La nascita e i primi passi dell’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica (1945-1948)

di Massimiliano Paniga

 

Abstract

La nascita e i primi passi dell’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica (1945-1948) L’articolo concentra l’attenzione sulla fase iniziale dell’attività dell’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica, dalla sua costituzione, nel luglio 1945, sino al 1948. Fortemente voluta dalla classe medica per soddisfare le aspirazioni di autonomia dell’amministrazione sanitaria, la nuova istituzione si poneva a metà strada fra la semplice divisione ministeriale e la struttura propria di un Dicastero ed ereditava le funzioni della vecchia Direzione generale della sanità pubblica. Il saggio è fondamentalmente diviso in tre parti. Nella prima viene descritta l’organizzazione interna dell’Alto commissariato, con le relative competenze e gli uffici tecnico-amministrativi. In quella successiva, l’articolo tratteggia un quadro generale dell’attività dell’istituzione, dai rapporti con l’Unrra alla lotta contro le principali malattie sociali. Fra queste, l’ultima parte del saggio è dedicata al settore l’assistenza antitubercolare, la malattia probabilmente più pericolosa del tempo.

Abstract eng

The set up and the first steps of the High Commission for hygiene and public health (1945-1948) The essay focuses on the first part of the activity of the High Commission for hygiene and public health, from its set up, in July 1945, to 1948. The High Commission was between the simple ministerial division and the structure of a Ministry and it was one of the main objectives of the medical class to satisfy the aspirations of autonomy of the health administration. It took over the tasks of the old General Direction of the public health. The article is divided into three parts. The first one describes the internal organization of the High Commission, with its competences and its technical-administrative offices. The second part takes in consideration the general activity of the institution, from the relationship with Unrra to the struggle against the main social diseases. The last part of the essay, instead, is dedicated to the assistance to tubercolosis patients, the most dangerous disease of that time.

Bio

Massimiliano Paniga insegna Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Milano. Si occupa anche di storia delle istituzioni ed è autore di diverse pubblicazioni in tema di welfare ed enti locali. Di recente, ha pubblicato: Mario Berlinguer. Avvocato, magistrato e politico nell’Italia del Novecento, Milano, Franco Angeli, 2017.

Bio eng

Massimiliano Paniga teaches contemporary history at the University of Studies of Milan. He also deals with history of institutions and he’s the author of several publications on the Welfare state and local authorities. He has recently published: Mario Berlinguer. Avvocato, magistrato e politico nell’Italia del Novecento, Milan, Franco Angeli, 2017.

Nascita e organizzazione

Accanto alle inevitabili difficoltà economiche, politiche e di ricostruzione materiale all’indomani della seconda guerra mondiale, l’Italia presentava una condizione socio-sanitaria caratterizzata da numerose criticità. Particolarmente grave era il problema degli approvvigionamenti alimentari, con la quantità media giornaliera di calorie a disposizione di ogni cittadino inferiore della metà di quella, già limitata, del 1938. Se i dati sulla mortalità generale erano migliori rispetto all’anteguerra, non così favorevoli apparivano altri numeri relativi alle cause dei decessi. Secondo l’Annuario statistico italiano, la febbre tifoide continuava ad essere responsabile di un tasso di mortalità decisamente superiore alla media registrata dai paesi dell’Europa del nord (molto più simili erano invece le cifre degli stati che si affacciavano sul Mediterraneo). Fra le cosiddette malattie sociali, la tubercolosi restava di gran lunga la più pericolosa, specie sul fronte della morbilità, con i dispensari che lavoravano a pieno ritmo, mentre i sanatori e i reparti ospedalieri rigurgitavano di pazienti. Malgrado i progressi della terapia medica e chirurgica e l’utilizzo degli antibiotici, la malattia non aveva smesso di mostrarsi come un flagello sociale, raggiungendo proporzioni endemiche fra la popolazione infantile e meno abbiente. Tale contesto era aggravato dallo stato di precarietà degli ospedali, che, nel 1945, avevano una capacità ricettiva del 25% inferiore al 1939, e dei sanatori, dove, fra requisizioni e danneggiamenti vari, la percentuale di riduzione del numero dei posti-letto era addirittura più elevata.

Nel fosco quadro dell’Italia postbellica, un elemento di novità in campo sanitario fu rappresentato dalla costituzione, con il decreto luogotenenziale 12 luglio 1945, n. 417, dell’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica. Si trattava di un soggetto situato a metà strada fra la semplice divisione ministeriale e la struttura propria di un dicastero, fortemente voluta dalla classe medica per soddisfare le aspirazioni di autonomia dell’amministrazione sanitaria. Essa ereditava le competenze, esercitate ai sensi del testo unico del 1934, della soppressa direzione generale della Sanità pubblica, creata presso il ministero dell’Interno nel lontano 1888. L’ordinamento e le attribuzioni vennero disciplinati dal decreto legislativo del 31 luglio 1945, n. 446, che conferiva all’istituzione un ruolo centrale nella tutela della salute pubblica, nel coordinamento e nella vigilanza sulle organizzazioni sanitarie e sugli enti sorti con lo scopo di prevenire e combattere le malattie sociali. Sempre il decreto n. 446 faceva dell’Alto commissariato la sede del Consiglio superiore di sanità, e di ogni altro organo di natura consultiva in materia, e poneva alle sue dipendenze l’Istituto superiore di sanità e il controllo sull’attività della Croce rossa, dell’Onmi e dell’Istituto di malariologia “Ettore Marchiafava”. Alla testa della neonata struttura la legge collocava un alto commissario, che poteva essere affiancato da un alto commissario aggiunto e partecipare, su invito e senza diritto di voto, alle sedute del Consiglio dei ministri quando si discuteva di questioni sanitarie1.

Sul piano della logistica, l’Alto commissariato affidava a un Segretariato generale e a un ufficio di Gabinetto, retti entrambi da un responsabile e costituiti da un determinato numero di addetti e impiegati d’ordine, il coordinamento dell’intero ventaglio dei servizi. All’ufficio di Gabinetto, che aveva alle sue dipendenze il servizio ispettivo, medico, veterinario e chimico farmaceutico, era attribuita la trattazione degli affari sanitari più importanti, fra cui i rapporti con la presidenza del Consiglio dei ministri, con gli altri ministeri e con la Commissione alleata, quelli di carattere internazionale, la legislazione e la statistica sanitaria, il funzionamento del Consiglio superiore e dei Consigli provinciali di sanità, nonché il controllo sulla produzione dei medicinali.

Al segretario generale e al capo di Gabinetto la legge affiancava un ufficio degli Affari generali, personale e servizi amministrativi, suddiviso in tre sezioni “A”, “B” e “C”. Esso era diretto da un vice-prefetto ed espletava le proprie mansioni, di natura prevalentemente giuridico-amministrativa (pratiche di ragioneria, economato, di disciplina delle professioni sanitarie e delle farmacie), d’intesa e in stretta collaborazione con il Gabinetto.

Gli uffici sovrintesi da funzionari medici erano, invece, 9, di cui 4 “staccati”, distinti con le indicazioni “A”, “B”, “C” e “D”, e 5 di altro genere. Il primo degli uffici staccati era sorto in conseguenza degli eventi bellici e si occupava dei molteplici servizi relativi al soccorso e all’attività assistenziale e di ricostruzione dell’Unrra. Il “B” atteneva al disbrigo degli affari concernenti la vigilanza sanitaria alle frontiere di terra e di mare, agli aeroporti, l’igiene e l’assistenza a bordo delle navi e delle aeromobili, ecc, mentre gli uffici “C” e “D” avevano il compito di trattare rispettivamente degli affari medico-legali e dell’applicazione delle leggi e dei regolamenti delle acque minerali, degli stabilimenti termali, degli impianti di terapia fisica, radiologia e radiumterapia.

