, incapace dopo di mantenere le “promesse della trincea”. Proprio nel biennio 1919-1920, la parola d’ordine della “terra ai contadini”, unitamente all’entrata in vigore del Decreto Visocchi-Falcioni2, declina in un ambiguo e pericoloso impasse applicativo.
I dati della crisi diventano, poi, ancora più gravi per il Mezzogiorno che vive in condizioni di arretratezza economica e sociale più marcate rispetto a quelle del resto del Paese. In tale contesto, a parte il tributo di sangue3 che i braccianti e i contadini poveri pugliesi dovranno purtroppo versare direttamente “per Trento e Trieste”, tutti gli indicatori sociali della crisi post-bellica manifestano in Puglia impressionanti impennate, che fotografano la desolante realtà di miseria e disperazione delle masse popolari nelle campagne e nei centri rurali della regione.
Ad esempio, a Gioia del Colle, il comune nel cui agro si trova la contrada di Marzagaglia, il tasso di mortalità infantile nel 1920 è di 149 bambini deceduti (di età compresa fra 1 giorno e 12 mesi) su mille nati vivi. Per rendersi conto della drammatica portata di questo dato, basta raffrontarlo a quello odierno di molti paesi africani, dove si è registrato il maggior numero di decessi di bambini al mondo. Ebbene, il tasso di mortalità infantile di Gioia del Colle nel 1920 supera di gran lunga quello che è stato registrato, a partire dal 20094, in molti paesi del continente africano, fra cui il Sudan, la Liberia, la Somalia, il Mali e il Ruanda.
In effetti, la prima guerra mondiale come “guerra totale e di massa” aveva coinvolto ed inquadrato militarmente i contadini pugliesi, spingendoli per certi versi a sviluppare e a radicalizzare la loro maturazione politica in un impegno sempre più militante nelle organizzazioni socialiste e in quelle sindacali (in particolare, in quelle di base, come le leghe proletarie ex-combattenti e le leghe dei contadini). In questo quadro, alla nuova coscienza di classe e civile si aggiungono due elementi amplificanti di matrice e segno opposti, ma convergenti: da un lato, le speranze di concreto miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, suscitate nelle masse contadine pugliesi dalla promessa governativa di distribuire la terra ai contadini poveri ex-combattenti dopo la vittoria finale e, dall’altro, l’impulso esaltante che il successo della Rivoluzione d’ottobre nella Russia zarista ancora esercitava sulle classi subalterne nell’Europa Occidentale. A ciò si aggiunga anche il fatto che la piccola-media borghesia, che aveva fornito le risorse umane per costituire e sostenere i ranghi degli ufficiali e dei sottoufficiali nella Grande guerra, non è più disponibile “a tollerare lo strapotere economico dei ricchi proprietari e a subire passivamente le conseguenze della crisi economica del dopoguerra, caratterizzata da inflazione, aumento del costo dei generi di prima necessità e disoccupazione”. Anche nella realtà pugliese “tutte queste tensioni si riversarono nella vita politica, provocando la crisi della classe dirigente liberale e dello Stato in cui essa si era identificata” (Antonacci 1999, 52).
D’altro canto, in Puglia più che altrove, è ormai evidente il divario tra sistema di potere, da una parte, e processi di cambiamento, nuova stratificazione e livello della conflittualità nella società civile, dall’altra. La classe dirigente pugliese, politicamente corrotta e irrigidita dal sistema delle clientele e dal ricorso alla violenza dei “mazzieri”, si rivela ad un certo momento incapace, sia nell’ordinaria amministrazione, sia in termini progettuali, di attrarre il consenso degli strati politicamente più attivi e dinamici della società e, allo stesso tempo, di riconoscere la fondatezza e la praticabilità di alcune rivendicazioni popolari. Conseguentemente, la nuova e radicale domanda di partecipazione diretta alla gestione del potere da parte delle masse popolari pugliesi troverà, soprattutto, espressione nelle nuove organizzazioni di base, da un lato, e nel partito socialista e nelle organizzazioni di classe, dall’altro. L’adesione di migliaia di braccianti, di piccoli coltivatori e coloni, di artigiani e falegnami, di muratori e spaccapietre, di mugnai e pastai, di elettricisti e ferrovieri, ecc. registra un notevole sviluppo, tra il 1919 e il 1920, sia per quanto riguarda le rispettive leghe, le camere del lavoro, le cooperative di consumo e l’Associazione nazionale dei combattenti5 (Anc), sia per quanto riguarda le organizzazioni del Psi o ad esso affiliate6.
