Fashion, il settimanale della moda italiana. Storia del periodico e della sua influenza nel fashion trade

di Matteo Minà

Abstract

Con oltre quaranta anni di attività, il settimanale “Fashion” può essere considerato il periodico di settore che ha cambiato e influenzato il linguaggio della moda italiana, portando alla ribalta nuove figure professionali all’interno degli organigrammi aziendali (direzione commerciale-retail-marketing, ecc.), contribuendo ad arricchire culturalmente il settore con nuove tempistiche, terminologie e metodologie sempre più richieste per la sfida di internazionalizzazione del Made in Italy. Dalle fibre ai filati e ai tessuti, dalla moda maschile, femminile e infantile alla lingerie, dal fitnesswear agli accessori. “Fashion” analizza puntualmente ogni anello della filiera e i mercati chiave del Made in Italy, attraverso inchieste, interviste, analisi sulle tendenze e ricerche di mercato. Grazie a una struttura internazionale (fa parte del gruppo tedesco Deutscher Fachverlag) e una distribuzione articolata in circa ventimila copie settimanali, la rivista dialoga puntualmente con dettaglianti, rappresentanti, imprenditori del tessile e della confezione, stilisti, consulenti, associazioni di categoria e organizzazioni fieristiche.

Abstract english

With over forty years worth of activities, the weekly magazine “Fashion” can be considered as the magazine which has changed and influenced Italian Fashion, bringing new professionals into the limelight within the corporate organization (sales / retail / marketing managers, etc.), and by helping to enrich the cultural sector with new timing, terminologies and methodologies. Recently there have been more and more requests for the challenging task of internationalising the Made in Italy brand. From fibers to yarns and fabrics, from menswear fashion, womenswear and childrenswear to lingerie and from fitnesswear to accessories. “Fashion” regularly examines every link in the chain and the key markets of Made in Italy, through surveys, interviews, trend analysis and market research. Thanks to an international organization (“Fashion” is a part of the German group Deutscher Fachverlag) and a distribution which is divided into about twenty thousand copies a week, the magazine regularly connects retailers, representatives, entrepreneurs in the textile and clothing field, designers, consultants, trade associations organizations and trade fairs.

Introduzione: perché “Fashion”?

L’articolo che segue si basa sulla tesi preparata come prova finale per la Laurea in Culture e Tecniche del costume e della moda, corso triennale (2007-2010) attivato dalla facoltà di Lettere e filosofia, presso l’università di Bologna, sede di Rimini.

Una tesi in giornalismo di moda sul settimanale “Fashion”, una delle riviste più autorevoli del settore moda/retail del panorama italiano, dove attualmente collaboro in veste di corrispondente da Firenze in occasione delle più importanti fiere di settore (i saloni di Pitti Immagine per primi) o eventi legati al mondo della moda.

Dopo i primi anni vissuti da fruitore del magazine, sia nel formato cartaceo che nella versione online, dal 2009 si è aggiunto anche un ruolo attivo all’interno della redazione: mi è parso quindi utile poter andare a studiare a fondo la rivista – che ormai ha compiuto 40 anni – , avendo la possibilità di intervistare vecchi e nuovi direttori e di accedere agli archivi presso la redazione di Milano.

Senza dubbio “Fashion” può essere considerato un periodico che ha cambiato e influenzato il linguaggio della moda italiana, portando alla ribalta nuove figure professionali, contribuendo ad arricchire culturalmente il settore con nuove tempistiche e metodologie sempre più richieste per la sfida di internazionalizzazione del Made in italy.

La genesi, le fonti e gli obiettivi di analisi della rivista

La genesi

Iniziando la mia attività lavorativa nel giugno 2002, come assistente alla direzione commerciale del marchio Allegri a Vinci, in provincia di Firenze, fui subito colpito dal fatto che una buona parte dei miei colleghi e degli addetti dell’ufficio stile e del reparto prodotto, aspettassero con forte interesse, la sera intorno alle 19.00 o la mattina successiva, una newsletter giornaliera proveniente dal sito internet www.fashionmagazine.it. L’ e-mail riportava tutte le notizie degne di nota nella giornata appena trascorsa, riguardanti il mondo della moda, del lusso, del lifestyle, con un focus particolare sulle nuove aperture di negozi, espansione di mercati, giro di poltrone di protagonisti della fashion industry.

Qualche giorno dopo ero iscritto a questo servizio, tra l’altro inviato gratuitamente dalla redazione della rivista, in un orario tale da permettere ai manager dei vari reparti di fruire dell’informazione prima dell’uscita dall’ufficio1; tale e-mail informativa non era altro che un sunto di tutte le notizie apparse sul sito www.fashionmagazine.it, versione online di “Fashion, il settimanale italiano della moda”.

Da lì a pochi giorni iniziai a leggere regolarmente la rivista sia in versione online che cartacea (l’azienda per cui lavoravo la riceveva, perché inserzionista pubblicitaria con alcuni dei suoi marchi), apprezzandone i contenuti che fornivano un corretto orientamento professionale, in linea con il mio ruolo commerciale, che di giorno in giorno andava delineandosi.

È stata probabilmente la prima rivista specializzata in ambito commerciale/retail che ebbi l’opportunità di sfogliare; i due anni precedenti di studi all’istituto Polimoda di Firenze, mi avevano fatto avvicinare ad alcuni magazine più internazionali, più style oriented, più patinati.

Otto anni dopo, quando ho deciso l’argomento della dissertazione, ho ritenuto consono e corretto andare ad analizzare sotto un profilo storico proprio questa rivista, anche se strada facendo ho scoperto che la via da percorrere era più che in salita e che probabilmente nessuno aveva mai preso in considerazione lo studio approfondito del settimanale; la soddisfazione più grande è arrivata quando, negli archivi della rivista, ho rinvenuto il primo numero di “G.T. Giornale Tessile”, antenato di “Fashion”, uscito il 18 novembre 1970, che a fine 2010, proprio nel periodo di discussione della tesi, ha compiuto 40 anni (non dimostrandoli affatto)!

Il campo d’azione in cui mi sono mosso è risultato vergine; le informazioni in mio possesso erano soltanto quelle che si possono ricavare da un breve company profile sul sito della rivista o dal Dizionario della Moda 2004 a cura di Guido Vergani, edito da Baldini, Castaldi, Dalai.

Fondata da Gianni Bertasso e oggi diretta da Chiara Modini2, presente nel panorama editoriale da oltre 40 anni, “Fashion” è in posizione di leadership tra i periodici specializzati di moda, rivolti al trade.

Dalle fibre ai filati e ai tessuti, dalla moda maschile, femminile e infantile alla lingerie, dal fitnesswear agli accessori. Il settimanale analizza puntualmente ogni anello della filiera e i mercati chiave del Made in Italy, attraverso inchieste, interviste, analisi sulle tendenze e ricerche di mercato. Con la stessa metodologia, la rivista affronta comparti molto vicini alla moda, come gli occhiali, i gioielli e gli orologi. Grazie a una struttura internazionale (“Fashion” fa parte del gruppo tedesco Deutscher Fachverlag) e una distribuzione articolata in circa ventimila copie settimanali, la rivista dialoga puntualmente con dettaglianti, rappresentanti, imprenditori del tessile e della confezione, stilisti, consulenti, associazioni di categoria e organizzazioni fieristiche.

“Fashion” è cresciuta negli anni non solo a livello di contenuti ma anche di iniziative parallele come le guide in occasione delle sfilate, i tabloid con le news pubblicate giornalmente, fino al già dibattuto sito internet, con l’invio serale della relativa newsletter gratuita.

Proprio Gianni Bertasso è stata la mia fonte; ho avuto la fortuna di conoscerlo nel 2000 in occasione della presentazione al Polimoda di Firenze del primo numero della rivista “Mood” da lui stesso fondata; persici poi di vista per qualche anno, siamo ritornati in contatto nel 2008 in quanto, come giornalista, ho contribuito a redigere qualche articolo del suddetto periodico.

 

 

Le fonti. Biografia del giornalista editore Gianni Bertasso

La carriera di Bertasso si può esprimere attraverso le sue più importanti fasi: dopo essere entrato in Rai nel 1956, vincendo un concorso, lavora alla direzione generale per sei anni. Nel 1963 si occupa di consulenza di imprese italiane, prime tra tutte Lancia automobili e Buitoni alimentare e pochi anni dopo viene nominato direttore della rivista automobilistica “Mark 3”. Nel 1970 diventa direttore di “G.T. Giornale Tessile”; dieci anni dopo ne assume il controllo fondando “Fashion, il settimanale della moda italiana”, giornale con una forte vocazione professionale. Nel 1999 Bertasso cede la rivista all’attuale gruppo multinazionale tedesco, per fondare l’anno successivo “Mood”, periodico che si occupa delle tendenze emergenti non solo nella moda ma anche nel design, nell’arte e negli stili di vita contemporanei. Il magazine, caratterizzato da un’attenta ricerca grafica, si inserisce subito nella scena editoriale come prodotto innovativo, rivolto oltre che agli operatori della moda anche ad un pubblico più vasto, attento alle evoluzioni delle tendenze.