I restanti 5 uffici avevano caratteristiche più tecniche. L’ufficio Igiene e profilassi delle malattie infettive era diviso in due sezioni, con la “A” che trattava le questioni riguardanti l’igiene del suolo e il controllo sulle bevande e gli alimenti e la “B” l’intera materia concernente la profilassi e l’esistenza delle malattie infettive contagiose. Molta importanza rivestiva l’ufficio delle Malattie sociali, che dirigeva i vari servizi profilattici e assistenziali per la malaria, la tubercolosi, le malattie veneree, i tumori e, in generale, tutte le manifestazioni morbose di una certa rilevanza sociale. All’ufficio Assistenza sanitaria era affidata, a sua volta, la vigilanza sull’attività dell’Onmi e delle istituzioni similari, sugli ospedali pubblici e sulle case di cura private, sugli ambulatori dei medici condotti e sull’igiene scolastica e infantile. Dei prodotti e delle specialità medicinali si occupava un ulteriore ufficio, distinto in due servizi, che affrontavano la questione rispettivamente sul piano tecnico e giuridico-amministrativo (un’apposita sezione dello stesso attendeva alla distribuzione dei medicinali e del materiale sanitario fornito dagli alleati). All’ultimo ufficio erano assegnate funzioni di interesse veterinario, in particolare nei suoi riflessi sulla salute dell’uomo e sul patrimonio zootecnico nazionale. Fra le sue competenze figuravano i rapporti con l’estero riguardanti le malattie del bestiame, e la loro profilassi e cura, l’operato delle stazioni zooprofilattiche e il controllo igienico della produzione di sostanze alimentari di origine animale (Bergami, Perrotti 1944-1945, 5-7).

Il consiglio di amministrazione dell’Alto commissariato era presieduto dall’alto commissario o, in sua assenza, dall’alto commissario aggiunto, ed era composto dal segretario generale, dai direttori generali, dal capo del personale e dal direttore generale dell’Istituto superiore di sanità. Il personale poteva essere scelto fra i funzionari dell’amministrazione dello stato e non e il relativo trattamento economico era regolamentato dagli articoli 1 e 3 del decreto legislativo 17 novembre 1944, n. 335 (qualsiasi modifica alla pianta organica, compreso il reclutamento di personale avventizio, doveva trovare fondamento in un nuovo decreto luogotenenziale, dietro proposta del presidente del Consiglio). A tal proposito, il termine del conflitto mondiale costrinse l’Alto commissariato ad affrontare subito il problema della riorganizzazione dei propri dipendenti, con il riesame di numerose posizioni, che condusse al reintegro e alla riammissione in ruolo di coloro che erano stati dimessi per motivi razziali. Il tutto, contestualmente al processo di epurazione che finì per investire, pur con i suoi difetti, anche la neonata istituzione. Accanto ai funzionari amministrativi, in una posizione più precaria, stavano le assistenti sanitarie visitatrici e le ostetriche provinciali, assunte negli anni precedenti e la cui posizione era in corso di definizione.

Secondo l’articolo 12 del dll n. 446, le spese di funzionamento dell’Alto commissariato, dei suoi organi periferici e dell’Istituto superiore di sanità erano a carico del ministero del Tesoro, che, per l’esercizio 1945-46, avrebbe ricevuto le risorse necessarie da un apposito storno dei fondi iscritti nello stato di previsione di spesa del ministero dell’Interno.

Sin dalle prime battute, emerse con una certa evidenza quanto le esigenze di autonomia, manifestate largamente dalla classe medica italiana attraverso congressi e pubblicazioni varie, avessero trovato solo in parte una reale soddisfazione. La legislazione poneva, infatti, l’Alto commissariato alle dipendenze della presidenza del Consiglio, a cui spettava la nomina dell’alto commissario. Invariate restavano le funzioni esercitate in ambito locale dai prefetti, quale massima autorità sanitaria provinciale, accanto ai quali agivano il medico provinciale e il Consiglio provinciale di sanità, mentre in ambito comunale il sindaco e l’ufficiale sanitario. Tutto questo con l’eccezione della Sicilia, dove era in vigore un ordinamento differente stabilito dal governo militare alleato, che aveva distaccato gli Uffici provinciali sanitari dalle prefetture e attribuito ai medici provinciali il carattere di autorità sanitaria indipendente. Pertanto, si era creata una situazione nelle regioni continentali e in Sardegna alquanto anomala: mentre al centro l’autorità sanitaria era autonoma dal ministero dell’Interno, sul territorio i medici provinciali rimanevano alle dipendenze dei prefetti, ossia degli organi periferici dello stesso ministero dell’Interno. Altra incongruenza era determinata dalla disposizione che lasciava sempre al Viminale, e per esso ai prefetti, i poteri di vigilanza e tutela sugli enti di assistenza ospedaliera, istituzioni dalla natura chiaramente sanitaria.

Insomma, l’ordinamento commissariale non poteva che considerarsi di carattere transitorio, in attesa di una completa autonomia e unificazione dei servizi sanitari, molti dei quali dipendevano ancora da diversi dicasteri. Un’unità d’azione nel settore, da più parti sollecitata sin dall’immediato dopoguerra, verrà raggiunta soltanto sul finire del decennio successivo, nel 1958, con la nascita del ministero della Sanità e la chiusura dell’esperienza dell’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica. In questa fase, il legislatore e le circolari dell’Acis limitarono viceversa i propri interventi al riordino degli uffici e dei servizi della nuova amministrazione sanitaria, nel tentativo di migliorarne il funzionamento.

Si inserisce, in questa direzione, il decreto legislativo 8 maggio 1948, n. 1204. L’articolo 1 istituiva una direzione generale dei Servizi medici, mentre il resto delle disposizioni ridefiniva nel dettaglio i ruoli organici del personale tecnico, che finì per contare oltre 1.000 dipendenti fra medici, veterinari, chimici farmacisti, assistenti sanitarie visitatrici, agrari, ecc. Al provvedimento fece seguito un’ordinanza emessa dall’ente il 1° settembre, con la quale venne stabilita la ripartizione degli uffici e dei servizi e i compiti dell’Alto commissariato.

L’immediato dopoguerra

Nominato dal governo Parri, e poi confermato da De Gasperi sino al febbraio 1947, il primo alto commissario per l’igiene e la sanità pubblica fu Gino Bergami, un fisiologo di Lecce, già sottosegretario all’Agricoltura nel 1944 e direttore del Centro dell’alimentazione del Cnr. In qualità di alto commissario aggiunto venne scelto il socialista Nicola Perrotti, noto psicanalista di origini abruzzesi2. I due assunsero l’onere di guidare in questa fase iniziale l’Alto commissariato, costretto ad affrontare i numerosi problemi che si imposero al termine del conflitto, in buona parte ereditati dalla vecchia direzione generale di Sanità pubblica. Fra i più urgenti, accanto alla ricostituzione del Consiglio superiore di sanità e dei Consigli provinciali di sanità, troviamo la disciplina dei rapporti con gli alleati e dell’intera macchina organizzativa dei soccorsi da questi creata. La Commissione alleata di controllo, con il compito di sovrintendere l’intera vita amministrativa del Regno, aveva infatti istituito, per ogni ramo di attività, una sottocommissione. Quella alla salute pubblica, diretta dal brigadiere G. S. Parkinson, intrecciò da subito la propria attività con l’omologa direzione del ministero dell’Interno prima e con l’Alto commissariato in seguito, gestendo in collaborazione, a quanto risulta senza attriti di rilievo, una serie di complesse questioni che riguardavano la salute delle forze armate alleate e della popolazione civile italiana, la lotta contro la malaria e le malattie veneree, la profilassi di patologie infettive, vedi la tubercolosi, e la distribuzione dei medicinali forniti dagli anglo-americani.

