Lord Robert Vansittart: una voce contro l’appeasement

di Fabio Casini

Abstract

L’appeasement fu la linea politica diplomatica adottata dalla Gran Bretagna nei confronti della Germania durante il periodo fra le due guerre mondiali e particolarmente fra il 1935 ed il 1938. L’atteggiamento inglese si basava sulla ricerca di un costante accomodamento con Hitler al fine di salvaguardare, attraverso concessioni ed accordi, la pace in Europa. Tale linea di condotta fu portata avanti con coerenza da Chamberlain e Halifax sino alla conferenza di Monaco. Poche persone in Gran Bretagna si distaccarono dalla linea dell’appeasement e le loro voci-contro ebbero poco peso sulle decisioni ufficiali del governo. Uno di questi anti-appeasers fu Robert Vansittart che nel suo ruolo di sottosegretario permanente al Foreign Office dal 1930 al 1938 non si stancò mai di illuminare i suoi superiori sulla pericolosità della Germania nazista, dimostrando nei confronti di essa e dei tedeschi tutti un odio viscerale.

Abstract english

Lord Robert Vansittart: a voice against appeasement

Appeasement was the British diplomatic policy towards Germany during interwar period and especially from 1935 to 1938. This policy allowed political and material concessions to be made to the Nazi regime in order to preserve peace in Europe. This line of conduct was carried out by Chamberlain and Halifax until the Munich Conference. Few people in Great Britain were anti-appeasement and they had no voice in the matter of British official policy. One of these anti-appeasers was Robert Vansittart, permanent under secretary of state in the Foreign Office from 1930 to 1938, who enlightened the British government on the dangerousness of the Nazi regime proving profound hatred toward Germany and the German people.

Sigle NA: National Archives FO: Foreign Office CAB: Cabinet CC: Churchill Centre and Museum at the Churchill War Rooms, London DBFP: Documents on British Foreign Policy 1919-39

L’appeasement in Gran Bretagna

Ancor prima dell’avvento al potere di Hitler, gli inglesi avevano dato prova di grande tolleranza e comprensione nei confronti della Germania uscita vinta ed umiliata dal primo conflitto mondiale. La posizione del governo britannico, sostenuta in gran parte dall’opinione pubblica del tempo, si distinse subito da quella francese, votata ad una rigida applicazione delle clausole del trattato di Versailles e permeata da un odio viscerale nei confronti della Germania, considerata la responsabile morale della guerra. Era parere comune, in Gran Bretagna, che la Germania fosse stata trattata ingiustamente dal diktat di Versailles e dunque il governo londinese mirò a favorire una graduale ripresa della vita economica tedesca; la sua politica, a partire dagli anni ’20, fu improntata a rivitalizzare i traffici commerciali e ad assecondare le iniziative tedesche che avrebbero potuto giovare alla rinascita del paese. La Bank of England e la City londinese adottarono un sistema di crediti per aiutare la Reichsbank e tutta la Germania a superare il periodo di difficoltà post bellico.

Era iniziato l’appeasement di prima maniera, quello basato sull’idea di venire incontro alla Germania del dopo Versailles. Inoltre, occorreva elaborare una serie di accordi di sicurezza per placare i timori francesi nei confronti della Germania, senza tuttavia incorrere in un impegno formale. Fu il periodo delle grandi conferenze sulle riparazioni ed il disarmo. Nell’incontro di Locarno (1925), pubblicizzato come esemplare atto di riconciliazione fra i paesi europei, la Gran Bretagna si rifiutò di offrire garanzia per le frontiere orientali della Germania, lasciando così ampio spazio di manovra per future ambizioni revisioniste tedesche. Successivamente il governo britannico appoggiò la richiesta tedesca di eguaglianza di diritti in materia di riarmo (Gleichberechtigung). Gli inglesi non si opposero nemmeno al tentativo di unione doganale fra Berlino e Vienna intrapreso nel 1931.

Al momento della presa di potere da parte di Hitler il governo britannico si mostrò abbastanza incerto nell’identificare una precisa linea di condotta nei riguardi del dittatore e del regime nazista. La fisionomia del nuovo governo, nel suo apparato, sembrava garantire una certa continuità con il recente passato di Weimar. Tutto questo fece sì che le masse non vivessero quel passaggio in maniera troppo traumatica. Queste (Fritzsche 2010; Rees 2012) confusero i loro sentimenti nazionalistici, in parte comprensibili e giustificabili, con l’ideologia nazionalsocialista ed anche le Cancellerie europee, Londra in testa, non percepirono che il concetto hitleriano di imperialismo era strettamente connesso a quello di razzismo. I propositi della sua politica, che il dittatore aveva già ben descritto nel Mein Kampft (1923), si basavano ora su un nuovo ed imprescindibile presupposto, diverso da quello che aveva mosso i suoi predecessori: quello di realizzare cioè un incontrastato dominio della razza ariana attraverso la necessaria conquista di uno spazio vitale e senza tener conto dei singoli interessi nazionali.

Al pari della indecisione sul da farsi che si respirava nelle stanze della Whitehall e presso il Foreign Office, anche la stampa britannica, seppur con qualche diversità di approccio, non espresse particolari sentimenti di meraviglia o costernazione a proposito del regime nazista appena insediato e non seppe interpretare e trasmettere al popolo britannico la vera entità del “fenomeno Hitler”. Questi era visto come un demagogo che sapeva ben amplificare il diffuso scontento popolare, magari con toni violenti, ma che in realtà si distanziava poco dai suoi predecessori, ricalcandone in tutto e per tutto le ambizioni revisioniste. In tal senso si esprimevano giornali come il “Times”, “News Chronicle”, “Daily Herald”, “Observer”, “Daily Worker”. Riflessioni diverse, caratterizzate da venature di scetticismo e da un malcelato timore per il futuro delle popolazioni tedesche, si potevano leggere nelle pagine del “Manchester Guardian” (il più critico), dell’“Economist” ed in parte in quelle del “Daily Mail”.