Bertasso, fra le altre attività, ha fatto parte dei docenti della Scuola di Progettisti di Moda dell’Università di Urbino e del progetto Marzotto (corso per giornalisti di moda).

Il 25 febbraio 2006 Gianni Bertasso ha ricevuto il “Premio alla Carriera” della Camera nazionale della moda Italiana, con la seguente motivazione: “Editore, direttore, giornalista, grande rigoroso interprete delle trasformazioni della moda, ha contribuito alla crescita dell’immagine dello stile italiano”.

Le fonti e le interviste

Grazie alla suddetta conoscenza pregressa, sono riuscito ad organizzare alcuni incontri a Milano con il giornalista Gianni Bertasso, che si è reso molto disponibile al racconto; nelle pagine che seguono, il filo del discorso verrà integrato con diverse sue testimonianze dirette, in modo da riportare il più fedelmente possibile, come una sorta di intervista, i suoi racconti sulla nascita e sviluppo della rivista.

La testimonianza di Bertasso si snoda però fino al 1999, anno in cui ha ceduto completamente il magazine; per i successivi dieci anni, fino ad oggi, un prezioso aiuto è stato fornito dall’attuale direttore, Chiara Modini, la quale mi ha fatto accedere all’archivio della redazione di Piazza Pio XI a Milano, fornendomi i dati necessari per le analisi condotte.

Obiettivi di analisi della rivista

Lo stimolo ad individuare le caratteristiche fondamentali della rivista “Fashion”, che la rendono così preziosa in ambiente di lavoro a me e ad altri, mi condusse ad esaminare anche i numeri pregressi, alla ricerca dei punti di forza ricorrenti, intesi come caratteristiche, temi e tempistica sui quali si basava non tanto il suo successo, quanto la sua capacità di rivelarsi autorevole strumento di lavoro.

Occorreva pertanto partire da una ricerca storica, con particolare attenzione a riconoscere i valori sui quali si fondava.

Siamo pertanto ricorsi ad una di tipo diacronico, da ritenersi appropriata per lo scopo perseguito, in quanto abbraccia un lasso di tempo ampio e si limita ad una sola testata.

Una volta raggiunti questi obiettivi, si è inteso produrre un ulteriore sforzo critico e di sintesi, con l’obiettivo finale di individuare quale potesse essere il principale valore fondante nel campo del giornalismo di moda.

L’affermazione e lo sviluppo della moda italiana dal dopoguerra ad oggi

Per analizzare un profilo storico di costume dell’abbigliamento in Italia, perché è da questo che poi ha avuto origine un certo tipo di giornalismo che prima non c’era, dobbiamo partire dall’immediato dopoguerra, perché in quel periodo gli italiani per vestirsi andavano dal sarto, proprio perché non esisteva altro; non c’era una moda con la “M” maiuscola, ma sopratutto non esisteva un abbigliamento su scala industriale e quindi non esisteva funzione distributiva.

Gli uomini facevano tre prove dal sarto; tre metri e venti era il taglio della stoffa, in modo che avanzasse il tessuto anche per il gilet.

Le signore, invece, andavano dalla sarta con i figurini di Parigi; come racconta lo stesso Bertasso: “Andavo con la mamma a Torino da Galtrucco3 e durante le prove si andava fuori sotto i portici, all’aperto, perché il commesso portava la pezza all’esterno per vedere i colori”.

Con l’industria bellica, l’America ha studiato la capacità di far fronte ad una massa eterogenea di misure antropometriche militari, creando le divise prodotte in più taglie.

Parlando di abbigliamento, dobbiamo infatti tenere conto che c’è da fare attenzione all’antropometria nel decidere le misure delle taglie; anche al giorno d’oggi, (per esempio) se si esporta in Giappone devono essere fatte misure speciali in base alle fisionomie nipponiche.

Approfittando, o comunque in conseguenza di questa situazione generale, finita la guerra, l’industria italiana, con il Gruppo Finanziario Tessile4, ha iniziato a introdurre questo concetto; basti por mente alla pubblicità, che non era del tipo “Vestiti da noi!” ma la creatività di solito era affidata ad un’immagine ove, era scritto “Facis5, 120 taglie”; la difficoltà, anche per la popolazione italiana dal Trentino Alto Adige fino all’Irpinia, era calibrare la taglia.

Questo ha comportato, per i giovani di allora, una sorta di entusiasmo verso la vetrina simile a quella di un moderno negozio, che prima non c’era, in cui erano collocati i vestiti in esposizione.

Come rammenta Bertasso: “Mi ricordo che entravi nel negozio e rimanevi positivamente sbalordito; è piaciuto subito questo tipo di confezione – prosegue – in quanto con i nuovi abiti le persone si sentivano moderne”. Un altro esempio del periodo è rappresentato dalle cucine in legno che vennero eliminate e sostituite con quelle in formica, perché in questo nuovo materiale si potevano scegliere colorate, rosse, gialle o blu.

L’abbigliamento non poteva ancora essere considerato moda, in quanto l’industria che aveva già fatto lo sforzo di programmare taglie, di comperare al buio decine e centinaia di metri di tessuto, una volta confezionati questi capi, andava a venderli al singolo negozio, il cui titolare comprava in base alle proprie disponibilità liquide, anche per fronteggiare la forte inflazione esistente; se, per esempio, quest’ultimo aveva 150 giacche color cammello, che non aveva venduto in una stagione invernale, era felice di questa giacenza perché avrebbe potuto venderle anche il successivo inverno e grazie all’inflazione ci avrebbe anche guadagnato. Ricorda Bertasso: “Si andava in un negozio ed il commerciante con grande orgoglio ti mostrava il magazzino e ti faceva vedere il suo capitale, composto per esempio da 100 cappotti; adesso è completamente il contrario, si è contenti e si è raggiunto il risultato solo se non si ha più neanche un capo di rimanenza”.

Gli italiani si sono prima lentamente, poi sempre più rapidamente, riempiti il guardaroba e si è arrivati ad un punto di saturazione.

Ci piaceva essere eleganti, quasi gagà – ricorda Bertasso. Andavamo – prosegue – a Torino da Olympic6, sapendo già che da settembre il negozio aveva una giacca di flanella, una blu, i pantaloni grigi in Principe di Galles, la camicia azzurra e le cravatte Regimental. Il settembre successivo era lo stesso, perché non esisteva la moda, ma soltanto una garanzia che era data o dalla marca Sealup, Valstar, Herno, Gft, oppure dal negoziante, tant’è che per esempio, a Milano, in corso Venezia, dove adesso c’è il punto vendita di Dolce & Gabbana, si cercava da Brigatti l’abito coloniale, che veniva acquistato senza conoscere il marchio, in quanto era Brigatti la garanzia; questa abitudine si è protratta per decenni.

Quando, come in un fenomeno di vasi comunicanti si è arrivati alla saturazione, le aziende hanno capito che le vendite erano in stallo, in quanto tutti avevano già acquistato le diverse tipologie di prodotto; non c’era la moda, c’era il bel prodotto, ormai diventato troppo competitivo.

Le aziende hanno iniziato ad escogitare qualcosa di nuovo cambiando, per esempio, il cappotto blue con la manica raglan7, con un prodotto simile ma con dettagli diversi, come i revers stretti, più larghi, senza cintura.

L’industria, per far fronte a questi cambiamenti, ha stretto alleanze con gli stilisti, passando attraverso turbolenze non da poco, perché l’industriale fondatore, pressato dal figlio che era favorevole al cambiamento, si ricondusse a prendere uno stilista, ma poi non era d’accordo con il suo nuovo approccio, in quanto, da conservatore, vedeva questo fenomeno come una sorta di prevaricazione sul suo heritage.

I negozi sono passati da contenitore per l’esposizione a un nuovo concetto francese di boutique (la Francia e Parigi sono stati per l’Italia da sempre un riferimento); il pubblico ha iniziato a guardare questi nuovi capi che, indossati, cambiavano l’aspetto; il vestire era diventato fenomeno di costume, se non eri abbigliato in un certo modo eri out, vecchio.

Il concetto di moda, introdotto come necessità di mercato, ha scatenato la gioia del consumatore che finalmente ha iniziato a capire, per esempio, che la camicetta da donna per la prossima primavera poteva essere non solo bianca come quella passata, ma magari anche con le fragole blu: era nato lo stilismo.

Dagli anni Settanta in poi è iniziata questa grande corsa delle aziende ad accaparrarsi i talenti che ritenevano migliori, perché anche quelle inizialmente restie hanno compreso che senza uno stilista non sarebbero riuscite a sopravvivere; la sola qualità del tessuto e la bella finitura non erano più sufficienti per stare sul mercato.

Dall’altra parte, il consumatore ha iniziato a prendere coscienza che c’erano degli stilisti che si chiamavano Giorgio Armani, Walter Albini, Gianni Versace e anche se non c’era il nome proprio della persona, sapeva che dietro al marchio Basile o Genny, c’era un’impronta stilistica.

I primi showroom

Nello stesso periodo stava nascendo un secondo concetto importante: chi sa che io stilista faccio queste cose così belle e che sono così nuove? Lo devo far sapere a chi viene a comprare, devo avere un rappresentante o uno showroom; si è così instaurato il concetto che se un’azienda non aveva gli spazi di vendita, non poteva comunicare con il suo primo interlocutore, il dettagliante.

