“L’Imparziale”: storia di un giornale faentino

di Alberto Fuschini

Introduzione

Gli anni quaranta dell’Ottocento videro un’ampia diffusione della stampa periodica negli Stati italiani. La sempre più forte richiesta di riforme, che proveniva da ampi strati della società, esigeva di trovare sedi di dibattiti e di confronti. Faenza ebbe in quel periodo un suo giornale. Infatti, il 30 gennaio 1840 uscì il primo numero de “L’Imparziale”, che usciva in tutta la Romagna, cioè la Legazione Pontificia delle Romagne. Questo periodico non descriveva solo la realtà locale, ma aveva rapporti e collegamenti con tutta la penisola italiana, con altri giornali, e soprattutto con molti intellettuali e accademie. Inoltre erano pubblicati articoli che trattavano di argomenti diversi: pedagogici, agricoli, economici, storici, archeologici, scientifici, teatrali e bibliografici. La rivista esistette fino al 1847, perciò non riuscì a partecipare agli eventi risorgimentali più importanti e decisivi; però, per i nomi dei collaboratori e per alcuni degli argomenti trattati può essere compresa tra le riviste di dibattito di quel periodo, pur scontando i limiti della sua diffusione e quindi anche dei suoi destinatari.

“L’Imparziale” si occupò prevalentemente del dibattito letterario sostenendo risolutamente le ragioni dei classicisti contro i romantici: da questo punto di vista, si può affermare che il direttore-proprietario Vincenzo Rossi si impegnò in un confronto culturale che lo vedeva sconfitto in partenza, visto che si collocava in un filone letterario ormai superato. Da questo punto di vista, gli studiosi che si sono occupati del giornale faentino prima di me, ne hanno soprattutto rilevato questo carattere di provincialismo che ne limitava in partenza la capacità di incidere, anche per l’evidente timore di incorrere nei rigori della censura delle autorità pontificie. Tuttavia è significativo, a mio avviso, che collaborassero con il periodico alcuni autori politicamente impegnati, che si servirono de “L’Imparziale” per cercare di diffondere le loro idee. Evidentemente ciò non sarebbe potuto avvenire senza il consenso dello stesso Rossi; d’altra parte queste collaborazioni non avrebbero potuto proseguire se gli autori non avessero individuato tra i lettori del giornale un gruppo di possibili interlocutori. Oltre che da un esame dei collaboratori, il legame de “L’Imparziale” con il nascente movimento riformatore, si può ricavare anche da alcuni argomenti affrontati. Innanzi tutto voglio sottolineare la serie di articoli uscita tra il 1840 e il 1845 sulla fondazione della Cassa di Risparmio. Si trattò di un dibattito vero, anche se al giorno d’oggi può sembrare strano che trovasse alcuni fieri oppositori la nascita di un’istituzione, tutto sommato abbastanza scontata in quel periodo. Mi sono sembrati interessanti anche gli articoli sulla viabilità e sulla creazione di nuove strade provinciali e nazionali. Esse collegarono in quel periodo, in modo stabile, la Romagna con il Granducato di Toscana, stato al quale si rivolgevano le attenzioni dei commercianti e dei liberali. “L’Imparziale” insomma non ebbe soltanto ambizioni letterarie: esso era in sintonia con le esigenze di rinnovamento economico e politico, presenti nel dibattito nazionale in quell’epoca. Per tutto il periodo della Restaurazione, fino alla promulgazione degli editti del 1847-1848, non esisteva in Italia un giornalismo politico nel senso completo del termine. Ormai i sentimenti patriottici erano radicati in buona parte della società italiana. Le nuove idee si esprimevano, scontrandosi con le concezioni tradizionali, attraverso i fogli culturali e letterari.

Due fattori specifici contribuirono a movimentare la scena giornalistica. Il primo era costituito dall’estensione raggiunta dal giornalismo di ogni tipo, nonostante l’arretratezza delle condizioni politiche e sociali della penisola. Il pubblico dei lettori, pur esiguo, era formato da elementi della borghesia più attiva. Erano molto seguiti i periodici specializzati, in particolare quelli economici e tecnico-scientifici, e persino i fogli di varietà e di “cognizioni utili”. Contribuì inoltre a movimentare la scena giornalistica anche l’ostilità all’assolutismo della maggior parte del mondo intellettuale. “L’Imparziale”, pur con i limiti dell’epoca, dovuti ad una società elitaria (l’analfabetismo superava l’80%) e al pesante clima oscurantista del pontificato di Gregorio XVI, dimostrò una certa vivacità soprattutto nella divulgazione di una nuova cultura economica. Così, comparirono articoli divulgativi delle innovazioni tecniche che stavano emergendo nell’agricoltura italiana. Certamente “L’Imparziale” fu pieno di versi che inneggiarono a Gregorio XVI, al cardinale legato Amat, al vescovo Folicaldi, a matrimoni e a funerali; fu lo specchio di quella Faenza che Giosuè Carducci descrisse nel 1862 come città nella quale “

Si fan sonetti o altro per ogni matrimonio per ogni monacazione e per messe nuove e per guarigioni, e si stampano, e si attaccano ai muri per le strade. E ognuno ne dice il suo giudizio sul serio. Qualche volta, dieci o dodici anni fa, nascevan divisioni e guerre (Drei 1998a, 5).

Gli anni del pontificato gregoriano furono difficili a Faenza. L’odio di parte insanguinò spesso le strade della città con brutali omicidi. I più fanatici sanfedisti, inquadrati nella milizia dei Centurioni, spadroneggiarono in nome del papa e della fede commettendo atti di ferocia di ogni tipo. A tenere vivo lo spirito liberale e delle associazioni patriottiche a Faenza fu Federico Comandini. Egli era venuto da Cesena a Faenza nel 1843 per lavorare come orefice ed era un ardente liberale; entrò in contatto con gli altri cospiratori locali, fra i quali il conte Francesco Laderchi, il conte Raffaele Pasi, Augusto Bertoni e i fratelli Vincenzo e Leonida Caldesi. Costoro, dopo aver contattato gli altri patrioti romagnoli, decisero di passare all’azione.

Una prima azione nell’agosto del 1843, volta a catturare i cardinali Luigi Amat, Chiarissimo Falconieri e Giovanni Mastai Ferretti (futuro papa Pio IX), fallì tragicamente e il cardinale Amat fece esiliare i principali responsabili del moto, come i faentini Girolamo Strocchi e Vincenzo e Leonida Caldesi.

Nel 1845 si costituì a Firenze un nuovo comitato nella casa del faentino Achille Fiorentini. A dirigerlo fu il faentino Federico Argnani e partecipavano alle riunioni anche i fratelli Caldesi e il conte Francesco Laderchi, che teneva i contatti con i patrioti romagnoli. L’ideatore e il preparatore dei moti fu Luigi Carlo Farini. Un primo moto scoppiò il 23 settembre a Rimini, ma fallì dopo due giorni. Saputa la notizia della rivolta a Rimini, i faentini decisero di occupare il posto della dogana Pontificia che si trovava sulla strada di Modigliana, nella località detta le Balze. Per l’impresa si formò un gruppo formato, tra gli altri anche dal conte Raffaele Pasi insieme a don Giovanni Verità. Guidati dal sacerdote i patrioti si impossessarono della dogana senza spargimenti di sangue. Don Giovanni tornò a Modigliana con i suoi in cerca di viveri e rinforzi. Il conte Pasi, dopo aver regalato qualche baiocco ai militi li lasciò in libertà, e con i suoi volontari si rimise in marcia verso Faenza. Dopo alterne vicende il 28 settembre le forze pontificie sconfissero i patrioti alle Balze: i superstiti fuggirono in Toscana.

L’1 giugno 1846 Gregorio XVI morì e dopo pochi giorni, il 16 giugno, fu eletto Giovanni Maria Mastai Ferretti, con il nome di Pio IX. Uno dei primi atti del nuovo pontefice fu di insediare una Commissione Consultiva di Governo composta da cardinali equamente divisi tra progressisti e reazionari. Emanò poi in luglio l’editto del perdono, con cui concesse l’amnistia generale ai detenuti politici ed agli esiliati. Seguirono poi altre riforme: abolizione del corpo dei centurioni; costituzione della Guardia Civica; alleggerimento della censura; istituzione del Consiglio di Stato e del Consiglio dei Ministri. L’elezione di Pio IX sembrò essere per alcuni l’inizio del libero giornalismo politico, per l’abolizione della censura che ne seguì. L’Editto Papale del 15 marzo 1847 conteneva nuove “Disposizioni sulla revisione delle opere da pubblicare colla stampa”. Dopo aver confermato la legge in vigore, introduce alcune innovazioni. La novità di maggior peso dell’Editto fu la facoltà degli editori di pubblicare giornali liberamente. La censura continuava a esistere, sia ecclesiastica che civile, ma la possibilità di pubblicare giornali era una novità senza precedenti. Questi provvedimenti portarono un grande entusiasmo tra i liberali, convinti che il nuovo Papa potesse essere il creatore di un Italia libera ed indipendente. Di ben altro parere era il clero, il cui parere era espresso da quanto scrisse il canonico faentino Sassi:

Anarchia, fanatismo, avvilimento della religione. Il risultato delle belle riforme del mondo illuminato, patrocinate da Pio IX, che ha permesso di farsi idolo ai popoli, avendo voluto accordare tanto, oggi è divenuto non solo principe di norme, ma suddito e schiavo (Savini1995, 146).

