Gianluca Scroccu Il partito al bivio. Il PSI dall’opposizione al governo (1953-1963) Roma, Carocci, 2011, pp. 358

di Alessia Guerriero

 

 

 

 

 

 

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Il volume scritto da Gianluca Scroccu pubblicato da Carocci nel 2011, con il contributo della Fondazione Banco di Sardegna, si pone l’obiettivo di ricostruire la storia del partito socialista italiano in un periodo di transizione verso profondi cambiamenti che rendevano necessaria l’elaborazione di formule politiche originali in grado di rafforzarne la struttura organizzativa.

L’autore inizia la sua analisi partendo dalla riorganizzazione partitica del 1953, spingendosi fino al primo governo organico di centro-sinistra del 1963. La ricerca è intrisa di dettagli storici e politici frutto di un’accurata consultazione del materiale archivistico condotta presso: l’Archivio centrale dello Stato di Roma, l’Archivio storico del Senato della repubblica e della Camera dei deputati e le principali Fondazioni italiane: Lelio Basso, Pietro Nenni, Filippo Turati, l’Istituto Gramsci, l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza in Toscana. Le annotazioni di Scroccu – che bene si inseriscono nella definizione del processo di modernizzazione che investì l’Italia in quegli anni, sulla scia dei nuovi impulsi forniti dal socialismo democratico europeo – maturano alla luce dei nuovi modelli interpretativi dell’indagine storica e sociologica che lo studioso, con rigore metodologico, bilancia saggiamente.

Il primo capitolo dal titolo: “Un frontismo flessibile 1953-57” si apre all’insegna delle elezioni del 7 giugno 1953. Per comprendere la portata della svolta autonomista del Psi non si può prescindere dall’analisi dei rapporti tra socialisti e comunisti. In quel frangente il partito di Nenni decise di spostare il proprio asse politico dall’opposizione verso l’area di governo sotto la supervisione di Rodolfo Morandi, garante della svolta da attuare. Per mettere in pratica queste scelta di campo i socialisti ritenevano necessario superare l’organizzazione “centralista” con richiami leninisti, tipica del periodo dell’alleanza frontista con il Pci, sebbene tra i due partiti continuasse a perseverare il “gioco dei condizionamenti”.

Il ’53 vide impegnati gli autonomisti nella battaglia contro la legge maggioritaria varata dal governo degasperiano, ribattezzata “legge truffa”. Un’opposizione ferrea annunciata in occasione del XXX Congresso, tenutosi a Milano tra l’8 e l’11 gennaio di quell’anno. In questa sede così si espresse Nenni: “mala legge elettorale della coalizione clerico-moderata socialdemocratica”, concepita come punta avanzata di un processo di cambiamento politico italiano (p. 22). Come chiarisce Scroccu, l’emendamento era giudicato dai socialisti con ritegno poiché considerato strumento utile al governo democristiano per operare quella “delegittimazione del Parlamento” che celava torvi disegni reazionari. Il Psi col proposito di chiarire ai suoi elettori gli intendimenti che il provvedimento conteneva, in occasione delle manifestazioni di propaganda elettorale, decise di impiegare la proiezione delle filmine. Si trattava di mezzi propagandistici svecchiati da quell’impronta didascalica e monotona che li aveva fino ad allora contraddistinti, rinnovati nel contenuto semplificato, per risultare facilmente comprensibili ad un pubblico poco alfabetizzato. I nuovi interlocutori ai quali si rivolgeva il partito socialista, in quella continua ricerca di “attivisti”, erano i giovani e le donne. I primi rimasero in parte legati alla logica della stagione frontista; mentre le donne, più che per “convinzione ideologica”, si avvicinarono al partito con richieste di tipo assistenzialistico, spesso in cerca di una collocazione nel mondo del lavoro dei propri mariti; si legga in quest’ottica il movimento femminile sorto con difficoltà a Messina, del quale l’autore fornisce spunto (p.73).

Sebbene la “legge truffa” venisse approvata il 30 marzo del 1953, i simboli ed i mezzi impiegati per combatterla sortirono quasi certamente degli effetti, come scrive Scroccu questa “[…] non scattò per un soffio: la coalizione centrista, formata da Dc, Pri, Pli, Psdi, ottenne il 49,8% dei voti alla Camera, mancando di pochissimo il fatidico 50,01% […]; i socialisti ottennero il 12,75% dei voti, con 3.441.305 voti […]” (pp. 28-29). Un risultato che segnava il crescente divario con i comunisti che continuarono a seguire con grande interesse la strada battuta dai socialisti.