L’espansione si è avuta anche a livello finanziario, perché, se è vero che l’azienda quando ha inserito uno stilista ha fatto certamente un investimento importante, è altrettanto vero che il rappresentante, prima abituato a girare con la valigia e la mannequin si è trovato nella posizione di dover aprire uno showroom e dover fare i conti con cifre ben oltre le sue possibilità economiche.

Questi spazi non servivano solo per la vendita, ma anche e soprattutto per l’assistenza al cliente lungo tutto il periodo dell’anno, fino ad arrivare ad avere obbligatoriamente un ambiente cucina, perché per ricevere, per esempio, le signore Biffi8 dell’omonimo negozio di Milano o Michele Giglio, fondatore della boutique di Palermo con questa insegna, si doveva essere in grado di dare servizio a tutte le ore, cena e pranzi compresi; si è passati quindi da una comune scatola di campionario ad uno spazio di accoglienza, multifunzionale.

Le fiere di settore

Un altro mezzo per far vedere il prodotto, per presentarlo al cliente, era rappresentato dalle fiere, un più ampio modo di comunicare tra produzione e distribuzione.

Alla fine degli anni Cinquanta, a Torino, la più importante manifestazione era il Samia, che era organizzato proprio in questa città in quanto presente anche quella che allora era considerata la Fiat del vestire, ovvero il Gruppo Finanziario Tessile. Il salone si rivelò da subito vincente nella sua formula che metteva a confronto la creatività degli stilisti di abiti e accessori con le aziende del nascente prêt-à-porter.

Intanto, stava compiendo i primi passi a Firenze, al di là delle sfilate della Sala Banca di Giovanni Battista Giorgini, un altro salone, Pitti Donna, che diventò subito protagonista nella scena internazionale come fiera innovativa, momento di scambio, di incontro e di un nuovo modo di comunicare da parte delle imprese.

Il giornalismo di moda negli anni Cinquanta e sessanta del novecento

Il centro italiano più rappresentativo della stampa di moda è senza dubbio Milano, città da sempre più avvezza ad accogliere questo tipo di avventure editoriali. Il giornalismo di moda non era concepito come lo è adesso, in modo completo, professionale e di comunicazione; allora era più che altro emotivo, più di facciata; si potevano trovare frasi del tipo “Ecco una bella signora a Parigi” o “Ecco una bella italiana a Roma che indossa un abito di Sorelle Fontana”; forse, in questa fase più che alla moda era legato allo scoop e al gossip.

“G.T. Giornale Tessile”: l’antenato di “Fashion”

Nel 19709, Gianni Bertasso ha fondato in via Baracchini 1 (angolo piazza Diaz) a Milano, grazie all’intuizione di un editore tedesco che aveva già un giornale in Germania chiamato “Textile Mitteilungen”, “G.T. Giornale Tessile” che, sulla scia di quello tedesco nato nell’immediato dopo guerra, era diretto a comunicare ai negozi dell’industria e quello che quest’ultima faceva; c’erano le tendenze, non intese nell’accezione moderna del termine, ma nel senso di indicare cosa avevano venduto i vari dettaglianti italiani e quali sarebbero stati i prodotti richiesti nella futura stagione, secondo il loro “sentire”.

Intanto la comunicazione da parte degli stilisti tendeva sempre più a migliorare, in quanto primi fra tutti, Krizia, Giorgio Armani e Gianni Versace avevano capito che la stampa non solo poteva essere un grande megafono di diffusione dei prodotti creati, ma anche convincimento emotivo del pubblico per cercare di fargli capire che per essere di moda si dovevano indossare i loro abiti.

La scena vedeva protagonisti da un lato una comunicazione diretta al pubblico fatta da alcune riviste dedicate, con quotidiani che davano sempre più spazio alla moda; dall’altra, un giornale specializzato come allora era “G.T. Giornale Tessile”, che cominciava a essere visto come fonte necessaria di aggiornamento professionale per il settore. Poiché veniva chiesto ai negozi che cosa avevano venduto e quelli interpellati erano tra i più importanti in Italia, i minori o quelli che si affacciavano all’epoca sul mercato, erano tutti interessati alla lettura di questi argomenti, per sapere come si fosse pronunciato, per esempio, l’uno o l’altro commerciante di riferimento.

La stampa specializzata poneva per la prima volta in primo piano coloro che fino a quel momento nessuno sapeva che fossero presenti, i dettaglianti; a Milano, il solo fatto di vedere la foto sul giornale di Michele Giglio di Palermo ha iniziato a renderlo conosciuto nel settore; si è pertanto presa coscienza della necessità di un circuito nella moda, dal direttore commerciale dell’azienda fino al dettagliante e che queste persone, passando attraverso il rappresentante, erano coloro che potevano guidare i giornalisti nelle scelte, per essere coscienti di come stava andando un certo momento di mercato.

Come racconta lo stesso fondatore:

Con “G.T. Giornale Tessile” sono stati redatti molti servizi, decine di interviste sia agli stilisti che stavano emergendo, ma anche a quelli che erano già affermati; alle aziende veniva chiesto che cosa vendevano e contestualmente cosa mancava sul mercato; le risposte più frequenti – ricorda Bertasso – erano sulla mancanza di una certa professionalità del dettagliante; quest’ultimo, da parte sua, si lamentava con le aziende, perché venivano presentate sempre le stesse cose; si veniva così a creare – conclude Bertasso – un’importante integrazione tra gli attori della filiera del prodotto moda.

L’uscita del periodico era a cadenza settimanale, la veste quella di un giornale classico, che come ricorda lo stesso Bertasso “veniva stampato presso la stamperia di un quotidiano, perché aveva le stesse caratteristiche”: la foliazione due sedicesimi, 32 pagine, il formato tabloid.

Uffici stampa, pubblic relation e sfilate: la comunicazione del sistema moda

Un ruolo decisivo e importante in questa fase di divulgazione del prodotto moda è stato quello degli uffici stampa e delle cosiddette PR (pubblic relation): si tratta di un fenomeno nato a seguito dell’avvicinamento dello stilista ad una persona ben introdotta che, per esempio, conosceva alcune giornaliste, chiedendole un aiuto per poter mostrare i suoi prodotti. “L’amica PR – ricorda Bertasso – suggeriva di fare un tè, preparare una borsa speciale, metterci all’interno una maglia o un suo prodotto in modo da poterle regalare alle giornaliste invitate, che si occupavano di moda nei giornali”.

In quel periodo, i quotidiani, avevano giornalisti (principalmente donne) che scrivevano di moda, ma non erano stati presi solo per quella necessità; successivamente, alcune di loro si sono specializzate nella moda, in quanto i direttori dei quotidiani hanno sempre in un certo senso “snobbato” questo argomento, demandando la moda ad una ragazza jolly della redazione, dovendo loro occuparsi magari degli scioperi o di particolari fatti di cronaca, giudicati più importanti.

Ancora adesso, se guardiamo nei quotidiani, la moda si vede e non si vede, anche se è cambiato l’apporto pubblicitario negli anni; in questo momento di mercato, per esempio un giornale non può permettersi di ignorare la sfilata di Dolce & Gabbana a Milano per due volte di seguito, altrimenti viene colpevolizzato e cambiato il direttore del giornale, per la perdita di entrate cospicue che la moda garantisce di anno in anno.

Hanno così sempre più preso piede le pubbliche relazioni, uffici staccati e autonomi, che in parallelo alla crescita delle aziende e degli showroom si sono ingranditi, andando a formare dei veri e propri centri di comunicazione.

Franco Savorelli di Lauriano e Beppe Modenese, così come Nando Miglio nella regia delle sfilate, rappresentano certamente i precursori in questo tipo di lavoro e sono coloro che hanno inventato e portato avanti nel tempo una nuova modalità di comunicazione e una nuova immagine della moda, convinti del fatto che si potesse comunicare anche attraverso un ristorante in cui venissero invitati i giornalisti per una presentazione.

Con una sempre maggiore espansione degli showroom a Milano e con l’aumentare delle collezioni, le sfilate della Camera nazionale della Moda italiana10 vengono trasferite da Firenze a Milano, inizialmente nei due alberghi Palace e Principe di Savoia; Pitti Immagine rimaneva nel capoluogo toscano soltanto come salone di esposizione.

In questo periodo ha preso sempre più forma anche il concetto di sfilata, strettamente riservata alla stampa e ai buyer italiani e stranieri, con assoluta esclusione del pubblico; erano défilé altamente tecnici, nel senso che si cercava addirittura di spiegare le caratteristiche di ogni singolo capo mentre passava in passerella.

Il signor Giorgio Armani, per esempio, invitava, in via Durini a Milano11, gruppi di otto, dieci giornalisti, perché voleva personalmente spiegare le differenze di ciascun capo, voleva raccontare i singoli pezzi, i dettagli, quasi come avviene nelle odierne presentazioni di collezioni alla rete vendita; la passione dello stilista si trasmetteva attraverso la spiegazione dei nuovi look, dei nuovi materiali e le funzionalità sempre migliori.

Il forte rapporto di vicinanza tra stampa e stilisti si consolida ulteriormente.

