Andrea Muni Cose che gli insegnanti non dicono. Come i bambini imparano e si costruiscono la propria storia Armando Editore, Roma 2009

Ivo Mattozzi

L’originalità del libro

Didattica MattozziNelle università italiane e specialmente nelle facoltà di Lettere e filosofia non si incoraggia la ricerca sui problemi dell’insegnamento della storia. Perciò è da salutare con entusiasmo che alla facoltà di Lettere e filosofia di Trieste ci sia stato un docente di filosofia che ha assecondato gli interessi per la didattica della storia di un maestro che ha voluto terminare il suo percorso di laurea con una tesi sulla didattica della storia. Il maestro è Andrea Muni che ha frequentato anche l’Associazione “Clio ‘92” e i corsi e i seminari di aggiornamento che essa ha allestito negli scorsi anni. Sono due buoni motivi per prestare attenzione al libro che rappresenta la rielaborazione della tesi. Ma c’è un terzo e decisivo motivo che rende la lettura interessante: la tesi è svolta con la maturità di pensiero che deriva dalla combinazione delle riflessioni sul proprio mestiere e sulla psicologia dei bambini, dalla frequentazione di studi filosofici e dalla conoscenza della parte della letteratura didattica italiana che si è occupata della didattica dialogica. Una miscela originale che non si incontra nei libri dedicati ai problemi dell’insegnamento della storia. Inoltre la scrittura di Andrea Muni si caratterizza per la verve e per gli umori polemici che sollecitano la curiosità e il gusto del lettore.

L’autore ha un fervoroso credo nelle virtù formative del metodo dialogico e lo mette in scena mediante l’immaginazione di conversazioni svolte tra l’insegnante e i suoi allievi a proposito di un breve testo che compendia le notizie sulla guerra del Peloponneso [431-404 a.C.], combattuta da una coalizione guidata da Sparta ed una alleanza capeggiata da Atene. Al dialogo sono apposti tre commenti. Nel dialogo l’autore mostra come si dovrebbe sollecitare la conversazione dialogica affinché abbia esiti formativi, nei commenti svela il senso delle scelte dialogiche.

Oppone il metodo dialogico a ciò che è – giustamente – la bestia nera di tutti gli studiosi di didattica disciplinare: il metodo trasmissivo. Ma oppone anche la modalità di dialogo da lui assunta a quella che è esemplificata in libri di psicologi e di studiosi di didattica. Perciò la prima parte del libro è preceduta da una rassegna critica di libri di didattica o di divulgazione in cui è usato il dialogo o sono esemplificati dialoghi tra insegnanti e alunni.

Il metodo dialogico produttivo

Le domande che Muni pone all’origine della sua ricerca sono: “Che cosa accade […] nella mente di chi impara nell’atto di imparare? In che relazione sta ciascun pensiero di chi impara con ciascun pensiero di chi insegna? Come possono essere descritti i piccoli semplici passaggi da un apprendimento all’altro? Gli impercettibili movimenti cognitivi? Insomma, che accade nella dinamica dialogica che si stabilisce tra un soggetto che insegna, un soggetto che impara e un oggetto di insegnamento e di apprendimento?”

Le risposte sono cercate mettendo sotto osservazione “i singoli movimenti del pensiero che l’insegnante lascia fare o fa fare a ciascun bambino per far sì che possa costruire una conoscenza significativa”. Muni rivendica l’originalità di tale approccio e lo battezza “microdidattica” per contrapporla a quella che lui chiama “macrodidattica”, cioè il campo di ricerca dove ci si occupa sistematicamente di curricoli, di prodotti, di risultati. Per percorrere i suoi “sentieri” si dota del viatico degli studi di filosofia, di psicologia, di didattica della storia ed ha buon gioco a rimproverare ai saggi italiani da lui passati in rassegna di aver ignorato le ricerche di psicologia, di pedagogia, di didattica nell’affrontare i problemi dell’insegnamento della storia (p. 19).

