Luca Gorgolini (cur.) Memorie ritrovate. La vita nei lager nazisti attraverso i ricordi degli internati militari italiani Ancona, Il Lavoro editoriale, 2011, pp. 166

di Carlo De Maria

A partire dalla Prima guerra mondiale la “grande Storia” piombò nella vita individuale in misura precedentemente sconosciuta e lasciando tracce indelebili. Il riferimento, qui, non è solo all’esperienza vissuta al fronte da parte di milioni di giovani europei, ma anche alla sorte dei rifugiati politici e degli internati. È con questa consapevolezza storiografica che Luca Gorgolini, esperto studioso della Grande guerra (si veda il suo importante volume I dannati dell’Asinara. L’odissea dei prigionieri austro-ungarici nella Prima guerra mondiale, Utet, 2011; ma in precedenza, tra le altre cose, anche la curatela del diario di guerra del fante Mario Tinti, In faccia alla morte, Affinità elettive, 2008) arriva a misurarsi con il tema degli internati militari italiani durante la Seconda guerra mondiale, raccogliendo nel libro che qui si segnala (pubblicato nella collana “Ricerche storiche” dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche) una ventina di interviste a ex prigionieri militari di origine marchigiana. Interviste che erano state registrate nella seconda metà degli anni ’80, nel contesto di un progetto di ricerca elaborato da Giorgio Rochat e Paolo Sorcinelli, e che erano rimaste però inedite. Come vedremo meglio, il riferimento agli anni ’80 è significativo come richiamo a una nuova stagione storiografica che proprio allora iniziava.

Per entrare nel merito del volume è bene fare riferimento a una cronologia essenziale. Nell’autunno 1943 la penisola italiana si spaccò in due parti: all’annuncio, l’8 settembre, dell’armistizio con gli angloamericani seguì la fulminea occupazione tedesca delle regioni del Nord e del Centro, mentre già a fine settembre Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglia e gran parte della Campania erano nelle mani degli Alleati. La gran parte dell’esercito italiano sembrò dissolversi – “i nostri comandanti erano sfasati completamente”, ricorda un testimone – e centinaia di migliaia di giovani soldati italiani, nei vari teatri di guerra in cui erano impegnati (in modo massiccio, ad esempio, nei Balcani), vennero fatti prigionieri dai tedeschi e successivamente condotti nei lager allestiti all’interno del Terzo Reich. Si stima che questo fu il destino di circa 650 mila persone. La loro indisponibilità a riprendere le armi per sostenere la Repubblica sociale italiana, scelta verso la quale erano fortemente sollecitati dai loro carcerieri, privò Mussolini della possibilità di poter contare su un vero esercito e diede, a ben vedere, un contributo importante alla lotta di liberazione, delegittimando il governo fascista repubblicano agli occhi di ampi settori dell’opinione pubblica italiana: proprio a partire dai familiari dei soldati e dai loro conterranei che li sapevano prigionieri in mano tedesca, ridotti a misere condizioni di vita. Come rileva Gorgolini nella densa e matura introduzione, un elemento costante nelle corrispondenze epistolari dei militari con le loro famiglie era la richiesta pressante di cibo e vestiario per poter sopravvivere all’internamento.