Neppure l’elezione di Pio IX placò l’odio secolare fra il centro cittadino, tradizionalmente più aperto anche per la sua composizione sociale, e gli abitanti del Borgo Durbecco, che Massimo D’Azeglio nel suo “Gli ultimi casi di Romagna” così descrisse:

La città e il Borgo di Faenza sono divisi da miserabile e inveterato odio cittadinesco, avanzo probabilmente di antico parteggiare. Ai disusati e vecchi nomi di parte son sottentrati oggidì quelli di liberali per la città, di papalini del Borgo, popolato questo da uomini di bestiale ferocia pronti alle risse e al sangue; è il luogo che può dirsi principal officina di violenza, principal nido di quella scellerata genia che, e quivi ed a sua imitazione in altre città della Romagna, provoca botte e talvolta ferisce e talvolta uccide, e sempre a mansalva, coloro che ella dice liberali, o framassoni, o carbonari (Drei 1998b, 23).

Storia de “L’Imparziale”

Il 30 gennaio del 1840 nasceva a Faenza “L’Imparziale, foglio periodico di scienze lettere arte e varietà” che, come dichiarava il sottotitolo, si stampava “nel centro della Romagna”. La sua periodicità era trimensile, poiché uscì il 10, 20 e 30 di ogni mese, fino al 31 dicembre 1843. Riprendendo, dopo un’interruzione, dal 15 maggio 1844 la periodicità cambiò: “si pubblica di otto pagine ogni 15 giorni o di quattro ogni settimana”. Il formato era in 4°, 29 x 20 cm. La copertina recava, con il titolo, le altre indicazioni essenziali: l’indirizzo del direttore, il luogo e la tipografia ed un fregio che rappresentava Minerva con la fiaccola. Le pagine erano numerate anno per anno e complessivamente sono 1556. In qualche fascicolo era inserito un supplemento non numerato. Il costo dell’abbonamento annuo era, per lo stato pontificio, di 1,50 scudi. Tranne qualche interruzione fra il 1843 ed il 1844 ed ancora fra il 1845 ed il 1846 il giornale si pubblicherà fino al 31 marzo del 1847. Fu stampato dalla tipografia Conti, dal 1° al 17° fascicolo (30 giugno 1840) dell’anno I. Poi al Conti successe la stamperia Montanari e Marabini e successivamente la stampa passò a Vincenzo Marabini con il figlio. La direzione fu sempre di Vincenzo Rossi, che era anche il proprietario. A cominciare dal terzo anno, cioè dal 10 gennaio 1842, si unì a Vincenzo Rossi, con funzione di coestensore, l’abate Giuseppe Maccolini e l’ultimo anno quel posto, rimasto vacante, fu tenuto da Augusto Bertoni. “L’Imparziale” si dichiarava e rimase rigidamente apolitico. Ma il suo direttore fu però fra quei cittadini che sostenevano riforme politico-sociali e quindi si stavano aprendo all’influenza del movimento liberale, pur non facendone parte. Nonostante il giornale si dichiarasse apolitico non sempre i suoi corrispondenti rispettavano tale scelta, poiché fu più volte pubblicato l’avviso: “Si pregano i cortesi Signori che vorranno favorirci articoli a non toccare in questi direttamente o indirettamente la linea politica”. In realtà i riferimenti alla politica non erano totalmente assenti: non mancavano, infatti, versi agiografici per cardinali e nobili legati al potere. Sia Rossi sia i suoi collaboratori volevano contribuire alla difesa della lingua italiana e del culto dei classici. In quegli anni l’oscurantismo del pontefice Gregorio XVI toccava il suo culmine. Probabilmente esisteva un rapporto fra la sospensione del periodico (avvenuta nel luglio 1845 e durata fino al gennaio 1846) ed il moto di Romagna del settembre 1845. In quel periodo il Rossi era amico dei liberali faentini, e liberali, ma moderati, erano per la maggior parte i redattori e collaboratori de “L’Imparziale”. Il silenzio che fu tenuto a proposito di questa sospensione era probabilmente dovuto a una motivazione politica o di tipo prudenziale.

Un liberale era il coestensore del periodico, l’abate Giuseppe Maccolini, e perciò era sorvegliato e perseguitato; un personaggio significativo certamente, ma anche compromettente. Dionigi Strocchi considerava il Maccolini un uomo di non comune valore negli studi letterari. L’abate fu un valido collaboratore de “L’Imparziale” pur risiedendo in quegli anni come insegnante di lettere a San Marino, dove era stato costretto ad andare per sottrarsi alla polizia pontificia, e da dove poté ritornare stabilmente a Faenza solo con l’avvento e il perdono di Pio IX. Il duo Rossi-Maccolini durò fino al 10 agosto 1843, poi apparve qualche fascicolo solo col nome del direttore, e dal numero del 20 settembre a quello del 20 novembre ritornò il nome dell’abate. Seguì un periodo unicamente con la firma del Rossi, ma a cominciare dal fascicolo doppio del 1846 e fino alla fine del giornale fu aggiunto come coestensore Augusto Bertoni. Il Bertoni allora ventottenne era abbastanza noto nell’ambiente provinciale come poeta e scrittore. Nel 1846 con la pubblicazione a Faenza del dramma in versi “Isabella Orsini Duchessa di Bracciano” aveva dato prova della sua ardente fede liberale. I tre responsabili della compilazione del giornale, pur avendo una loro personalità politica, mantennero il periodico coerente con il programma prevalentemente letterario, fedele ai temi ed alle forme tradizionali, ma non chiuso a nuove aspirazioni letterarie e filosofiche che si accompagnavano a quelle sociali e politiche, e particolarmente aperto alle novità scientifiche che il periodico stesso divulgava.

Il programma de “L’Imparziale” non era stato esposto né nel primo fascicolo né dopo. Probabilmente era bastata ai compilatori ed ai collaboratori l’eloquenza del titolo che garantiva il comune proposito dell’imparzialità, dell’equidistanza da ogni tipo di estremismo. Un sottotitolo, prevenendo rivalità campanilistiche, si riferiva all’antica terra segnata “fra il Po il monte la marina e il Reno”, cioè “al confine delle legazioni codificato nella tradizione letteraria” (Balzani 2001, 38), e chiamava a raccolta, presso il “centro della Romagna” i rappresentanti rimasti della Scuola Classica Romagnola. Ma l’assenza di un programma dichiarato fu in qualche modo compensata da una lettera-censura che, il 10 luglio del 1840, scrisse da Pesaro il bagnacavallese Giuseppe Ignazio Montanari (1800-1871) e che il Rossi pubblicò, nonostante la durezza delle osservazioni. Praticamente il Montanari voleva che “L’Imparziale” fosse più fedele al suo titolo-programma, che non annegasse “in un mar di chiarissimi”, che non si riempisse come aveva fatto fin lì, “di lusinghe e di amor provinciale”, che la smettesse con le “letteruccie, novelline, biografuccie, ecc. materia bastante per tempestare un diluvio di sperticate lodi”. La lettera-censura criticava i periodici in genere che davano posto a giudizi parziali, che incoraggiavano gli “scocciatori delle lettere e del buon gusto”, e che facevano uso di una critica “lusinghiera, imbellettata e vanerella”, sia che si trattasse di traduttori o di verseggiatori o di narratori. Le osservazioni del Montanari erano giustificate. Fin dai primi numeri, su “L’Imparziale” si era dato ampio spazio ai poeti, agli epigrafisti, ai volgarizzatori in versi da classici latini, letterati tutt’altro che poveri di erudizione, di cultura filologica, ma che mancavano di originalità ed erano spesso condizionati dall’ambiente ecclesiastico. Riferendosi a “L’Imparziale” Alessandro Montevecchi osserva:

Mosso da scopi piuttosto generici e vari di promozione culturale e scientifica, trabocca di versi elogiativi per Papa Gregorio XVI e per i prelati più ragguardevoli della Romagna, in un quadro di componimenti scambiati tra poetastri e intellettuali secondo le peggiori tradizioni arcadiche. Non mancano però alcuni tentativi, soprattutto da parte di Zambrini, di esprimere posizioni critiche ispirate alle angustie del purismo, ma comunque serie e rigorose (Montevecchi 1992, 35).

Un effetto della lettera del Montanari andava riscontrato nell’“Avvertimento” che il direttore Rossi pubblicò nel numero del 20 luglio 1840. Si avvertivano infatti i lettori che il periodico avrebbe diviso gli argomenti in tre parti: la prima doveva comprendere la filosofia e le scienze; la seconda la letteratura, la critica, la storia e le poesie scelte; la terza la varietà.

