Tra il dire e il fare Brevi note in margine alla Seconda conferenza nazionale degli archivi Bologna, 19-21 novembre 2009

Carlo Vivoli

In ricordo di Anna Bellinazzi che agli archivi ed in particolare all’Archivio di Stato di Firenze ha dedicato la sua vita di studiosa con una sensibilità ed una capacità non comuni.

Non c’è dubbio che la seconda conferenza nazionale degli archivi, svoltasi a metà novembre del 2009 a Bologna, abbia riscontrato un notevole successo di pubblico: più di settecento persone si sono avvicendate nelle sale dell’hotel Carlton, affollando non solo le sessioni plenarie ma anche i vari incontri paralleli.

È altrettanto vero che la conferenza nazionale, svoltasi dopo più di dieci anni dalla prima, voluta dall’allora ministro dei Beni culturali Walter Veltroni, che si tenne a Roma all’Archivio centrale dello Stato nel 1998, ha posto sul tappeto importanti questioni.

Innanzitutto quelle economiche e finanziarie, sottolineate nell’intervento introduttivo del sottosegretario on. Francesco Maria Giro, che ha ammesso come l’azione del governo in questo settore sia stata sino ad ora fortemente insufficiente. Da molti anni le associazioni professionali degli operatori dei beni culturali, quelle degli storici e degli utenti di archivi e biblioteche denunciano la grave situazione delle principali istituzioni deputate alla conservazione del patrimonio documentario della nazione ed il fatto che a prenderne atto sia un esponente del governo è senz’altro positivo e può rappresentare, o almeno si spera che possa rappresentare, un significativo punto di svolta nell’assegnazione di risorse, non solo economiche, ma anche umane e logistiche, ad un settore che per molti verso può essere considerato nevralgico per la crescita culturale e scientifica del paese.

Ma c’è stato di più dal momento che la seconda conferenza è stata anche e soprattutto un’importante occasione per riflettere sui profondi mutamenti che nel corso degli ultimi decenni hanno interessato la società contemporanea e, nello specifico, gli archivi e le istituzioni di conservazione.

Semplificando essi sono da ricondurre alle profonde trasformazioni istituzionali e politiche che hanno di fatto contribuito a mettere in crisi la tradizionale organizzazione statale basata sulla distinzione tra archivi di Stato, istituti di conservazione tenuti ad acquisire le carte prodotte dagli uffici e dagli organi dello Stato e le Soprintendenze archivistiche cui compete la vigilanza sugli archivi di enti pubblici e su quelli privati di interesse storico particolarmente importante. La notevole crescita degli archivi “non statali” ha infatti prodotto quella che Isabella Zanni Rosiello ha chiamato, con efficace sintesi, la “disseminazione” degli archivi e dei documenti non più o non solo concentrati negli archivi di Stato ma sparsi, disseminati appunto, sul territorio e conservati da soggetti pubblici e privati.

Questa frammentazione tipologica e conservativa, che caratterizza le fonti prodotte dalla società contemporanea, se da un lato accresce le problematiche relative alla loro conservazione e al loro uso, dall’altro determina anche una sempre maggiore e crescente attenzione da parte di soggetti nuovi e culturalmente e socialmente differenziati verso il recupero delle memorie individuali e collettive con aspettative che non sempre vengono recepite dalle attuali strutture; senza dimenticare le importanti implicazioni rappresentate dalle trasformazioni tecnologiche conseguenti all’affermazione del digitale che per un verso sembrano rendere più facile il rapporto individuale e collettivo con la memoria ma che per un altro pongono ulteriori difficili sfide legate soprattutto alla conservazione dei documenti digitali.

Partendo proprio da questa situazione complessa e dall’importante accordo siglato, nell’ambito delle trasformazioni istituzionali avviate dalle leggi dell’ultimo decennio del secolo scorso, il 27 marzo 2003 fra il ministero per i Beni e le attività culturali e le autonomie locali per il censimento e l’inventariazione del patrimonio archivistico, si è così rafforzata e sembra oramai acquisita l’esigenza di un costante colloquio e confronto tra i diversi soggetti, pubblici e privati, operanti nel settore, per l’elaborazione di programmi comuni di attività, che consentano una più razionale gestione e fruizione pubblica del patrimonio documentario nazionale, nell’intento di aprire e di far conoscere gli archivi ad un’utenza diversa e più ampia rispetto a quella tradizionale, anche attraverso forme nuove di comunicazione e condivisione.