Nello scambio dialogico che Muni intende modellizzare “il ruolo dell’insegnante, della sua azione didattica dovrebbe essere quello di mettere i bambini in condizione di comprendere un testo di partenza costruendosi a mano a mano le conoscenze necessarie alla comprensione del testo stesso, rimanendo sempre collegati al testo di partenza. […] L’insegnante viene inteso come qualcuno che crea problemi e presupposti per un’attività di ricerca in cui i bambini non vengono abbandonati a se stessi, ma in cui l’insegnante continua ad operare costantemente azioni di mediazione didattica tra i soggetti che apprendono e l’oggetto del loro apprendimento, azioni didattiche problematizzanti, dialogiche [in modo che ciascun bambino sia messo in condizione di costruirsi da sé … delle conoscenze storiche significative]”.

Al centro della ricerca stanno, dunque, i modi della mediazione didattica e quelli della formulazione dei problemi che dovrebbe motivare gli alunni alla ricerca e tenerli in tensione cognitiva fino alla costruzione di una conoscenza appagante.

Dialoghi e problematizzazione improduttivi

Le potenzialità formative di tale modalità dialogica e della formulazione dei problemi che essa implica fanno apparire del tutto inadeguati i modelli di dialogo che si trovano nei libri di R. Pernoud, M. Lodi, R. De Beni, A. Brusa, H.Girardet, L. Landi, L. Taffarel, L.C. Domenis, R. Feuerstein e in tutti i libri con la pretesa di “spiegare” questioni storiche o sociali fingendo dialoghi con bambini o ragazzi. Ma poco pertinenti gli appaiono anche i modi di problematizzare di B. Ciari, D. Antiseri e G.Petter o il lavoro con le mappe concettuali che propongono E. Damiano e P. Todeschini.

Con puntigliosità Muni caratterizza le insufficienze di ciascuno modello e dal loro rilievo emerge la sua idea di conversazione maieutica: il dialogo della Pernoud serve per trasmettere determinate conoscenze, non per sollecitare le abilità cognitive e critiche; quello di Lodi si risolve in una chiacchierata che sposta l’attenzione dei bambini dalla testimonianza sulla prima guerra mondiale a problemi etici e civici senza che gli alunni siano stimolati a riflettere sull’evento storico. “Per lui la storia è solo un pretesto” per fare catechismo civico. Nelle “discussioni” di classe pubblicate dalla Girardet le strutture della storia vengono meno, completamente assorbite, risucchiate, disciolte da processi mentali astratti e fini a s stessi. Nelle conversazioni della terza di Domenis a proposito di una mostra sui dinosauri “non si sa a cosa i bambini stiano facendo riferimento. Non si sa a quali immagini o didascalie stiano pensando nel costruire le loro ipotesi. All’insegnante e agli altri bambini manca la condivisione reale del particolare punto di partenza conoscitivo di ciascuno di loro”. Nel libro che la De Beni ha dedicato alle “strategie metacognitive per comprendere e ricordare” il libro di storia, “non si vede come i bambini acquisiscano le proprie conoscenze significative costruendosi schemi mentali e modificandoseli. Tutto si riduce ad una serie di tecniche di controllo del testo imposte dall’alto, finalizzate alla sua memorizzazione”. Nel debriefing che segue la fase di gioco nella didattica ludica elaborata da Brusa “non sembra che si faccia di più che ripetere verbalmente quello che alcuni giocatori si ricordano, emotivamente ed episodicamente, del gioco fatto che è tutto predisposto, organizzato, previsto”. Feuerstein “fa un lavoro cognitivo vuoto di contenuti, che prescinde intenzionalmente da qualunque disciplina o materia, mirato a isolare singoli atti cognitivi in modo, di fatto, artificioso e astratto”.