Ma si trattò di un riordinamento più formale che sostanziale. Infatti nel fascicolo successivo del 30 luglio, la poetessa Luisa Amalia Paladini pubblicò un lungo carme, assai retorico, proprio in onore del Montanari. Però dall’anno 1841 fu assegnato maggiore spazio alla rassegna bibliografica. Nel 1844, “L’Imparziale” dichiarando che si proponeva di difendere la “verità contro le false dottrine”, così suddivise nuovamente gli argomenti in: “Scienze-Lettere-Arti-Scoperte-Bibliografia e Teatro”. E si precisava che sarebbero stati pubblicati anche “Annunzi di Commercio o Industria, di impieghi vacanti, di persone abili disimpegnate e simili”. Così nel 1846, l’ultimo anno, fu rinnovato il programma del giornale nei seguenti termini: “Scienze-Educazione-Lettere-Principali Scoperte ed invenzioni nella fisica, nella meccanica”. E su ogni cosa si doveva dare un giudizio equanime. Qualcuno, come sostenne il Montanari, meritava di essere accettato sul giornale, cioè Dionigi Strocchi, rispettato ed amato per virtù civili e patriottiche, e stimatissimo come poeta e traduttore di classici. Lo Strocchi scrisse su “L’Imparziale”, oltre alle poesie, uno studio sulla “Tragedia urbana ossia Commedia lacrimosa” che fu pubblicato a puntate; fra le poesie un “Brindisi, dettato per un banchetto che si tenne in onore di Gregorio XVI, visto che nel 1840 ricorreva l’anniversario della sua incoronazione, ed una successiva “Cantata”, nel 1841, sullo stesso tema.

Sempre faentino era il conte Ferdinando Pasolini Dall’Onda (1788-1850), dotto in archeologia e numismatica, che nel 1822 aveva dato alle stampe il suo grosso volume di “Sonetti”. Anche Terenzio Mamiani (1799-1885) collaborò come poeta, con la sua cantata Il Menestrello nel 1846. Altri nomi furono: Lionardo Salviati, Lorenzo da Ponte, il vescovo di Faenza Giovanni Benedetto Folicaldi (1801-1867) bagnacavallese, che preferiva comporre in lingua latina, e Domenico Vaccolini di Bagnacavallo che dedicò versi allo stesso vescovo Folicaldi e celebrò il ritorno dei Gesuiti a Faenza. Il Vaccolini fu un collaboratore con un ingegno versatile; dopo aver compiuto regolari studi di matematica e di scienze, si era dedicato alle discipline letterarie dimostrandosi critico acuto. Ne “L’Imparziale” si occupò di storia, illustrò passi danteschi, esaminò le opere di numerosi scrittori dell’epoca che allora godevano di una certa considerazione, come Pellegrino Farini (dando quindi al periodico un notevole contributo). Ci furono poi delle poetesse, abbastanza rappresentate tenendo conto dei tempi, e cioè, oltre alla breve parentesi di Orobola Pasolini Dall’Onda, Rosalinda Aggravi Casavecchia, Isabella Rossi da Firenze, Giacomina Porciani e la più assidua e più nota Luisa Amalia Paladini. Collaboravano anche gli epigrafisti, che furono in gran numero, visto che l’epigrafia era in quell’epoca un’esercitazione letteraria molto in voga. Si distinsero per i loro contributi Augusto Bertoni, mons. Muzzarelli, lo stesso Giuseppe Ignazio Montanari e il lughese Francesco Capozzi. Inoltre su “L’Imparziale” ci furono verseggiatori come il canonico Girolamo Antonio Tassinari (1776-1844), liberale, famoso per aver lasciato un utile “Blasonario Faentino”. Fra i prosatori si distinse Francesco Zambrini allora trentenne, che spesso firmava con le sole iniziali, e che si affermò con alcune novelle, con saggi di erudizione linguistica e con giudizi critici nelle pagine che il periodico assegnava alla bibliografia.

Un altro collaboratore noto in Romagna fu Antonio Vesi, che trattò argomenti storici, in particolare la dissertazione che fu pubblicata a puntate, riguardante i confini storici ed etnici della Romagna. Infatti nel dicembre 1840 venne pubblicata una lettera inviata da un lettore di Cento che chiedeva al direttore Rossi, perché scriveva che Bologna e Ferrara con i loro territori erano comprese nella regione “ch’è detta Romagna”. Invece il centese riteneva essere opinione comune che la Romagna iniziasse dal fiume Foglia e finisse nel distretto di Imola; quindi l’autore pregava il direttore di spiegargli le ragioni per cui i Bolognesi e i Ferraresi venivano ritenuti da lui parte del popolo romagnolo. Successivamente nel numero del 10 gennaio 1841 fu pubblicato un articolo scritto da Antonio Vesi, intitolato “Ragionamento intorno ai veri confini di Romagna”. L’autore affermava che

nel secolo decimonono in tempi civilissimi e pieni di lumi e di lettere, quando gli uomini…deposta ogni boria municipale si direbbero volentieri cittadini di una sola città per vestire maggiore unità e forza, fa meraviglia che possa in alcuni nascere il dubbio od il desiderio che i confini di questa bella italiana regione denominata Romagna sieno più angusti di quel che sono, e che non facciano di essa parte le due ragguardevolissime città di Bologna e di Ferrara.

Il Vesi poi proseguiva che avrebbe analizzato “questa per altro non oscura questione” e l’avrebbe chiarita “non col mezzo di sottili invettive ma di fatti veri e lucenti che si consentano colla storia”. Lo studio, assai ponderoso per un periodico del genere, partiva dalle fonti più antiche e remote, avvertendo che svelare le false opinioni altrui, potrebbe causare “piuttosto fastidio che diletto”. Il Vesi poi sottolineava che un’indagine scrupolosa e attenta avrebbe dimostrato, senza dubbi, che Bologna e Ferrara dai tempi antichi fossero sempre state considerate parte della Romagna. Questi articoli furono poi raccolti dal Vesi in un opuscolo (Ragionamento intorno ai veri confini di Romagna, 1841), che è stato considerato (Balzani 2000, 38) il primo saggio organico sulla materia, in cui l’autore ribadiva in funzione anti-municipalistica il carattere estensivo e dantesco del termine Romagna, attingendo non al senso comune ottocentesco, molto incerto, ma all’effettiva giurisdizione degli esarchi e ai documenti pubblici medievali, oltre al dialetto e al paesaggio.

Nella rassegna bibliografica, che non mancava quasi mai nei fascicoli del periodico, furono prese in esame non solo le pubblicazioni di interesse locale, ma anche opere di notevole mole, come il Dizionario Ecclesiastico del Moroni, le Biografie e ritratti di Illustri Romagnoli, opera pubblicata nel 1834 a cura del conte Antonio Ercolani, ed il Vocabolario Romagnolo di Antonio Morri, pubblicato nel 1840. Oltre ai contributi di critica storica dove eccelleva il Vesi, bisogna considerare i contributi di argomento filosofico, pedagogico ed educativo. Alle rassegne di opere filosofiche prese parte il Vaccolini ma ci furono altri collaboratori, fra i quali Angelo Marescotti, Pellegrino Farini e l’abate Maccolini. “L’Imparziale” diede un’attenzione particolare a regolari intervalli alla numismatica, di cui si occupò un distinto cultore: Luigi Bonfatti. Molti dei collaboratori nascondevano il loro nome con le iniziali.

Anche le scienze erano comprese, ma senza grandi approfondimenti. Si trattava di articoli di divulgazione e di incitamento a conoscere e ad apprezzare le novità della scienza applicata. In questo senso ci furono articoli di geografia, di medicina, di cui si occupava il primario Pellegrino Salvolini, di galvanotipia, di aerostatica, con riferimenti agli esperimenti che si compivano in Romagna. Tra gli articoli di carattere scientifico è opportuno ricordarne uno del Vaccolini, bibliografico, pubblicato il 20 novembre 1840, di elogio ad un’edizione di un discorso del famoso chimico forlivese Carlo Matteucci, dal titolo Sopra gli elementi del progresso della scienza dell’organismo. A proposito di discipline scientifiche fu degno di rilievo che anche “L’Imparziale” mostrasse interesse per i Congressi scientifici, che tanto contribuirono al risveglio nazionale. Un posto importante fu occupato anche dall’agricoltura; c’erano norme per l’allevamento del baco da seta (era un momento in cui fiorivano le filande in Toscana e di riflesso anche in Romagna); si portò ad esempio la lavorazione delle stuoie di Villanova di Bagnacavallo e si favorì una proposta per tenere occupati i contadini d’inverno, cioè adibirli allo sgombero della neve lungo le strade della città e della campagna. Inoltre nel periodico c’era spesso qualche pagina di arte in genere e di teatro. Il giornale trattava anche di opere teatrali e di artisti: fra gli artisti fu molto lodato, nelle cronache e nei versi, il baritono faentino Antonio Tamburini, che ritornò in patria reduce dai trionfi di Pietroburgo e di altre capitali europee. La cronaca teatrale riguardava praticamente tutti gli eventi teatrali della Romagna e non solo.