I giornali di moda si evolvono e diventano più belli, nel senso che ci sono più immagini a colori, che certe foto ingenue del passato lasciano spazio a quelle inizialmente con una bella indossatrice, poi una modella, infine una vera e propria star. In questo panorama di evoluzione di bellezza dell’immagine, ha preso piede con un’ascesa fortissima un altro protagonista, il fotografo; questa figura, unita alle varie modelle (star) da passerella, ha permesso alle aziende italiane d’investire grosse somme in comunicazione per il miglioramento della propria immagine, supportate però da un grande aumento delle esportazioni.

La moda era diventata un settore produttivo, creativo, artistico, di comunicazione, un mondo ben più complesso del semplice produttore di un singolo capo di abbigliamento; si è registrato tutto un pullulare, crescere di professionisti del settore, di scuole di moda, di evoluzione dei negozi; con grande attenzione ad aspetti fino a quel momento trascurati, come per esempio avere in showroom una persona che parlasse tre lingue, poi quattro.

Il sistema “Made in Italy” ha dimostrato di saper far fronte a una domanda mondiale; l’Italia, per tradizione, per capillarità della sua industria, per la bellezza delle sue fabbriche, per l’ordine e i servizi all’interno di esse (basti citare i pulmini che vanno a prendere i figli dei dipendenti, le mense) ha saputo creare una tradizione mondiale, valorizzando anche le “mani d’oro” delle lavoranti, vero know-how nostrano.

Da “G.T. Giornale Tessile” a “Fashion”

Andando avanti, l’editore Bertasso ha capito che era importante modificare la veste del giornale:

Così come c’era stata una evoluzione generale di immagine della moda – racconta il fondatore – , si è capito che anche “G.T. Giornale Tessile” risultava ormai un po’ troppo povero, troppo “giornale”, troppo scritto e che occorrevano delle foto a colori. Siamo passati – ricorda – a un nuovo giornale, disegnando la nuova testata “Fashion” che sostituisse il primo e così ci siamo più addentrati nello specifico del fenomeno moda, che ormai aveva preso piede ed era diventato gioia e dolore del settore.

Con l’evoluzione grafica, editoriale e di contenuti “G.T. Giornale Tessile” ha cambiato nome e si è trasformato in “Fashion, il settimanale della moda italiana”.

Nato ufficialmente nel 1984, nel nuovo giornale sono comparse le fotografie in cui venivano inserite le tendenze date dallo stilista, generalmente sei mesi prima, in modo che il dettagliante potesse prendere spunto da queste per gli acquisti; in poche parole Fashion diventò uno strumento non solo di diffusione del prodotto moda ma anche di orientamento veramente professionale sia per il settore, sia per la distribuzione che per l’industria e per gli stilisti, i quali potevano iniziare a mettere in evidenza le novità di prodotto moda presentato.

“Fashion” rappresenta l’evoluzione avanzata che ha avuto il settore moda; negli anni Ottanta il prêt-à-porter è ormai considerato un fenomeno consolidato e le aziende italiane producono il frutto della creatività degli stilisti, che sono creatori e interpreti di oggetti di design.

La rivista esprime e traduce questa realtà, sia attraverso i servizi fotografici che rappresentano di stagione in stagione le novità del prodotto moda, sia pubblicando le tendenze della prossima; siamo di fronte ad un mondo di informazione professionale che anticipa, per il circuito distributivo e per le aziende, la realtà di quello che sarà nei negozi sei mesi dopo.

Come ricorda il fondatore:

Per tracciare un quadro sempre aggiornato ed esauriente, di volta in volta si intervistavano le aziende non solo con focus sugli industriali o i titolari, bensì portando alla ribalta il management, nuova funzione che viene introdotta nella moda; da aziende familiari, padronali, le imprese del sistema moda iniziano a inserire nei propri organigrammi una dirigenza sempre più specializzata, come la direzione commerciale e la direzione marketing.

Lo scopo di “Fashion” era quello di mettere a confronto questi interpreti del settore con il dettagliante, che dal canto suo non è più un negozio ma è diventato una boutique (con questo termine si comprende che la differenza tra negozio e boutique si ha proprio rispetto al prodotto trattato; come si distingue in gergo, il confezionista è chi vende la confezione, il proprietario di boutique è chi vende il prêt-à-porter).

Possiamo quindi dire che, durante i primi anni di attività, “Fashion” non intervista più soltanto i titolari delle aziende, ma inizia a dare spazio ai direttori marketing e commerciali, portandoli alla ribalta.

Sono state inventate e inserite diverse rubriche: le più importanti riportavano il parere di un personaggio di spicco su alcune nuove realtà, l’intervista al dettagliante con le vendite più ricorrenti in stagione, notizie di stilisti (sia emergenti che affermati) come testimoniano i molti “ritratti”, da quelli dedicati a Giorgio Armani, a Krizia a Gianni Versace, fino ad alcune monografie, in cui lo sviluppo, l’evoluzione, l’affermarsi di una casa di moda veniva riportata sotto questa forma.

Gianni Bertasso, direttore ed editore, concepì il nascente “Fashion” come settimanale con 36/40 numeri annuali (ad agosto e durante altri periodi di festività non usciva).

La diffusione del periodico si concentrò e si sviluppò in due direzioni: da una parte fu distribuito nelle edicole, per esigenze di alcuni lettori, come i giovani frequentanti delle scuole di formazione, le commesse di negozi di abbigliamento che volevano essere aggiornate sulle ultime tendenze, tutto un mondo professionale legato al punto vendita.

Accanto a questa, si delineò la strada degli abbonamenti, in cui i sottoscrittori furono principalmente i titolari della catena distributiva, ma anche le aziende, con i loro nuovi manager sempre più desiderosi di informazione professionale qualificata.

Il numero di copie tirate, si è sempre aggirato intorno alle 18.000, 20.000, una quantità tale, come racconta Bertasso “da abbracciare con sufficienza un circuito distributivo produttivo giudicato dalle statistiche di mercato, interessante”.

I competitor di “Fashion” sul mercato editoriale risultarono, almeno all’inizio, ben pochi, in quanto la rivista era fortemente specializzata sul trade e fruita quasi completamente da addetti ai lavori; oggi, anche se nel panorama di riferimento sono nati altri prodotti editoriali simili, “Fashion” è considerato leader di mercato.

La specializzazione del giornale si comprende anche da queste parole dell’editore: “Si parlava soltanto del prodotto moda, senza andare oltre; come nasce (la parte creativa), come si produce (la parte produttiva) e come viene recepito dalla distribuzione”.

La redazione di Milano era formata da cinque giornalisti a tempo pieno e da un discreto numero di collaboratori esterni, compresi i corrispondenti da Parigi, dalla Germania e dall’Inghilterra; quasi la totalità di questi era rappresentata da firme femminili, in quanto, allora, il giornalismo di moda era praticato prettamente da loro. Sotto la guida di Bertasso, proprio per suo volere, furono molte le firme di punta del giornalismo italiano e internazionale che collaborarono in veste di esperte per la stesura della rivista, prime tra tutte Natalia Aspesi, Camilla Cederna, Bernadine Morris del “New York Times” e Adriana Mulassano del “Corriere della Sera”.

Se da una parte, come visto, Bertasso affidò a firme di spicco la redazione di alcuni articoli, dall’altra non rinunciò mai a redigere l’editoriale, che ha accompagnato dalla sua nascita il giornale, puntuale in ogni numero in prima pagina, fin dalle prime uscite di “G.T. Giornale Tessile nel 1970”.

La raccolta pubblicitaria avveniva diversamente da quella di un quotidiano; in quest’ultimo caso chi vende non promuove un’idea, qualcosa di stimolante per fare pubblicità, ma commercializza un mezzo, che non ha bisogno neanche di presentazione; quella di Fashion, invece, era fortemente specializzata. Come sottolinea Bertasso: “Per vendere la pubblicità su un giornale di moda come il nostro, bisogna capire a che cosa le aziende vogliono mirare nella loro immagine; devi creare con loro il posizionamento corretto che ovviamente deve essere coerente con alcune interviste redazionali che ne esprimano lo spirito”.

Il rapporto tra articoli scritti e redazionali era più o meno stabile; due terzi erano liberi e la restante parte costituita da articoli pubblicitari veicolati sotto forma di redazionali.

Fino al 2002 “Fashion” si è sempre presentato in forma cartacea; da quell’anno12, data la sempre crescente diffusione del mezzo internet, anche in ambito moda, fu inaugurato il sito www.fashionmagazine.it.

Negli anni il giornale ha iniziato a marcare sempre di più la sua specializzazione, seguendo delle precise linee merceologiche; da qui l’uscita del numero dedicato alla donna, all’uomo, al bimbo, ai tessuti, all’intimo, in occasione, in parallelo delle fiere, in modo da avere una coerenza tempistica tra il momento di mercato, il momento creativo e quello dell’informazione.

A questi numeri seguono i reportage con un’analisi di quello che si è visto durante le suddette manifestazioni di settore, diviso nelle varie categorie merceologiche.