Quanto al metodo di suscitare problemi Ciari “non spiega in che modo ciascun bambino possa essere messo in condizione di sentire il bisogno cognitivo di chiedersi un perché o di cercare di interpretare delle informazioni. Non spiega come possa arrivare a costruirsi delle spiegazioni o delle interpretazioni, a partire da quale tipo di informazioni, attraverso quali processi di pensiero”. A proposito della perorazione di Antiseri a favore della problematizzazione e dell’insegnamento come ricerca, Muni si chiede: “già, ma il problema da dove, o da chi, deve venire? Dai bambini? Dall’insegnante? Dal testo? In un contesto di insegnamento-apprendimento come concretamente nasce il problema?”. Nelle situazioni problemiche di Petter i “problemi si risolvono in strutture già date, già pronte, sempre uguali. Il pensiero dei bambini, alla fin fine, va ingabbiato in strutture e sequenze preparate dall’insegnante”. Infine, con le mappe concettuali di Todeschini non si va oltre “un modello di insegnamento trasmissivo, in cui l’insegnante trasmette le sue teorie, i suoi schemi, le sue categorie”.

Il dialogo come motore di una ricerca cooperativa?

Per dimostrare le sue idee sul modello dialogico che funzioni da promotore di pensiero e di conoscenze significative, Muni scrive la sceneggiatura della costruzione della conoscenza che si dipana tra la conversazione immaginaria – in cui si pongono questioni – e l’uso di testi di buona qualità storiografica – che permettono di dare risposta alle questioni.

La messa in scena della procedura della ricerca è la parte affascinante della conversazione. Il movimento inizia da un testo che comunica l’essenziale dei fatti della guerra del Peloponneso in una decina di righe. In una prospettiva nozionistica e trasmissiva il testo potrebbe bastare a far apprendere le nozioni che fanno identificare l’evento, i protagonisti, il periodo, le date canoniche, le conseguenze. Nel primo dei tre commenti Muni giustamente scrive a proposito del testo di partenza quanto potrebbe dirsi di qualunque testo di sussidiario o di manuale.

“[…] è un testo che i bambini, a una prima lettura, fatta pigramente, potrebbero interpretare come ‘facile’. Se non sentono il bisogno di capire il significato di quello che leggono, se non pensano che il testo sia qualcosa da capire, se credono che il testo sia semplicemente qualcosa di cui prendere atto, da accettare per come è, se per loro il ‘come è’ coincide col ‘come appare e basta’, col ‘come sembra che sia’, allora non troveranno nessun problema a leggerlo. Tutte le parole che non conoscono, tutti i concetti che ignorano presenti nel testo non saranno neanche visti perché quello che vedranno sarà un insieme di parole vuote messe in un certo modo, e non un insieme di concetti significativi collegati tra loro. Fino a quando rimarranno in questa situazione mentale, non critica e non problematica, il testo per loro continuerà ad essere ‘facile’. Forse noioso, forse di lenta memorizzazione, ma di per sé non difficile [….] L’insegnante e i bambini, in una lezione tradizionale, potrebbero accontentarsi di leggere e memorizzare il testo, essendo relativamente bre­ve e lineare”. (p. 92)

Come rendere il testo storico scolastico un campo da dissodare con dubbi, con curiosità, con contestazioni e come farne una pedana di partenza per il tragitto della mente nel percorso di costruzione della conoscenza diventa l’impegno di Muni: “Fino al momento in cui questo testo non viene inteso come un problema o un esercizio, cioè qualcosa di problematico da analizzare, un’attività da fare o una strada da trovare e da percorrere in un labirinto in cui è possibile perdersi, richiedendo un uso intelligente delle operazioni mentali, rimarrà un testo stupido e, dunque, facile”.

Perciò il testo offre il pretesto per avviare la ricerca di altre informazioni e di spiegazioni e per costruire una conoscenza più complessa e più ricca di informazioni e di relazioni. È il maestro che lo mette in questione formulando una domanda che spiazza i bambini, li spaesa di fronte a ciò che potrebbe essere pensato come una conoscenza oltre la quale non c’è altro da sapere. Infatti gli studenti si licenziano dalle scuole frequentate con l’idea che la storia sia tutta contenuta nel libro di testo: è il peggiore degli esiti dell’insegnamento trasmissivo poiché produce un’immagine di disciplina che spegne l’interesse per altre conoscenze.