Sul giornale ci furono anche alcune curiosità e particolarità. Ricordiamo: una lettera di Silvio Pellico ed un suo “Carme” e una su tema geografico, da New York, dell’esule Eleuterio Felice Foresti di Conselice, un patriota, già prigioniero allo Spielberg. Infine da notare che, in ogni fascicolo, “L’Imparziale” offriva ai suoi lettori la pagina delle varietà, ossia indovinelli, sciarade, motti, sentenze e frasi celebri, piccole cose che insieme testimoniavano quali fossero i gusti, l’umorismo e le preoccupazioni di ordine morale della gente di quel tempo. Alcuni articoli si occuparono del gioco del pallone. Non mancavano cronache sui nuovi ritrovamenti archeologici nel territorio. Solo nel 1842, in occasione della disastrosa piena del Lamone che, fra l’altro, fece crollare il centenario Ponte delle Torri, comparirono articoli di cronaca locale ampi e ben fatti che descrivevano il disastro. Il decennio 1840-1850 segnò la fine delle idee tradizionali, ma contemporaneamente nacquero idee nuove ed anche utopie. La lettura de “L’Imparziale” è utile per rivivere quegli anni, per comprendere la Romagna degli intellettuali, che fu anche la Romagna dei moti rivoluzionari. Gli stessi saluti che “L’Imparziale” rivolse cavallerescamente ad altri fogli, che nacquero in quei primi anni del decennio, o le cortesi polemiche che intrecciò con qualcuno, ne erano un esempio. Proprio Pio IX ed il nuovo clima da lui creato furono probabilmente tra le cause della fine de “L’Imparziale”; l’oscurantismo di Gregorio XVI era finito, la stampa era soggetta a nuove norme liberali, il desiderio di conoscere e di sapere si allargò anche al popolo analfabeta. Tramontate le grandi illusioni del 1848 e del 1849 Vincenzo Rossi tentò nuovamente nel 1855 l’avventura della stampa pubblicando “L’Aurora”, strenna mensile di scienze, lettere, arti e varietà che ricalca l’impostazione de “L’Imparziale”, ma la formula era ormai superata dai tempi ed il nuovo tentativo non riuscì.

“Una pia impresa”. Il dibattito sulla Cassa di Risparmio faentina

Nello Stato Pontificio le Casse di Risparmio iniziarono a sorgere nella metà degli anni ’30: la prima fu fondata a Roma nel 1836, seguita l’anno successivo da quelle di Bologna (Varni 1998) e Spoleto. Questi istituti, sorti anche con un fine di beneficenza, videro rapidamente aumentare i loro depositi: la Cassa di Risparmio di Roma passò da 385.926 lire di depositi nel 1836 a 10.050.467 nel 1847; quella di Bologna nello stesso periodo da 70.500 lire a 3.071.908 (Candeloro 1978, 307-308). I depositanti erano in genere borghesi. Ma le Casse in generale investivano i fondi loro affidati in cartelle del debito pubblico, in mutui ipotecari e soprattutto in conti correnti; non esisteva la possibilità di altri tipi di investimenti agricoli, industriali o commerciali. Nello Stato Pontificio ci fu dunque in questo periodo una certa accumulazione di capitali nelle mani della borghesia e di una parte di nobiltà. Questa accumulazione era dovuta in parte alla rendita fondiaria, in parte a redditi di carattere usurario gravante sui contadini, in parte a redditi commerciali e di libere professioni, in parte a proventi derivanti da privative industriali concesse con notevole frequenza dal governo, e infine a proventi di speculazioni più o meno lecite rese possibili dalla cattiva organizzazione dell’amministrazione pontificia. Questa borghesia, formatasi lentamente nel corso dei secoli precedenti e rafforzatasi, soprattutto nelle province adriatiche, nell’età napoleonica, aveva la sua base principale nel possesso della terra ed aspirava ad ottenere profitti maggiori e più sicuri, ma soprattutto aspirava alla direzione della cosa pubblica. Perciò lottava contro l’oligarchia prelatizia, che monopolizzava il governo e l’amministrazione, ed era quindi propensa alle idee liberali e patriottiche. Nello Stato della Chiesa, vista la sostanziale assenza, soprattutto nei territori periferici, di forme di credito moderne, alle Casse furono affidate funzioni diverse, che finivano inevitabilmente per associare all’assistenza, alla carità, alla sollecitazione del risparmio “plebeo”, quelle attività di prestito ai privati e agli enti locali che già costituivano altrove la funzione creditizia. Nello Stato Pontificio, a causa del predominio incontrastato esercitato da una forte classe dirigente di notabili e proprietari terrieri, l’idea di fondare una Cassa, anche se patrocinata dai cardinali legati, fu tuttavia lasciata all’elite locale, da cui uscirono i soci che, senza fini di lucro, si impegnarono a sottoscrivere il capitale necessario all’impresa. Infatti prima dell’istituzione delle Casse nello Stato della Chiesa si trovava solo qualche banco privato soprattutto a Roma e a Bologna e la pratica radicata dell’usura, sotterranea e di difficile quantificazione, era molto diffusa.

Il numero de “L’Imparziale” del 10 giugno 1840 conteneva un articolo che, per spiegare chiaramente quali erano i vantaggi che derivavano dall’istituzione delle Casse, elogiava un opuscolo di Domenico Vaccolini.

Il libretto recensito comprendeva sei novelle popolari, adatte alla lettura delle persone meno alfabetizzate, che raccontavano in modo divulgativo i principi fondanti delle Casse. Il 10 novembre 1840 iniziava la pubblicazione a puntate, per tre numeri successivi, di un articolo anonimo intitolato Alcune parole sulla Cassa di Risparmio in Faenza. Così veniva descritta la Cassa di Risparmio: “È una specie di banca che riceve gli avanzi anche più piccoli, che fa l’industrioso su’ suoi guadagni”. Infatti le Casse di Risparmio in quel periodo si stavano diffondendo anche in Italia, mentre in America, Inghilterra, Francia, Germania e Svizzera c’erano già. La Società era formata da persone generose, “mediante cento azioni di una determinata somma”, con le quali si formava un capitale, amministrato da un Consiglio di dodici o più soci, che lavoravano gratuitamente nei diversi incarichi e negli uffici, e venivano eletti a maggioranza. La Cassa apriva la domenica per ricevere i depositi e li restituiva il mercoledì; ogni deposito non poteva essere inferiore a cinque baiocchi né maggiore di sei scudi: “perché è destinata al vantaggio del povero e non a speculazioni di commercio”. I deponenti ricevevano gratuitamente dall’Amministrazione un libretto in cui segnare i depositi e gli interessi, cioè il 4 per 100, a partire dal giorno successivo a quello del deposito, purché le somme depositate ammontassero a venticinque baiocchi; dopo sei mesi i guadagni non ritirati venivano aggiunti al capitale azionario e divenivano a loro volta fruttiferi. Per poter corrispondere questo frutto, il Consiglio di Amministrazione impiegava il capitale al 6 per 100, dividendolo in piccole somme, con le quali ci si proponeva naturalmente di dare impulso alle modeste attività imprenditoriali allora esistenti. L’esemplificazione fornita era molto precisa: il negoziante non era più costretto a vendere in fretta e senza guadagno le sue mercanzie, e poteva continuare i suoi commerci e pagare i suoi dipendenti; si sosteneva l’agricoltore, offrendogli i mezzi per migliorare i suoi terreni e moltiplicarne la rendita; ed infine si appoggiavano gli urgenti bisogni dell’“uomo industrioso”, obbligato da malattia o da qualche altro inconveniente a fare un piccolo debito, che era possibile estinguere con il suo risparmio o con il suo lavoro, e non era così più costretto, come prima, a rivolgersi a un usuraio. Così la Cassa, pagando il 4% sui depositi e ricavando il 6% sugli impieghi, ricavava il 2%. Date le modeste spese di Amministrazione, visto che gli uffici erano prestati gratuitamente, il ricavo era destinato anzitutto a rimborsare le azioni sottoscritte dai soci fondatori; successivamente, i profitti venivano erogati in beneficenza.

Si passava poi ad illustrare i benefici che potevano ricavare i risparmiatori, infatti la Cassa era definita “riparo all’indigenza”. Ancora una volta si ricorreva ad una minuta esemplificazione: i depositi potevano consentire ai lavoratori di accumulare una somma per la vecchiaia evitando il ricovero in ospedale, depositando un discreto capitale fruttifero. Poi si ribadiva:

vedremo come per essa il padre di famiglia possa agevolmente apparecchiare alle figlie una dote, con che procacciar loro marito; ai figli il modo di istruirsi in alcuna utile professione, o mestiero, e spesso rimediare ad alcuna sventura impreveduta, senza dover ricorrere a coloro, che essendo a lui peggiori della ventura stessa, finiscono ordinariamente di rovinarlo.