A fronte dei processi di diffusione e di rafforzamento del movimento proletario, il fondamento della struttura socio-economica dominante in terra di Bari rimane sempre e comunque il latifondo e la grande proprietà terriera, che vuole resistere a qualunque costo alla spinta delle lotte popolari e contadine.
Nonostante la stragrande maggioranza dei contadini poveri e dei braccianti pugliesi abbia come obiettivo prioritario non la rivoluzione in se stessa, bensì l’adesione ad un patto più avanzato con la controparte, caratterizzato dalla condivisione di un quadro minimo di regole e di legalità, i massari e gli agrari non intendono assolutamente operare, da parte loro, questa svolta che potrebbe gettare le basi di una nuova conciliazione e di un nuovo sviluppo, sancendo una più equa ridistribuzione della ricchezza, senza intaccare gli assetti sociali dominanti.
In realtà, la prima guerra mondiale,come guerra totale e di sterminio, è stata anche il laboratorio in cui le classi dominanti hanno sperimentato, nelle forme moderne e su vasta scala, un nuovo sistema di potere, fondato sulla repressione e sulla violenza.
Così, a guerra conclusa, di fronte alla debolezza progettuale, alle divisioni e alla colpevole incapacità organizzativa della sinistra, le forze conservatrici e della reazione possono impunemente sperimentare, e questo accade in modo particolare in Puglia, un modello di conservazione del potere e del consenso, fondato sul ricorso sistematico alla violenza e sul rifiuto precostituito di un qualsiasi accordo. Alla fine della guerra, ciò che le classi dominanti rimettono violentemente in discussione è la legittimità del diritto all’esistenza di un nuovo soggetto sociale e politico, il movimento bracciantile e le sue organizzazioni, in grado di avanzare una proposta politica su cui perlomeno aprire un confronto: per questo motivo, massari e agrari (nonostante l’ufficialità) rifiutano il Decreto Visocchi e puntano decisamente alla riaffermazione dello status quo.
In questa cornice, il tentativo frammentario e disorganico, operato in terra di Bari dall’autorità prefettizia, di applicare il Decreto Visocchi-Falcioni, al fine di procedere alla coltivazione delle terre incolte e abbandonate, risulta del tutto insufficiente e inadeguato come risposta ai bisogni del movimento bracciantile e delle masse contadine. D’altro canto, anche altre timide iniziative dell’amministrazione pubblica (fra cui, ad esempio, l’istituzione dell’Opera nazionale combattenti a scopi assistenzialistici) non riescono a definire un quadro programmatico convincente di risoluzione della crisi e, quindi, non riescono a frenare la conflittualità sociale.
In tutta la Puglia e, in particolare, nella provincia di Bari, durante il cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920), la rete delle organizzazioni di base, sindacali e di classe del movimento proletario promuove un’intensa stagione di lotte sociali, che si esprimerà in una variegata tipologia di forme e pratiche. Scioperi contro il carovita e per il pane, scioperi (di diversa durata e connotazione) per rivendicazioni e aumenti salariali, scioperi per la giornata lavorativa di otto ore, scioperi politici in sostegno e solidarietà con le repubbliche sovietiche di Russia e di Ungheria, “ma soprattutto quello sciopero al rovescio che consisteva nel coltivare latifondi abbandonati e poi chiedere ai proprietari la corrispondente retribuzione. La radicalità di queste forme di lotta ebbe come conseguenza, ancora una volta, episodi sanguinosi di violenza: mentre gli ex-combattenti assaltavano i municipi per chiedere la ripartizione dei demani comunali, i braccianti prendevano di mira i padroni, che a loro volta reagivano con le armi o trovavano aiuto nella dura repressione poliziesca” (Antonacci 1999, 53-54).
Tra il 1919 e il 1920, alcuni capoluoghi di provincia, molti importanti Comuni e numerosi centri minori disegnano la mappa dei “punti caldi” delle lotte sociali, che il movimento proletario e contadino promuove – in termini più o meno spontanei, più o meno organizzati – sul territorio pugliese; una mappa che segnala, purtroppo, il tributo di sangue e di morti che lo stesso movimento e, in misura molto più limitata, i suoi avversari dovranno pagare.