Con riferimento agli aiuti degli alleati, fondamentale importanza assumeva il programma attuato dall’Unrra (United Nations Relief an Rehabilitation Administration), al quale l’Italia era stata ammessa nel settembre 1944. L’attività dell’organizzazione era entrata concretamente in funzione nel marzo 1945, mettendo a disposizione del nostro paese 50 milioni di dollari, in prevalenza di generi alimentari, secondo un piano dei fabbisogni della popolazione italiana elaborato nei mesi precedenti dalla direzione di Sanità3, per l’occasione rafforzata da un apposito ramo di servizio composto da personale tecnico, amministrativo e d’ordine. L’accordo firmato tra il governo italiano e l’Unrra prevedeva la cura e l’alimentazione dei bambini poveri, delle madri lattanti e gestanti, l’assistenza dei profughi italiani e stranieri residenti in Italia, il rifornimento di medicinali e merci, ecc. A sua volta, l’esecutivo si era impegnato a contribuire alla causa sempre con una somma di 50 milioni di dollari, recuperata nel bilancio del ministero del Tesoro.

L’intesa contemplava una visita Unrra in Italia, allo scopo di collaborare con il governo all’esecuzione delle clausole contrattuali, la formazione di una delegazione italiana per i rapporti con l’Unrra, come soggetto di collegamento fra la missione e l’amministrazione pubblica, e di un comitato misto, costituito da una rappresentanza del governo italiano e dell’organizzazione internazionale, finalizzata allo studio e alla formulazione di nuovi accordi. E proprio nel gennaio 1946 venne firmata un’intesa supplementare che assicurava un più vasto programma di rifornimenti di varia natura (viveri, combustibili e materie prime) e un allargamento della platea dei beneficiari, consentendo all’Italia di disporre di ulteriori 450 milioni di dollari.

Gli aiuti, debitamente immagazzinati e poi smistati sul territorio, venivano distribuiti dai Comitati provinciali4, secondo precise disposizioni5 stabilite dalla collaborazione fra la missione alleata e l’Alto commissariato, che avevano il compito di ispezionare, attraverso visite di personale tecnico, l’attività degli stessi comitati. L’assegnazione dei quantitativi di materiale era proporzionata al numero degli abitanti, al grado di danni subiti dalla guerra e, in alcune circostanze, a determinati criteri epidemiologici di malattie sociali ed endemiche quali, ad esempio, quelle veneree. A Roma operava una commissione interalleata, incaricata dell’esame delle domande, del controllo e del medicamento dei malati.

Al giugno 1946, risultavano inviati dall’Unrra, e materialmente consegnati, aiuti per oltre 4 milioni di dollari, per la maggior parte lenzuola, federe, asciugamani e olio di fegato di merluzzo. A ciò si aggiungevano quasi 220 milioni di unità di insulina, 85 autoambulanze, 3.968 flaconi di vaccino antipeste, 39 microscopi e 160.000 kg di sapone da bucato e da bagno (Bergami, Perrotti 1944-1945, 15-24). Numeri superiori rispetto all’operato, ugualmente lodevole, dell’Endsi, che, supportato dall’ausilio di un ispettore generale medico, degli ufficiali sanitari e dei medici condotti dell’Alto commissariato, aveva il compito di distribuire alla popolazione civile i soccorsi inviati dall’American Relief for Italy6 e dallo stato italiano ovvero pervenuti da lasciti e donazioni di stati, enti vari e privati.

D’intesa con i rappresentanti dell’Unrra, l’Alto commissariato procedette all’assistenza medico-chirurgica dei profughi e dei dislocati stranieri in Italia e alla formazione di commissioni di studio su problemi di interesse sociale (alimentazione, tubercolosi, malaria), nonché allo svolgimento, in alcune sedi universitarie, di corsi di aggiornamento della professione medica, alfine di un migliore utilizzo dei supplementi alimentari, scopo per il quale furono pubblicati degli opuscoli. In particolare, l’adozione di misure profilattiche e di assistenza sanitaria ai profughi e ai connazionali rimpatriati dall’estero, per non rischiare la diffusione di malattie infettive, costituiva una delle preoccupazioni maggiori del dopoguerra. Sin dal gennaio 1944 il governo italiano, limitatamente alle zone amministrate, aveva emanato una serie di direttive con l’intento di disciplinare i soccorsi ai profughi, spesso affetti da forme tubercolari bisognevoli di cure sanatoriali7. Nelle riunioni di coordinamento effettuate con gli altri soggetti interessati (Alto commissariato per i profughi di guerra, Alto commissariato prigionieri di guerra, Croce rossa, ministeri della Previdenza sociale e del Tesoro, ecc.) emerse l’importanza del ricovero dei tubercolotici e dell’assistenza a loro fornita, ventilando la possibilità, fra l’altro, di formare un centro poliambulatoriale al confine e dei luoghi appositi, lungo la rete stradale e ferroviaria, di bonifica dei profughi durante il loro viaggio di rimpatrio al comune di origine (Bergami, Perrotti 1944-1945, 25-27).

Nel complesso, nonostante le condizioni di disagio determinate dalla guerra, i danneggiamenti dei centri abitati e la carenza igienico-alimentare, la situazione epidemiologica della nazione non presentava aspetti di eccessiva gravità. Gli episodi di tifo e di vaiolo che avevano colpito le zone dell’Italia meridionale nel biennio 1944-45 si erano rivelati piuttosto miti e di bassa intensità, tanto da coinvolgere, in certe province, soltanto l’1% della popolazione8. Benché non fosse di sua stretta competenza, l’Alto commissariato assunse, in forma integrativa e solo per l’urgenza del momento, anche gli obblighi finanziari degli enti (province, comuni, imprese ed enti locali) che, per legge, avevano competenze nel settore della lotta antimalarica, esulando dalle funzioni di coordinamento esercitate in collaborazione con il medico provinciale. La curva della malattia, culminata nel 1945 con 411.602 casi e 386 decessi, si ridusse notevolmente nel 1946 e ancor più l’anno successivo.

Connessa ai rapporti con gli alleati era la questione dell’organizzazione sanitaria periferica e soprattutto della fisionomia che il settore aveva assunto in Sicilia, dove gli anglo-americani, lo si accennava poc’anzi, avevano introdotto una riforma dall’impronta marcatamente indipendentista. Con l’ordine ufficiale n. 9 del 1° novembre 1943, gli Uffici sanitari provinciali dell’isola erano stati resi autonomi, con decorrenza dal 1° gennaio dell’anno successivo, sia sotto il profilo tecnico che amministrativo, mutandone altresì la denominazione in “Uffici provinciali di sanità pubblica”. Questi ultimi dovevano promuovere le attività inerenti alla profilassi, all’igiene, agli ordinamenti sanitari delle provincie e alle relative opere pubbliche ed esercitare funzioni ispettive, di controllo e di coordinamento su tutte le istituzioni locali, statali e private a carattere sanitario. Gli uffici erano composti da cinque divisioni che assorbivano l’intero ventaglio di servizi di competenza della provincia: il Laboratorio d’igiene e profilassi, il Consorzio antitubercolare e quello antimalarico, l’Ente anti-tracomatoso e l’Opera nazionale per la maternità e l’infanzia. Il sistema predisposto dagli alleati continuava a prevedere, accanto a tali uffici, la figura del prefetto, che presiedeva, in qualità di delegato del governo, il Consiglio sanitario provinciale e doveva essere informato di ogni situazione inerente la salute e l’igiene pubblica, dai provvedimenti adottati ai programmi da attuare in campo profilattico e assistenziale9. Il coordinamento e il controllo degli Uffici provinciali e di tutte le istituzioni, incluse quelle private, a carattere sanitario della Sicilia spettava alla direzione regionale della Sanità pubblica, istituita il 6 gennaio 1944 e avente sede a Palermo.

