L’emigrazione italiana: un fenomeno dimenticato dell’identità nazionale

Emilio Franzina

All’Italia come terra di santi, poeti e navigatori è stata spesso contrapposta, in immagine, un’Italia di operai, contadini ed emigranti. E puntualmente, si potrebbe dire, ad entrambe hanno finito per corrispondere, fuor di retorica, delle storiografie specifiche di tutto rispetto con una sola vera eccezione che riguardava, sino a vent’anni fa, essenzialmente l’emigrazione. L’anomalia della scarsa attenzione prestata a una vicenda che pure contrappunta l’intero arco di tempo compreso fra l’unificazione nazionale e i primi anni Settanta del Novecento, si spiega in molti modi ma principalmente col fatto che gli storici italiani, tolte rare eccezioni in campo sociale e demografico, hanno quasi sempre preferito derubricare l’importanza del fenomeno destituito di vera rilevanza, ai loro occhi, sotto un profilo politico. È stato così solo con l’avvio da noi dell’immigrazione straniera che un certo, e crescente, interesse si è riacceso, da ultimo, nei confronti delle storie pregresse – e neanche tutte remote – dell’emigrazione italiana. Essa infatti, nel suo complesso, fra il 1876 e il 1973 coinvolse a vario titolo, fra partiti, rientrati e rimasti a vivere all’estero, qualcosa come 26 milioni di individui.

È ben vero che oggi assistiamo a una rigogliosa produzione saggistica e memorialistica sugli “antichi” esodi di casa nostra, ma quasi sempre ad opera di specialisti e, per le sue ricadute fra il grosso pubblico, per merito quasi esclusivo di giornalisti e divulgatori raramente della bravura di Gianantonio Stella. Tra le file accademiche e professionali, tuttavia, è vero che perdura ostinata una trascuratezza ben esemplificata anche in molti libri recenti, spesso revocati in vita dalla congiuntura commemorativa del cento cinquantenario dell’unità, nei quali paradossalmente dell’emigrazione non si fa nemmeno parola. E invece il solo dato quantitativo che s’è detto qui sopra dovrebbe indurre a una riflessione capace di restituirci il senso di esperienze che hanno riguardato, in un modo o in un altro, la vita dell’intero Paese, regione per regione, e in definitiva i destini stessi della maggior parte delle famiglie italiane.

Se riandassimo anche solo agli inizi di questa storia ci imbatteremmo subito in notizie e in numeri che danno da soli l’idea di quante opinioni infondate si siano formate sul suo conto. L’idea, ad esempio, che l’emigrazione sia stata appannaggio pressoché esclusivo dei meridionali d’Italia (ricordate la gag cinematografica di Massimo Troisi in veste di autostoppista che alla domanda di chi gli dà un passaggio – “Ah, siete napoletano? Emigrante?” – deve rispondere, senza essere creduto, di essere soltanto un turista?) oppure, in linea con essa, l’altra idea che a determinare l’abbandono della terra natale debbano essere state ragioni economiche sì, ma sempre di pura miseria e d’invincibile bisogno. Le cose in realtà andarono il più delle volte assai diversamente e lo dimostra il fatto che i primi luoghi ad essere interessati dalle migrazioni di massa furono, nella penisola, quei paesi e quei villaggi dell’arco alpino e prealpino, ma anche poi della Pianura Padana, nei quali, da molti secoli, una certa quale pratica d’espatrio s’era consolidata su scala fin che si vuole ridotta, ma significativa e prefigurante.

L’emigrazione di massa dal Sud, di cui pure non mancarono avvisaglie rilevanti già nelle decadi 1870 e 1880, seguì più tardi e del resto anche le avanguardie settentrionali degli esodi tardo ottocenteschi italiani, specie oltreoceano, venivano, in Europa, ben dopo quelle degli anglosassoni, dei tedeschi, degli scandinavi ecc.

Detto questo, non dovrebbe destare stupore che all’atto dell’unificazione nazionale il primo censimento del 1861 potesse far registrare un numero già impressionante di regnicoli, ossia di italiani all’estero. Oltre 200 mila, per la precisione, distribuiti ancora inegualmente fra varie parti del mondo che presto sarebbero divenute meta dei nostri emigranti popolari particolarmente del Nord. Quasi 80 mila erano, a quella data, i nostri connazionali presenti in Francia e circa 30 mila fra Svizzera e Germania, mentre nelle “lontane Americhe”, come si usava dire allora, se ne contavano 100 mila, metà dei quali solo negli Stati Uniti. Frammisti in mezzo a loro, sia lì che nell’America ispano-portoghese, si trovavano senz’altro i protagonisti dell’esilio risorgimentale che tanti ne aveva portati all’estero più e meno lontano a cominciare, s’intende, da Garibaldi (ma lo stesso si potrebbe dire per Foscolo, per Mazzini o per molti altri patrioti liberali in Francia e in Inghilterra, quasi sempre futuri leader o notabili delle comunità etniche sortevi fra Otto e Novecento).