Così la Puglia si conferma “terra di eccidi cronici” (Corvaglia 1979, 144; Covella 2006) e Marzagaglia non rappresenterà affatto un episodio isolato. Prima e dopo il 1920, a Taranto, a Bari, a Brindisi e poi, ancora, a Lucera, San Giovanni Rotondo, Castellaneta, Monteroni, Terlizzi, Canosa, Andria e in tanti altri comuni si realizza la cronologia della violenza politica: protagonisti indiscussi prima gli agrari e poi i fascisti, spesso con la complicità delle forze dell’ordine.
In effetti, proprio in questo quadro, l’eccidio di Marzagaglia costituisce uno degli episodi più tragici e più significativi, dal punto di vista politico-sociale, dello scontro di classe realizzatosi in Puglia tra il 1919 e il 1920.
Nel primo dopoguerra, a Gioia del Colle la situazione del movimento proletario e contadino rivela, dopo lunghi anni di lotte intestine, una chiara tendenza all’unità. “Nella vecchia sede della Lega, costruita nei primi anni del Novecento con il lavoro volontario degli spaccapietre, si è installata la Camera del Lavoro, diretta da Giovanni Santoiemma, che raduna attorno a sé la Cooperativa di Consumo Eguaglianza, la Lega dei Contadini, con la Cooperativa Agricola, diretta da Vito Bruno, la Lega e la Cooperativa degli Spaccapietre, la Lega dei Falegnami, dei Lavoratori degli Orti, dei Calzolai, dei Mugnai e Pastai, degli Elettricisti e, soprattutto, la Lega dei Muratori, con la Cooperativa Arte Muraria. Si è formata la Lega Proletaria tra i Reduci di guerra, che raccoglie la stragrande maggioranza dei reduci di Gioia, e che, con una manifestazione cui interviene Peppino Di Vagno, aderisce alla Camera del Lavoro. I dirigenti del movimento proletario di Gioia sono insieme dirigenti provinciali di importanti organizzazioni: Domenico De Leonardis è segretario provinciale della Federazione della Terra, e Nicola Capozzi è segretario provinciale del Partito Socialista”7.
“La solidità ed il livello politico del movimento sono dimostrati dalla compattezza durante lo sciopero del giugno per le otto ore lavorative, e dal grande sciopero politico del 20 e 21 luglio del 1919 in solidarietà con le repubbliche sovietiche di Russia e di Ungheria. Allo sciopero aderiscono tutte le categorie, tranne una parte degli elettricisti; e di fronte alla violenta repressione, durante la quale vengono arrestati 30 lavoratori, tra cui Bruno e Capozzi, il movimento non disarma. Nuovamente in sciopero, i lavoratori riescono ad ottenere l’immediata liberazione dei loro compagni” (Pci di Gioia del Colle 1973, 10).
Negli ultimi mesi del 1919, quando il movimento bracciantile gioiese intensifica le iniziative di lotta per l’applicazione del Decreto Visocchi, lo scontro di classe si inasprisce, inserendosi in una sequela di scioperi sostenuti da altre motivazioni, che sul finire del 1919 e gli inizi del 1920 scuotono l’intera provincia di Bari.
Nonostante le ricorrenti intimidazioni degli agrari, il movimento gioiese è compatto e, dopo la proclamazione di un nuovo sciopero generale da parte della Camera del lavoro per il mese di marzo, spinge con decisione per l’applicazione immediata e risoluta delle circolari prefettizie che mirano alla creazione di commissioni paritetiche. Tali commissioni dovrebbero rappresentare sedi di confronto e mediazione tra agrari e braccianti, al fine di giungere ad un compromesso risolutivo tra le parti sociali in conflitto. Gli agrari di Gioia rifiutano, però, recisamente le direttive e la linea di mediazione dialogica e moderata del prefetto di Bari. I braccianti rispondono alla chiusura e alla protervia degli agrari gioiesi occupando una prima volta il campo d’aviazione, costruito nei primi anni di guerra grazie alla requisizione dei terreni più fertili dell’agro gioiese. L’iniziativa dei contadini, oltre ad evidenziare l’insensatezza della linea perseguita dai latifondisti, sollecita l’approvazione urgente di provvedimenti e stanziamenti per opere pubbliche, sia da parte dell’amministrazione comunale, sia da parte dell’autorità prefettizia. Il veto reiterato degli agrari di Gioia alla costituzione della commissione paritetica costringe migliaia di aderenti alla lega contadina e di braccianti ad una seconda occupazione pacifica (questa volta, anche con donne e bambini) del campo d’aviazione nel maggio del 1920, nonostante l’inutile intervento di dissuasione operato da alcuni reparti di militari ben equipaggiati e dotati, inoltre, di due mitragliatrici e di un autoblindo.