La sanità siciliana doveva fungere da modello per una riforma complessiva in ambito centrale. L’organizzazione promossa dagli alleati era stata, infatti, oggetto dello studio di una commissione presso l’Acis, istituita con decreto ministeriale il 28 febbraio 1945, il cui lavoro avrebbe dovuto costituire la base per un successivo aggiornamento delle disposizioni legislative vigenti. Esse si reggevano ancora sul testo unico n. 1265 del 27 luglio 1934 e sul regolamento sanitario approvato con decreto 3 febbraio 1901, n. 45, contraddistinti da principi politici ormai sorpassati rispetto agli sviluppi tecnici e scientifici del tempo. La commissione di studio, ennesima dimostrazione della consuetudine, pressoché tutta italica, di creare organismi ad hoc per riformare, quasi sempre senza successo, determinati settori dell’amministrazione pubblica, venne presto affiancata dalla V sottocommissione del ministero della Costituente (Ministero della Costituente 1946, 171-193; Franchetti, Garaci, Tamborlini, Cataldi 1946, 159-197). Nell’ottobre 1946, sostenuta dall’Acis, fu la volta dell’iniziativa del gruppo medico parlamentare, formatosi in seno all’Assemblea costituente, di indire un referendum interno alla categoria sui principali problemi riscontrati dal settore. I risultati vennero resi noti nell’estate seguente e mostrarono come il presupposto-base di una riforma restasse quello dell’autonomia dell’amministrazione sanitaria, che doveva essere indipendente e distinta dal potere esecutivo (con la creazione, quindi, di un ministero per l’Igiene e la sanità pubblica) e in grado di assicurare un minimo di assistenza a ogni cittadino, secondo le moderne esigenze della medicina, eliminando la disparità fra le classi sociali (Garaci 1948, 40-42).

L’argomento suscitava l’inevitabile, e spesso contrastante, interesse dei partiti politici, già protagonisti, qualche mese addietro, di accese discussioni attorno alla genesi del decreto n. 446. In generale, sin dalla guerra di liberazione si svolse un vivace confronto politico e nella pubblicistica di settore, che vide coinvolto a vario titolo l’Alto commissariato. Se le sinistre spingevano per una modernizzazione della sanità pubblica, introducendo elementi di razionalizzazione e di coordinamento, l’ala governativa più moderata appariva preoccupata di non ledere eccessivamente gli interessi ivi registrati dal mondo cattolico (Luzzi 2004, 116-117; Cosmacini 1994, 109).

Una delle iniziative più significative fu il progetto di riforma ideato dall’igienista Augusto Giovanardi su incarico dalla consulta veneta di Sanità del Comitato di liberazione nazionale. Pur rimasto sulla carta e accolto con freddezza dagli igienisti italiani riunitisi a convegno a Firenze nell’ottobre 1946, il documento conteneva degli elementi innovativi, che unificavano i servizi di assistenza sanitaria, smarcandone l’azione dal potere prefettizio e garantendone una migliore distribuzione territoriale, con la creazione di una capillare struttura periferica e di un ministero della Sanità posto al vertice della piramide organizzativa.

Sul punto ebbe modo di esprimersi anche la Commissione per la riforma della previdenza sociale presieduta dal socialista Ludovico D’Aragona. Il documento finale, nell’auspicare una rivisitazione del sistema previdenziale di stampo tendenzialmente universalista, con la progressiva unificazione dei numerosi enti creati durante il fascismo, dedicò alla sanità un capitolo che invitava a estendere l’assicurazione di malattia a tutti i lavoratori, dipendenti e autonomi, e le prestazioni sanitarie ai familiari delle persone assicurate e ai pensionati.

Il fallimento della Commissione D’Aragona, secondo Severino Delogu, testimone diretto di quel tentativo, finì per condizionare il dibattito in questione e produrre «rilevanti ripercussioni per oltre un quindicennio», nel quale si assisterà al rafforzamento del sistema mutualistico, in linea di continuità con il recente passato, incrementando le rendite dei gruppi professionali più forti e il potere dell’industria farmaceutica (Delogu 1976, 10). Le responsabilità del governo di una simile evoluzione dell’organizzazione sanitaria italiana verranno ammesse, diversi anni più tardi, da Benigno Zaccagnini, medico e futuro segretario della Democrazia cristiana, che affermerà come l’occasione persa della Commissione D’Aragona avesse posto il partito cattolico davanti a un bivio:

fare la riforma e, quindi, modificare dalle fondamenta le strutture della nostra organizzazione sanitaria, oppure estendere l’area di intervento della mutualità a macchia d’olio con l’intento di far scoppiare dall’interno del sistema mutualistico tutte quelle contraddizioni che poi in una fase successiva avrebbero consentito di fare la riforma di struttura (Delogu 1976, 40-41).

La scelta cadde appunto sulla seconda soluzione, con le conseguenze di cui si diceva. Quando poi fu approvata la Costituzione repubblicana, e con essa l’articolo 32 sulla tutela della salute, il tema della sanità pubblica, per la verità meno dibattuto in Assemblea di altri argomenti, si arricchì di ulteriori fattori in rapporto alla nuova struttura dello stato italiano e, nello specifico, alle attribuzioni conferite all’ente regione (Geraci, Canaperia 1948, 168-182).

Uno dei contrasti più spinosi del periodo riguardava la ricostituzione degli ordini professionali, soppressi nel 1935 e le cui funzioni erano state assorbite dalle varie associazioni sindacali fasciste. La caduta del regime e lo scioglimento di tali organizzazioni avevano spinto le categorie interessate a una spontanea rinascita degli ordini, che però esigevano una regolamentazione giuridica, non potendo fare affidamento, perché abrogate, sulle disposizioni preesistenti al 1935. Tali norme, limitatamente alle professioni sanitarie, vennero ripristinate, con alcune modifiche, nel settembre 1946 e seguite da una circolare dell’alto commissario che ne esplicitava nel dettaglio i contenuti.

Alquanto critiche apparivano le condizioni del settore ospedaliero sia per i danni causati dalle incursioni aeree nemiche sia per le requisizioni effettuate dagli eserciti alleati. L’insufficienza di strumenti, di materiale di medicazione, di medicinali e biancheria, unitamente a dei bilanci amministrativi spesso in deficit, non consentiva agli ospedali di svolgere in maniera adeguata l’assistenza sanitaria. Per venire incontro alle loro necessità, l’Alto commissariato, oltre ad assegnare le forniture più urgenti, cercò, seppur vanamente, di premere sul ministero del Tesoro per ottenere dei contributi straordinari. Gli stessi stanziamenti forniti dall’Alto commissariato non riuscivano a raggiungere tutti gli ospedali richiedenti e, quando ciò avveniva, risultavano inadeguati ai bisogni (la cifra complessiva erogata al dicembre 1945 ammontava soltanto a 5 milioni di lire a fronte di una domanda ben superiore ai 200 milioni). A tal fine, venne interessata pure la direzione generale dell’Amministrazione civile, che concesse sussidi ad alcune strutture meridionali per un importo totale di 20 milioni. Qualche miglioramento iniziò a intravedersi nella seconda metà del 1947, quando le statistiche ufficiali registrarono un aumento di 200 unità ospedaliere, per un complesso di circa 8.000 posti-letto.