Qui, però, c’è un primo rilievo da fare all’autore, a proposito del concetto di “problema”: ad essere problematizzato è il testo con le sue pochezze informative, non la storia. E le domande che lui formula pongono l’esigenza della ricerca di informazioni ulteriori, non impostano un “problema storico” che può essere formulato solo quando la conoscenza dei fatti è considerata completa. La differenza non è di poco conto, è epistemologica, ed è ignorata da pedagogisti e studiosi di didattica e insegnanti che, invece, fanno di ogni domanda un fascio che chiamano “problema”. E Muni avrebbe fatto bene a rilevare le differenze facendo riferimento a testi che puntualizzano come gli storici producano un questionario in fase di ricerca e “problematizzazioni” quando vogliano andare oltre la ricostruzione dei fatti e ipotizzare relazioni tra fenomeni considerati ormai acclarati. Si tratta di relazioni che non possono essere prodotte e accertate sulla base delle fonti. Domande del tipo “dove si trovava l’argento?” o “chi chiedeva argento?” o “cos’è che si commercia?” o “Chi le faceva le guerre?” non sono problemiche, ma semplici domande che esprimono un bisogno di informazioni da soddisfare con la lettura di testi. Si possono risolvere una volta per tutte grazie alle fonti o ai testi. Come non formula un problema storico la domanda “E se la Persia dopo essersi impadronita di quei territori, dopo vuole anche quelli di Sparta?” che è solo una ipotesi controfattuale senza sviluppo. E non sono necessariamente problemi le domande che cominciano con il “perché”. Insomma la distinzione tra domande che orientano la ricerca delle informazioni e “problemi” indecidibili, che possono essere formulati quando la ricerca si è conclusa, sulla base delle informazioni ormai assodate, dovrebbe essere introdotta nell’insegnamento specie nei livelli scolastici secondari.

Tuttavia il metodo esemplificato è generativo di attività cognitive che – passando da un testo all’altro e da una risposta alla sua messa in questione – accumula una gran quantità di informazioni che rendono l’intreccio del racconto iniziale sempre più fitto di riferimenti al contesto geografico (le localizzazioni e le distanze dei contendenti), ambientale (le miniere del Laurio in Attica), alle congiunture economiche e commerciali con l’importanza della monetazione argentea, ai rapporti di forza e diplomatici tra le città-stato in lotta, alla lunga durata dei rapporti conflittuali nel mondo greco e tra greci e persiani. Ma questo è il metodo della ricerca: a partire da un nucleo di informazioni possedute o già ricostruite, si formulano le domande euristiche che portano a individuare le fonti e/o i testi grazie ai quali si possono produrre le informazioni più o meno soddisfacenti.

Nella sceneggiatura di Muni l’euristica è affare del maestro. È lui che pone le domande inquietanti, è lui che spiega i testi letti allo scopo di dare le risposte, è lui che indica che bisogna usare una carta o leggere un testo o consultare un libro, è lui che seleziona le informazioni, è lui che produce inferenze, è lui che attribuisce significato alle informazioni messe a frutto, è lui che incalza gli alunni con l’intento di provocare la scoperta di relazioni plausibili.

E gli alunni che fanno? Leggono i testi che il maestro indica, osservano le carte, misurano distanze, danno risposte a domande che riguardano i testi, qualche volta, ma solo qualche volta, svolgono un ragionamento: sono, insomma, sempre le spalle sceniche del primo attore che è il maestro.

Dunque, la ricerca è agita dal maestro e i bambini sono come apprendisti che nel suo atelier imparano dal suo esempio come ci si pongono questioni, che cosa si usa per dare risposta, come si ragiona, come si tirano le fila del ragionamento per intrecciare la molteplicità delle informazioni e delle inferenze e dei significati che grazie ai testi si producono.

E il laboratorio ?