Dall’ambasciata britannica a Berlino, giungevano invece segnali allarmanti sul carattere del partito nazista e sulle intenzioni del dittatore (Bolech 1970,156-174). Rumbold, in quel momento ambasciatore nella capitale tedesca, inviò il 26 aprile 1933 al ministro degli Esteri Simon, un rapporto molto eloquente sulle intenzioni bellicose dei nazisti e sulle manovre per occultare i loro veri propositi. Rumbold aveva già avvisato a più riprese il Foreign Office1, in merito alle dichiarazioni pacifiche che il dittatore aveva fatto, fin dal suo insediamento: esse erano solo espedienti per rassicurare il mondo esterno2, ma ben presto il nuovo leader avrebbe imposto la sua volontà e le sue ambizioni nel teatro europeo. Hitler voleva rendere alla Germania la forza economica e militare, poi riunire al Terzo Reich i territori abitati da tedeschi, infine conquistare un vasto spazio vitale soprattutto a scapito dei territori dell’Europa orientale. I documenti provenienti dalla missione diplomatica a Berlino dovevano scuotere i governanti britannici. Questi, pian piano, si resero conto che il nazionalsocialismo poteva essere pericoloso: ma lo ritenevano tale essenzialmente per la vita dei tedeschi. Gli inglesi non si rendevano conto che il regime nazista, che si concretizzava con i suoi metodi violenti ogni giorno di più all’interno della Germania, avrebbe potuto recare notevoli complicazioni anche in campo internazionale (1970, 163) e rimasero sordi al grido di allarme dei loro rappresentanti diplomatici a Berlino. “Per quanti risvolti spiacevoli potesse avere il regime hitleriano, prevalse l’idea che la Gran Bretagna dovesse trovare il modo di collaborarci e che una Germania forte poteva rivelarsi un prezioso baluardo contro l’ancor meno attraente, più brutale e più estranea dottrina comunista” (Kershaw 2013, 45-46).

Ecco allora che dal 1933 fino alla conferenza di Monaco, il governo di Londra con i vari MacDonald, Baldwin e Neville Chamberlain, proseguì ad oltranza sulla via dell’appeasement (Cowling 1975; Taylor 1975; Barnett 1986; Marrocu 1997): un appeasement di seconda maniera che adesso cercava la via del compromesso con il regime nazista. Oltretutto, l’orientamento pacifista dominava l’opinione pubblica inglese, la quale, in gran parte, ripudiava la guerra. La scelta dell’appeasement (Lanyi 1963; Gilbert 1968; Post 1993; Adams 1993; Neville 2006; Levy 2007), celava dunque una complessità di argomentazioni e non deve essere solo e soltanto interpretata come dimostrazione di acquiescenza, debolezza o di resa. I cosiddetti appeasers, cercavano comunque delle “soluzioni costruttive e pacifiche rispetto a problemi difficili e nei confronti di un interlocutore sempre meno malleabile, piuttosto che rifugiarsi nella politica del rinvio” (Di Nolfo 1994, 239). Quegli inglesi, provenivano in gran parte dal partito conservatore: Simon (segretario al Foreign Office dal 1931 al 1935), Baldwin (primo Ministro dal ’35 al ’37) lord Lothian (ex segretario di Lloyd George), l’ambasciatore Henderson; ma soprattutto Neville Chamberlain, Primo Ministro dal maggio 1937 (Parker 1993; McDonough 1998) ed il suo ministro degli Esteri (dal marzo ’38), lord Halifax (Roberts 1991). Ma c’erano anche personalità dell’aristocrazia3, di ambienti vicini alla Chiesa; editori di giornali4 ed anche alcuni laburisti (Stokes, Davies, Foot, Martin) ed indipendentisti (King Hall, Rathbone). Gli appeasers continuarono a dar prova di grande tolleranza e comprensione verso le azioni revisionistiche tedesche, purché queste non sfociassero poi in atti aggressivi che potevano mettere a repentaglio l’ordine europeo. Era una dottrina in fondo realista, che originava da un postulato: quello cioè che Hitler agisse con lo stesso realismo, impadronendosi di ciò che doverosamente gli spettava, senza andare oltre quel percorso. Ci fu insomma una valutazione sbagliata del dittatore e delle sue vere intenzioni.

Nella sua linea politica, Londra seguì con apprensione il tentativo di annessione dell’Austria promosso da Hitler nel 1934, ma evitò di schierarsi e di prendere una ferma posizione a riguardo. Poi partecipò in maniera abbastanza distratta al “fronte di Stresa” dell’anno successivo, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni della vigilia, mettere un freno al riarmo hitleriano appena annunciato (16 marzo 1935). Da quel momento il dittatore tedesco si sentì autorizzato a procedere nella pericolosa politica di sovvertimento dell’ordine di Versailles, con la consapevolezza di trovare pochi intralci al suo percorso. Oltretutto Hitler possedeva incoraggianti informazioni sulla predisposizione di molti uomini britannici ad appoggiare la Germania o, quantomeno, a non ostacolarne i disegni espansionistici.

Dal 1935 appeasement significò spianare la strada alla politica hitleriana di smantellamento dell’assetto europeo post bellico. In seguito, N. Chamberlain e Halifax, continuarono ad illudersi che le ambizioni hitleriane sarebbero state placate solo attraverso il compromesso, non ostacolando il ritorno al Terzo Reich di quei territori abitati da popolazione tedesca. Finché gli obiettivi sembravano ragionevoli, gli inglesi lasciarono stare e trascinarono anche la Francia5 in quella linea politica e diplomatica. Si sperava di raggiungere soluzioni concordate, atte a soddisfare le richieste tedesche ed evitare un conflitto armato: al tempo stesso si mirava a favorire le mire espansionistiche ad est, così da spingere l’aggressività tedesca verso l’Unione Sovietica e l’odiato comunismo (Shaw 2003; Leibovitz-Finkel 2005). Ecco allora che Hitler realizzò l’Anchluss con l’Austria, occupò il territorio dei Sudeti e l’intera Cecoslovacchia, innescando poi il colpo mortale alla Polonia e sancendo così l’inizio della guerra in Europa.