L’estate del 1945 fu per molti – almeno per “i più vicini”, per chi tornava cioè dall’Europa centrale – il momento del ritorno a casa. Storie epiche, come quella narrata da Primo Bruscoli: “Io sono scappato dalla Germania in bicicletta con altri tre. […]. Con le biciclette rubate ai tedeschi abbiamo fatto all’incirca 900 km, tutti sentieri lungo il Danubio. Dopo, la bicicletta l’abbiamo lasciata a Innsbruck, dove abbiamo trovato due colonne di camion. Una veniva in Italia, eh, veniva a Bolzano”. Ai 650 mila soldati italiani liberati dai lager tedeschi, si sommavano i circa 600 mila che provenivano dai campi di prigionia degli Alleati e i 10 mila che rientravano dalla Russia. Per tanti, naturalmente, il Brennero era un passaggio obbligato. Non è quindi un caso che a Merano – e qui il riferimento è ad altri studi recenti che intersecano quelli di Gorgolini –, il Dono svizzero all’Europa, una struttura di coordinamento delle organizzazioni assistenziali e di intervento sociale presenti nella confederazione elvetica, provvedesse ad allestire un centro sanitario di smistamento, nel quale potessero trovare asilo i più malandati e i più deboli, in attesa di tornare alle loro case. Quanto fosse tribolato e lungo il ritorno in patria risulta anche dal fatto che, al momento delle prime elezioni amministrative della primavera 1946, la preparazione elettorale condotta da prefetture e uffici anagrafici fosse ancora rallentata dalle verifiche amministrative legate a quei drammatici viaggi individuali e collettivi: erano tante le persone appena tornate o non ancora ritrovate.

Tutti aspetti finiti sotto la lente dell’indagine storica solo in tempi relativamente recenti. Nel dopoguerra, infatti, la storiografia mostrò la tendenza a evitare il riesame di alcuni momenti cruciali, ma dolorosi e controversi, del recente passato: calò, così, il silenzio sulla deportazione e sull’internamento di civili e militari. La storiografia resistenziale non fu immune da limite e sviste, concentrandosi sui partigiani in armi e trascurando per lungo tempo più ampie e articolate forme di riscatto, di opposizione e disobbedienza, di resistenza civile. Per certi versi pesò il problema di una epurazione incompiuta, che favorì l’oblio sulle responsabilità dei vertici istituzionali e militari e, più in generale, degli apparati e della macchina amministrativa.

Se si esclude il volume di Renzo De Felice del 1961, sulla storia degli ebrei durante il fascismo, la svolta antisemita dello Stato fascista troverà una adeguata attenzione solamente nella seconda metà degli anni ’80 in corrispondenza del cinquantesimo anniversario dell’emanazione della legislazione antiebraica (1938-1988). Qualcosa di simile avvenne per la storia degli internati militari italiani che per essere adeguatamente riscoperta dovrà attendere il 1985, quarantesimo anniversario della conclusione della Seconda guerra mondiale. Quell’anno a Firenze si svolse un importante convegno promosso dall’Associazione nazionale ex internati che portò alla valorizzazione in termini storiografici della memorialistica prodotta dai soldati (I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943). Il lavoro di Gorgolini si ricollega a quella congiuntura storiografica e al rinnovamento degli studi sull’evento-guerra testimoniato, sempre nel 1985, dal convegno internazionale sulla Prima guerra mondiale svoltosi a Rovereto, incentrato sulle testimonianze soggettive (La Grande guerra. Esperienza, memoria, immagini).

Vale la pena insistere sulla complessità degli anni ’80 e sulle novità storiografiche di quegli anni, che si inserivano in un contesto sociale e politico in forte mutazione. Il 1980 può essere preso come crinale simbolico della crisi di una certa militanza politica e sindacale (“novecentesca”, per così dire) e della crescita di nuove forme di agire collettivo. Quell’anno la dura sconfitta del sindacato alla Fiat chiudeva la stagione delle lotte operaie, mentre nelle forme del volontariato e della cooperazione sociale emergeva una nuova partecipazione politica e civile, fatta di solidarietà, impegno diretto e condivisione. Le sezioni di partito si svuotavano, diminuivano gli iscritti e si acuiva la crisi ideologica della sinistra. Sul piano culturale e storiografico venivano meno le grandi narrazioni ed emergeva quella attenzione per le fonti autonarrative, per le biografie individuali e collettive, di cui si parlava in precedenza.

Gli studi storici italiani mostravano vitalità e capacità di rinnovamento, qualità tuttora ben presenti, come dimostra una volta di più il volume di Gorgolini, e rispetto alle quali stride la scarsa considerazione su cui gli stessi storici possono contare nel dibattito pubblico.