A “Fashion” va anche il merito di aver ideato una serie di rubriche con l’opinione dei dettaglianti sulle sfilate all’interno del giornale e alcuni prodotti esterni, in formato tabloid, con approfondimenti, informazioni e agende del settore. Come ricorda Bertasso:

Possiamo dire di aver portato per la prima volta sul mercato vari prodotti; senza dubbio il più rappresentativo è l’agenda delle sfilate in cui c’era (e c’è) l’elenco di tutte le passerelle, intese non solo come calendario della Camera nazionale della moda. Il lavoro grosso – prosegue – era quello di riportare anche le indicazioni di showroom, le date di campagna vendite delle singole collezioni, le linee rappresentate da un determinato agente di commercio e le zone di competenza territoriale.

Un’altra importante novità apportata dalla direzione di Bertasso è stata l’introduzione di alcuni numeri speciali sui nuovi mercati emergenti Russia e Cina e per questo tradotti nelle lingue di appartenenza; questo, in un’ottica, oltre che per espandere i confini europei della rivista, di accrescere ulteriormente le conoscenze degli addetti ai lavori sui nuovi mercati del Medio ed Estremo Oriente, allora non conosciuti.

In generale si può affermare che il cambiamento di contenuti tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso è dovuto a un orientamento sempre più marcato verso la creatività, di cui gli stilisti diventavano sempre più protagonisti; a livello giornalistico il miglioramento della grafica e l’introduzione sempre maggiore del colore soddisfano queste esigenze, senza mai però dimenticare l’importanza dei contenuti.

Sostanzialmente l’impianto e la struttura del giornale sono sempre abbastanza simili; ricorre come fil rouge negli anni la duplicità dei contenuti, da un lato rivolti alle imprese, dall’altro alla distribuzione retail.

“Il dettagliante – ricorda Bertasso – viene visto come protagonista di un sistema in cui la sua ricerca avalla o meno la creatività degli stilisti, valutandone positivamente o meno la validità della proposta di collezione”.

Intorno a metà degli anni Ottanta “Fashion” cambiò sede, spostandosi dalla storica di Via Baracchini 1 ai nuovi locali di Corso Venezia 26, dove rimase fino al 2000, prima di approdare nell’attuale di piazza Pio XI 1.

Il trade italiano e la particolarità della catena distributiva

Una breve parentesi deve essere fatta per scoprire l’evoluzione dei negozi di abbigliamento (il trade), di queste piccole realtà che costituiscono un tessuto diffuso, unico al mondo, perché unica al mondo è la realtà italiana, con la sua capillarizzazione.

Un esempio: i negozi delle città d’arte italiane che si trovano nel centro storico hanno al massimo 45, 50 metri quadrati di esposizione e comunque non sono mai estesi fino a 800 metri quadrati, come in Germania; la grande polverizzazione della distribuzione è contemporaneamente espressione di uno stile di vita che comprende tutto e si viene a saldare come realtà creativa e commerciale; in poche parole un foulard di seta comprato nel palazzo Tornabuoni di Firenze è diverso dallo stesso prodotto comprato a Monaco, sia pure in un bel negozio, perché nel nostro paese le città d’arte offrono una sorta di shopping experience, data dalla bellezza, particolarità e unicità del luogo.

Questo tessuto capillare e così distribuito va considerato un patrimonio ancora oggi; quelle appena descritte sono vetrine che fanno della moda italiana non solo un mercato interno raffinato, vivace, con un suo gusto, ma un vero e proprio veicolo di esportazione dato dalla vendita ai turisti.

Il passaggio di proprietà e il nuovo corso della rivista

Come detto, nell’aprile del 2000, con la definitiva uscita di Gianni Bertasso, venne spostata la redazione nei locali di Piazza Pio XI e da quel momento, sotto la guida del gruppo Deutscher Fachverlag, la direzione del giornale venne affidata a Titti Matteoni.

Nel frattempo la filiale italiana del gruppo si trasformò da edizioni Hennessen Italia in edizioni Ecomarket, mantenendo comunque, per motivi di storicità, di heritage, anche la dizione “G.T. Giornale Tessile”.

A seguito di questa acquisizione, “Fashion” entrò a far parte di un gruppo di forte vocazione internazionale, specializzato principalmente in testate che si occupavano esclusivamente di business to business13, prima fra tutte “Textil Wirtschaft”, equivalente di “Fashion” in Germania.

Il gruppo stava iniziando in quegli anni una forte espansione internazionale, con acquisti di prodotti editoriali leader in ambito economico, puntando in paesi come l’Austria e la Francia; questa espansione non poteva non prevedere anche l’Italia, da sempre considerato il paese della moda.

Come ricorda Chiara Modini:

La fase saliente di quegli anni si è compiuta attraverso diversi step, fra cui il primo è stato un remake stilistico del giornale a fronte della conservazione di molti servizi che già esistevano; Titti Matteoni era già caporedattore nella gestione Bertasso e molti prodotti erano farina del suo sacco. La particolarità di Bertasso – ricorda – era quella di un direttore proprietario, molto spostato sull’imprenditoria e che quindi aveva un ruolo un po’ differente dal direttore classico, perché, per esempio, aveva un forte dispendio di energie nel controllo della pubblicità. Titti Matteoni diventò invece un direttore responsabile nel senso classico del termine, sui contenuti, demandando a Cornelia Hassmüller la parte commerciale e amministrativa.

Attualmente la sig.ra Hassmüller ricopre il ruolo di amministratore delegato.

In questi anni il settimanale si è presentato sul mercato con 39 uscite all’anno e la tiratura si è attestata tra le 20.000 e le 22.000 copie; la foliazione è sempre stata variabile, nei momenti topici del settore, come le sfilate, il giornale diventa più ricco e si ingrandisce.

Con il nuovo corso di “Fashion” è stato cambiato anche il sottotitolo della rivista da “Settimanale della moda italiana” a “Il settimanale italiano della moda”.

Questa scelta fu presa per seguire il cambiamento del mercato globale – spiega Chiara Modini; non era più trattata soltanto la moda italiana, era riduttivo in quel momento parlare esclusivamente del nostro paese; anche se abbiamo una mission che è quella di seguire il made in Italy, ci sembrò più giusto che il termine italiano si legasse al settimanale e non più alla moda, che ormai era diventata internazionale.

Anche sulla deontologia professionale, il magazine ha le idee chiare:

Segnaliamo sempre gli articoli redazionali, da noi chiamati “Pubbliredazionali” o “Fashion Promotion” – spiega Chiara Modini – dichiarandolo in apertura del servizio e comunque questo tipo di articoli a pagamento sono molto pochi; anche in quei rari casi che sono scritti da noi, perché magari un’azienda si fida del nostro know-how, il lettore non viene mai spinto a pensare che si possa trattare di un articolo. Abbiamo – continua – imposto in maniera ferma ed inequivocabile questa deontologia, in modo che il lettore sappia chiaramente se sta leggendo una notizia o un’informazione pubblicitaria. Per questo anche il lettering e il layout di pagina sono molto diversi, in modo che a colpo d’occhio si possa notare questa differenza. Anche se in un primo momento – conclude – i clienti ci hanno chiesto di strizzare un occhio all’articolo redazionale, magari camuffando la riconoscibilità dell’annuncio a pagamento, oggi, l’aver tenuto sempre barra dritta sul nostro operato giornalistico e non aver mai mollato a questo tipo di operazioni, nonostante il settore andasse purtroppo nell’altra direzione, ci vede premiati e gli operatori del settore riconoscono questa nostra professionalità.

Altri prodotti editoriali e iniziative

Accanto alla rivista cartacea, in questi anni hanno sempre più preso piede i “Fashion Calendar”, vademecum in formato tascabile, pubblicati in occasione delle sfilate femminili e maschili, ma anche delle fiere Pitti Immagine Uomo e Bimbo, rinnovati nella forma e nella sostanza, dopo un’accurata operazione di restyling.

A proposito di iniziative che seguono in tempo reale i fatti della moda, ci sono i “Tabloid”, che “fotografano” gli eventi della moda non solo attraverso le immagini, ma anche nelle interviste con i buyer internazionali, nelle analisi sulle tendenze, nelle news e in una serie di articoli di approfondimento.

Il tabloid esce in momenti particolari, per le sfilate, per i saloni nazionali come Pitti Immagine, il Mido per l’occhialeria o in occasione di fiere internazionali come il Bread and Butter di Berlino14; come raccontano dalla redazione “non ha una regolarità, segue un po’ anche gli umori del mercato; il tabloid comunque nasce con un evento e viene distribuito durante quell’appuntamento”.

Altro prodotto, le “Fashion Guide”, volumetti aggiornati di anno in anno, nate con lo scopo di diventare oggetto di lavoro per chi opera nel fashion system, perché ricche di informazioni utili per gli addetti ai lavori.

Per finire, l’attività della rivista si estende anche all’organizzazione di convegni e tavole rotonde su argomenti di attualità per il settore.

La sfida futura di “Fashion”: la newsletter

Tra i temi e le sfide che il magazine affronterà nei prossimi anni, un posto in primo piano è ricoperto dal retail, trattando dal franchising al fenomeno sempre in via d’espansione degli outlet, fino all’e-commerce e agli showroom.

Un altro argomento al centro dell’attenzione del magazine è la fast fashion15, fenomeno produttivo e distributivo di grande dinamismo nel panorama del prodotto moda.