 

Gli anti-appeasers ed il ruolo di Lord Vansittart

Nel febbraio 1933, ad un mese dall’ondata nazionalistica che aveva portato Hitler al potere, Churchill si era espresso in maniera netta e contrastante con la linea politica ufficiale. Il governo nazionale uscente vittorioso dalle elezioni in Gran Bretagna, succeduto a quello laburista di MacDonald, doveva valutare le lacune della Difesa inglese dinanzi all’avanzata delle dittature in Europa e nel Pacifico. La politica di disarmo affermata da MacDonald, era proseguita con Baldwin che metteva in evidenza i rischi economici e finanziari insiti in un eventuale riarmo. In un discorso alla Camera dei Comuni, Churchill affermò che le richieste sempre più incipienti della Germania alla parità militare con la Francia e con la Gran Bretagna, erano una grossa minaccia all’ordine europeo e potevano presagire una nuova guerra generale (Gilbert 1992, 212). Il 16 novembre 1934 Churchill pronunciò un discorso6 alla Bbc a proposito dello spirito bellicoso tedesco e delle inquietanti finalità del progetto hitleriano. Aiutato da Sargent, funzionario del Foreign Office che ne condivideva le preoccupazioni sul regime nazista, Churchill criticò ancora la politica del disarmo di cui la Gran Bretagna si faceva promotrice, mentre in Germania, Hitler sottometteva altre razze terrorizzando e torturando la popolazione civile (1992, 216). Le critiche di Churchill alla linea morbida intrapresa dal suo governo continuarono dopo le dichiarazioni ufficiali di riarmo tedesco nel 1935 e la rimilitarizzazione della Renania dell’anno successivo: l’attacco di Mussolini all’Etiopia sembrò cosa secondaria rispetto alle inquietudini suscitate dal riarmo tedesco. Sempre in quell’anno, Churchill partecipò ad un incontro organizzato dall’Anti-nazi Council, un comitato formatosi nel 1933 e nel quale Dalton, del partito laburista e Citrine, del Trades Union Congress, erano i maggiori esponenti (Ponting 1995, 380). I suoi discorsi contro la pericolosità del regime nazista si sarebbero fatti più forti nell’ottobre 1938, dopo la conferenza di Monaco che, di fatto, aprì la strada alla guerra hitleriana al “sistema Europa”7.

Tuttavia, come detto, il governo britannico continuava a mettere scarso impegno nella pianificazione della Difesa e confermava la politica di appeasement : riconciliarsi con la Germania senza cercare misure collettive o il riarmo, ma soluzioni negoziate delle rivendicazioni tedesche, così da evitare serie minacce per l’Europa. La linea governativa votata al compromesso era amplificata dagli articoli del “Times”, nelle mani di lord Astor e diretto da Dawson, convinto appeaser. L’opinione pubblica inglese, quella più illuminata, veniva così indottrinata alla teoria e alla pratica dell’appeasement. Fino al 1933 il partito laburista aveva sostenuto quella dottrina, nella convinzione di sostenere la Germania, vittima di un ingiusto trattato di pace. Quella tendenza però cessò di esistere in quell’ala politica, poiché i laburisti si mostrarono assai ostili al nazismo. Al contempo furono gli esponenti conservatori che aderirono con sempre più convinzione all’appeasement: ne abbiamo già riportato i maggiori esponenti, sia all’interno dell’entourage governativo, sia nelle altre categorie sociali britanniche. Rispetto a coloro che guidavano le sorti della Gran Bretagna e veicolavano l’opinione pubblica sulla scia dell’appeasement, le poche voci-contro, furono lasciate ai margini della società e dell’attività politica, almeno fino al 1939. Toccò questa sorte a Churchill, almeno fino a quando non divenne Primo Ministro. Ma anche all’epoca del suo insediamento, gran parte dei deputati conservatori non lo accolse con entusiasmo (Lukacs 2001, 18). Molti provavano dispiacere per la dipartita di Chamberlain ed accettarono con riluttanza l’arrivo del nuovo premier. Essi erano stati eletti nel’35 quando trionfava la dottrina dell’appeasement e la loro mancanza di entusiasmo per il “guerrafondaio” Churchill, era proprio legata alla posizione di anti-appeaser che il neo Primo Ministro aveva manifestato in precedenza, anche con attacchi diretti alla politica del suo predecessore. Ben poca eco produssero gli anti-appeasers (Thompson 1971) fra le masse e ben poco peso rivestì la loro attività che provocò scarsi effetti sulla linea ufficiale seguita dalla dirigenza britannica degli anni’30. Essi cercarono in più modi, ma senza un apparato organizzativo efficace ed omogeneo, di proporre una strada diversa nei rapporti con la Germania: non ci fu un’opposizione coesa, ma azioni sporadiche di gruppi dissidenti o iniziative di singoli votate all’insuccesso. Gli anti-appeasers provenivano in maggioranza dal Labour party e dall’ala liberal inglese; ma anche da altri gruppi di sinistra, e da un settore di minoranza fra i Tories.

Oltre a Churchill, fecero parte di quella corrente, i conservatori Amery, MacMillan, Cooper, Bracken, Leslie Hore-Belisha; e i laburisti Cripps, Lasky, Attlee. Ma un ruolo di primo piano fu ricoperto senz’altro da lord Robert Gilbert Vansittart (Vansittart 1941; 1946; 1958; Jaeger 1957; Colvin 1965; Rose 1978; Boadle 1985; Goldman 1974; 1979; McKercher 1995; Ferris 1995; Roi 1997; Stedman 2011; Asta 2012; Churchill Archives Centre, www.chu.cam.ac.uk ).

Dopo aver studiato a Eton, era entrato in carriera diplomatica nel 1903, con esperienze a Parigi, Teheran e al Cairo. Fu segretario al Foreign Office sotto lord Curzon (1920-1924), capo del Dipartimento americano (1924-28), sottosegretario di Stato e principale segretario privato del Primo Ministro (1928-30), sottosegretario permanente al Foreign Office (1930-38) e quindi capo consigliere diplomatico alla segreteria del Foreign Office (1938-41).