L’articolo continuava con una serie di esempi per sottolineare anche i vantaggi morali che la Cassa portava, come l’artigiano che “prima poco curante dell’avvenire […] si contentava di vivere alla giornata. I nemici del lavoro, gli accattoni, dovevano diminuire se non sparire, e le arti e le industrie, più attivamente sostenute e appoggiate, sarebbero cresciute sempre di più”. Purtroppo, visto che, “la malvagità e l’ignoranza non hanno angusti confini”, non c’era da stupirsi che ci fossero dei nemici della Cassa, che “minaccia ruina a quei malvagi che senza alcuna carità approfittano delle altrui miserevoli circostanze”. L’articolo concludeva iniziando ad elencare alcune delle voci contrarie alla nascita delle Casse relativamente ai vantaggi che avrebbe portato, “che nel volgo potrebbero trovare più facile credenza”. Per primo si citava la voce che gli affari della Cassa non potevano prosperare perché le spese dell’amministrazione e qualche possibile perdita di investimenti avrebbero consumato il Capitale azionario, e perciò non avrebbe adempiuto agli impegni presi. Il 20 novembre 1840 fu pubblicata la continuazione. Lo scritto iniziava dimostrando la falsità delle voci sulle spese dell’amministrazione, visto che i Soci lavoravano gratuitamente, e che quindi le spese erano molto basse e si riducevano al prezzo dei libri, della carta, delle stampe e dello stipendio del portiere. Riguardo alla possibilità di perdite negli investimenti, si citava come esempio la Cassa di Risparmio di Forlì, che da quando fu istituita, non ebbe nessun caso di ritardo negli adempimenti. È evidente da quanto si è detto che i rischi erano limitati proprio per il giro d’affari abbastanza limitato della Cassa, sia dal lato della raccolta dei depositi, che da quello dell’erogazione dei prestiti. I debitori avrebbero adempiuto ai loro obblighi, sia per ottenere in altre circostanze nuove sovvenzioni, sia perché al contrario si sarebbe proceduto per via giudiziaria. Alcuni pensavano che pochi sarebbero stati i depositanti, “perché i più industriosi avrebbero investito i loro risparmi in un più lucroso commercio”, mentre i più poveri non avrebbero avuto i soldi per fare dei depositi. Per rafforzare queste opinioni si citavano gli esempi di alcune categorie di possibili clienti: i lavoratori, la donna, il falegname, l’artigiano, che impiegavano i soldi avanzati in vari modi.

Replicava l’articolista:

Ma d’altra parte ognuno vede che ad accumulare le piccole somme occorrenti a fare simili previdenti provviste, gioverà molto il settimanale deposito dei pochi baiocchi, che isolatamente insufficienti ad esse, potrebbero per avventura essere inutilmente spesi. Depositati una volta non correranno più alcun rischio ed anzi aumenteranno.

Seguendo questo ragionamento, ovviamente si dovevano raccogliere un maggior numero di depositi dove l’industria era più ricca. Altre critiche sostenevano che i poveri non avevano molti vantaggi a depositare i risparmi nella Cassa, dato che, come già detto, l’interesse sui depositi era del 4%, mentre quello sugli impieghi era dl 6%; l’articolista così confutava: “ma non vi sarà chi non vegga essere necessaria questa diversità di frutto, non solo per far fronte alle poche inevitabili spese, ma anche per costituire un fondo col quale a poco a poco estinguere il debito formato cogli azionisti”. Tutto ciò era a vantaggio dei poveri visto che gli avanzi della Cassa erano erogati in pubbliche beneficenze. L’articolo del 30 novembre 1840, era la terza ed ultima parte. Iniziava rispondendo a quelli che credevano che la Cassa non desse garanzie ai deponenti e che essi corressero il rischio di perdere tutto. Ma gli amministratori venivano scelti dal voto di cento persone, le migliori e le più colte, e quindi si immaginava che fossero onesti, e non avrebbero voluto tradire la collettività, con un’onta che non si sarebbe potuta cancellare, e infangare la reputazione che avevano conquistato. Inoltre gli amministratori non avevano la facoltà di fare tutto ciò che volevano. Infatti venivano scelti dalla società degli altri responsabili, che dovevano accertare le azioni degli amministratori, “offerendo in pubblica stampa non equivoco rendiconto in appositi prospetti”. Poi si sottolineava che, per la natura stessa dell’istituzione, non si poteva tenere nella Cassa una grossa somma di denaro, visto che doveva essere sempre investito, “e nelle mani di onesti cittadini o negozianti che non sono tenuti a restituirlo se non che alle epoche stabilite dalla loro obbligazione”, perciò veniva cancellato ogni dubbio di poter essere defraudato da una rapina o da una pubblica calamità. Poi l’autore dell’articolo iniziò a fare dei raffronti con la nascita e la diffusione delle Casse all’estero e nella penisola italiana. In Inghilterra vennero fondate in venticinque anni più di cinquecento Casse di Risparmio, mentre in Francia ne nacquero più di centosessanta in diciassette anni. La Cassa di Milano, e le altre sette della Lombardia, ebbero un deposito di più di sette milioni di lire in meno di quindici anni; mentre la Cassa di Firenze accumulò più di un milione e quattrocentomila fiorini, in cinque anni, e diede origine ad altre sei Casse filiali, guadagnando così tanti avanzi da rendere ai soci il denaro che avevano depositato per fondarla. Nella Cassa di Roma furono versati quasi duecentomila scudi in undici mesi, mentre la Cassa di Bologna ebbe un deposito di cinquantamila scudi nel primo anno e quella di Ferrara ne incassò più di venticinquemila in un anno. La Cassa di Forlì (Balzani 2000) dall’11 agosto 1839, giorno delle sua fondazione, fino al 19 agosto 1840 fra l’esatto e il pagato ebbe in numerario circa cinquantamila scudi romani. L’articolo finiva con questa frase, “anche a Faenza, dove le cose giustamente si estimano, avverrà che veggasi prosperare questa lodata istituzione, di che ragionevole speranza si concepiva fin d’allora che, nata essendo una nobile gara nel dar mano all’opera benefica, videsi l’universale aggradimento, e si udirono parole di benedizione a chi la consentiva”.

L’articolo del 30 marzo 1841 si intitolava Cassa di Risparmio in Faenza e dava notizia dell’apertura a Faenza dell’Ufficio della Cassa di Risparmio, il 18 aprile, nel Palazzo del conte Scipione Pasolini Zanelli, in via del Corso n. 49. Il discorso dal governatore di Faenza Cav. Luigi Tosi, pronunciato il 18 gennaio 1841, era pubblicato nel numero del 20 aprile 1841. Il successivo articolo del 30 aprile 1841 dal solito titolo Cassa di Risparmio in Faenza annunciava che la domenica precedente i depositi della Cassa ammontavano a scudi 695.91. Si proseguiva con la pubblicazione della Circolare del vescovo di Faenza ai parroci della città e della diocesi, diramata l’8 aprile 1841, a sostegno della nuova iniziativa economica. Nella Circolare si annunciava l’istituzione a Faenza di una Cassa di Risparmio e si richiedeva di avvertire i propri parrocchiani della novità, di spiegare in pratica lo scopo e l’utilità che poteva derivare da quella “filantropica istituzione”.

Il 10 luglio 1841 si pubblicava il comunicato che annunciava la nascita della Cassa di Risparmio anche a Bagnacavallo, città che era nella provincia di Ferrara ma nella diocesi di Faenza. Il fondo sociale era composto da quaranta azioni di 20 scudi l’una; l’interesse sui depositi era, come al solito, del 4% e tutte le altre condizioni erano conformi a quelle faentine. La Cassa di Risparmio fu aperta domenica 28 giugno 1841, i depositi furono 60, per un totale di 122 scudi. “L’Imparziale” si prefisse l’obbiettivo di additare ad esempio di altruismo e di generosità i fondatori della Cassa di Risparmio faentina; basti dire che il 20 agosto 1841 fu pubblicato un supplemento di tre pagine interamente dedicato alla figura del conte Virgilio Cavina deceduto il 15 agosto 1841, illustre socio fondatore e presidente della Cassa. L’articolo del 30 giugno 1842 fu scritto dal direttore Rossi ed era un articolo bibliografico, su due dialoghi intitolati Del pregio della fatica alimentato dalle Casse di Risparmio, scritti da Antonio Vaccolini nel 1841. L’autore aveva scelto come protagonisti dei dialoghi un giovane, un vecchio e un saggio, esponendo ragionamenti sulla varia condizione dei personaggi e “discendendo con bell’arte a commendare le Casse di Risparmio suo principale proposito”. Il 20 agosto 1842 veniva pubblicato il riassunto del Bilancio Generale della Cassa di Risparmio in Faenza dalli 18 Aprile al 31 Decembre dell’anno 1841 e Discorsi letti nella Generale Adunanza della Società del IX Maggio MDCCCXLII, redatto dal presidente conte Rodolfo Zauli Naldi, dal consiglio di amministrazione e dai sindaci verificatori. Si calcolava che gli uomini avevano depositato 16 scudi per ogni libretto mentre le donne 15 scudi e 50 baiocchi. Il totale fu di 211337 scudi e 11 baiocchi mentre i libretti furono 1350. La valutazione complessiva fu che, in una popolazione di circa 20000 persone, 3300 famiglie (due genitori e quattro figli, fanno sei individui per famiglia) fecero dei depositi, quindi poco meno di un terzo delle famiglie. Di seguito era pubblicata la “classificazione degli investimenti in cambiali di varia somma e scadenza n. 212 scudi 28869.60.8”. Tutti questi dati e cifre erano descritti nel bilancio generale della sola gestione del 1841 da aprile a dicembre. Da ciò risultava che la Cassa di Risparmio di Faenza prosperava più di quelle vicine e si rapportava con le più fortunate di qualsiasi altro Stato.