La distribuzione sarà sempre più mirata e capillare: su abbonamento, nelle edicole delle principali città, nelle più importanti fiere italiane e straniere, negli alberghi dove soggiornano i compratori in occasione delle sfilate e, nel caso degli speciali bilingue, anche presso boutique e department store rilevanti nei vari mercati esteri.

A fine 2011 si è pensato ad un rilancio del sito con una nuova veste grafica; cambierà anche il tipo di fruizione, perché oggi è molto concentrata sull’informazione di servizio e di attualità; come racconta il direttore Modini “oltre a rafforzare queste due anime, cominceremo ad accrescere l’interattività con il lettore, attraverso approfondimenti e scambi di opinioni”. Attualmente questo tipo di informazione professionale viene fruita più dalla parte economico/commerciale dell’azienda, dal management delle società; tra l’altro la vocazione di questo servizio è confermata anche dalla sua uscita, corrispondente ai giorni lavorativi lunedì-venerdì.

Il grande punto di domanda di tutta la redazione è il pagamento del servizio;

per fare una newsletter – racconta Chiara Modini – è necessario un grande lavoro di persone qualificate per redigere i contenuti; attualmente questo servizio è offerto gratuitamente ai lettori, ma non sappiamo cosa succederà se verrà cambiata questa abitudine. Probabilmente c’è anche da aspettare un cambio generazionale, che tarda ad arrivare anche (e forse soprattutto) nel settore moda, più specificatamente in quello del trade. Attualmente – prosegue – abbiamo circa 23.000 sottoscrittori qualificati di newsletter, e ci stiamo chiedendo quanti confermerebbero l’iscrizione se il servizio diventasse a pagamento.

La risposta di Bertasso: “Mood magazine”

Nel 2000, lasciata la direzione e la proprietà di Fashion, Bertasso decise di cambiare rotta e fondò la rivista “Mood”, un trade magazine quindicinale, molto selettivo sul piano dei contenuti, della grafica e dell’immagine, con un taglio internazionale.

Già da qualche anno sentivo che era il momento di cambiare – racconta Bertasso – e lo avrei fatto comunque; l’aver poi ricevuto una proposta di acquisto per “Fashion”, finalizzata nel 1999, da parte di un importante editore internazionale, sicuramente mi ha fatto accelerare i tempi. Dovevo continuare a scrivere – continua – e ho deciso di iniziare un ulteriore percorso editoriale, questa volta non solo nel segno della moda, ma in quello più ampio del design, dell’arte e di tutti gli stili di vita dei giorni nostri.

La rivista si presentò da subito come fortemente innovativa, inizialmente con 18 numeri all’anno in due formati; da un lato il classico layout e dall’altro con notizie apparse sotto forma di reportage, il periodico assumeva la veste di tabloid a colori (chiamato “Mood poster”), perché era formato da doppie pagine, formato poster.

La rivista teneva visibilmente distinti i contenuti anche attraverso la qualità di carta; accanto a questa il magazine “Mood journal” riportava le notizie, per distinguere quest’ultime dalla parte più creativa, sofisticata, raffinata dei contenuti della rivista stessa.

La particolarità di “Mood” si evinceva anche già dall’immagine di coperta: “Non abbiamo mai utilizzato – ricorda soddisfatto Bertasso – le foto di qualche reportage di moda o di sfilate, per l’immagine di copertina, ma abbiamo sempre affidato il lavoro ad un artista, per crearle ad hoc, in modo che la rivista fosse costantemente rinnovata e unica nel suo genere”.

Nel 2009, la diffusione di “Mood” era di 23.000 copie con una percentuale di lettrici donne del 60% e una segmentazione dei mercati, in cui le vendite italiane rappresentavano il 40% del totale mondo.

Analisi dei numeri: “Fashion” negli anni

Una piccola premessa: le analisi che seguono sono frutto di un’ampia ricerca sui vari numeri, condotta presso la biblioteca dell’istituto internazionale Polimoda di Firenze, nei cui archivi, sono riuscito a reperire gli originali della rivista; solo sfogliandoli uno a uno ho potuto ricavare le notizie che seguono, evidenziando i cambiamenti, ma anche analizzando le rubriche che non sono mai scomparse. Aprendo ogni numero, oltre alla grande quantità di polvere, si ha la sensazione (almeno io ho provato questo) di ripercorrere la storia dell’industria di abbigliamento di quegli anni, come se fossimo lì, in quel periodo, a scrivere le pagine di quella storia; guardare le pubblicità o i figurini di brand con cui ho collaborato in passato, rivedere le facce giovani e rileggere i commenti di quelli che ora sono celebrità, punti di riferimento, veri e propri guru del settore, per un operatore come me, appaga di più di ogni altra cosa, sicuramente più del raggiungimento di un budget o di un obiettivo di distribuzione; ti fa sentire coinvolto da sempre, come se la tua professione fosse iniziata in anticipo rispetto all’anno effettivo.

L’analisi è volutamente realizzata con uscite a distanza di cinque – sei anni, in modo da poter comprendere come si è evoluta la rivista in più di quarant’anni, cosa è cambiato e cosa si è invece conservato fino ad oggi; all’interno di ogni anno in esame, ho preso in considerazione due, tre numeri dei momenti più rappresentativi, più “caldi” del settore. Ecco che di conseguenza, le riviste analizzate sono quasi tutte quelle uscite nei mesi di gennaio, febbraio, marzo (per la stagione di vendita autunno-inverno e per quella di sell-out primavera-estate) e luglio, settembre, ottobre (per la stagione di vendita primavera-estate e per quella di sell-out autunno-inverno).

Un’altra considerazione: quello che non è mai cambiato è il rapporto tra testi e immagini: con il tempo le ultime sono migliorate a livello qualitativo, ma non hanno mai prevaricato sulla parte scritta, lasciando al periodico un imprinting più business oriented che caratterizzato da pagine patinate.

Anche se l’articolo tratta la storia e l’evoluzione di “Fashion”, non poteva a mio avviso mancare una breve analisi di almeno un numero del suo antenato “G.T. Giornale Tessile”; grazie alla redazione della rivista, che mi ha offerto la possibilità di entrare negli archivi, sono riuscito a reperire proprio il primo, uscito nel novembre 1970.

Le copertine

Durante tutto il percorso di analisi, le varie copertine si presentano molto simili come concetto: vogliono sempre dare l’idea di una rivista di moda, a volte tramite le foto di presentazione di alcuni brand, altre tramite dei veri e propri collage di tessuti, immagini, volti e materiali del settore.

Il primo numero di “G.T. Giornale Tessile”

Il primo numero del settimanale porta la data 18 novembre 1970 e ha l’aspetto grafico caratteristico del quotidiano (il formato è di 41 x 29 cm); si capisce da subito che si tratta di un nuovo prodotto, già dal fatto che in prima pagina compare un editoriale di Gianni Bertasso con i progetti futuri della rivista. Subito sotto, a sostituzione dell’articolo di fondo, compare un pezzo titolato “Auguri al GT”, con il riscontro sulla nuova rivista di alcuni tra i più autorevoli rappresentanti di allora del mondo tessile e dell’economia.

Nella seconda pagina, invece, un vero e proprio bollettino delle lunghezze degli abiti acquistate dai dettaglianti, con una stima dei consumi, divisi per categoria merceologica.

In fondo a destra, il colophon, con i vari quotidiani delle edizioni Hennessen fuori dall’Italia, gli indirizzi e il costo dell’abbonamento annuale, che allora era di Lire 10.000.

I numeri di “Fashion”: dal 1983 al 2010

11) “Fashion” numero 653/54 del 14 novembre 1983.

Formato: 41,5 x 28 cm. La foliazione del numero in esame è di 41 pagine; trattandosi in questo caso di un supplemento alla rivista, tutto il numero non è altro che un sunto fotografico a colori delle collezioni primavera-estate 1984. In particolare, vengono prese in esame le varie passerelle del prêt-à-porter di Milano e le presentazioni del Modit, tramite l’inserimento nel fascicolo di foto a colori provenienti dai momenti salienti dei suddetti show.

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2) “Fashion” numero 673 del 9 marzo 1984.

Formato: 41,5 x 28 cm. Il numero in esame è visibilmente più ricco del precedente e la sua foliazione arriva a 166 pagine a colori.

Le prime 10, 12 sono dedicate alla pubblicità di alcuni brand, per poi passare alla pubblicazione di calendari degli avvenimenti più importanti della settimana delle sfilate milanesi.

Le pagine da 20 a 50 sono occupate da un piccolo sunto, realizzato tramite figurini degli stilisti sulle tendenze donna, autunno-inverno 1984-85.

Le pagine seguenti raccolgono tutta una serie di interviste e rubriche dedicate al sistema moda Italia e ai pareri dei dettaglianti più rappresentativi del panorama nostrano, compresi alcuni servizi che servono a fare il punto della situazione sulla distribuzione di abbigliamento, sia attraverso il canale mono che plurimarca.

Spazio ad altra pubblicità per poi riprendere il discorso con ulteriori figurini che riassumono lo stile di alcuni brand che non sfileranno in passerella, ma mostreranno i loro prodotti attraverso presentazioni.