Durante il suo incarico come sottosegretario permanente, più volte ammonì i suoi superiori sulla pericolosità della Germania hitleriana e sull’urgenza di un rapido riarmo per poter affrontare il dittatore da una posizione di forza. La sua sfiducia verso i buoni propositi della Germania era maturata dopo aver svolto studi in quel paese e attraverso informazioni ricevute da colleghi ed amici durante i suoi lunghi anni di servizio diplomatico. Non c’era motivo di insultare la Germania, affermava Vansittart, ma nemmeno di cercare un’amicizia (Thompson 1971, 44). La sua opposizione alla Germania ed al nazismo divenne sempre più forte, tramutandosi poi in un vero e proprio odio viscerale per tutti i tedeschi.

“L’hitlerismo gli era parso fin dall’inizio il logico sbocco di quella linea di antagonismo e di aggressione antibritannica che in Germania aveva già incontrato ai tempi del Kaiser. Mai, neppure per un istante, aveva pensato che un’eventuale alleanza con il Reich hitleriano potesse costituire una garanzia di pace [….] Sosteneva che unico modo per evitare la guerra fosse rispondere alla grave e inevitabile minaccia tedesca potenziando, per quanto possibile i mezzi deterrenti” (Kershaw 2005, 201). Vansittart, “Van” come veniva confidenzialmente chiamato, fu lungimirante nel prevedere la rotta che avrebbe preso la situazione europea e predicendo le mosse di Hitler che avrebbero portato inevitabilmente al conflitto. L’annessione dell’Austria, la caduta della Cecoslovacchia e della Polonia: tutto era stato previsto da Vansittart. Pur mantenendo la sua dura posizione anti-tedesca per lungo tempo, egli poté esprimersi in maniera limitata quando ricopriva la carica di sottosegretario. Ciò, come lui ricorda, fu il peso più difficile da sopportare, fino a quando, una volta destituito dal suo incarico, iniziò a partecipare con minori vincoli reverenziali alle pubbliche polemiche contro l’atteggiamento del governo. Attraverso articoli di giornale, pampleth, discorsi (ed in seguito pubblicazioni di libri) espresse con durezza ciò che non aveva potuto esternare compiutamente nel passato. Fu un abile diplomatico, “con una grande capacità di stringere amicizie e un ingegno acuto e vivace” (Eden 1962, 307); al tempo stesso, personaggio scomodo per l’entourage governativo. I suoi delatori cercarono di convertirlo alle loro idee e di ostacolarne la coriacea opposizione all’appeasement. Coniarono anche il termine vansittartismo (Jaeger 1957), per etichettare tutti coloro che, sulla scia del sottosegretario del Foreign Office, condividevano i pregiudizi sui tedeschi e l’odio per la Germania da lui professati. In realtà Vansittart considerava normale ciò che i suoi oppositori etichettavano come dottrina. Era un dato conclamato – affermava il diplomatico – che in 75 anni la Germania avesse attentato più volte alla sicurezza in Europa e gli inglesi non fossero mai stati capaci nel riconoscere appieno la sua pericolosità, adagiati nella loro protetta posizione insulare, non intaccata da confinanti poco raccomandabili. Gran parte dell’establishment britannico preferì respingere la spiacevole realtà, deformarla e affibbiarle il nome vansittartismo.

Lo scopo di Vansittart, fin dagli anni successivi al primo conflitto mondiale, fu quello di mettere in guardia sulla pericolosità di una nazione che, proprio perché umiliata dal diktat di Versailles, poteva sorprendentemente rinascere: ciò era il risultato di un lungo militarismo e di una cattiva educazione della popolazione tedesca. Vansittart affermava già molto tempo prima della presa di potere hitleriana: “la nazione tedesca deve essere disarmata e rieducata, ed ogni uomo onesto e ragionevolmente bene informato sa benissimo che i tedeschi non faranno questo di propria iniziativa e senza un controllo” (Vansittart 1946).

Negli anni in cui le Democrazie discutevano su riparazioni e disarmo, attraverso incontri cordiali, ma altrettanto inutili, Vansittart continuò a precisare che occorreva agire con fermezza nei confronti dei tedeschi, per evitare il riemergere di una Germania come potenza militare. Era necessario che la Gran Bretagna trovasse le fonti finanziarie per procedere al riarmo. Vane erano le speranze che la Società delle Nazioni, da sola, potesse garantire la pace in Europa.

L’ascesa al potere di Hitler costituì un ulteriore stimolo agli sforzi di Vansittart per rimediare alle carenze della Difesa britannica (dovute ad anni di riduzione delle spese militari). Le informazioni che riceveva dai suoi amici diplomatici a Berlino (Rumbold in testa) non facevano che confermare le sue preoccupazioni sulla pericolosità della dittatura appena insediatasi in Germania. Mentre il governo di Londra dimostrava smarrimento ed indecisione sulle notizie provenienti dalla capitale tedesca, Vansittart indicava alcune linee guida che la Gran Bretagna doveva seguire per circoscrivere le minacce del regime nazista e lo scatenamento di una futura guerra: occorreva cioè procedere ad un veloce riarmo e collaborare con la Francia, gli Usa ed anche, se possibile, con l’Italia fascista, al fine di mantenere la sicurezza e lo status quo in Europa (Roi 1997, 44).

Nel maggio del 1933 Vansittart descriveva al ministro degli Esteri Simon alcune variabili sull’evoluzione del caso tedesco. La possibile caduta di Hitler, in seguito al fallimento economico e all’instaurazione di un regime militare o bolscevico; l’affermazione, al contrario, del successo di Hitler ed una conseguente guerra in Europa nel giro di pochi anni; oppure una guerra preventiva da fare alla Germania per evitare il peggio. Quest’ultima idea era già stata caldeggiata da Temperley, rappresentante militare britannico presso la Società delle Nazioni. In un suo memorandum, che Vansittart inoltrò poi al Foreign Office ottenendo scarsa considerazione, egli ammoniva sulla pericolosità di Hitler e sulla necessità di fermarlo quanto prima8.