La novità degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, anni di crisi soprattutto agricola, fu costituita, ad ogni modo, dal dilagare nelle campagne settentrionali di una visione ottimistica e speranzosa, ma del tutto inedita qui, delle opportunità offerte dall’emigrazione non più solo al di là delle Alpi, bensì pure oltreoceano. E in particolare, con una simmetria che sarebbe stata confermata trent’anni più tardi dalle partenze in massa dal Sud per gli Usa, in paesi come l’Argentina e il Brasile dove i governi locali stavano attuando politiche popolazioniste e “coloniali” di forte richiamo.

Una specie di mito americano ad uso dei contadini si venne formando soprattutto in area alpina e padana da dove mossero i primi contingenti messi insieme, su questa base, da reclutatori privati – spesso ma non necessariamente senza scrupoli – ora al soldo di quei governi ed ora, o abbastanza spesso, in stretto rapporto con le più intraprendenti compagnie di navigazione che per l’Italia, al momento, si concentravano specialmente a Genova, il nostro porto per eccellenza e più alla portata dei liguri, dei piemontesi, dei lombardi e dei veneti per evidenti ragioni geografiche (non sempre rispettate, peraltro, se fino ai primi del Novecento il 40% dei nostri emigranti continuò a imbarcarsi da porti francesi, inglesi o tedeschi).

Liguri e genovesi, sin dagli anni Venti del secolo XIX, avevano preso a dirigersi, in veste di armatori e di marinai, verso le regioni platensi e dalla fine della decade 1830 annoveravano laggiù insediamenti famosi come quello della Boca del Riachuelo a Buenos Aires (dove ancor oggi i tifosi del Boca Juniors, quello di Maradona, si autodefiniscono xeneises ossia genovesi…).

L’emigrazione dal Nord per l’Argentina (dopo i liguri, specie piemontesi, lombardi e friulani) e per il Brasile (sin dai primordi soprattutto veneti) prese slancio a far data dal 1873, quando furono alcuni gruppi trentini (tuttora sudditi austriaci) ad aprire la strada (in Espirito Santo) e a inaugurare una nuova stagione ben presto caratterizzata dall’azione congiunta dei richiami americani e dalle agevolazioni nei costi del trasporto, indotte a propria volta dall’avvento del vapore e dal crollo dei noli. Già nel 1876, tuttavia, allorché ebbe inizio per la prima volta in Italia il rilevamento ufficiale degli esodi sia temporanei che, come si diceva o si temeva, “permanenti”, la situazione migratoria del “bel paese”, secondo la definizione quasi coeva dell’abate Stoppani, appariva chiaramente delineata: settentrionali in rotta per il Sudamerica e via via meridionali diretti in prevalenza negli Stati Uniti. Nel primo caso, e per alcuni decenni, alla ricerca plausibile di terra libera, nel secondo – essendosi esaurita, assieme all’epopea della frontiera, appunto la disponibilità di terra in Usa – a caccia di lavori o d’impieghi nella città della costa atlantica. Ciò non toglie che anche in Brasile e in Argentina, e segnatamente in città quali San Paolo e Porto Alegre o come Buenos Aires e Rosario, le strade degli “italiani del nord” e degli “italiani del sud” – per usare una etichetta non proto leghista ma in uso presso i rilevatori statistici americani – si mescolarono e si confusero ben presto affrettando, lontano dall’Italia, i tempi e i sensi di un’acculturazione nazionale e patriottica poi colpevolmente (da noi) dimenticata.

I vari rapporti consolari e le successive inchieste dell’Istat, che si chiamava allora Direzione Centrale di Statistica ed era diretta con mano salda da Luigi Bodio, ne diedero subito indiretta conferma, anche se non potevano certo offrire quelle efficaci descrizioni che la stampa coeva, ma ben presto anche le lettere degli emigrati o le narrative di alcuni scrittori (De Amicis su tutti dopo l’uscita da Treves, nel 1889, del suo capolavoro Sull’oceano), sapevano già somministrare. Il lato avventuroso o romanzesco appunto di tante vicende individuali e di gruppo, come quella, per fare un unico esempio, dei contadini di Novi e di Concordia in provincia di Modena, che nel 1876 raggiunsero in modo rocambolesco fra i primi il Brasile chiamativi da una nobildonna loro compaesana amica dell’Imperatore Dom Pedro II e fissatisi poi nella fiorente Valle del Paraiba, emerge ancora vivida nelle parole del maestro elementare Enrico Secchi il quale li accompagnò nel viaggio e se ne fece cronista nel suo diario, quarant’anni più tardi, quando era ormai diventato, a San Paolo, un imprenditore di successo e uno dei maggiorenti della “colonia italiana” di quella metropoli che allora contava quasi 200 mila italiani, pari al 37% della sua popolazione complessiva.