Sul finire del numero, una breve sezione di attualità con le interazioni tra cinema e moda.

Le ultimissime pagine racchiudono invece il colophon della rivista, le possibilità di abbonamenti previsti, le offerte di lavoro da parte delle aziende e le richieste di collaborazione a cura di consulenti del settore: una vera e propria bacheca di annunci.

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3) “Fashion” numero 695 del 19 settembre 1984.

Formato: 34,5 x 26 cm. Come per il precedente numero, le prime pagine sono occupate dalla pubblicità. Dopo l’editoriale del direttore Bertasso si passa alla rassegna del tema del numero, ovvero i filati, con varie foto delle aziende che hanno presentato novità agli addetti ai lavori.

In questo caso le interviste vengono fatte a esperti del settore, ai proprietari di aziende di lavorazione del cotone, ai rappresentanti dell’industria serica e delle varie filature.

Ancora pubblicità intorno alla metà del numero e poi spazio alle recensioni di filati firmati dai vari stilisti, come Gianni Versace o Krizia.

Sul finire, tendenze a colori, poi l’attualità con in primo piano il mondo del cinema e la già citata ultima pagina con i contributi e la bacheca di annunci e offerte.4

4) “Fashion” numero 903 del 29 giugno 1989.

Formato: 28,5 x 22,5 cm. Nelle prime pagine compare sempre la pubblicità; nel sommario la prima differenza: accanto all’indice della rivista, uno spazio per le anticipazioni del numero successivo. La foliazione è di 180 pagine a colori, il costo di lire 4.500.

Questo numero è dedicato esclusivamente all’uomo e per questo tutti i dossier vanno in direzione di analisi al maschile; dalle fibre ai filati, ai mood, per finire con i tessuti e i capi venduti maggiormente in stagione (con migliori sell-out, per dirla in gergo).

Al centro, alcuni figurini e schizzi per evocare le tendenze per la futura stagione e un saggio su un tessuto estivo per eccellenza, il lino.

Poco oltre la metà, compare un piccolo inserto, sotto il nome di “G.T. Giornale Tessile”, con fatti di economia, finanza, commercio e industria del settore; in evidenza alcune interviste fatte a proprietari di aziende, mettendo in primo piano i numeri, quasi come si trattasse di un quotidiano economico.

Per finire le schede di alcune importanti realtà oltreoceano e la classica chiusura con la bacheca offerte e le informazioni sulla redazione.

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5) “Fashion” numero 918 del 14 dicembre 1989.

Formato: 28,5 x 22,5 cm. Il numero presenta più o meno le stesse caratteristiche del precedente preso in esame; trattandosi di un’uscita a cavallo tra il 1989 e il 1990, il focus è più o meno incentrato sull’anno che verrà, e quello che è stato, visto dagli occhi dei più autorevoli esponenti del settore di allora.

Anche in questo numero l’inserto economico a cura di “G.T”; le ultime pagine assomigliano più a un magazine tradizionale che a una rivista specializzata, in quanto vengono riportati consigli sui libri del mese, sulle mostre da visitare o alcuni suggerimenti di regali natalizi.

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6) “Fashion” numero 1085 del 7 gennaio 1994.

Formato: 28,5 x 22,5 cm. Prezzo, lire 5.000. Le prime pagine accolgono la pubblicità seguite dall’editoriale di Bertasso; il colophon compare all’inizio e non alla fine della rivista, come già analizzato negli altri numeri. Ancora tante interviste ai dettaglianti di riferimento, agli stilisti, ai direttori commerciali delle aziende. Dopo la metà, spazio ai nuovi trend e alle corrispondenze da New York o Parigi. La chiusura è sempre affidata all’angolo “Lavoro e Affari” con la bacheca degli annunci.

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7) “Fashion” numero 1108 del 22 luglio 1994.

Formato: 28,5 x 22,5 cm. Simile quasi completamente al precedente, con una foliazione di circa 60 pagine, il numero riporta un lungo articolo con i pareri dei buyer (compratori) sulle varie collezioni viste durante le fiere o in passerella. Le tendenze, nella parte finale della rivista, diventano sempre più a colori, dove le foto prendono quasi il sopravvento sulle didascalie. In chiusura una scheda sulle cravatte che andranno in stagione, un modo per leggere le tendenze attraverso uno dei più ricorrenti accessori maschili.

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8) “Fashion” numero 1281 del 19 febbraio 1999.

Formato: 28,5 x 22,5 cm. Prezzo, lire 6.000. Siamo ormai alle porte del nuovo millennio, che segnerà il cambio di proprietario della rivista con la conseguente uscita di Gianni Bertasso e il passaggio del timone al nuovo direttore Titti Matteoni. Sostanzialmente la veste del giornale non cambia di molto anche se dalle pagine della rivista si inizia a comprendere (dai vari articoli) che la crisi di settore sta per arrivare (se non è già presente). Le tendenze, inserite sempre nella parte centrale del numero, diventano più raffinate, più curate, grazie anche alla stampa digitale. Le ricerche e offerte del personale addetto ai lavori non occupano più le ultime pagine, anzi in questo numero viene creato un vero e proprio folder staccabile (chiamato “Fashion Service”) con tutti gli annunci non solo di risorse umane ma anche di compravendita, affitto di immobili per showroom, negozi.

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9) “Fashion” numero 1293 del 18 giugno 1999.

Formato: 28,5 x 22,5 cm. Sostanzialmente non ci sono grandi mutamenti, sia nella veste grafica che nei contenuti, rispetto al numero analizzato in precedenza. Salta subito agli occhi, un referendum dei buyer, con il giudizio dei dettaglianti sulle collezioni sportswear primavera – estate 1999, con varie domande tra cui quale è stata in stagione la collezione italiana e straniera che il consumatore ha apprezzato per la sua creatività; alla fine del servizio, i nomi delle persone che hanno collaborato all’inchiesta. Subito dopo, lo stesso tipo di domande sono poste a un altro anello della catena distributiva, i rappresentanti, sempre nell’ottica di mettere in comunicazione la filiera del prodotto moda, idea mai abbandonata da Bertasso.

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10) “Fashion” numero 1546 del 25 marzo 2005.

Formato: 28,5 x 22,5 cm. La guida del giornale è affidata a Titti Matteoni; il costo della rivista è di euro 4,50. Cambiano la grafica del logo e il sottotitolo della rivista che da “Fashion, il settimanale della moda italiana”, diventa “Fashion, il settimanale italiano della moda”.

Le prime pagine del giornale, sono il riassunto di tutte le notizie apparse sul sito della rivista www.fashionmagazine.it, divise tra la sezione “Finanza”, “Persone e Poltrone”, ”Pubblico e Privato” e “Nuove Vetrine”. Anche l’editoriale, dalla classica impostazione di Gianni Bertasso, assume una nuova veste, prendendo il nome di “Viceversa”; in poche parole, lo stesso argomento viene preso in esame sia dal direttore che da un esponente significativo, informato o coinvolto sull’argomento. Continuano i referendum dei buyer, per poi passare all’intramontabile angolo con le tendenze, divise per temi di stagione.

La sezione “Fashion Service” con gli annunci, torna a occupare le ultime pagine della rivista.

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11) “Fashion” numero 1563 del 29 settembre 2005.

Formato: 43,5 x 30 cm. Il numero in esame, in formato tabloid, è lo speciale sulle sfilate donna di Milano e Londra.

Il prezzo di copertina è di euro 4,50, anche se il tabloid viene distribuito gratuitamente; la rivista assume la veste di un quotidiano vero e proprio, con il titolo di prima pagina, una foto grande, l’articolo di fondo, la spalla, la testata, la manchette, ecc.. Rigorosamente a colori, con una foliazione di 16 pagine, si susseguono all’interno gli stessi contenuti analizzati nel numero appena discusso.

Essendo stato distribuito all’ingresso delle varie sfilate milanesi, sicuramente è risultato comodo ai lettori, perché leggero, facilmente fruibile e conservabile.

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12) “Fashion” numero 1757 del 23 luglio 2010.

Formato: 28,5 x 22,5 cm. Come ultimo numero in esame, un’uscita bilingue dedicata al mercato russo, naturalmente visto sotto la lente degli operatori del settore italiani. Nel frattempo, la rivista ha acquisito un’immagine sempre più ricca, forse per motivare anche il prezzo che è salito a euro 5.50.

Come per gli altri speciali mercati stranieri, anche in questo caso i contenuti sono interamente bilingue (Italiano e Russo), la foliazione è più o meno standard, circa 80 pagine.

Accanto alle varie interviste e referendum sul mercato in esame, spicca una particolarità che non può sfuggire a un operatore del settore: le pagine pubblicitarie, circa 24 sulle suddette 80, sono quasi nella totalità commissionate da brand che in Russia hanno storicamente una fetta importante di mercato o che se la stanno pian piano aggiudicando.

Altra curiosità; alcune delle citate pagine pubblicitarie sono fatte da importanti showroom italiani (principalmente di Milano) che rappresentano collezioni italiane con molto appeal sul mercato dell’Est Europa.