Nel mese di luglio Vansittart si espresse anche sul dibattito, molto diffuso nell’intellighenzia britannica, sulla presunta minore pericolosità del nazismo rispetto al bolscevismo. In una lettera a Simon, il diplomatico inglese spiegava che non era conveniente fare un confronto con gli eccessi nazisti e bolscevici: la Russia era troppo incompetente per essere pericolosa ed anche il fascismo italiano non presentava minacce per l’Impero britannico. La Germania di Hitler invece, oltre ad essere una nazione competente era anche chiaramente pronta ad un‘aggressione esterna (citato da Colvin 1965, 26). I disastri che il nazismo poteva causare erano enormi e la Gran Bretagna doveva gioco-forza mutare la sua politica (Goldman 1974, 93). Occorreva – non si stancò mai di affermarlo – fronteggiare quel pericolo fondamentale, mantenendo contemporaneamente gli altri paesi in un costante allineamento contro la Germania. In tale ottica Vansittart cercò di agire nei confronti della Francia e soprattutto dell’Italia di Mussolini. Proprio con il dittatore fascista cercò la via della cooperazione: era una scelta di convenienza, al fine di evitare un pericoloso avvicinamento di quest’ultimo ad Hitler. Perseguì questo intento dal 1933 al 1936, scontrandosi, nei metodi, con la dirigenza britannica e senza ottenere, alla fine, i risultati sperati (Goldman 1974, 95). In quel medesimo lasso di tempo Hitler e Mussolini svilupparono le loro autonome strategie di espansionismo: da un lato l’esigenza di incorporare nel Reich le popolazioni tedesche e dunque la volontà di realizzare anzitutto l’annessione dell’Austria. Dall’altro il desiderio di porsi come attore di primo piano nel Mediterraneo e costruirsi un impero coloniale in Africa orientale.

Per Hitler (come del resto lo era stato per Stresemann) l’Austria era parte della comunità tedesca e dunque l’Anschluss costituiva uno degli scopi essenziali della sua politica estera: il primo atto di forza dal cui successo o fallimento il regime nazista avrebbe basato le sue future azioni. Non si trattava soltanto dell’incorporazione nel rispetto della nazionalità, ma quell’annessione rientrava in obiettivi politici ed economici di più larga portata che avrebbero proiettato Hitler al desiderato espansionismo verso l’est europeo. Von Franckenstein, ambasciatore austriaco a Londra, aveva riferito a Vansittart della delicata situazione in Austria. “Van” trasmise a Simon9 il contenuto della sua corrispondenza: le intenzioni tedesche di realizzare l’annessione dell’Austria erano sempre più forti e la propaganda nazista, insieme alle attività sovversive dei nazionalsocialisti austriaci, si erano intensificate. Il 25 luglio 1934 un putsch organizzato dai nazisti austriaci, ma verosimilmente pilotato da Berlino, portò all’uccisione del cancelliere Dolfuss ed all’insediamento di un governo provvisorio guidato da Rintelen. Successivamente, gli antinazisti austriaci ripresero il controllo della situazione interna e insediarono il socialdemocratico Schuschnigg. Il primo tentativo di Anschluss era fallito: Hitler si rese conto che la via rivoluzionaria era troppo rischiosa e propese per una soluzione evolutiva del “problema Austria”.

Nel frattempo, Mussolini aveva reagito all’attentato contro il suo amico Dolfuss, inviando nel Veneto alcuni reparti per svolgere azioni di movimento in direzione del Brennero. L’Austria non rappresentava un cardine così irrinunciabile (Di Nolfo 1994,170) della politica estera italiana: tuttavia Mussolini la inseriva nella “sua” naturale regione di espansione del Danubio e non voleva certo sacrificarla al revisionismo tedesco. Più che essere preoccupato di garantire l’indipendenza di quel paese, non voleva perdere il ruolo di protagonista in quell’area. Adesso, la sua azione al Brennero, era prettamente diplomatica, sostenuta da un’abile propaganda, in un momento in cui Francia e Gran Bretagna erano riuscite a trasmettere soltanto proteste verbali.

Vansittart vedeva la politica italiana come oscura e vacillante10, ma pensò che sarebbe stato opportuno, come detto, sviluppare con essa buone relazioni. Fra i due dittatori, Mussolini, era quello meno pericoloso e conveniva tenere l’Italia nel ruolo, imposto da se stessa, di controllore della Germania: nessun altro, del resto, meglio di quel paese, poteva contenere la Germania sul fronte meridionale. Poi si poteva sperare in una cooperazione tra Gran Bretagna, Francia ed Italia allo scopo di creare un argine della pace finché la Germania non avesse cessato di sfidare l’ordine europeo11. Dunque, secondo Vansittart, la reazione di Mussolini al fallito tentativo di Anschluss, apriva l’opportunità, per la Gran Bretagna, di concretizzare la cooperazione con l’Italia a difesa dell’Austria e contro le pretese revisionistiche tedesche. Diceva Vansittart: “we should do all we can to widen the beach between Italy and Germany” (citato da Goldman 1974, 104).

L’input fornito da Vansittart non fu colto subito dal suo governo, né dal popolo inglese: c’era un generalizzato scarso interesse all’integrità dell’Austria. Secondo Vansittart, doveva entrare maggiormente in gioco la Francia (anch’essa con interessi vitali da garantire) concordando con l’Italia le misure economiche necessarie ad assicurare la sopravvivenza dell’Austria. I francesi dovevano ovviamente prestarsi a fare delle concessioni a Mussolini e togliere in lui il sospetto12 che l’interesse francese a salvaguardare quel paese fosse soltanto un modo per subordinarla alla Piccola Intesa. La Francia costituiva il perno (Asta 2012, 106) della linea politica anti-tedesca promossa da Vansittart, ma essa tergiversava nel trovare la giusta modalità per stabilire contatti con l’Italia. Tuttavia i francesi superarono ogni perplessità con gli accordi segreti Laval-Mussolini del gennaio 1935, attraverso i quali i due paesi si impegnavano a consultarsi fra di loro ed anche con l’Austria, nel caso di ulteriori minacce all’indipendenza di quel paese ed a raccomandare ai vicini dell’Austria la firma di un accordo di non interferenza negli affari interni dei singoli paesi (Lambert 1966,153). Ma la questione più importante riguardò le rivendicazioni coloniali italiane: la Francia, molto preoccupata dalle manovre di Hitler, voleva assicurarsi una posizione privilegiata in Europa per fronteggiare i nazisti e dunque era disposta a fare concessioni di ampia portata a Mussolini. Ecco dunque che Parigi concedeva “mano libera” sul piano economico (ma di fatto anche su quello militare) alla conquista dell’Etiopia, assicurandosi che fossero garantiti i propri interessi economici riguardanti la ferrovia Gibuti-Addis Abeba. Inoltre la Francia otteneva anche la rinuncia, da parte dell’Italia, allo statuto speciale della comunità italiana in Tunisia (che sarebbe decaduto nel 1945). “Il carattere dominante di quegli accordi fu contraddistinto dall’evidente propensione di Mussolini a scegliere, sull’onda dei risentimenti per la politica tedesca in Austria, di collaborare con la Francia per controbilanciare la Germania” (Di Nolfo 1994, 187). Cosicché il Duce poteva pregustare una tappa importante delle sue ambizioni coloniali, in attesa del lasciapassare anche da parte degli inglesi: ben presto, infatti, la Gran Bretagna si sarebbe allineata alle posizioni francesi in relazione all’impresa etiopica.