Della ricerca manca una cosa che è essenziale: il complesso delle operazioni pratiche che servono per cercare e individuare le fonti e/o i testi pertinenti (esplorando le biblioteche o gli archivi e i loro cataloghi), ma soprattutto, le pratiche di schedatura delle informazioni. A parte una tabulazione (pp. 58-59), la sceneggiatura non dà spazio alla esigenza di costruire lo schedario in cui registrare le informazioni selezionate. Dunque non si capisce come ogni alunno possa realizzare il compito che il maestro gli assegna di “scrivere con parole sue tutto quello che ha imparato a partire dal testo da cui siamo partiti (un riassunto o un commento)”. Come riesce a ricordare tutte le informazioni e i commenti? Che vuol dire con parole proprie, se il testo deve tenere conto dei testi utilizzati? Perché proporre al bambino di fare un “riassunto o commento”, quando si tratta di sintetizzare una gran quantità di informazioni e di narrare e di argomentare? E si pretende che lo faccia da solo! Come fa l’alunno a saper costruire il tessuto, se il maestro non gli insegna ad allestire l’ordito e a lavorare alla trama ? Ma a che serve lo spirito della cooperazione in fase di ricerca se si espelle in fase di costruzione del testo? Perché la mediazione dialogica si ferma a questo punto?

L’autore, concentrato a dimostrare le virtù del dialogo ben condotto dal maestro, non ha esplorato le potenzialità della didattica laboratoriale che postula il dialogo, la collaborazione, il lavoro di gruppo. Se la sua sceneggiatura venisse realizzata in un film quel che potremmo vedere sarebbe un’aula trasformata in laboratorio o in atelier con una biblioteca a disposizione, dove il maestro metodicamente insegna agli apprendisti il come si fa e il come si pensa con le parole e con le azioni e le attività distribuite e condivise. Ma il libro non ha nessuna referenza alla letteratura didattica sui laboratori. Muni avrebbe potuto avvantaggiarsi delle riflessioni che si sono succedute da parecchi anni sull’attività laboratoriale, sulla mente laboratoriale, sulle procedure, sugli strumenti, sugli ambienti, sia da parte degli studiosi di didattica disciplinare sia da parte di pedagogisti. L’averli ignorati gli ha dato la presunzione di essere un solitario sostenitore dei metodi di attivazione delle operazioni cognitive e delle abilità operative degli allievi. Invece, si sarebbe potuto trovare in buona compagnia e avrebbe potuto fingere di far agire i bambini con una varietà di modi più interessanti e più operativi. Avrebbe potuto immaginare di insegnargli a lavorare con le schede (invece di passare da un testo all’altro affidandolo ogni volta alla memoria), con i grafici temporali (invece di richiamare l’attenzione alle datazioni e alle durate cronologiche con semplici puntualizzazioni), a disegnare sulle carte geostoriche (invece che far calcolare semplicemente le distanze e a localizzare le città e i luoghi), a fare schemi e a organizzare poster o cartelloni di sintesi e di rilevazione delle relazioni, a cercare i libri pertinenti in biblioteca. Ma niente di tutti questi strumenti di organizzazione delle informazioni entra nella sceneggiatura. Sicché non si capisce come i bambini possano “ricondurre a unità” “le informazioni di volta in volta trovate, da frammentarie e dispersive quali sono, […] per mezzo dell’uso del loro pensiero” (p. 145)

Alla fine e nel momento delicato del processo di costruzione della conoscenza in cui occorre saper collegare “informazioni diverse facendole confluire in una sola conoscenza significativa per mezzo dell’esercizio di operazioni mentali e funzioni cognitive”, il maestro abbandona i bambini a se stessi. Se Muni avesse tenuto conto degli scritti sulla struttura del testo storiografico e delle procedure della sua costruzione, probabilmente avrebbe avuto qualche idea in più per complicare il gioco dell’immaginazione didattica. Il copione della ricerca si sarebbe arricchito delle articolazioni di attività necessarie nella fase finale a raggiungere lo scopo.