Le elezioni del ’53 segnarono una sostanziale riconferma del partito, l’unico elemento nuovo era rappresentato dal fallimento della legge elettorale degasperiana, un dato che acuì la crisi mettendo fine al governo centrista.

Il 10 febbraio del 1954 nasceva il governo Scelba-Saragat, fortemente avversato da Nenni e dal suo gruppo per la sua impronta autoritaria, anticomunista e fortemente discriminatoria. In questo contesto si svolse il XXXI Congresso socialista, del 3 aprile del ’55, sede in cui maturò l’esigenza di un rapporto con i cattolici. Il Psi abbracciando la distensione interna e internazionale si accingeva a riaprire il dialogo tra il movimento operaio e quello cattolico nel segno dell’unità delle sinistre, avanzando un neutralismo che riconosceva la legittimità della Nato in funzione strettamente difensiva.

Nonostante il legame ancora forte con l’Urss, i nenniani, cominciarono a guardare con interesse all’esperienza delle socialdemocrazie europee, con particolare attenzione al modello inglese, ridefinendo i rapporti con i comunisti italiani. Soltanto in seguito ai “fatti del ’56” Nenni, dopo aver accusato un duro colpo politico e morale, non esitò a stigmatizzare gli atti praticati dai sovietici nei confronti degli ungheresi, maturando quel netto distinguo dal Pci utile a impostare una linea programmatica che riflettesse le garanzie di libertà necessarie. Su questa scia deve essere interpretato l’incontro tra i due esponenti del socialismo italiano a Pralognan nell’agosto del ’56. In quella riunione Nenni avanzò l’ipotesi di un criterio graduale di avvicinamento tra le parti, consapevole del rischio che un’unificazione repentina e indefinita avrebbe potuto generare, caricando di disorientamento e ulteriori spaccature il gruppo (p. 114); si trattava di tentativi di riconciliazione rallentati da quei risentimenti che il segretario socialista definì nei suoi diari: “resistenze sentimentali” (p.117).

Nel secondo capitolo, “Il biennio incerto (1958-59)”, lo studioso analizza le politiche del 1958, che rispetto al ’53, confermarono per il Psi un “successo […] sostanzialmente uniforme, con le sole eccezioni negative nell’Umbria e nelle Marche, e in qualche area rurale. Più forte fu al Sud e nelle grandi città del Nord: a Milano […] passò dal 15,7% al 18,01% e a Torino dal 10,6 al 13,6%”, come afferma Maurizio Degl’Innocenti nella sua: Storia del PSI, vol. III, Dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1993 (n. 36, p. 152).

L’autore precisa che quel risultato rappresentava per i socialisti un lieve aumento dei consensi, anche se i tempi non erano ancora maturi per rovesciare i rapporti di forza all’interno delle sinistre. È interessante notare a tal proposito, come suggerisce Scroccu, che la dislocazione elettorale più omogenea, rispetto al ’53, contribuì a renderlo un “Partito compiutamente nazionale” (p. 184).

Questioni “correntizie” laceravano ulteriormente gli animi in casa socialista, gettando sul tappeto l’esigenza impellente di darsi una struttura più moderna che potesse far convivere al suo interno orientamenti differenti. Il Psi si caricava in tal senso di quella matrice liberaldemocratica che invocava conquiste di valore universale, ancora troppo lontane dalla comune condivisione, dimostrando un certo ritardo nell’evoluzione ideologica a causa dei condizionamenti dettati dal filosovietismo, in un momento in cui era chiamato a confrontarsi con le posizioni auspicate dalla Spd alla fine del ’59 nel Congresso di Bad Godesberg. In questa importante assise il partito socialdemocratico tedesco elaborò la portata del riformismo avviando l’attuazione della programmazione economica democratica che apriva ad un processo innovativo di riorganizzazione. Lo studioso rileva come la svolta della Spd contenesse una certa ambiguità: all’accettazione dell’economia di mercato si accostava infatti la volontà di compiere il passaggio con le dovute cautele dettate dal rispetto verso la tradizione politica delle sinistre, che non poteva essere rigettata in un solo colpo (p. 187).

In questa cornice storica, nel gennaio del 1959, si aprì il XXXIII Congresso del Psi. Nel corso del dibattito si fecero strada quegli elementi impliciti nell’orientamento democratico caldeggiato da Nenni: strumenti di pianificazioni e riforme utili alla regolazione dei processi economici che i socialisti avrebbero opportunamente sfruttato durante il governo di centro-sinistra. Le scelte autonomiste del congresso impegnarono il partito in un dibattito determinante che però non rifletteva ancora i termini di una svolta ideologica completa. A queste problematiche si sommavano poi quelle legate alla mancanza di finanziamenti, derivanti dalla frattura collaborazionista col Pci e dall’interruzione repentina dei proventi foraggiati dall’Eni di Mattei, il quale fu accusato di atti illeciti da parte di ambienti democristiani vicini a Sturzo. Emergeva, ancora una volta con forza, il tentativo mal riuscito dei socialisti di rendere chiara l’azione politica, mentre nel panorama italiano si affacciavano nuove sfide figlie del mutamento socio-economico.