Dal 1935 la precaria situazione dell’Austria e la ventilata campagna d’Etiopia, avrebbero dominato la politica internazionale: “by early 1935 the Austrian question was becoming intertwined with a problem that lay outside of Europe – the dilemma of Ethiopia” (Goldman 1974, 109).

Sempre nel 1935, dopo aver già iniziato un massiccio potenziamento dell’Aviazione, Hitler annunciò pubblicamente la coscrizione militare obbligatoria (che violava l’articolo 173 del trattato di Versailles). Il riarmo tedesco avrebbe dovuto suscitare forti preoccupazioni presso gli altri stati e dare l’input per escogitare adeguate contromisure. Nell’aprile di quell’anno, a Stresa, si riunirono Italia, Francia e Gran Bretagna per discutere proprio su quella questione, nonché sulla situazione critica che circondava il caso austriaco. Tuttavia si trattò di un debole fronte (Noël 1975) antirevisionista che produsse soltanto semplici dichiarazioni di intenti: ogni potenza era in quel momento più interessata ai propri obiettivi nazionali che non alla caldeggiata sicurezza collettiva.

La questione dell’Etiopia13 non fu discussa ufficialmente al tavolo della conferenza, ma a margine di essa, attraverso alcune conversazioni fra delegati italiani ed inglesi14, “ad un livello più basso” (Serra 1977, 326). Mac Donald e Simon preferirono ignorare l’argomento. Anche Vansittart (che in materia aveva già avuto alcuni colloqui con il consigliere d’ambasciata italiana a Londra, Vitetti, ed altri ne avrebbe avuti con l’ambasciatore Grandi) non ritenne opportuno mostrare, in quella sede, il disappunto britannico sui propositi di conquista del dittatore, che andavano contro lo spirito e la carta della Società delle Nazioni, ed in parte, contro gli interessi economici inglesi nell’area. Occorreva evitare un’aperta disputa con gli italiani: si doveva semmai escogitare un accordo con Mussolini prima che facesse guerra all’Abissinia, e ammonirlo solo in seguito (Vansittart 1958,520-521). Al contempo Vansittart rammentava con foga i pericoli provenienti dal revisionismo tedesco, ma il governo britannico preferiva mantenere un basso profilo, continuando sulla strada delle concessioni alla Germania. Su questa linea apparve clamoroso il patto che gli inglesi siglarono proprio con quel paese il 18 giugno 1935. Si trattava di un accordo navale (Brundu Olla 1974) attraverso il quale si stabiliva che la Germania dovesse limitare la propria flotta al 35% di quella britannica: i sottomarini tedeschi dovevano stare ad un rapporto di 45 a 100 (Duroselle 1972, 169). Per Londra significava guadagnare tempo, contenere la potenza navale tedesca, mantenendo la supremazia britannica in mare (Vansittart 1958, 109). In realtà quel patto che il neo ministro degli Esteri Hoare definì come risultato di una saggia linea di condotta britannica, fu un’autorizzazione a procedere per Hitler, costituì un duro colpo alla Sdn e causò malcontento in Italia e Francia, sfaldando la solidarietà temporanea che si era stabilita a Stresa. Una flebile solidarietà che fu rotta dalle rivendicazioni coloniali di Mussolini, adesso colpito da quell’atteggiamento inglese che sembrava così cinico ed egoistico: “egli trasse nuovo ardire per l’attuazione dei suoi disegni contro l’Abissinia” (Churchill 1953,163).

Parigi e Londra si trovarono di fronte all’impasse di chiudere gli occhi sui propositi italiani in Etiopia per assicurarsi l’aiuto di Mussolini contro la Germania, o appoggiare l’Etiopia per evitare un nuovo indebolimento della Sdn. La Francia aveva già concesso via libera a Mussolini con gli accordi di Roma. L’Inghilterra aveva mantenuto il silenzio in occasione della riunione di Stresa, anche se nella conferenza stampa tenutasi in coda ai colloqui, Mac Donald, alla domanda del giornalista del Manchester Guardian, Werth, relativa alla questione abissina, rispose così: “Amico mio, la sua domanda è fuori” (Lamb 1998, 169). Anche Simon, parve essere convinto che la collaborazione italiana in Europa ottenuta al fronte di Stresa, sarebbe stata più preziosa della sovranità abissina (Di Nolfo 1994,195). Oltretutto lo stesso giorno in cui era stato firmato l’accordo navale anglo-tedesco, fu presentato dal Comitato interministeriale per gli interessi britannici in Etiopia, il rapporto segreto stilato da Sir Maffey, sottosegretario permanente al ministero delle Colonie, che già da diversi mesi era stato incaricato, insieme ad altri funzionari, di indagare quanto gli interessi britannici potessero essere messi a repentaglio dall’eventuale impresa abissina. Quel rapporto fu stampato in agosto e ben presto trafugato da una talpa del SIM, recapitato a Mussolini e pubblicato dalla stampa italiana (Deakin 2009, 357-358). In esso si leggeva che alcun interesse vitale britannico era a repentaglio in Etiopia, se non gli emissari del lago Tana, il bacino del Nilo Azzurro e certi diritti di pascolo delle tribù somale che erano sotto la protezione inglese (Eden 1962, 305-306). Dal rapporto si evinceva che non c’erano dunque timori eccessivi per la eventuale impresa di Mussolini: non c’era convenienza particolare, insomma, né che l’Etiopia rimanesse indipendente o che venisse assorbita dall’Italia fascista. Tali informazioni non potevano che incoraggiare il dittatore a perseguire i suoi obiettivi, avendo ora anche il lasciapassare, seppur informale, degli inglesi.