Nel numero del 10 luglio 1843 il conte Francesco Laderchi rispondeva ad un articolo apparso sul giornale “Utile Dulci” di Imola, con il quale si invitavano i fondatori e promotori delle Casse di Risparmio a spiegare ai lettori chiaramente sulla possibilità “di trovare chi possa caricarsi dei frutti e ad indicare i luoghi dove si potranno trarre”, nell’ipotesi che un deposito di soli quattro scudi dopo seicento anni potesse ancora maturare interessi, fino a trasformare il modesto deposito iniziale nell’iperbolica somma di venti bilioni duecentoquattordici mila novecentosessantaquattro milioni novecentosessantacinquemila 124 scudi. Il conte faentino ebbe buon gioco a dimostrare, che anche dove si ricevevano depositi vincolati per somme maggiori di quattro scudi, il caso di un deposito plurisecolare non sarebbe potuto accadere, perché quelle somme erano accettate dalle amministrazioni solo con vincoli temporali e a condizione che il vincolo contrattuale non pregiudicasse l’esistenza stessa della Banca. Considerando che l’autore non aveva firmato l’articolo, il Laderchi dubitava che l’opinione di quello derivasse dall’ignoranza ma dalle cattiverie, nate per denigrare e screditare la nuova istituzione. Ricordava infine che la Cassa impediva “l’arte di cavare un disonesto anzi un turpe lucro dal denaro”, ossia il prestito ad usura, purtroppo assai diffuso. Il conte Laderchi concludeva che “se l’autore dell’articolo non vuole che sopra di sé pesi un sospetto di mala intenzione debba essere sollecitato di confessare l’errore in che è caduto”. Nell’articolo del 20 agosto 1843, l’autore anonimo dell’articolo voleva chiarire il suo pensiero. L’autore riconosceva che i fondatori delle Casse, per evitare un eccessivo cumulo di denaro, avevano stabilito che i depositi, arrivati a 400 scudi, cessassero di fruttare, e che poteva anche essere vero che quelle amministrazioni non accettassero depositi senza fissare l’epoca della restituzione. Nonostante ciò, l’anonimo ribadiva che “non mancherà per questo di avvenire che le casse di risparmio sussistendo lungo tempo e rendendo fruttifere tutte le piccole somme che ricevono non incontrino dei fortissimi impegni impossibili a soddisfare”. Perciò era indifferente che un deposito non potesse crescere oltre 400 scudi, poiché due arrivavano a 800, tre a 1200, e così via. Questa affermazione era corretta, poiché per valutare gli impegni della Banca si doveva considerare il totale dei depositi. Sollevava inoltre il problema di chi, per sottrarsi al vincolo massimo di 400 scudi per depositi, ne possedeva altri intestati a prestanome, problema anch’esso piuttosto importante e certamente presente in quel periodo. L’anonimo riteneva che bisognasse analizzare non i singoli casi, ma la maggioranza dei depositi e la loro durata, per decidere se gli interessi si fossero potuti rimborsare. Poi ribadiva “quante volte le casse di risparmio si abbiano per istituzioni permanenti, diffuse qual si vorrebbe, per tutto l’Orbe incivilito, oh il cumulo degli interessi di cui vanno a gravarsi deve assolutamente stordire”. Per fare capire la sua idea, però, l’anonimo ripeteva l’assurdo esempio dei quattro scudi depositati per sei secoli, producendo una somma di miliardi di scudi, per dimostrare che le Casse non potevano reggersi a lungo. L’anonimo era così convinto della sua opinione da affermare che un suo errore “dovrebbesi addimostrare con ragioni sode basate sul calcolo e sulla conoscenza chiara di ciò che chiamasi frutto del denaro”.

L’articolo del 30 agosto 1843 pubblicava i depositi e le restituzioni della cassa faentina del mese di agosto 1843. Nel Supplemento di quel numero del giornale era pubblicata l’ulteriore risposta all’anonimo di Francesco Laderchi, datata 28 agosto. Inizialmente il conte faentino ricordava la sua lettera precedente, poi affermava che l’ignoto autore si era sbagliato nelle sue teorie anche nella successiva lettera. Infatti era inevitabile che 4 scudi depositati in una Cassa, al netto del 4% all’anno, con un accumulo di interessi potevano diventare quattrocento in 17 anni, sei mesi e 12 giorni, ma non era probabile e nemmeno possibile, in qualsiasi paese del mondo, che per così tanto tempo si lasciassero aperti più di 50.537.000.000 milioni di libretti, necessari per raggiungere la cifra ipotizzata dall’anonimo nel suo esempio. Ovviamente l’anonimo aveva offerto un argomento importante al Laderchi, formulando un esempio tanto assurdo. Il conte faentino chiedeva poi all’anonimo dove poter trovare l’enorme quantità di contante necessario per aprire quel numero di libretti. Infatti nelle Casse di Risparmio si versavano solo gli avanzi “che per la tenuità loro non danno agio ad alcun lucroso traffico, e che chi ha somme da potere esercitare una qualche commerciale industria, non si conduce già a depositarle nella Cassa di Risparmio per averne il solo frutto del quattro per cento”. Inoltre il Laderchi dimostrava che le tre ore delle cinquantadue giornate dell’anno, nelle quali si ricevevano i depositi, non erano sufficienti per arrivare alle cifre milionarie ipotizzate. Per togliere ogni dubbio, che le Casse potessero incontrare impegni impossibili da soddisfare, decise di esaminare “di qual natura sia l’Ufficio che esercitano”. Adempiendo a queste funzioni economiche le Casse non potevano finire nel pericolo ipotizzato dall’anonimo, perché tutto il denaro che ricevevano era messo in circolazione e suddiviso nei diversi rami dell’industria, che ne avevano bisogno, e dai quali ricavavano i guadagni con cui potevano coprire gli impegni e le spese dello stabilimento. Né c’era da temere, se l’unico contante in circolazione fosse quello della Cassa di Risparmio, che potesse rimanere improduttivo o abbandonato, perché se il contante non poteva essere molto aumentato senza battere moneta, se le Casse non avevano la possibilità di batterla, e se essa era circolata in quantità quasi immutabile prima dell’istituzione delle Casse, “tanto più facilmente sarà tenuto in giro per esse, che essendo rianimatrici ed ordinatrici di ogni industria, gli aprirono nuove e più ampie vie di comunicazione”. Inoltre il Laderchi osservava che, considerati complessivamente tutti i depositi di una Cassa, non era possibile accumulare in essa con i frutti dei guadagni, una somma così grande da imbarazzare gli amministratori, poiché tutti quelli che possedevano capitali avevano bisogno di usare il guadagno per soddisfare i bisogni della vita, o per riprodurre altri capitali, quindi non potevano lasciare gli interessi in deposito per capitalizzarli indefinitamente. Potevano esserci alcuni, che avendo pochi bisogni da soddisfare aumentavano continuamente le loro ricchezze; ma d’altra parte vi sarebbero stati anche altri che diminuivano le proprie ricchezze. In tal modo sulla ruota della fortuna, secondo Laderchi, c’era chi saliva e chi scendeva, e qualcuno che raccoglieva ciò che altri disperdevano. Su quella ruota poteva moltiplicarsi infinitamente la circolazione del contante, ma non poteva moltiplicarsi infinitamente il contante stesso. Concludeva osservando che dopo non molto tempo, le somme mensilmente ritirate dalle Casse di Risparmio, bilanciavano più o meno quelle che venivano depositate.

Leggendo la polemica tra il Laderchi e l’anonimo si possono formulare alcune osservazioni. Da un lato, l’anonimo aveva sollevato un problema che oggi è assai rilevante, ossia quello dei rischi di un sistema creditizio speculativo che, crescendo su se stesso, non riesce a mantenere le promesse fatte ai risparmiatori. Tuttavia, ragionando di un sistema economico sottosviluppato, come era quello delle province romagnole della prima metà dell’800, l’anonimo era poi costretto ad effettuare proiezioni plurisecolari per mostrare i rischi del sistema, svalutando con ciò tutto il suo ragionamento che restava perciò conservatore e retrogrado. Il Laderchi indubbiamente presentava calcoli e previsioni più realistici, in relazione alla situazione economica esistente. Tuttavia egli escludeva che le Banche potessero creare nuovi mezzi di pagamento oltre alla moneta, la cui emissione (riservata al sovrano) era considerata costante nel tempo; gli assegni non sono neppure ricordati (solo dal 1845 il rendiconto mostra la riscossione di poche decine di cambiali), egli parla solo di libretti di deposito di piccoli risparmiatori, o di grandi risparmiatori che frazionavano i depositi per mezzo di prestanome. L’orizzonte del suo discorso era quello di un sistema statico, nel quale i proprietari terrieri come lui erano i principali detentori di ricchezza. Ciò che al Laderchi interessava era la concentrazione dei risparmi nelle Casse, in modo da combattere l’usura in nome dell’educazione del popolo all’onestà ed alla morigeratezza dei costumi; in questo modo, tuttavia, anche il controllo del credito e del risparmio restava nelle mani dei grandi proprietari, laici ed ecclesiastici, amministratori delle Casse, nel quadro di un sistema essenzialmente bloccato. L’Unità e la diffusione del capitalismo avrebbero cancellato ben presto entrambe le teorie, ormai superate dalla realtà, anche se il ragionamento del Laderchi era naturalmente quello che meglio descriveva un sistema economico in trasformazione.