Già nella prima giornata, ma soprattutto nella terza, con l’approvazione del documento conclusivo, l’esigenza di un più stretto rapporto tra i vari soggetti che operano per la salvaguardia, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio documentario della nazione è stata ribadita con forza. Ma il concetto di base, quello della necessità di “fare sistema”, è stato ben presente anche nei diversi workshop che si sono succeduti nella seconda giornata e dedicati ai poli archivistici, alle sedi, alla formazione dell’archivista, alla pubblicazione delle fonti e alla loro valorizzazione, alla conservazione a lungo termine del digitale, agli standard e metadati per l’accesso alle risorse digitali, ai percorsi tematici dedicati agli archivi di impresa, della moda, degli architetti e ingegneri, alle banche dati per la ricerca anagrafica, particolarmente significative per le continue e pressanti richieste che provengono dai tanti italiani emigrati all’Estero.

I temi affrontati sono stati tanti e tutti di decisiva importanza, semmai forse non sempre sono state individuate con sufficiente chiarezza le priorità di un’azione che deve necessariamente fare i conti con una scarsità di risorse per molti versi endemica, ma oggi ulteriormente aggravata dalla crisi globale. Sta di fatto comunque che anche la semplice elencazione dei temi riportati nel documento conclusivo, approvato dalla conferenza e consultabile sul sito della stessa (http://www.conferenzanazionalearchivi.beniculturali.it/) potrebbe già essere considerata un’efficace scaletta delle cose da fare, partendo proprio da quell’esigenza di cooperazione interistituzionale rappresentata dai “poli archivistici”, intesi appunto come “struttura partecipata” nella quale “la funzione di conservazione, gestione, valorizzazione comunicazione della memoria storica è svolta tramite la cooperazione interistituzionale, sia essa a carattere territoriale che tematico”.

Altrettanto centrale e forse ancora più spinoso è il problema delle sedi, intese come luoghi fisici dove concentrare, conservare e valorizzare le carte, la cui risoluzione resta ancora centrale a prescindere da qualsiasi ipotesi più o meno scriteriata di “dematerializzazione”. Così come quello della formazione degli archivisti, troppo a lungo rimandato in uno sterile palleggiamento di responsabilità tra università, ministero e regioni, ed ormai assolutamente ineludibile a fronte delle sempre maggiore rilevanza che gli archivi assumono nella società contemporanea.

Questo non significa che gli altri temi affrontati non siano altrettanto rilevanti soprattutto perché hanno messo sul tappeto tutta una serie di questioni aperte (progetti di digitalizzazione, conservazione a lungo termine dei documenti digitali, nuove forme di comunicazione e di raccordo tra sistemi diversi) che sono all’ordine del giorno dell’agenda degli archivi ed hanno approfondito, nell’ambito di quella disseminazione cui si faceva cenno in precedenza, la riflessione su nuove tipologie di archivi la cui importanza sta crescendo sempre più.

Semmai quello che è mancato, nel corso della tre giorni bolognese, è stato proprio quello che sembrava dovesse essere il più significativo biglietto da visita di questo nuovo corso e cioè quel “portale archivistico nazionale” che nell’ambito del più vasto e complesso Sistema dovrebbe porsi come unico punto di accesso alle risorse archivistiche nazionali, nelle sue molteplici componenti e sfaccettature. Ma in questo caso forse si tratta solo di aspettare, perché nel frattempo il lavoro sta proseguendo, mentre più problematico appare quanto è alluso nel titolo di questo intervento, ovvero il passaggio dal dire al fare per superare quella logica puramente istituzionale che per troppo tempo ha prevalso nel mondo dei beni culturali e soprattutto in quello degli archivi.