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Conclusioni, ovvero in quale contesto si è concepita questa analisi su Fashion e quali fini si è inteso perseguire

Personalmente, da sempre nutro forte passione per tutto ciò che ruota intorno al complesso mondo della moda; in questo mondo ho scelto di lavorare e lo faccio sempre non solo con impegno, ma anche in modo proattivo; forse, anche per questo mi è stata riconosciuta particolare attitudine; mi sono presto reso conto dell’importanza di poter disporre per il lavoro di uno strumento della portata della rivista “Fashion”.

A questo va aggiunto che da qualche anno mi sono avvicinato al giornalismo, occupandomi all’inizio in maniera prevalente di musica, arte e spettacoli; anche in questo intento (con particolare attenzione alla responsabilità di chi scrive e all’influenza che può esercitare) complessità e difficoltà d’approccio mi hanno fatto trovare affascinante questa professione, ormai intesa, all’alba di questo nuovo millennio, come voce garante nella trattazione di conoscenze specifiche, attenta ai valori condivisi, esigente di risposte chiare ed aperte dagli intervistati e verso i lettori, ma anche elitaria e talvolta al limite della deontologia professionale.

Ma le sfide impegnative di una doppia complessità mi stimolano: per questo ho scelto di cimentarmi in ambito di lavoro, sviscerando alcuni aspetti del rapporto di “vera simbiosi mutualistica” esistente tra moda e giornalismo, così come si evince nel prodotto, nei risultati e nell’evoluzione di “Fashion”, una delle più autorevoli riviste specialistiche del settore, nell’arco della sua storia lunga più di quarant’anni; ho, infatti, ritenuto il magazine oggetto meritevole, adeguato e stimolante per l’analisi condotta.

La rivista è certamente autorevole, anche perché il suo campo d’azione e le sue modalità possono dirsi pionieristici; inoltre, dalle ricerche condotte, al di là di qualche breve riferimento sul Dizionario della Moda, non risulta esserci altro materiale disponibile che prenda in esame il fenomeno di “Fashion” e del suo antenato “G.T. Giornale Tessile”; sembra pertanto che nessuno prima si sia cimentato in una ricerca storica e di analisi dei cambiamenti raccontati ed indotti da questa rivista, nell’arco della sua pubblicazione.

Per governare la doppia complessità sopra indicata si può ipotizzare di ricorrere a un modello (anche matematico) consistente in un sistema di due funzioni a più variabili: scopo di questo saggio è un apporto nel riconoscimento dell’esistenza di nuove variabili coinvolte, della loro correlazione con le altre e del loro peso; ovviamente, spetta a matematici ed informatici il compito di descrivere il sistema matematico e renderlo risolvibile.

E, allora, si è ritenuto fondamentale dedicarsi alle variabili, sia nella funzione moda che nella funzione giornalismo, ma nell’ottica di quanto può essere influenzato dalla funzione giornalismo.

Il mondo della moda vuol esser sintesi di costume, società, lavoro, bellezza e business; ma è anche altro, ossia analisi del mercato, dei cambiamenti, dei trend; più in generale, è studio dell’approccio alla vita sociale dei singoli individui, approccio che avviene inevitabilmente abbracciando uno stile, quello da ciascuno ritenuto a sé più consono (fondamentale pertanto l’individuazione delle variabili della funzione moda che influenzano la scelta di stile).

Ma anche la professione giornalistica può dare al meglio il suo contributo, curiosando, indagando, registrando, verificando, proponendo, analizzando, raccontando, mettendo in contatto, trasferendo ogni particolarità e diversità; questa attività è ormai linfa vitale del complesso mondo della moda!

E non basta: il giornalismo di moda, in particolare, deve anche saperne intuire le esigenze e proporsi in modo sempre più autorevole, costruttivo e di supporto, nonché in modo sempre più appetibile e facilitante (fondamentali anche le variabili della funzione giornalismo, che influenzano la scelta di stile)!

Queste, pertanto, sono le grandi sfide da raccogliere.

Ben venga, quindi, questo specifico tipo di giornalismo dedicato al campo della moda; nel presente ha l’obiettivo di apportare il beneficio di concrete proposte e suggerimenti, per ottimizzare il funzionamento della macchina moda; come optional, nel futuro saranno anche disponibili le tracce (ci auguriamo informatizzate) che avrà lasciato, circa le attività quotidiane espletate nello stesso mondo della moda, per far fronte a particolari esigenze e contesti di mercato (e non solo).

Come sappiamo, la Storia insegna (o almeno aiuta) a risolvere i problemi del presente: sarà così possibile riconoscere vizi e virtù del passato e metterli a frutto, grazie alla traccia lasciata da/su gli operatori della filiera del “Made in Italy”, soggetti spesso dotati di grande professionalità e ingegno!

Biografia

Matteo Minà, 30 anni, vive a Firenze. Con una laurea in Culture e tecniche del costume e della moda conseguita presso l’università di Bologna e una specializzazione in Fashion Marketing all’istituto internazionale Polimoda di Firenze, svolge l’attività di brand manager per maison del lusso nel settore abbigliamento. Giornalista, collabora con il settimanale “Fashion” e con il mensile “Tempi” dove si occupa principalmente di musica, moda, arte e spettacoli. matteomina.com twitter.com/matteomina

Biography

Matteo Minà, 30 years old, lives in Florence. With a degree in Cultures and techniques of costume and fashion from Bologna University and a specialization in Fashion Marketing at Polimoda International Institute of Florence, he works as Brand Manager for Luxury maison in the apparel industry. Also a Journalist, he cooperates with the weekly “Fashion” magazine and the monthly magazine “Tempi”, where he focuses on music, fashion, art and entertainment.

Bibliografia

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2003                Storia d’Italia. Annali, vol. XIX, La Moda, Torino, Einaudi, pp. 798-834.

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2008                Alla corte di re moda, Milano, Salani.

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“G.T. Giornale Tessile” numero 1-2 del 18 novembre 1970.

“Fashion” numero 653/54 del 14 novembre 1983.

“Fashion” numero 673 del 9 marzo 1984.

“Fashion” numero 695 del 19 settembre 1984.

“Fashion” numero 903 del 29 giugno 1989.

“Fashion” numero 918 del 14 dicembre 1989.

“Fashion” numero 1085 del 7 gennaio 1994.

“Fashion” numero 1108 del 22 luglio 1994.

“Fashion” numero 1281 del 19 febbraio 1999.

“Fashion” numero 1293 del 18 giugno 1999.

“Fashion” numero 1546 del 25 marzo 2005.

“Fashion” numero 1563 del 29 settembre 2005.

“Fashion” numero 1757 del 23 luglio 2010.

“Fashion Guide” anno 2010.

Siti consigliati

www.cameramoda.it

www.fashionmagazine.it

www.moodmagazine.net

  1. I primi anni la newsletter veniva mandata non prima delle 19.00; dal 15 ottobre 2007, la redazione ha anticipato l’invio, dal lunedì al venerdì, alle ore 18.00. []
  2. Con una nota ufficiale del 30 settembre 2010, Chiara Modini, in redazione dal 1988 e caporedattore dal 2001, è succeduta nel ruolo di direttore a Titti Matteoni, che ha diretto la rivista dall’uscita di Gianni Bertasso a fine settembre 2010. []
  3. Storica insegna di negozi italiani specializzati in tessuti.  []
  4. Meglio conosciuto come Gft, opera nel settore dell’abbigliamento. Nato nel 1930, nel 1954 viene rilevato dai fratelli Silvio e Piergiorgio Rivetti. Dal 1971, sotto la guida di Marco Rivetti, vengono siglati una serie di accordi con stilisti di prestigio, da Ungaro ad Armani, da Valentino a Massimo Osti. []
  5. Storico marchio di abbigliamento maschile, uno dei simboli del dopoguerra, del gruppo Gft, nato nel 1953.  []
  6. Storico negozio torinese di abbigliamento, situato nella centralissima piazza San Carlo. []
  7. Modo di tagliare e confezionare le maniche, che vengono unite al busto con una cucitura diagonale dalla base del collo all’ascella. Il nome da Lord Raglan (1788-1835), comandante inglese nella guerra di Crimea.  []
  8. Negozio milanese di abbigliamento fondato dalle sorelle Rosy e Adele Biffi negli anni 60. Il punto vendita storico, ancora oggi considerato uno dei più rappresentativi del settore, si trova nella città meneghina, in corso Genova. []
  9. Il primo numero di “G.T. Giornale Tessile” esce il 18 novembre 1970. []
  10. Fondata nel 1958, è l’associazione senza scopo di lucro che disciplina, tutela e coordina l’immagine della moda italiana e il suo sviluppo nel mondo. [http://www.cameramoda.it] []
  11. Via Durini, 24: sede storica dell’azienda, dove era presente lo showroom della maison. []
  12. Il primo invio di newsletter risale al 21 marzo 2002. []
  13. Spesso indicato con l’acronimo B2B, indica l’attività commerciale svolta tra aziende e non con il consumatore finale. []
  14. Fiera che si tiene a Berlino, specializzata nel settore urbanwear contemporaneo. []
  15. La principale caratteristica di questo modo di produrre è la velocità con cui vengono disegnate e lanciate sul mercato piccole collezioni, al ritmo di una ogni due, tre settimane. []