 

Articoli de “L’Imparziale” sulle strade nella Provincia Ravennate

L’articolo del 10 maggio 1840 si intitolava “Miglioramento sulle strade provinciali nella Legazione di Ravenna” e iniziava sostenendo che le maggiori nazioni europee prosperavano e si erano arricchite grazie al perfezionamento delle strade pubbliche e che quindi anche i cittadini dello Stato Pontificio potevano sperare di avere delle strade ammodernate, visti i miglioramenti che ne potevano derivare e l’importanza delle vie di comunicazione nelle relazioni sociali ed economiche. Per confermare ciò si citavano le innovazioni fatte nelle strade Provinciali della Legazione di Ravenna. Esempio di questa nuova modernizzazione fu la nascita della Strada Faentina, da Faenza a Ravenna, che permise uno sviluppo commerciale tra le due città, visto che prima la città bizantina era “priva de’ mezzi che le dessero comunicazione co’ i suoi vicini”. La Strada fu fatta con un selciato di sassi e sabbia, e per renderla più durevole e resistente furono usati sassi provenienti dal fiume Marecchia di Rimini e dal fiume Santerno di Imola. Con questo nuovo mezzo di comunicazione tutta la Provincia era collegata e Ravenna-Russi-Faenza erano così unite sulla stessa linea stradale. Dalla Strada Faentina fu inoltre costruita una nuova via, che fu unita a quella per Bagnacavallo, Lugo, Bologna, assicurando altro traffico per i prodotti romagnoli e che “formò ben presto del mercato lughese lo scalo di quei generi naturali il cui commercio in un paese agricolo riesce la sorgente della ricchezza nazionale”. Tutta la linea stradale era migliorata anche nelle province vicine, con un sistema di manutenzione che ne garantiva un buono stato, a differenza della condizione in cui era tenuta precedentemente. La Via Reale, il Dismano, la strada del Litorale, quella del Ronco, furono sistemate tutte con il lapillo (cioè il pietrisco) cavato dai relitti del mare, materiale quasi esclusivamente destinato a questo ramo dell’industria. Poi si ribadiva che prima di queste opere di ammodernamento il collegamento tra Faenza e Lugo, città importante per il commercio, era ostacolato o ritardato per le difficoltà stradali, mentre dopo il rinnovamento di tutto il corso stradale, sia nella Provincia Ravennate sia nella Provincia Ferrarese, tolse ogni tipo di ostacolo tra quelle città. Per gli stessi motivi anche le strade verso l’Appennino furono ristrutturate. Infatti all’epoca tutte le città romagnole sulla via Emilia volevano una strada prima, e una ferrovia dopo, verso il Granducato di Toscana, perché considerato “florido di ricchezza”. I collegamenti con la Toscana erano però ostacolati, perché le uniche vie di comunicazione erano dei sentieri di montagna. Ma con la nascita di quattro strade percorribili, senza problemi, si sarebbe diffusa un’esportazione dei generi abbondanti e un importazione di quelli mancanti. Per questo si precisava che le vallate di Marzeno, del Santerno, del Lamone e del Senio, erano adatte per la costruzione di nuove strade, in particolar modo la valle del Lamone.

L’articolo del 20 gennaio 1842, intitolato Nuova strada da Faenza a Firenze, era dedicato esclusivamente alla conclusione della Strada Toscana per Brisighella. Solo da pochi anni le vie di comunicazione dal Tirreno all’Adriatico erano state costruite, infatti prima erano molto complicati i collegamenti a causa delle strade impervie. Le Province di Bologna, Forlì e Pesaro gareggiarono per questo scopo e grazie al sostegno del Governo Toscano, trovarono il modo di avere la tanto aspirata via di comunicazione. Ma ci furono altri che fecero dei tentativi. Nell’articolo poi si annunciava il compimento della Strada Pontificia nella vallata del Lamone, continuata poi dal Governo Toscano nel suo territorio. Il progetto eseguito per l’ultimo tratto della Strada Provinciale Pontificia fu preparato dal Professore Ingegnere in Capo della Legazione Antonio Trebbi, mentre l’Ingegnere Lorenzo Bollocchi si occupò dei lavori toscani. La nuova Strada avrebbe congiunto l’Adriatico e il Mediterraneo, da Ravenna per Faenza, Marradi, Firenze e Livorno; una linea che avrebbe portato grandi benefici. Quindi si elencavano i vantaggi di questa linea stradale per l’Appennino, considerata la migliore in assoluto: la brevità del cammino e la comodità di accesso avrebbero portato una maggiore frequenza di quelle terre popolate e dalle campagne fertili. Per queste ragioni la Provincia Ravennate avrebbe dovuto sperare di vedere una maggiore frequenza del Commercio con le contrade della vicina Toscana e anche nel miglioramento del porto di Ravenna. Infatti già allora era in corso un progetto per far diventare il porto di Ravenna uno dei principali dell’Adriatico, unito alla nuova Strada che avrebbe portato un maggiore commercio attraverso un breve tragitto di terra da un mare all’altro, invece di un lungo giro per le coste Italiane. L’articolo del 30 dicembre 1842 si intitolava Cenni descrittivi della nuova strada rotabile da Faenza fino al Borgo S. Lorenzo ed era dedicato era al Granduca Toscano. All’inizio si precisava che in questo scritto si voleva descrivere la condizione e l’aspetto di tutto il Paese, cioè della nuova strada da Faenza a Borgo San Lorenzo. È una sorta di guida turistica, vengono citate tutte le località, oltre all’ambiente e al paesaggio di tutto il territorio. L’articolo del 20 maggio 1843 si intitolava Schiarimento sulla nuova strada rotabile da Faenza sino a Borgo San Lorenzo e fu scritto dal direttore Vincenzo Rossi, che voleva eliminare quelle voci, secondo le quali la nuova Strada non sarebbe stata praticabile, mentre invece si ribadiva che sarebbe stata portata a termine e non aveva nessun problema o pericolo.

 

“O Sommo Pio”: l’elezione di Pio IX. Le reazioni e i commenti dei faentini

Il 16 giugno 1846, dopo un conclave durato solo sei giorni, Giovanni Maria Mastai Ferretti, vescovo di Imola, fu eletto Papa e assunse il nome di Pio IX. Ad accelerare l’elezione aveva contribuito la paura che i settari potessero approfittare di un lungo interregno per scatenare un’altra insurrezione in Romagna. Il nuovo pontefice era stato un candidato di compromesso, ed era sostanzialmente uno sconosciuto. Proveniva da una famiglia aristocratica marchigiana ed aveva fama di uomo amabile e buono. Ma come vescovo aveva sempre cercato di mantenere un basso profilo politico, evitando di schierarsi pubblicamente con i liberali o con i conservatori sulla questione delle riforme negli Stati pontifici. Per questo il suo avvento al trono di San Pietro non fu accolto da clamori. Ma un mese dopo decretò un’amnistia per i detenuti politici: un fatto non inconsueto per un nuovo Papa, ma che nel frenetico clima politico di quegli anni provocò una straordinaria ondata di esaltazione. La sera del 16 luglio una folla riempì la piazza di fronte al Quirinale. L’entusiasmo suscitato dall’amnistia dilagò rapidamente negli Stati pontifici e folle giubilanti si riversarono nelle strade per applaudire il nuovo pontefice. Furono allestite rappresentazioni speciali del verdiano Ernani, in cui le parole iniziali dell’aria in cui nel terzo atto Carlo V rendeva omaggio a Carlo Magno (“O sommo Carlo”) diventarono “O sommo Pio”, e in cui il verso “perdono tutti” provocava una tempesta di applausi e di grida. L’elezione di Giovanni Mastai Ferretti non suscitò a Faenza particolari entusiasmi. Infatti “L’Imparziale” nel suo numero del 30 giugno 1846 dedicò al nuovo pontefice solo due epigrafi elogiative di circostanza, l’una del direttore e proprietario Vincenzo Rossi e l’altra del canonico Tassinari. Solo la concessione dell’amnistia, un mese dopo l’elezione, scatenò a Faenza quel fenomeno che lo Strocchi definì in una lettera di settembre: “il nostro nuovo sovrano, veracemente Pio, non dà riposo a lingue a penne a tipografi”. Fu proprio lo Strocchi, nel numero de “L’Imparziale” del 31 luglio, a pubblicare un’ottava in lode del Re de’ Regi, un’ode che seguì una cronaca faentina che, oltre a rivendicare la primogenitura della testata nelle lodi a Pio IX, descrisse la grande festa svoltasi, in onore del nuovo pontefice, nella piazza di Faenza il 22 luglio.