Negli anni ’60 il Psi si misurò con due questioni dirimenti: la prospettiva del governo Tambroni di ridefinire la maggioranza con la partecipazione dei missini; e la necessità di indirizzare l’impegno verso la politica locale, in occasione della “campagna di tesseramento”. Argomenti approfonditi da Scroccu nel terzo capitolo: “Il magnifico e complicato 1960”. In questa fase, a seguito dell’allontanamento di Tambroni, venne designato il governo monocolore Dc retto da Fanfani con ampio sostegno parlamentare, detto di: “restaurazione democratica”. Era su questo che pesava in modo preponderante la responsabilità della svolta a sinistra che avanzava con il governo delle “convergenze parallele”; così definito da Moro per esprimere quella propensione verso obiettivi comuni condivisi dalle forze di centro-sinistra, pur nel rispetto delle identità di partito. L’esecutivo ottenne la fiducia alla Camera il 5 agosto del 1960 con 310 voti a favore e l’astensione di 96 deputati, tra i quali i socialisti. Il voto di astensione di questi ultimi, il primo dal lontano 1947, deve essere letto come la tangibile operazione di avvicinamento al governo, anche se “il prezzo da pagare era stata la spaccatura del gruppo alla Camera” (cit. p. 250).

Nel quarto ed ultimo capitolo, “Gli anni della costruzione del centro-sinistra (1961-63)”, l’autore effettua un’ulteriore disamina del rapporto tra socialisti e democristiani, sancito dall’importante convegno di S. Pellegrino del settembre 1961, organizzato da intellettuali cattolici quali: Achille Ardigò e Pasquale Saraceno. All’inizio del 1962 Moro sfruttando favorevolmente il nuovo clima, con il pontificato di Giovanni XXIII, mise in atto quegli strumenti di persuasione adeguati per incalzare l’immobilismo del sistema politico italiano e traghettare l’apertura ai socialisti, inviando un appunto di cinque pagine a cinquanta esponenti democristiani. Azioni riprese e approfondite con maggior vigore nell’VIII Congresso della Dc, del febbraio di quell’anno, quando il segretario democristiano prospettò l’allargamento della base di governo pur conservando un ruolo centrale al suo partito nella gestione della transazione.

Per comprendere gli stati d’animo di profonda incertezza che dilaniavano il Partito socialista risulta utile accennare brevemente a quella lettera che Pertini presentò nel 1961 al XXXIV Congresso, interpretata da Scroccu come: il tentativo, seppur ingenuo, di offrire un contributo alternativo alla logica antagonista prospettata dalle mozioni della corrente “Autonomista” e da quella congiunta di “Sinistra” e “Alternativa democratica”. Pertini dimostrò, come scrive l’autore, di aver colto “meglio di altri quella che era diventata la situazione interna […], a partire dal rischio di una possibile disgregazione […]” (cit. p. 279). Alla fine del 1962, in un clima di tensione che continuava ad agitare i socialisti in previsione delle imminenti elezioni, il Psi ottenne un grande successo decretato da due leggi significative: il provvedimento sulla scuola media unica e la legge n. 1745 sulla tassazione delle azioni quotate in borsa.

Il 1963 chiudeva le porte con due eventi di grande importanza storica: l’ingresso al governo di “centro-sinistra organico” dei socialisti, con Moro alla presidenza e Nenni suo vice, mentre si consumava l’ennesima scissione della minoranza in disaccordo con la scelta attuata. Come precisa Tamburrano – nella sua citata Storia e cronaca del centro-sinistra, nuova ed., Rizzoli, Milano 1990 – non vollero far parte del governo grandi personalità del calibro di La Malfa, Fanfani e Lombardi, dato che contribuì a indebolire notevolmente il centro-sinistra (n. 300, p. 345).

In quegli anni i limiti del Psi, dettati dalla mancanza di una certa maturità politica, minarono profondamente la capacità di concepire un’azione incisiva che privilegiasse soluzioni unitarie, indispensabili, a corrodere i consensi della base comunista per conquistare la leadership della sinistra. Il partito valutò infatti con criteri pregiudizievoli la cultura riformistica e socialdemocratica europea, senza rendersi conto che era quella la strada che stava percorrendo.