Che l’accordo siglato a Bologna possa essere considerato a buona ragione storico è innegabile, sia perché si lega ad un’idea flessibile, ma concreta di intendere il modo di cooperare tra le istituzioni, sia perché riguarda non solo la valorizzazione, ormai sancita dalla legislazione vigente, ma anche la tutela. Altrettanto forte è però la sensazione che non tutto sia stato detto e soprattutto che la presenza massiccia delle autonomie locali non sia in realtà in grado di limitare i danni provocati dal progressivo disimpegno dello Stato. Questo ovviamente non sta scritto da nessuna parte, ma qui appunto si entra nell’intricato rapporto tra il dire e il fare. Purtroppo al di là di quelli che sono i discorsi e i ragionamenti, la pratica di tutti i giorni, il “fare” del nostro ministero appare decisamente più preoccupante. I punti dolenti sono tanti e sono stati sottolineati in più occasioni dagli addetti ai lavori e dagli utenti. Tra le tante prese di posizioni si può ricordare una delle più recenti, l’appello dei primi del 2009 della Sissco (Società italiana per lo studio della storia contemporanea) sulla “grave situazione determinatasi in alcune delle principali istituzioni italiane deputate alla conservazione del patrimonio archivistico e librario e agli impedimenti che incontrano gli studiosi nello svolgimento delle loro ricerche”.

Essi riguardano più in generale il mancato ricambio generazionale degli archivisti di Stato che sembra minare alla base qualsiasi ipotesi di accordo sul tipo di quello siglato a Bologna; chi infatti potrà rappresentare una parte, per il momento certo ancora significativa, dell’intesa Stato/autonomie locali, se gli archivisti di Stato sono sempre meno e sempre più prossimi alla pensione?

Altrettanto grave è il problema delle sedi che pure è stato, come si è accennato, al centro di un workshop della conferenza. Si parla, è vero, di un piano nazionale per la salvaguardia della documentazione archivistica, ma nel frattempo interi patrimoni rischiano di andare perduti per l’impossibilità di trovare adeguati spazi per la loro conservazione.

Ma a prescindere da queste considerazioni e da queste situazioni che potrebbero anche essere contingenti, quello che sembra mancare nel modo di procedere e di operare del nostro ministero sembra proprio la consapevolezza della missione che esso dovrebbe svolgere nella salvaguardia e valorizzazione del patrimonio culturale e che è resa in maniera eloquente, almeno per chi scrive queste note, dal recente slogan utilizzato per incoraggiare la gente a visitare i musei e gli altri luoghi della cultura: “se non lo visiti, lo portiamo via”. Si dice, o almeno così era affermato in una lettera di Viviana Franzosi al giornale “La Repubblica” pubblicata il 12 febbraio 2010, che sia stato ripreso, se non copiato, da quello utilizzato in Inghilterra per una campagna tesa ad incoraggiare la gente a camminare sui sentieri aperti nei parchi nazionali: “if you don’t use, you could loss it” (se non lo usi puoi perderlo).

La logica che presiede ai due slogan mi sembra tuttavia fondamentalmente opposta e particolarmente rivelatrice. Nel caso inglese si parte dalla considerazione che l’itinerario, ma più in generale la memoria e il patrimonio culturale, sia un bene comune che deve essere praticato, usato, per non perderlo e che la responsabilità è di tutta la comunità che deve farsene carico, partecipando alla tutela e alla valorizzazione della propria identità, nel caso specifico il sentiero, ma il ragionamento potrebbe valere benissimo anche per un archivio o per qualsiasi altro luogo in grado di contribuire alla conoscenza e alla crescita culturale della comunità. Lo slogan italiano si muove in una logica opposta stabilendo di fatto una frattura tra il luogo da visitare e colui che lo visita: non si capisce bene chi sia quel noi che può portarlo via, ma la morale sembra essere quella del bambino cattivo al quale si minaccia di togliere il giocattolo se non fa il buono, secondo una logica tutoria che è appunto opposta a quella della responsabilità.

Anche a Bologna quella forte esigenza di collaborazione e di confronto sembra essersi in qualche modo fermata ai recinti istituzionali del settore, finendo per coinvolgere poco sia coloro che in esso lavorano, sia coloro che ne sono gli utenti. Certo non sono mancati gli archivisti e nemmeno gli storici o gli altri utilizzatori degli archivi tra la platea del pubblico e tra i tanti relatori, ma quello che ha finito per prevalere è stato il punto di vista delle istituzioni “archivistiche”, e forse non poteva essere che così trattandosi appunto della seconda conferenza promossa dalla principale istituzione archivistica del paese, la Direzione generale per gli archivi, di concerto e in collaborazione con la commissione tecnica paritetica nazionale istituita dal già menzionato accordo del 2003 tra il ministero per i Beni e le attività culturali, le regioni, le provincie, ma un maggiore coinvolgimento del mondo della ricerca, delle associazioni e degli utenti era forse possibile o comunque auspicabile.