Il governo di Londra, da giugno nelle mani del conservatore Baldwin, continuò a discutere sul caso Etiopia. La posizione britannica si andava sempre più allineando a quella francese, nel senso di compensare in qualche modo Mussolini, purché limitasse le sue azioni entro confini che non mettessero in discussione il quadro internazionale e l’autorità della Sdn. All’inizio del mese Vansittart scriveva a Eden, ministro senza portafoglio incaricato di seguire la politica della Sdn, dicendo che l’Italia doveva essere comprata ((Cfr. DBFP, serie 2, Vol. XIV, doc. 301, pp. 308-309.)) in qualche modo se si voleva evitare che l’Etiopia fosse sconfitta insieme alla Sdn. Egli suggeriva di sacrificare parte della Somalia britannica a vantaggio di Mussolini. Il 7 giugno Vansittart scrisse a Hoare, istruendolo sugli sviluppi della crisi abissina: “l’Italia potrebbe procedere all’intervento armato in Abissinia alla fine di giugno, ritirandosi quindi dalla Sdn e gettandosi nelle braccia della Germania. A quel punto si sgretolerebbe contemporaneamente la Società, il fronte di Stresa, andrebbe in frantumi tutta la nostra politica passata e sarebbe messo a serio repentaglio il futuro stesso della nostra nazione” (citato da Lamb 1998, 173).

Era necessario per Vansittart fare concessioni concrete a Mussolini per permettergli di ottenere qualcosa di sostanziale, senza indurlo a combattere. Eden si recò a Roma il 23 giugno, suggerendo a Mussolini un compromesso: la cessione all’Etiopia del porto britannico di Zeila, in cambio di concessioni territoriali all’Italia nell’Ogaden (Eden 1962, 281). L’obiettivo del Gabinetto britannico era quello di mostrare alla Gran Bretagna e all’opinione pubblica mondiale i suoi sforzi nell’evitare l’imminente catastrofe15. Certo non era facile per Londra portare avanti una “duplice politica”, come la definì Hoare: cioè raggiungere un accordo con Mussolini pur salvando l’autorità della Sdn (Lambert 1966, 149). Tuttavia le concessioni proposte da Eden, non potevano soddisfare il dittatore che fece ben capire le sue intenzioni di conquistare l’intera Etiopia, dimostrandosi inamovibile e non tenendo conto degli ammonimenti britannici in nome della Sdn (Grandi 1985, 389-405). Invece di conciliare gli italiani, la proposta britannica li rese sospettosi, rafforzando l’idea che la Gran Bretagna intendeva negare all’Italia il diritto di estendere la sua influenza coloniale sull’Etiopia. Le intenzioni di Mussolini erano chiare: molto meno quelle francesi ed inglesi anche nelle settimane successive. L’accordo proposto dal governo britannico fu nascosto ai francesi su richiesta di Vansittart, ma ben presto divenne di dominio pubblico e divulgato dalla stampa: una volta conosciuto, destò inevitabili frizioni e sospetti tra le due Democrazie. Eden tornò deluso da quell’incontro e l’avversione nei confronti di Mussolini divenne sempre più marcata (citato da Lamb 1998, 176).

Al Foreign Office, Vansittart continuava a sostenere la tesi di non compromettere il “fronte di Stresa” e di evitare tensioni con Mussolini, nonostante l’infelice impatto di Roma: alienarsi il dittatore su una piccolezza come l’Abissinia in cui non erano coinvolti direttamente gli interessi britannici sarebbe stata solo una follia ((Cfr. NA, FO 371/19163; FO 800/307.)). Per Eden, al contrario, occorreva far valere gli obblighi assunti con la carta della Sdn. Prevalse l’idea di quest’ultimo, anche perché il 27 giugno fu annunciato l’esito del peace ballot, un referendum sulla pace promosso fra la popolazione inglese dall’Unione britannica per la Sdn. Il sondaggio si risolse in una sorta di crociata (Churchill 1953, 195-196) a sostegno della Lega, del disarmo e di sanzioni economiche contro chi avesse violato lo statuto societario aggredendo un altro stato membro. La divulgazione dei dati ufficiali del peace ballot innescò, fra la fine di giugno e l’inizio di luglio 1935, una vera e propria crisi politica in Gran Bretagna. Il governo Baldwin, “sebbene sapesse di dover fare concessioni all’Italia, non era in grado di muoversi senza esporsi alle critiche pubbliche poche settimane prima delle elezioni, previste per novembre” (Di Nolfo 1994, 196). Nel frattempo, alla Camera dei Comuni, Churchill sosteneva la linea dura di Eden nei confronti di Mussolini, qualora il dittatore avesse occupato l’Etiopia e la necessità di decretare, in quel caso, le sanzioni. Tuttavia, in privato, egli sperava di poter giungere ad un accordo con l’Italia: “he told Vansittart that he saw such a deal as the only chance of avoiding the destruction of Italy as a powerful and friendly factor in Europe” (Ponting 1995, 375).