L’Alto commissariato concentrò la propria attenzione anche sulla questione del personale dipendente. La durata del conflitto e il blocco dei concorsi attuato nel 1940 avevano duramente condizionato l’organizzazione ospedaliera, provocando una riduzione degli organici. Pertanto, l’Alto commissariato si premurò di richiedere alla presidenza del Consiglio non tanto la cancellazione della sospensiva, molto difficile da ottenere nell’immediato, quanto una deroga, che consentisse la celebrazione di alcuni concorsi rimasti inevasi, ma già banditi al principio della guerra10.

A proposito di concorsi, la conclusione delle operazioni militari pose all’attenzione dell’Alto commissariato la situazione di quei connazionali che, a causa dei provvedimenti di espulsione dalle colonie, avevano perso i loro esercizi farmaceutici. Non potendo aderire, data la legislazione vigente, alla domanda di trasferimento delle sedi, fu raccomandato ai prefetti di assegnare alle persone coinvolte delle farmacie provvisorie in attesa dello svolgimento dei concorsi pubblici. Il tutto per ovviare alle carenze di un servizio fortemente colpito dai bombardamenti (Bergami, Perrotti 1944-1945, 136-142).

La carenza di personale, costituiva una grossa preoccupazione per l’Alto commissariato. Questo, nell’estate 1945, poteva contare, per ciò che riguardava i servizi amministrativi, soltanto su 57 elementi, di cui 16 funzionari di gruppo “A” e 6 di gruppo “B”, 25 impiegati di gruppo “C” e 10 subalterni, tutti dipendenti dall’amministrazione civile dell’Interno. Si trattava di un numero inadeguato alle responsabilità dell’istituzione e inferiore all’organico presente presso la soppressa direzione generale di Sanità. Sulla questione pesavano non poco i procedimenti di epurazione in corso, in seguito all’esame della posizione dei sanitari e degli impiegati tecnici di ruolo, secondo le norme contenute nei decreti legislativi n. 159 del 27 luglio 1944 e n. 702 del 9 novembre 194511. Davanti a un contesto oggettivamente difficoltoso, Bergami inviò alla presidenza del Consiglio la richiesta di assunzione, in via avventizia, di nuovo personale o di un distaccamento da altre amministrazioni delle figure professionali necessarie. Si trattava, in totale, di 197 unità, così distribuite: 134 funzionari e impiegati, da assegnare ai servizi amministrativi centrali e periferici (95 agli Uffici sanitari provinciali), e 63 tecnici da impiegare in forma avventizia e destinati a integrare il personale di ruolo12. La presidenza del Consiglio dei ministri, un po’ a sorpresa, rispose in maniera positiva all’istanza, predisponendo uno schema di decreto poi inviato al ministero del Tesoro, assieme all’invito ad espletare la pratica con celerità. A questo punto, si aprì uno scontro fra la presidenza del Consiglio, appoggiata dall’alto commissario, e il ministero del Tesoro, che considerava esagerata la richiesta e indispensabile un suo riesame, al fine di ridurre al minimo l’aumento di organico. Il decreto venne ripresentato dall’esecutivo nell’identica maniera, anche perché, nel frattempo, la situazione aveva subito un peggioramento, tanto che l’Acis spesso non riusciva ad assicurare il normale andamento del servizio. Il provvedimento governativo continuava a non considerare eccessivo il personale richiesto, soprattutto a fronte dei 95 elementi destinati agli uffici periferici. Non solo, la sproporzione fra amministrativi e tecnici, a svantaggio dei secondi, veniva meno ove si pensava che l’Alto commissariato non aveva in pianta organica uno specifico ruolo amministrativo. Per cui sommando alle unità tecniche sollecitate quelle già a disposizione si raggiungeva la logica e necessaria prevalenza del personale tecnico. Le motivazioni addotte dalla presidenza del Consiglio e dall’Acis finirono per convincere il ministero del Tesoro, che acconsentì alla promulgazione del decreto il 21 dicembre 1946. Tuttavia, la vicenda non costituì una sconfitta per l’istituzione di via XX settembre giacché il personale in questione venne reperito da altre amministrazioni in esubero (ministero dell’Africa italiana) o soppresse (sottosegretariato per la Stampa, spettacolo e turismo), riuscendo a contenere, in tal modo, il carico economico entro limiti accettabili13. In seguito, fra il luglio 1948 e l’ottobre 1949, ulteriori 40 dipendenti del ministero dell’Africa italiana, impiegati e dirigenti, seguirono la stessa sorte, andando a coprire quelle esigenze di incremento dell’organico che l’Alto commissariato non smise mai di invocare14.

Pressoché nel medesimo periodo giunse a termine la questione della ricostituzione del Consiglio superiore di sanità, sospeso durante il conflitto dopo le numerose critiche che aveva attirato negli ultimi anni perché considerato un organismo pletorico e incapace di fornire un apporto di competenze significativo (per ovviare a questo inconveniente il decreto luogotenenziale 22 marzo 1945, n. 136 aveva costituito una Commissione centrale di sanità, mai entrata in funzione). La mancanza di un soggetto da affiancare all’azione dell’Alto commissariato e la ricomposizione, lenta, ma costante, dei Consigli provinciali di sanità15, spinse De Gasperi a presentare in Senato, il 2 agosto 1948, un disegno di legge che prevedeva la ripresa dell’attività del Consiglio superiore di sanità. Due erano i criteri che animavano l’iniziativa: ricondurre il collegio alle caratteristiche prevalentemente sanitarie, evitando, com’era successo con il passare del tempo, di inserire troppi elementi non di natura tecnica; mantenere la tradizionale prevalenza della medicina preventiva su quella curativa, in linea con le esigenze funzionali del Consiglio, chiamato ad esprimere pareri in prevalenza su progetti e opere igienico-sanitari16. La discussione parlamentare venne monopolizzata dai contrasti sulle modalità di composizione, e quindi sulla fisionomia, del Consiglio superiore di sanità, nel tentativo di allargare la sfera d’influenza dei vari ordini professionali attraverso l’operato di quei rappresentanti politici che assunsero quasi le sembianze di portavoce di precise istanze corporative, a partire da quella medica. Alla fine prevalsero le posizioni della maggioranza, con le sinistre all’opposizione di un provvedimento considerato troppo simile al sistema precedente e che contemplava un numero di membri pari a 5417.

Intanto, in mezzo a tali polemiche e alla vicenda relativa alla ratifica dell’atto costitutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità18, il governo aveva provveduto a un cambio alla guida dell’Alto commissariato. A Gino Bergami, il 7 febbraio 1947, subentrò Nicola Perrotti, che venne affiancato dal democristiano Diego d’Amico, docente universitario e medico oculista. L’esperienza di quest’ultimo fu piuttosto breve e si concluse già il 6 agosto con la scomparsa dell’esponente cattolico. Sempre Perrotti, nella primavera successiva, rassegnò le dimissioni una volta eletto in Parlamento nelle fila del Fronte popolare. Al loro posto, nel giugno 1948, l’esecutivo nominò alto commissario il medico-chirurgo Mario Cotellessa, figura di spicco della Dc abruzzese, e alto commissario aggiunto il collega Aldo Spallicci, un repubblicano con alle spalle una lunga militanza antifascista ed editoriale-letteraria (Ranzi 1993; Tombari 1987), cariche che manterranno sino al luglio del 1951 il primo e allo stesso mese del 1953 il secondo.

La lotta contro la tubercolosi

La tubercolosi costituiva il problema più grave per la sanità pubblica nel dopoguerra. Si trattava di una malattia a carattere sociale e facilmente contagiosa per i bambini, gli adolescenti e le giovani madri. Il conflitto aveva portato a un rincrudimento dell’endemia tubercolare, invertendo gli indici dei tassi di morbilità e mortalità, che da diversi anni mostravano una costante contrazione19. La pesante condizione dei tubercolotici era alimentata dall’inefficienza e dalla disorganizzazione dei servizi dispensariali e dei ricoveri, nonché dalla carenza di luoghi di cura sul territorio.