I commenti

Nella terza parte del libro si distendono i tre commenti. Il protocollo della conversazione è una finzione, è il frutto di una immaginazione didattica. Muni, però, lo commenta come se fosse realmente avvenuto, secondo i comportamenti dei ricercatori che editano protocolli di conversazioni effettivamente registrate così come sono avvenute. E lo fa con rilievi che seguono passo passo le battute dell’insegnante e di ciascun allievo immaginato. Il lettore dunque è spiazzato ma è anche attirato dentro il ragionamento. Il protocollo messo in scena diventa la gruccia a cui appendere il vestito pedagogico e didattico che l’autore vuole proporre di indossare ai suoi colleghi. Indipendentemente dalla situazione fittizia, le annotazioni colgono nel segno della riflessione su come potrebbe svolgersi un dialogo euristico in classe con lo scopo di assecondare “un’operazione di metodo conoscitivo”. Ad esempio, ecco come è posta con chiarezza la modalità per far rilevare i buchi informativi di un testo:

“Un primo elemento di conflitto cognitivo è introdotto dall’insegnante quando, interpretando le risposte di Matteo, gliele rimanda in questo modo: ‘Scusa, non ho capito. Comincia Corinto, contro Corfù, e alla fine vince Sparta, contro Atene. […] Non dovrebbe vincere o perdere chi inizia la guerra e chi è attaccato?’ [n. 16]. L’insegnante così vorrebbe mettere in difficoltà Matteo, che in questo momento, nelle intenzioni dell’insegnante, dovrebbe sentire un senso di disagio per questa contraddizione di cui, a una prima lettura, che a lui era sembrata soddisfacente, non si era reso conto. Messo di fronte a questa che lui percepisce come incongruenza, Matteo formula risposte come ‘c’è scritto’ [n. 17], ‘non c’è scritto’ [n. 19] o ‘non si capisce’ [n. 20], dalle quali si può trovare conferma all’ipotesi per cui, secondo lui, il testo è qualcosa di cui prendere atto e che richiede un’attività di lettura e ripetizione, forse anche memorizzazione, qualcosa che non vada capito o che vada capito, sì, ma dove per ‘capire’ si intende essere in grado di fare delle analisi linguistiche o logiche astratte, dove ciascuna parola potrebbe al più essere sostituita con una vuotissima x, y, z. ‘Nel 431 a.C. Corinto entra in guerra con Corfù. Sparta patteggia per Corinto e Atene palleggia per Corfù’ diventerebbe: ‘Nell’anno X, A entra in guerra con B. C parteggia per A e D parteggia per B’. ‘Sparta dichiara guerra ad Atene e ai suoi alleati’ diventerebbe ‘C dichiara guerra a D e ai suoi alleati’. E così via. Nel senso che Matteo, in questo momento, non sa cosa sia Corinto: potrebbe essere anche una persona, un monte o un fiume; così pure gli altri nomi. Come è possibile uscir fuori da una situazione di stallo di questo tipo? Come è possibile sbloccare il blocco cognitivo che tiene Matteo fermo nell’aspetto apparente del testo (‘c’è scritto’ – ‘non c’è scritto’)? È l’insegnante che induce in lui il bisogno di cercare, chiedendogli perché Corinto entra in guerra con Corfù [nn. 18,28]. Non è Matteo, né sono altri bambini, a chiedersi perché. Occorre un intervento esterno. Matteo, per cercare di trovare una risposta a quel perché dell’insegnante decide di cercare una definizione dei termini di cui si compone il testo”. (p. 93)

Se si mettono in continuità le considerazioni che l’autore fa a proposito dello scarto tra disposizioni cognitive dell’insegnante e disposizioni degli alunni, sulla scelta dei testi, sulle peripezie della ricerca, sul rischio di enciclopedismo, della distribuzione del lavoro tra gli allievi, si riesce a compendiare una sorta di piccolo trattato didattico utile a sapere come condurre la costruzione della conoscenza cooperativa a partire da un testo di cui si illuminano le insufficienze informative.