La lotta dei contadini gioiesi raggiunge l’obiettivo della costituzione della tanto sospirata Commissione paritetica per l’avviamento al lavoro nei primi giorni di giugno.
Nonostante ciò, dopo una prima fase d’avvio, l’opposizione degli agrari gioiesi ad un qualsiasi compromesso o concessione riemerge nel rifiuto di accettare i braccianti loro assegnati.
A partire dal 13 giugno 1920, i toni dello scontro si inaspriscono ulteriormente: i latifondisti inviano, prima, una lettera al Regio commissario, nella quale denunciano gli accordi sottoscritti solo una settimana prima, disconoscendo esplicitamente l’Ufficio di collocamento e la Commissione arbitrale, e, successivamente, una delegazione degli stessi agrari, capeggiati dal cav. Fiorentino (ricchissimo proprietario e titolare dell’omonima Banca di Gioia), incontra ufficialmente il prefetto di Bari. La riunione, però, si rivela un grave insuccesso per i latifondisti gioiesi, i quali arrivano per la prima volta a minacciare l’uso autonomo e diretto della forza contro il movimento bracciantile.
“Puglia Rossa, l’organo del P.S.I. di Terra di Bari, ammonisce il cav. Fiorentino, che discorrendo in treno da Gioia a Bari alla presenza di alcuni socialisti, aveva rimpianto i bei tempi di De Bellis8 ed aveva promesso di armarsi di moschetto e di scendere in paese a far fuori i leghisti. Ormai il concordato di giugno è saltato: voci misteriose diffondono il panico a Gioia annunziando uno sciopero ‘bolscevico’ e sanguinoso per il 20 e 21 giugno. La Camera del Lavoro e Puglia Rossa smentiscono sdegnosamente. Ma i proprietari hanno scelto decisamente la via della provocazione e dello scontro. La sera del 28 giugno, in agro di Castellaneta, i proprietari gioiesi accolgono a fucilate i contadini del posto che vengono a richiedere il salario dopo la giornata di lavoro. Cinque contadini restano feriti: questa fu la prova del fuoco degli agrari di Gioia del Colle” (Pci di Gioia del Colle 1973, 10).
Solo due giorni dopo, nel pomeriggio di mercoledì 30 giugno 1920, venti-trenta braccianti, regolarmente assegnati al lavoro dalla Commissione paritetica e dalla Commissione comunale dell’Ufficio di collocamento, si recano presso la Masseria di Girardi Natale, in contrada Marzagaglia, a circa 7 km da Gioia, per richiedere il giusto compenso alla fine della giornata lavorativa. La risposta del proprietario Girardi non si fa attendere e consiste in un netto rifiuto a pagare, anche per i giorni successivi. I braccianti e i contadini, che avevano lavorato senza ricevere in cambio alcun salario, controbattono che il giorno dopo (1° luglio 1920) sarebbero ritornati, in pieno diritto, a lavorare ancor più numerosi e ancor più decisi nel richiedere la giusta mercede. Anche giovedì 1 luglio 1920, all’inizio della giornata, cento e più braccianti sono accolti da Girardi e dai suoi, che consentono ai contadini di ritirare gli strumenti agricoli e i contenitori d’acqua, indispensabili per il lavoro nei campi. Alle ore 10 antimeridiane dello stesso giorno i proprietari e, probabilmente, alcuni sicari prezzolati si ritrovano, come d’accordo, presso la Masseria Tateo, situata nel territorio della stessa contrada e considerata il punto di raccolta di tutti i proprietari disponibili alla repressione violenta dei contadini.
Dalla Masseria Tateo il primo nucleo degli agrari, dopo aver controllato fucili e munizioni, cavalca in direzione della Masseria Girardi Natale, chiamando a raccolta altri proprietari armati e sicari pronti all’azione dalle Masserie Roscia, Cardetta e Girardi Francesco.