Le note ufficiali trasmesse dal governo britannico all’Italia nel mese di agosto, rispecchiavano l’imbarazzo londinese e la duplice politica di Hoare. Da un lato si voleva continuare sulla strada della pacificazione con Mussolini, attraverso concessioni da concordare anche con i francesi; dall’altro si voleva testimoniare il rispetto e la fiducia della Gran Bretagna per la Sdn. In tal senso il discorso di Hoare a Ginevra l’11 settembre 1935 sanciva l’impegno a sostenere la resistenza collettiva contro aggressioni non provocate16 e, se necessario, l’applicazione di sanzioni. Churchill disapprovò questa linea rigida e scrivendo a Austen Chamberlain all’inizio di ottobre diceva: “sono anche molto addolorato. Rovinare l’Italia sarebbe un gesto terribile e ci costerebbe molto caro […]. Non avremmo dovuto intraprendere un’azione così decisa e violenta” (Churchill 1953, 200-201).

Il discorso di Hoare servì a creare entusiasmo fra le masse londinesi, infondendo rinnovato ottimismo sulla determinazione della politica britannica: e fu rafforzato anche dall’invio della Home Fleet nel Mediterraneo. Tuttavia, come ricorda Eden, il discorso di Hoare era un semplice bluff (Eden 1962, 332) teso a fungere da deterrente nei confronti delle ambizioni di Mussolini. “La nostra politica fu determinata dall’ottimistica convinzione che Mussolini potesse ancora venire a patti, dalla riluttanza a fare qualunque cosa che potesse spingere il Duce ad atti avventati e da una visione non abbastanza chiara di quello che era il campo in cui dovevamo schierarci. In realtà, la tendenza a ritenere possibile ciò che si desiderava e il desiderio di appeasement stavano già compiendo il loro lavorio insidioso, con le consuete disastrose conseguenze” (370).

Biografia

Fabio Casini è ricercatore in Storia delle Relazioni Internazionali e docente di Storia della Diplomazia presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali dell’Università degli Studi di Siena. Ha svolto ricerche in archivi italiani e stranieri. Fra le sue pubblicazioni si segnala: L’opposizione tedesca al nazismo e la politica inglese dell’absolute silence (Milano 2002); Espansionismo giapponese e contromisure anglo-americane fra le due guerre: la missione Ingersoll-Londra, gennaio 1938 (Siena 2007); Churchill e la campagna d’Italia. Agosto 1944: passaggio in Toscana (Siena 2009); Corea fra passato e presente: tensioni al 38° parallelo, in “Storia e Futuro”, n. 27, novembre 2011.

Biography

Fabio Casini is researcher in History of International Relations and teaches History of Diplomacy at the Department of Political and International Science of University of Siena. He did a lot of research in Italian and foreign archives. Among his publication we recommend: German opposition to Nazism and the British policy of absolute silence (Milan, 2002); Japanise expansionism and Anglo-american countermeasures betwen the two wars: Ingersoll mission – London, january 1938 (Siena, 2007); Churchull and the Italian campaign. August 1944: the way through Tuscany (Siena, 2007); Korea over past and present: tension on the 38th parallel, in “Storia e Futuro”, n. 27, November 2011.

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371/20467;

371/26559;

371/19163;

371/39158;

408 vols. 56, 57, 59, 60, 61, 62;

800/37;

954/7b;

954/13.

 

Security Service (KV), 2/1363; 2/1364.

  1. Cfr. NA, FO 408, Confidential Collection – Germany – vols. 56,57,59,60,61,62. []
  2. Cfr. CAB, 24/248, 7 April 1934. []
  3. C’era un vero e proprio partito dell’aristocrazia britannica che nutriva simpatia per Hitler e che stabilì una fitta rete di rapporti col regime nazista in chiave anti sovietica. Warldolf e Lady Witcher Astor, animatori della cosiddetta “cricca di Cliveden”, Mosley, fondatore in Inghilterra delle Camicie verdi (versione inglese delle Camicie brune); Diana e Unity Milford, il duca di Windsor (futuro Edoardo VIII), il duce di Buccleuch, e quello di Bedford; lord Lothian, il duca di Westminster, lord Mount Temple, Sir Eric Grigg. E soprattutto Lord Londonderry: quest’ultimo sarebbe divenuto (Kershaw 2005) il capro espiatorio di una colpa, la politica dell’appeasement, che ricadeva su più vasti settori dell’establishment britannico. (NA, KV 2/1363-1364, Lady Diana Mosley). Il termine “cricca di Cliveden” fu coniato nel 1937 da Claud Cockburn, fondatore ed editore di “The Week”, un periodico inglese a favore del comunismo. Egli scrisse un articolo sugli aristocratici britannici accusandoli di simpatizzare per il nazifascismo, identificato come baluardo contro il bolscevismo. Cliveden era la dimora in Buckinghamshire, ove risiedeva dall’inizio del’900 la famiglia Astor. (Cockburn 1956, 240). []
  4. Dawson (editore del “Times”) e Garvin (editore dell’“Observer”), Owen giornalista dell’“Evening Standard”. []
  5. I francesi subivano la politica dell’appeasement, senza riuscire a condividerla. (Di Nolfo 1994, 259). []
  6. Tale discorso ricalcava quello fatto alla Camera dei Comuni nel febbraio dello stesso anno (Citato da Cannadine 1990, 107-113). []
  7. Cfr. CC – Speeches of Winston Churchill – The Defence of Freedom and Peace (the lights are going out), 16 october 1938, in www.winstonchurchill.org. []
  8. Cfr. DBFP, serie 2, Vol. V, doc. 127, pp. 213-217. []
  9. Ibidem, doc. 371, pp. 547-559. []
  10. Ibidem, Vol. VI, doc. 238, p. 360. []
  11. Ibidem, Vol. V, doc. 356, p. 537. []
  12. Ibidem, Vol. V, doc. 362, p. 542. []
  13. Cfr. Ibidem, vol.XIV, The Italo-Ethiophian Dispute, march 1934-october 1935. []
  14. Si tratta delle conversazioni intervenute fra Thompson, capo del dipartimento egiziano del Foreign Office, competente anche su problemi dell’Africa Orientale, Guarnaschelli, capo dell’ufficio III della Direzione Generale degli Affari Politici e competente per le questioni dell’Africa Orientale e Vitetti, consigliere d’ambasciata a Londra. []
  15. Cfr. NA CAB 23/82, 19 June 1935. []
  16. Cfr. DBFP, serie 2, Vol. XIV, (appendice 4), pp. 784-790. []