Ma l’intreccio tra le riflessioni teoriche e le battute che compongono il dialogo rende l’esposizione più vivace e più incalzante. L’intento dei commenti è di mostrare attraverso quali mosse e passaggi e movimenti gli alunni possano transitare da uno stato cognitivo appagato e impigrito ad una tensione che aumenta man mano e li predispone a volerne sapere di più. Questo può accadere se l’insegnante sa come “provocare dissonanze cognitive” e come far “passare i bambini da un perché ad un altro” in modo che gli alunni conquistino un’autonomia interpretativa dei testi e costruttiva della conoscenza.

Le istanze fatte valere da Muni dovrebbero essere assunte da ogni insegnante qualunque sia il livello scolastico: anche all’università, ma con una intensità sempre più forte in una prospettiva curricolare. “L’insegnante sarà tanto più bravo quanto più spesso riuscirà a far sì che la mente del bambino si metta in una situazione di dissonanza (cognitiva) e far sì che raggiunga, in risposta a questa dissonanza, un’equilibrazione”. E la dissonanza origina dalla scoperta del “dissenso tra i testi. Mostrato dalle domande dell’insegnante sul testo, dalla domanda che l’insegnante fa ai bambini di vedere il testo in un certo modo. Quando i bambini leggono il testo non ci trovano dissonanze. Si identificano con il suo autore. Ma smontandolo, le trovano. E sentono il bisogno di smontarlo a partire dalle domande dell’insegnante. […] Il confronto con i testi è un momento imprescindibile per costruire conoscenza […]”. Si sostituisca “bambini“ con “studenti“: il ragionamento e la proposta didattica sono validi in ogni contesto formativo.

Le questioni aperte

Non solo, ma il metodo della ricerca collaborativa – che inizia dalla messa in questione di un testo – può essere messo in atto qualunque sia l’oggetto e qualunque sia la disciplina. Allora non si capisce perché l’autore abbia speso tanto spazio testuale e argomenti per sostenere l’eccellenza di far studiare ai bambini di una IV o di una V classe primaria una guerra. Avrebbe potuto dimostrare le sue tesi anche se avesse proposto un breve testo descrittivo su aspetti di civiltà o uno di quei testi compendiosi che i sussidiari dedicano a civiltà da sbrigare in una sola pagina. Un argomento che gli fa privilegiare un evento bellico è quello analogico: i bambini sperimentano situazioni di conflitto, ergo sono disposti a comprendere come si svolge un conflitto tra potenze. Ma l’analogia diventa ancora più decisiva nel caso dello studio di una civiltà. I bambini vivono quotidianamente la civiltà ed hanno i copioni che funzionano per riflettere sulle sue caratteristiche e sulle relazioni. Dunque, potrebbero affrontare i buchi informativi dei testi sulla civiltà greca con uno strumentario cognitivo molto adeguato a fare confronti e comprendere le differenze oppure per cominciare a costruire il nucleo di concetti complessi con copioni. Ad esempio, con il copione che rappresenta il modo di fondare una colonia nel mondo greco, avrebbero potuto capire che la colonizzazione greca non produceva rapporti di dipendenza o, peggio ancora, di sudditanza tra colonia e metropoli (o madrepatria). E la interpretazione del testo di partenza non si sarebbe basato sull’equivoco di rapporti di sovranità tra Corinto e Corcira (Corfù), fondata da emigrati corinziesi.

La ricerca potrebbe andare avanti e accumulare tante informazioni quante sono quelle disponibili in un libro scritto da esperti sulla guerra nella Grecia del V secolo a.C. C’è da chiedersi come si fa a stabilire i limiti della conoscenza destinata agli alunni. Quando finisce la ricerca a misura di bambini o di alunni della secondaria?

Sì, il libro di Muni è un utile contributo alle ricerche sulla didattica della storia sia per le proposte di impostazione della mediazione didattica a proposito dei testi scolastici che l’insegnante non dovrebbe limitarsi a “spiegare” e a far studiare sia per le questioni nuove che induce a porre allo scopo di arricchire il ventaglio delle soluzioni della mediazione didattica.