Per fronteggiare tali esigenze, l’Alto commissariato si fece promotore, nell’immediato, di una serie di iniziative. In primo luogo, cercò di stimolare l’azione degli Uffici sanitari provinciali, assegnando alle strutture sul territorio medicinali e attrezzature, e di sostenere, seppur parzialmente, le spese di degenza in sanatorio degli infermi e l’assistenza preventiva dell’infanzia gracile per le famiglie in condizioni economiche disagiate. Di concerto con la sottocommissione per la Salute pubblica della Commissione alleata, il ministero della Guerra, il ministero dell’Assistenza postbellica e la Croce rossa italiana, fu istituito un centro ospedaliero a Merano, presso cui far affluire parte degli infermi reduci dai campi di prigionia e di internamento, per i quali l’onere del ricovero, al pari di tutti coloro assistiti nei reparti collettivi, era a totale carico dell’Alto commissariato20, dove trovò posto una commissione, formata da esperti in tisiologia e nell’organizzazione dei servizi tubercolari, con il compito di elaborare le direttive generali in materia. Le soluzioni da attuare in concreto, a partire dalla messa a disposizione negli istituti di ricovero del maggior numero di posti-letto e dalla garanzia di una continuità di assistenza ai dimessi passibili di cure ambulatoriali, vennero, invece, affidate a degli organismi analoghi, istituiti in ogni provincia del Regno e presieduti dal medico provinciale21. A completamento di ciò, sempre in seno all’Alto commissariato e d’intento con la missione italiana dell’Unrra, fu creato un centro schermografico comprensivo di due sezioni, una con sede a Roma, per le regioni centro-meridionali, e un’altra a Milano, per la parte settentrionale del paese (Bergami, Perrotti 1944-1945, 103-109), e predisposta la necessaria attrezzatura per il funzionamento del villaggio sanatoriale di Sondalo, in provincia di Sondrio.

Per chiudere le falle, perlomeno le maggiori, palesate da questa forma di assistenza fu però necessario un decreto luogotenenziale, il n. 101 del 5 marzo 1946. Il provvedimento stanziava un fondo di 2 miliardi di lire, gestito dall’alto commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per le cure sanatoriali e ospedaliere dei tubercolotici, integrando i contributi elargiti dagli enti locali ai Consorzi provinciali antitubercolari e, qualora vi fosse la disponibilità, provvedendo al finanziamento dei lavori di ripristino e/o di sostituzione dell’attrezzatura tecnica danneggiata durante la guerra. Non solo, l’alto commissario era autorizzato a disporre la requisizione di servizi, beni mobili e immobili ritenuti imprescindibili ai fini dell’assistenza22.

Pochi giorni più tardi, il 29 marzo, Gino Bergami emanò la circolare considerata, a ragion veduta, più importante del periodo in tema di assistenza antitubercolare. Con questa misura l’alto commissario rafforzava molte delle disposizioni approntate sino a quel momento, predisponendo un insieme complessivo di provvidenze indirizzate ad assicurare mezzi di ordine tecnico ed economico per una più efficiente lotta contro la tubercolosi e per migliorare la situazione di disagio economico in cui versavano i Consorzi provinciali antitubercolari. Il risanamento di questi, contraddistinti da crescenti disavanzi di amministrazione maturati durante gli anni della guerra, costituiva uno dei problemi principali, che venne affrontato tramite la concessione di risorse finanziarie, pur in un quadro generale caratterizzato da evidenti ristrettezze di bilancio, e l’aumento, più volte richiesto dall’Alto commissariato, dei contributi versati dai Comuni e dalle Province.

Lo stato si impegnava, inoltre, all’assunzione dell’onere rappresentato dalle spese di ricovero negli istituti di cura degli infermi che non avevano diritto all’assistenza in regime assicurativo, a prestazioni di altri enti o non fossero in grado di provvedere autonomamente al pagamento della degenza. A tal fine, entro limiti assegnati dal Tesoro, la circolare disponeva l’erogazione ad ogni Consorzio di un contributo annuale in proporzione al numero degli infermi ricoverati e alla percentuale degli affetti dalla tubercolosi. Naturalmente, qualora le condizioni economiche dei malati e delle loro famiglie avessero consentito una compartecipazione nel pagamento delle rette, il Consorzio avrebbe dovuto farsi carico della relativa riscossione. Per i ricoveri in corso dei tubercolotici ai quali l’Alto commissariato aveva precedentemente accordato il pagamento di metà della retta, restando l’altra metà di competenza dei Consorzi antitubercolari, il contributo era da intendersi elevato all’intero ammontare della diaria con decorrenza dal 1° gennaio dell’anno corrente23. Rispetto alla responsabilità finanziaria dell’Alto commissariato, la circolare ne ampliava il raggio d’azione, estendendola a quelle categorie (partigiani, reduci di guerra e civili vittime del conflitto non assistiti da altri enti e in precarie condizioni economiche) solo in parte disciplinate dalla già citata direttiva del 5 ottobre. Tale forma di assistenza era concessa agli infermi che si sarebbero recati ai Consorzi provinciali antitubercolari entro il 31 dicembre 1946 ovvero entro un anno dal rimpatrio.

Centrale, per l’istituzione guidata da Bergami, restava la messa in efficienza dei dispensari danneggiati dai bombardamenti e la costruzione, ove possibile, di nuovi, intervenendo nel primo caso mediante pressioni sul ministero dei Lavori Pubblici, affinché i Consorzi potessero beneficiare delle disposizioni sancite dalla legge 26 ottobre 1945, n. 1543 sul risarcimento dei danni di guerra, e in seconda istanza riservandosi di concedere le somme di denaro necessarie. All’edificazione di apposite strutture ricettive si accompagnava la fornitura dell’attrezzatura tecnica e scientifica, per la quale diventava importante l’intercessione dell’Unrra24. Un aiuto nella direzione di un incremento dei posti-letto, portati al termine del 1947 a 55.000 circa (5.000 in più del 1939), veniva dalla rimessa in funzione delle sezioni per tubercolotici presenti negli ospedali per malattie comuni, già promossa dalla circolare n. 79 del 24 novembre 1945. L’alto commissario non escludeva nemmeno la possibilità di trasformare interamente tali ospedali in complessi sanatoriali.

Uno degli aspetti più importanti presi in considerazione dalla circolare era quello dell’unitarietà e del coordinamento dei servizi di lotta antitubercolare, che accanto ai Consorzi contemplava un sistema assicurativo gestito dall’Inps, a sua volta dipendente dal ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, con prestazioni superiori. Se l’Alto commissariato costituiva il punto di riferimento finale dell’attività svolta dai Consorzi provinciali e dalle altre istituzioni del settore, sia pubbliche che private, sul territorio i compiti direttivi erano affidati all’Ufficio sanitario provinciale, al quale spettava incrementare l’incisività dei servizi locali antitubercolari in stretto collegamento con la classe medica ed enti quali l’Inps, l’Onmi, ecc. Fra i cosiddetti compiti di istituto rientrava l’attività dispensariale e domiciliare svolta dalle assistenti sanitarie e visitatrici, specie nei piccoli centri rurali, il cui lavoro avrebbe dovuto acquistare un valore sempre maggiore, essendo affidate loro le indagini utili all’attuazione dell’opera di profilassi. Era necessario che i dispensari concentrassero gli sforzi sull’esecuzione di sistemiche ricerche tra la popolazione, in particolare verso i bambini in età scolare. Per agevolare l’azione dei Consorzi nella lotta antitubercolare la circolare stabiliva la corresponsione della metà della retta dei fanciulli avviati nei preventori per un periodo di ricovero non superiore ai tre mesi, prorogabili, ove le esigenze lo richiedevano, di ulteriori tre a discrezione del direttore. Nel settore della prevenzione il dispensario doveva creare anche le migliori condizioni ai tubercolotici clinicamente guariti, che talvolta opponevano resistenza alle dimissioni per il timore, fondato, di non poter più usufruire di adeguate cure all’esterno degli istituti di ricovero. Ciò imponeva, quindi, allo stato l’introduzione di migliorie nell’assistenza post-sanatoriale, finalizzata al reinserimento degli ex tubercolotici nella vita di tutti i giorni.