Presso la Masseria di Girardi Natale “erano state preparate sul tetto otto feritoie, sovrapponendo delle pietre in modo da rendere invisibili coloro che vi si appostavano. Altre quattro feritoie erano state costruite dall’altro lato […]. Ogni proprietario prese posto presso una di quelle feritoie; gli altri si appostarono alle finestre ed alcuni si stesero dietro un muricciolo di cinta che faceva da trincea fiancheggiatrice. Altri presero posto nella masseria, vicino ai cavalli. Ciascuno aveva con sé del cibo e un fiasco di vino, il fucile e le munizioni. Attesero fino alle 14. A quell’ora i contadini, finito il lavoro regolare, ritornarono alla masseria. Restarono tutti dietro il muretto di recinzione, a circa 30 metri dalla masseria, e si fece avanti solo l’audiere (il caposquadra) Nettis. La masseria era sbarrata ed anche le persiane erano chiuse. Nettis gridò che loro avevano finito di lavorare e dovevano restituire le gavette. Allora si vide Girardi, e fu il solo che si vide: li minacciò e subito dopo ordinò il fuoco. I proprietari cominciarono a sparare simultaneamente; prendevano la mira, sparavano, caricavano e sparavano di nuovo. I contadini erano disarmati; appena i primi caddero feriti, gli altri abbandonarono le zappe (non una zappa fu trovata sull’aia o dietro la masseria, ma tutte dietro il muretto) e scapparono. Allora si spalancarono le porte della masseria ed uscirono i primi proprietari a cavallo; gli altri scesero e si buttarono anch’essi a cavallo all’inseguimento. Inseguivano i contadini e sparavano; quando uno cadeva gli arrivavano addosso e gli sparavano nella testa o in faccia, sino a fargli saltar le cervella e a renderlo irriconoscibile. I feriti furono 32, da 5 a 50 giorni, i morti 6; il più giovane aveva 16 anni, il più vecchio 70. Il corpo più vicino alla masseria distava dal muricciolo di cinta almeno 100 metri, l’ultimo fu ucciso ad un chilometro dalla masseria” (Pci di Gioia del Colle 1973, 11).
In estrema sintesi, i fatti successivi all’eccidio hanno il seguente sviluppo. Nel tardo pomeriggio del 1° luglio 1920 contadini e braccianti si concentrano spontaneamente alla Camera del lavoro di Gioia dove Domenico De Leonardis, dopo aver organizzato i primi soccorsi per i feriti (alcuni dei quali gravi), proclama lo sciopero generale cittadino e zonale. Contemporaneamente, nonostante stiano sopraggiungendo da Bari ingenti forze di polizia, la macchina repressiva tarda ad innescarsi, proprio perché i proprietari e i sicari responsabili della strage sono ormai fuggiti e, quindi, irreperibili. In questa situazione prevale, nel movimento contadino, la logica della rappresaglia diretta: infatti, nella notte fra il 1 e il 2 luglio, braccianti e leghisti – dopo aver disarmato ex-ufficiali e proprietari da loro ritenuti estranei al “fattaccio” – si organizzano in decine e decine di gruppi armati per perlustrare e battere tutta la campagna del gioiese al fine di catturare e giustiziare gli assassini. In seguito, i contadini si dirigono verso l’agro tra Gioia e Putignano e in questa zona catturano il massaro Pinto (probabilmente anch’egli innocente ed estraneo ai fatti) che viene freddato sul posto “con una palla in fronte”. Nella prima mattinata del 2 luglio viene catturato, questa volta a Gioia, un altro proprietario (sicuramente innocente) di nome Nico, che viene ucciso a colpi di rivoltella e di falcetto. Identica sorte tocca al cav. Vito Leonardo Fiorentino, che viene sorpreso a passeggio per strada. Altri due proprietari (Favale e Procino) verranno aggrediti e malmenati dai contadini, ma riusciranno a salvarsi insieme al prete Donato Capurso.
I funerali dei sei braccianti assassinati (Capotorto Pasquale, Orfino Rocco, Montenegro Rocco, Milano Vincenzo, Falcone Vito e Resta Vito Antonio) si svolgono nella serata di venerdì 2 luglio e rappresentano la manifestazione centrale dello sciopero cui avevano aderito anche i braccianti di Santeramo in Colle, Acquaviva delle Fonti, Sammichele di Bari, Noci e Putignano. A conclusione delle esequie, parlano il pastore evangelico Liutprando Saccomanni9 e i dirigenti socialisti Musacchio, Di Vagno e Capozzi. Lo sciopero generale si conclude domenica 4 luglio a tarda sera con un grande comizio, nel corso del quale prenderanno la parola gli onorevoli Arturo Vella e Andrea Barbato, inviati rispettivamente dal gruppo parlamentare e dalla direzione del Psi per aprire un’inchiesta, De Leonardis e Nicola Capozzi. Gli avvenimenti successivi all’eccidio di Marzagaglia sollevano notevole scalpore su tutti gli organi di stampa regionali e nazionali (che in alcuni casi giungono a deformare strumentalmente i fatti, vedi ad esempio “Il Corriere della Sera”), nonché una profonda eco in Parlamento, investendo per giorni, in un dibattito infuocato, tutta l’opinione pubblica italiana10.