Da lì iniziò una lunga serie di versi, che durarono dal luglio del 1846 al marzo del 1847. “L’Imparziale” del 31 luglio 1846 pubblicò un articolo, intitolato Giovanni Maria Mastai Ferretti, con un sottotitolo in latino Homo missus a Deo, cui Nomen erat Johannes. L’autore sosteneva che il nuovo Papa dimostrava con il suo esempio quanto potesse fare per rendere quiete, prospere e gloriose le nazioni. Una prova di tutto ciò fu il magnanimo atto di clemenza, “ad imitazione dell’Uomo Iddio, che moriente supplicava all’eterno Padre perdono ai suoi nemici”, che fece poco dopo essere salito “sul più alto dei Troni dell’Universo”. La sera del 22 luglio la piazza e le strade principali di Faenza furono illuminate e una moltitudine di persone di ogni sesso, età e condizione, che non si era mai vista così stipata per altre circostanze, “al suono di musiche armonie di scelta Banda alzava inni di fedeltà alla Clemenza di Pio Nono, e al batter di palme succedeva un gridare incessante Al Nono Pio Gloria ed Onor”. Nelle case e le botteghe di ogni arte e mestiere furono ordinati e esposti ritratti a bolino, a litografia e ad acquarello, con prospettive pittoriche e con dipinti che rappresentavano le generose azioni e le somme virtù del nuovo Pontefice ed “era insieme bella la emulazione de’ consolati sudditi nell’accrescere lodi a lodi, benedizioni a benedizioni, onori ad onori”. In seguito altre magnifiche celebrazioni erano stabilite dai cittadini durante il giorno e la sera del 2 agosto. Nel numero del 15 agosto 1846 l’articolo iniziava così:

I suoni delle campane e gli spari de’ bronzi militari annunziavano la sera del primo Agosto la festa, che i cittadini di Faenza con largizioni liberamente offerte preparavansi a solennizzare nel seguente giorno a sfogo presente, e a testimonio perpetuo della gratitudine, e dell’allegrezza onde sono compresi pel magnanimo Perdono dell’immortale regnante Pio IX.

Il giorno successivo, elevato il vessillo pontificio sulla torre maggiore della città e sulle porte principali, nuovi suoni e nuovi spari attirarono l’ennesima moltitudine di cittadini al Tempio Maggiore, dove c’erano dei fedeli con candele accese, alla presenza del vescovo, del governatore e del magistrato cittadino, che “compivano dinanzi al Corpo di Cristo sacrato il rendimento di grazie coll’Inno ambrosiano”. Poi proseguiva: “il compartimento infine di quanto rimase del denaro raccolto ai poveri della Città, e del Borgo chiudeva la Festa, che una epigrafe del Cavaliere Dionigi Strocchi, incisa in marmo farà conta ai posteri”. Ma l’onore più splendido fatto a Pio IX quel giorno, per l’autore, furono i segni di fiducia e di fratellanza sui volti delle persone, che per molto tempo furono divisi dalle discordie e al cui ricordo prima le menti si chiudevano.

Nella pagina successiva fu pubblicata la famosa pastorale del vescovo di Gubbio, Giuseppe dei Conti Pecci, del 24 luglio 1846, dedicata “Al suo dilettissimo popolo”, inviata al giornale dal cancelliere del vescovo Francesco Tondi. L’articolo cominciava parlando della clemenza, attributo dei regnanti, e contrassegno più evidente della loro destinazione divina per governare i popoli. Poi il vescovo ribadiva che il perdono accordato dal pontefice era un bene universale, non riguardava solo i compromessi politici, e tutti dovevano riconoscerlo. Veniva sottolineato che il pontefice con l’amnistia aveva posto fine alle differenze di partiti, di opinioni e di tendenze, “come Gesù Cristo colla sua carità predominante, promulgata dal Vangelo riconciliò in sé tutti i cuori, tutti i genii, tutte le generazioni dell’Universo”. Poi nella pastorale si sottolineava che “se tutti i fedeli Sudditi debbono entrare nelle mire e nei sentimenti dell’Ottimo Principe, molto più il clero deve conformarsi al Sommo suo Sacerdote”. In particolar modo i parroci non si dovevano stancare di infondere nel loro popolo la concordia, il buon ordine e “la sommissione alle legittime Podestà”. Giuseppe Pecci concludeva la sua pastorale paragonando l’atto sublime di sovranità di Pio IX con la sovranità di quel Dio che con la misericordia e con il perdono manifestava, più che con la giustizia, la sua onnipotenza, e perciò bisogna essere eternamente riconoscenti “all’Indulgentissimo Principe”. Infine veniva divulgata una lettera di un esule da Madrid, Giorgio Ronconi, del 31 luglio 1846, che voleva dimostrare il proprio giubilo per l’amnistia papale e descrivere la reazione degli italiani residenti a Madrid alla notizia dell’amnistia. Diversi italiani si ritrovarono presso la casa del Rosconi per celebrare e onorare “l’Atto solennemente cristiano con che S. S. Pio IX ha richiamato al seno della sua cara Patria i tanti profughi disgraziati, ed ha consolato tante famiglie afflitte”. L’occasione fu animatissima e molto toccante e la serata si concluse con una cena offerta dai padroni di casa, durante la quale i brindisi si moltiplicarono e tutti bevettero alla salute di Pio IX e della loro comune patria, l’Italia. Nel numero del 31 agosto 1846 veniva pubblicata la Circolare di sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Giovanni Benedetto De’ Conti Folicaldi Vescovo Zelantissimo di Faenza, inviata ai parroci della città e della diocesi. La circolare ricordava la disposizione papale del 16 luglio “con cui stendendo la mano offre la pace nel cuore, mediante generoso perdono, a quelli suoi amatissimi sudditi, che traviarono, come mosse gli animi a somma e sincera esultanza, così gli ebbe mossi a pari riconoscenza”. La conseguenza della grazia e della riconosciuta gratitudine deve essere anche la riconciliazione degli animi e a tale importante scopo ognuno era tenuto a contribuire. Questo scopo sarebbe stato raggiunto, se l’esempio del Sovrano, che perdonava con generosità ogni offesa ed accoglieva indistintamente con sé ogni persona, fosse stato seguito dai sudditi, ma essi avevano il dovere di assecondare le disposizioni del Pontefice. In questo modo sarebbe iniziata una nuova era di reciproca concordia, riunendo così quanti prima si contrapponevano, che avrebbe formato i sudditi della Santa Sede in una sola famiglia, devota al Monarca e ubbidiente alle leggi da lui stabilite per il bene universale. La circolare si concludeva con l’augurio che l’adempimento delle disposizioni del Pontefice avrebbe portato tra le popolazioni una pace solida, la concordia e “il vicendevole amore in cui precipuamente consiste il benessere e la prosperità del genere umano”.

 

Conclusioni

“L’Imparziale” ebbe sempre un’ottica prevalentemente localistica. Le sue ambizioni letterarie furono certamente eccessive e improntate all’elogio di un classicismo ormai superato.

Tuttavia anche “L’Imparziale” diede il suo apporto alla formazione di una coscienza nazionale: gli intellettuali che hanno scritto sul periodico faentino, come ho già detto, ebbero infatti come meriti principali la difesa della lingua italiana e il culto dei classici. Il richiamo alla tradizione classica costituì per molti patrioti una base culturale dalla quale poi partirono per costruire una formazione più completa e più consapevole del loro pensiero. Oltre a Vincenzo Monti che fu il più noto esponente di questa corrente culturale, l’opera e la presenza di Dionigi Strocchi, fondatore della scuola letteraria neoclassica faentina, contribuì a dare una base solida a tutti coloro che rimpiangevano il periodo napoleonico. Esso infatti era considerato da molti patrioti come il periodo della nascita di una coscienza nazionale e di una autonomia politica dell’Italia, che per la prima volta risorgeva dalla frantumazione medioevale. Tra i collaboratori ho ricordato noti patrioti, che furono perseguitati dal governo pontificio, come l’abate Maccolini esule a San Marino per diversi anni, e Augusto Bertoni, combattente mazziniano nella difesa di Roma del 1849, morto in carcere, e infine Angelo Marescotti che dopo l’Unità fu un noto uomo politico. Non va infine dimenticato che Francesco Zambrini, il più noto classicista del giornale dopo lo Strocchi, aveva partecipato da studente ai moti del 1831, pur avendo in seguito abbandonato l’attività politica. Vincenzo Rossi non fu pienamente consapevole di svolgere anche questo ruolo di formazione politico-sociale con la sua attività giornalistica.

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