In questa direzione andava il decreto legislativo 29 aprile 1947, n. 318. Il testo, predisposto dall’Alto commissariato e approvato dal Consiglio dei ministri nel dicembre 1946, ebbe una gestazione abbastanza lunga e complicata. Passato, l’11 gennaio 1947, all’esame dell’Assemblea costituente, venne rinviato nuovamente all’esecutivo con delle osservazioni di merito attinenti soprattutto all’entità dell’importo del sussidio, giudicata troppo modesta. Ebbero così luogo due riunioni, il 2 e il 7 marzo 1947, di una commissione consultiva formatasi pochi mesi prima in seno all’Alto commissariato, presieduta da Perrotti e con l’intervento dei rappresentanti delle amministrazioni e degli enti interessati25, che evidenziarono l’oggettiva disparità di trattamento fra i dimessi assistiti dallo Stato, per i quali era prevista soltanto un’indennità di 200 lire giornaliere, e quelli assicurati, che potevano accumulare alla medesima il sussidio di disoccupazione26. La soluzione della controversia venne trovata prospettando l’opportunità di concedere ai dimessi assicurati e non, senza diritto al sussidio di disoccupazione, un’integrazione giornaliera di 50 lire27.

Le discussioni in merito al decreto correvano pressoché in parallelo a una serie di manifestazioni di protesta, appoggiate dalla Cgil, dalla Ult (Unione lavoratori tubercolotici) e, non di rado, da esponenti del Partito comunista, che caratterizzavano numerosi sanatori italiani, a sostegno del provvedimento governativo e, in generale, di un migliore trattamento nei riguardi dei malati di tubercolosi, sia nei luoghi di cura sia nella fase successiva, con le evidenti difficoltà che comportava il reinserimento sociale28.

Approvato in forma definitiva dal Consiglio dei ministri il 24 aprile 1947, il decreto legislativo n. 318 era rivolto ai dimessi dagli istituti di ricovero non coperti da un regime assicurativo e mirava ad offrire loro la possibilità di consolidare la guarigione presso appositi convalescenziari ovvero, in mancanza di queste strutture, di usufruire di un sussidio giornaliero che favorisse il pieno rientro nella società. Erano beneficiari del sostegno economico le persone, poste a carico dell’Alto commissariato, degli Uffici provinciali della sanità pubblica della Sicilia, dei Consorzi antitubercolari e di altre pubbliche amministrazioni, dimesse dai sanatori o dai reparti ospedalieri per tbc dopo il 30 settembre 1946 (a queste si aggiungevano gli infermi ricoverati tramite l’Endsi nei sanatori messi a disposizione dall’organizzazione di soccorso elvetica “Dono svizzero”). L’importo del sussidio, subordinato all’accertamento delle condizioni cliniche dei beneficiari, era pari a 200 lire giornaliere, pagate settimanalmente, e aveva durata di 180 giorni (prorogabile di ulteriori 90), con immediata decorrenza dal momento della dimissione dall’istituto di cura. Le modalità di corresponsione del compenso vennero dettagliatamente spiegate nella circolare n. 33 del 23 aprile firmata da Perrotti, poi seguita da un’ulteriore nota il 14 gennaio 1948. A integrazione dell’indennità, questa volta a prescindere dal diritto all’assistenza in regime assicurativo, il decreto prevedeva, all’articolo 5, la già citata integrazione giornaliera di 50 lire.

Tale articolo ebbe, comunque, vita breve e fu abrogato dal decreto legislativo 7 maggio 1948, n. 865, che prolungò il sussidio a titolo di assistenza post-sanatoriale di 90 giorni e incrementò il suo importo, differenziandolo in base alla durata di fruizione29.

Malgrado il lodevole impegno finanziario promosso dall’Alto commissariato, che arrivò ad impiegare per le spese di profilassi e di assistenza antitubercolare quasi il 50% dei propri stanziamenti di bilancio, e le continue lamentele avanzate dagli ordini dei medici la differenza fra le due categorie di malati continuò a contrassegnare il settore anche negli anni successivi, senza una riforma generalizzata in grado di porre l’assistenza antitubercolare sotto l’egida di una direttiva unitaria. Anzi, il tempo contribuirà ad aumentare questa discrepanza, che colpiva, in prevalenza, i cittadini più deboli, gli iscritti negli albi comunali dei poveri, pensionati, disoccupati o lavoratori mai assicurati, per incuria o egoismo, dai datori di lavoro, contro la quale ben poco farà la classe politica repubblicana e soprattutto le forze di governo (Paniga 2017, 368-379).

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2. ACS, PCM, ACIS, 1944-47, Nomina di Nicola Perrotti e indennità del commissario aggiunto, fasc. 1.1.2, n. 39792.

3. Il piano elaborato dalla direzione generale di Sanità era basato su una serie di elementi e pareri tecnici che riguardavano la situazione sanitaria e ospedaliera italiana dell’epoca, duramente condizionata dalle vicende belliche. Le missiva inviata dal ministero degli Esteri all’Unrra conteneva la richiesta di materiale per l’attrezzatura ospedaliera, materiale lettereccio, vestiario per malati e personale sanitario, strumentazione radiologica, ortopedica e odontoiatrica, stoviglie, barelle, ecc.

4. L’accordo con l’Unrra aveva portato alla formazione dei Comitati provinciali, presieduti dal prefetto, con il compito di raccogliere informazioni sulle necessità finanziarie delle provincie, di coordinare e rendere più efficaci, nonché trasparenti, le operazioni di distribuzione, nel caso istituendo dei comitati comunali.

5. In primo luogo, era necessario compilare un elenco con le istituzioni che nell’ambito della provincia si occupavano di questioni sanitarie e per le quali erano previsti i soccorsi Unrra. Di seguito, le autorità preposte dovevano esaminare le richieste dei singoli enti e, una volta effettuati gli accertamenti, assegnare agli stessi i quantitativi di materiale. Ulteriori norme vennero emanate sugli adempimenti da osservarsi all’atto della ricezione degli aiuti.

6. L’American Relief for Italy, creata nella primavera del 1944 dietro la forte pressione di gruppi di italo-americani residenti negli Usa, era un’organizzazione finalizzata al coordinamento e alla distribuzione dei soccorsi statunitensi all’Italia. Essa costituiva l’evoluzione di un Consiglio temporaneo di studio sorto nel febbraio dello stesso anno e diventò una sorta di stanza di compensazione per tutte le attività svolte da altri soggetti od organizzazioni che erano interessati all’assistenza degli italiani durante il secondo conflitto mondiale.

7. Fra le misure emanate: la circolare n. 391 del 20 gennaio 1944, che regolava le varie forme di assistenza ai profughi, dalla vaccinazione al loro arrivo nei centri di accoglienza alla vigilanza igienica sugli alloggi e l’alimentazione, sino all’assistenza medica e farmaceutica; la circolare telegrafica n. 5/11/19 del 20 marzo 1944, che disponeva il ricovero dei profughi affetti da tubercolosi a totale carico dello stato; la circolare n. 31 del 5 maggio 1945 sulla necessità di informare tempestivamente gli ufficiali sanitari dell’arrivo dei reduci e quella del 21 giugno 1945, con la quale si chiedeva ai medici provinciali di collaborare con l’Alto commissariato profughi, nonché di sorvegliare e integrare l’opera dei comuni nel campo dell’assistenza ai reduci.