Nella giornata del 5 luglio, nonostante la perdurante latitanza degli agrari, l’azione repressiva incomincia a fare il suo corso: vengono arrestati non pochi contadini ritenuti fra i più facinorosi organizzatori della rappresaglia popolare e, alla fine di luglio, colpito da espresso mandato di cattura, viene arrestato alla stazione di Bari anche il segretario della federazione provinciale del Psi, Nicola Capozzi, “quale istigatore e correo negli assassini consumati dai contadini”11.
La solidarietà del movimento popolare di tutta la terra di Bari – oltre a rinnovare l’unità fra le forze democratiche che in Parlamento denunciano l’acquiescenza governativa, volta a garantire ai proprietari la certezza dell’impunità – riesce ad organizzare per il 1° agosto 1920 una grandiosa manifestazione di protesta (alla quale partecipano oltre 10.000 cittadini) contro la repressione poliziesca e per la liberazione di tutti gli arrestati. È una manifestazione dall’impatto straordinario che pone le basi per la scarcerazione di Capozzi e di tanti altri. I comizi conclusivi saranno tenuti da Giovanni Santoiemma, segretario della Camera del lavoro di Gioia, Camerino, rappresentante della Camera del lavoro provinciale, Gugliotti di Minervino per l’Unione sindacale, De Leonardis per la Cgl, l’on. Riba per il Psi, Rita Maierotti per la frazione comunista e Martucci per gli anarchici. Il 5 agosto a Bari, nel corso di una grande assemblea quadri di tutte le organizzazioni proletarie impegnate nella lotta, viene costituito un comitato regionale pro-vittime politiche, animato fra gli altri da Giuseppe Di Vittorio e Raffaele Pastore. Tale comitato apre, insieme a “Puglia Rossa”, una sottoscrizione pubblica a sostegno dei lavoratori incarcerati e delle loro famiglie12.
La lotta del movimento proletario e popolare incomincia a dare qualche primo importante risultato: venerdì 6 agosto 1920 Nicola Capozzi viene scarcerato e questo “vulcano in eruzione”13, come viene definito dall’“Avanti!”, tiene subito, innanzi al largo della Camera del lavoro di Bari, un comizio nel quale annuncia la liberazione di “altri 24 compagni”; a Gioia, inoltre, si ricostituisce, grazie all’impegno dell’on. Riba e di De Leonardis, la Commissione paritetica per l’avviamento al lavoro e, infine, “all’inizio di novembre, nella sede della Cattedra di Agricoltura di Bari, tra la Federterra rappresentata da De Leonardis e la Federazione Provinciale degli Agrari rappresentata dal cav. Casardi ed altri”, viene siglato un accordo che sancisce “minuziosamente” il regolare trattamento dei braccianti. D’altra parte, l’iter, prima, e il raggiungimento di quest’ultimo accordo, poi, vengono costantemente osteggiati e, in molti casi, violentemente respinti dagli agrari, i quali ormai confidano apertamente nella connivenza delle autorità governative e nella relativa impunità.
La pratica padronale delle fucilate, quindi, non demorde: ad esempio, nel settembre del 1920, il massaro Petrera aprirà di nuovo il fuoco contro quattro contadini (ferendone uno gravemente) che gli erano stati assegnati dalla Commissione paritetica. Nonostante la proclamazione di un altro sciopero generale, che si protrae per altri 12 giorni, l’iniziativa politica sembra passare nelle mani degli agrari, che approfittano astutamente anche delle divisioni e degli scontri interni che stanno portando la galassia socialista alla scissione di Livorno. Gli ultimi mesi del 1920 rappresentano, infatti, l’inizio della riscossa della reazione agraria, che sfrutterà in molte situazioni il ritorno dei vecchi mazzieri: in tale contesto, non a caso, in occasione delle elezioni amministrative, il figlio di Vito De Bellis verrà eletto consigliere provinciale.
Ma, tornando all’epilogo giudiziario dell’eccidio di Marzagaglia, bisogna ricordare che l’istruttoria del processo durerà circa due anni, coinvolgendo direttamente 121 denunciati, di cui 88 braccianti e 33 proprietari. “Il 7 gennaio del 1922 la Sezione di accusa della Corte di Assise di Trani formulò la sentenza istruttoria, rinviando 17 proprietari e 40 braccianti al processo, ed assolvendo e liberando gli altri. Il 22 aprile si aprì un processo stralcio a Bari per 16 di quei braccianti, accusati di violenza privata per il disarmo dei proprietari nella notte tra il 1 e il 2 luglio del 1920. Difesi dagli avvocati Castellaneta, Catalano, Dragone, on. Mucci e Vacca, sette di loro furono assolti e nove furono condannati a pene inferiori ai due anni. Il 19 maggio del 1922 si aprì finalmente, dinanzi alla Corte d’Assise di Bari, il ‘processone’. Braccianti e proprietari furono rinchiusi in due gabbie di ferro, una di fronte all’altra. Gli uni e gli altri avevano costituito un collegio; per i proprietari erano il sindaco di Bari, Raffaele Bovio, Capruzzi, Guarnieri padre e figlio, Lembo, Marzano ed altri; per i braccianti, gli avv. Castellaneta, Dragone, Catalano, Maselli, Tria, Di Mase, Sangiorgio, gli on. Maitilasso, Mucci, Sbaraglini, Bentini, Ferri, Fera, ed altri ancora, fra i quali lo stesso Giuseppe Di Vagno [N.d.A.]. […] Ancora una volta, attorno ai braccianti di Gioia si ricreò l’unità dello schieramento democratico tra popolari, radicali e socialisti. Tra interrogatori, deposizioni, arringhe di P.M., di Parte Civile e di difesa, il processo, seguito quotidianamente e con grandissimo rilievo dalla Gazzetta di Puglia e dal vecchio Corriere, durò oltre tre mesi e si concluse solo il 31 agosto 1922, con l’assoluzione degli agrari dall’accusa di 6 omicidi e 32 mancati omicidi, per legittima difesa. Anche i braccianti accusati dell’omicidio di Pinto, Nico e Fiorentino, e del mancato omicidio Favale, Procino e del prete Capurso, furono assolti, tranne due, Colacicco e Ammaturo, di cui il secondo reo confesso, condannati per la morte di Pinto a 7 anni e 6 mesi ed a 5 anni e 10 mesi” (Pci di Gioia del Colle 1973, 12-13).
Questo “verdetto di pacificazione”, come titolerà entusiasticamente la “Gazzetta della Puglia” nella sua edizione straordinaria del 31 agosto 1922, in realtà, non consentì di individuare, né di punire i reali responsabili dell’eccidio gioiese e legittimò l’aspirazione dei latifondisti e della parte più retriva della borghesia rurale a procedere, speditamente e senza infingimenti, sulla strada di una regolazione violenta dei conti con il movimento operaio e contadino pugliese.
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2006 Giuseppe Di Vagno (1889-1921) – Scritti ed interventi 1914-1921, presentazione di Bertinotti F. e Mastroleo G., Fondazione G. Di Vagno – Conversano (BA) , Roma, Ed. Camera dei Deputati.
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- Marzagaglia è una contrada dell’agro di Gioia del Colle a 7 km dal centro abitato, in direzione Laterza. Nel territorio di tale contrada si trovava la masseria di Girardi Natale, dove il 1° luglio 1920 un gruppo di agrari fece fuoco contro i braccianti che richiedevano il pagamento della giornata di lavoro. [↩]
- “Il 2 settembre 1919 veniva emanato il Decreto Visocchi-Falcioni, che, nel fare appello al senso di responsabilità degli agrari, fissava termini precisi circa l’occupazione delle terre: l’occupazione forzosa delle terre da parte di Cooperative o Enti doveva essere giustificata dallo stato di coltura delle terre stesse, terre cioè con un livello di produttività inferiore alla media colturale della zona; doveva essere considerata la possibilità migliorativa della coltura stessa; doveva essere valutata la quantità della mano d’opera disponibile e la possibilità di soddisfarne l’offerta; nella assegnazione delle terre dovevano essere privilegiati quei fondi sui quali venivano esercitati gli usi civici; ai prefetti veniva assegnato il compito di controllare la corretta costituzione e relativo funzionamento delle Associazioni agrarie e degli Enti richiedenti le occupazioni. Gravi sanzioni, infine, erano previste per quei proprietari che avessero trascurato la coltivazione delle terre ove queste fossero state riconosciute coltivabili” (Montebello 2003). [↩]