8. La lotta contro il vaiolo si basò principalmente sull’isolamento immediato dei colpiti dalla malattia e sulle relative vaccinazioni. L’Alto commissariato consigliò, mediante apposite circolari, di rendere obbligatoria la vaccinazione antivaiolosa per tutta la popolazione senza distinzioni di età, estendendola anche ai bambini di pochi mesi, in deroga al decreto del 7 gennaio 1940 di applicazione della legge 6 giugno 1939, n. 891. Non solo, l’istituzione concesse a titolo gratuito alle varie provincie dosi di vaccino antivaioloso, scorte di disinfettanti e mezzi finanziari per le operazioni di profilassi. Quanto alle infezioni tifoidee, in progressiva diminuzione dal 1943, l’Alto commissariato favorì la costituzione in ogni provincia di un comitato, con il compito di stabilire l’esatta entità dell’epidemia a livello locale, di ricercarne la cause e di adottare i provvedimenti necessari alla loro eliminazione.

9. L’ordine ufficiale n. 70 dell’8 febbraio 1944 aveva poi trasferito le attribuzioni del prefetto al medico provinciale, responsabile dell’Ufficio provinciale di sanità pubblica, mentre le competenze del ministero dell’Interno o comunque dell’autorità sanitaria governativa centrale erano state conferite al direttore regionale della sanità pubblica.

10. ACS, PCM, ACIS, 1944-47, Richiesta per indire concorsi, fasc. 1.3.1, n. 12196.

11. ACS, PCM, ACIS, 1944-47, Epurazione del personale. Fasc. generale, fasc. 1.7, n. 10124.

12. ACS, PCM, ACIS, 1944-47, Riordinamento ruoli organici. Decreto legislativo, fasc. 1.1.2, n. 39792.

13. Ibidem.

14. ACS, PCM, ACIS, 1948-50, Personale del Ministero dell’Africa Italiana distaccato presso l’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica, fasc. 1.1.2, n. 10275.

15. In base all’art. 17 del testo unico del 1934, i Consigli provinciali sanitari avrebbero dovuto essere rinnovati entro il 1944, per il triennio 1944-46. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, fu possibile procedere in tal senso solamente nel 1945, a causa della situazione eccezionale determinata dal conflitto bellico. Per eliminare tale disparità, facendo in modo che tutti i consigli scadessero nel dicembre 1947, e quindi addivenire a un rinnovo complessivo per il triennio 1948-50, l’Alto commissariato chiese e ottenne dal governo una proroga di un anno per quei consigli in scadenza nel 1946.

16. AP, Senato della Repubblica, I Legislatura, Disegni di legge e relazioni, doc. n. 48.

17. AP, Senato della Repubblica, I Legislatura, XI Commissione Igiene e Sanità, Discussioni, sedute del 30 settembre 1948 e 4 febbraio 1949; AP, Camera dei deputati, I Legislatura, XI Commissione Lavoro e Previdenza Sociale, Discussioni, seduta del 19 gennaio 1949. La legge 21 marzo 1949, n. 101 verrà, di lì a poco, modificata da altri due provvedimenti, che ampliarono la composizione del Consiglio superiore di sanità portandolo a 60 componenti.

18. L’Organizzazione mondiale della sanità, agenzia speciale dell’Onu per la salute, venne fondata il 22 luglio 1946 ed entrò in vigore il 7 aprile 1948 con sede a Ginevra. L’Italia aderì ufficialmente all’Oms l’11 aprile 1947.

19. Appena insediato, l’Alto commissariato promosse un’indagine, eseguita dal comune di Roma, dalla quale emerse un aumento della mortalità per tubercolosi polmonare e per le forme extra-polmonari, fra il 1939 e il 1944, rispettivamente del 28% e del 43%. L’incremento riguardava soprattutto i centri urbani, dove maggiormente avevano influito le cause di recrudescenza dell’endemia tubercolare. Sulla stessa lunghezza d’onda, sebbene incompleti, si ponevano i dati relativi alla morbilità, ricavabili dal sensibile aumento del numero dei ricoveri dei malati. ACS, PCM, ACIS, 1944-47, Relazione svolta dall’alto commissario nella riunione del Consiglio dei ministri dell’8 novembre 1945, fasc. 1.1.2, n. 39792.

20. Oltre a ciò, la circolare del 6 ottobre 1945 chiariva la durata della forma di assistenza, le tipologie dei soggetti ricoverati e le modalità con cui l’Alto commissariato rimborsava le spese ai vari istituti di cura.

21. Sul funzionamento delle Commissioni provinciali l’alto commissario Bergami emanò, il 15 settembre 1945, un’apposita circolare, che assegnava a tali organismi responsabilità di rilievo nella lotta antitubercolare. Queste dovevano fornire i criteri per rendere disponibili negli istituti di ricovero il maggior numero di posti letto e assicurare la continuità dell’assistenza ai dimessi passibili di trattamenti ambulatoriali, nonché le direttive per l’impianto, la gestione e l’attività delle case di cura o di quei reparti provvisori, situati negli ospedali, adibiti alla degenza dei malati altrimenti inviati presso strutture specializzate.

22. ACS, PCM, ACIS, 1944-47, Fondi per l’assistenza antitubercolare, fasc. 1.1.2, n. 39792.

23. I ricoveri dovevano essere disposti prevalentemente per le forme di tbc polmonare ed extra-polmonare e limitati ai casi non suscettibili di assistenza ambulatoria o domiciliare.

24. A tal fine, l’Alto commissariato predispose un programma per il finanziamento delle opere di ricostruzione sanitaria attraverso sia l’utilizzo di fondi assegnati dal ministero del Tesoro, sia dei mezzi provenienti dagli aiuti Unrra o, nel caso del materiale tecnico e sanitario, dai residuati alleati.

25. Nella primavera 1946 era stata creata presso l’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica una commissione consultiva composta da quattro delegati del ministero dell’Interno, del Tesoro, dell’Assistenza post-bellica e del Lavoro e della Previdenza sociale e da altri quattro membri in rappresentanza dei Consorzi provinciali antitubercolari.

26. Poco tempo prima, infatti, era stato approvato un provvedimento, che gravava finanziariamente sul fondo di integrazione per le assicurazioni sociali gestito dall’Inps a favore degli assistiti in regime assicurativo, che consentiva loro di cumulare all’indennità post-sanatoriale anche quella di disoccupazione.

27. ACS, Fondi per…, cit.

28. Le proteste si protrassero sino al 1948 inoltrato e spinsero l’alto commissario a inviare una circolare ai prefetti con la quale veniva imposto il divieto assoluto a svolgere riunioni e manifestazioni politiche e sindacali all’interno dei sanatori.

29. L’articolo 1 del decreto aumentava il sussidio a lire 500 giornaliere per i primi 90 giorni, a lire 400 per i successivi 90 giorni e a lire 300 per gli ultimi 90 giorni. Per l’indennità in corso di godimento alla data di entrata in vigore del decreto, l’ammontare era rispettivamente di lire 500, 400 e 300 al giorno, a seconda che la stessa si trovasse nei primi 90 giorni di godimento, nei successivi o in quelli rimanenti. L’indennità post-sanatoriale a favore degli infermi che non fossero capi-famiglia era stabilita nella misura di lire 300 giornaliere ed era corrisposta per 180 giornate a decorrere dalla data di dimissione dal luogo di cura.