- Secondo le stime ufficiali, cui fa riferimento l’Albo d’oro dei caduti della prima guerra mondiale, il numero dei militari pugliesi caduti in combattimento, deceduti per altre cause o dispersi, risulta essere, complessivamente, di 28.195 unità. Sempre secondo i dati ufficiali, la stragrande maggioranza dei soldati di truppa pugliesi (26.489), caduti o dispersi nella guerra 1915-18, appartiene alla classe sociale dei braccianti e dei contadini poveri. In particolare, anche fra i 351 caduti gioiesi prevale di gran lunga una provenienza sociale riconducibile agli strati più poveri del mondo rurale. (Fonti: Biblioteca militare centrale, Roma; Archivio storico, Comune di Gioia del Colle/Biblioteca comunale “Don Vincenzo Angelilli”). [↩]
- Fonte: CIA, World Factbook – Aggiornato a partire da Gennaio 1, 2009. [↩]
- L’Associazione nazionale dei combattenti, nella quale confluiscono esponenti di primo piano dell’interventismo democratico pugliese, quali ad esempio Gaetano Salvemini e Tommaso Fiore, sostiene programmaticamente la necessità della distribuzione della terra ai contadini reduci. [↩]
- Tra il 1919 e il 1921 le statistiche testimoniano il rapido e progressivo sviluppo delle organizzazioni socialiste: ad esempio, “nel 1920 la Federazione dei Lavoratori della Terra della provincia di Bari annoverava 22 leghe con 25.000 soci; nel 1921 74 con 45.000 iscritti” (Antonacci 1999, 53). [↩]
- Pci di Gioia del Colle 1973, 10. È pur vero che permangono nel gruppo dirigente regionale e locale (per non parlare poi di quello nazionale) del Psi alcune gravi carenze di capacità progettuale, direttiva e, soprattutto, di formulazione di un’efficace e pragmatica politica delle alleanze. Una concezione millenaristica e rigidamente dualistica della lotta di classe impedisce al Partito socialista e alle stesse organizzazioni bracciantili di stabilire rapporti e convergenze forti e durature con forze ed esponenti della piccola e media borghesia rurale e con i ceti intellettuali e professionali della borghesia cittadina, blocchi sociali che esprimevano spesso un orientamento democratico e cattolico. Infatti, non a caso, in tutta la realtà pugliese, gli interessi e le istanze di questi settori sociali si stavano progressivamente orientando verso una decisa rimessa in discussione della struttura del latifondo, per la coltivazione in proprio della terra e per l’avvio di una strategia riformatrice che puntasse, grazie ad un rinnovato intervento dello Stato, alla modernizzazione del sistema produttivo nelle campagne e dell’apparato burocratico nelle città. [↩]
- Nella storia politica gioiese, l’on. Vito De Bellis è stato l’esponente giolittiano di maggior rilievo nei primi decenni del Novecento. Egli divenne famoso, però, soprattutto come capo e organizzatore di vere e proprie bande di violenti “mazzieri”, ripetutamente messe in campo contro gli avversari politici di turno. [↩]
- Colto pastore della chiesa evangelica di Gioia del Colle, originario di Pisa (1878), di orientamento comunista e apprezzato oratore. Dirigente della Cooperativa agricola gioiese, durante il fascismo verrà in conflitto con il segretario politico del fascio locale e sconterà tre anni di confino presso l’isola di Ustica. [↩]
- Alcuni interventi del dibattito parlamentare, che seguì all’eccidio di Marzagaglia, furono riportati sulla prima pagina del quotidiano “La Stampa” in data 4 luglio 1920 e sono visionabili presso l’archivio on line del quotidiano torinese. [↩]
- Come ricorda lo stesso Capozzi nelle memorie del 1955 (16-17), “fui anch’io arrestato e tradotto a Bari nel Castello Svevo, sotto la grave accusa di aver incitato i contadini alla ribellione contro i proprietari terrieri; mentre era vero soltanto che m’ero adoperato, con tutte le mie forze, contro l’inumano affamamento di quei lavoratori”. [↩]
- La sottoscrizione si chiuderà due anni dopo a quota £ 62.118,65. [↩]
- Capozzi ricopriva contemporaneamente otto cariche a livello locale, provinciale e nazionale. Sotto la sua direzione, la Federazione socialista barese arriva a più di 2.000 iscritti, con 40 sezioni in tutta la provincia, controllando inoltre 14 comuni: Acquaviva delle Fonti, Alberobello, Andria, Barletta, Canosa di Puglia, Conversano, Corato, Gravina, Minervino Murge, Noci, Polignano a Mare, Putignano, Santeramo in Colle e Spinazzola. [↩]