Marina Cattaruzza, L’Italia e la questione adriatica. Dibattiti parlamentari e panorama internazionale (1918-1926), con una Presentazione di Pietro Grasso, il Mulino, Bologna 2014 [Collana dei Dibattiti Storici in Parlamento, n. 4, a cura dell’Archivio Storico del Senato della Repubblica], 592 pp.

di Andrea Francioni

 

cattaruzzaIl volume di Marina Cattaruzza propone una rilettura, attraverso l’accurata selezione delle fonti parlamentari, della questione adriatica negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra: l’analisi dei dibattiti parlamentari viene calata nel contesto della crisi delle istituzioni liberali, sulla quale il dipanarsi della vicenda adriatica influì in maniera determinante, e proiettata sul più ampio panorama internazionale del primo dopoguerra. Il corposo saggio introduttivo (pp. 11-194) prende le mosse dall’occupazione italiana dei territori sul confine orientale promessi col Patto di Londra e si articola attorno a quattro topos storiografici consolidati: il ruolo dell’Italia alla Conferenza della pace; l’impresa di Fiume; il Trattato di Rapallo; la politica balcanica del primo Mussolini, che fino al 1926 faceva perno sull’avvicinamento al Regno serbo-croato-sloveno.

L’autrice, in linea con i suoi precedenti lavori (L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna 2007), enfatizza il nesso tra la crisi postbellica e il trascinarsi della questione adriatica, le cui implicazioni di politica interna emergono proprio alla luce dell’andamento dei dibattiti parlamentari tra l’aprile 1919 (comunicazioni del Governo sull’abbandono della Conferenza della pace da parte della delegazione italiana) e il dicembre 1920 (discussione sul disegno di legge di approvazione del Trattato di Rapallo). L’antologia documentaria proposta alle pp. 201-572 mette allora a fuoco la fase acuta della crisi, connotata dalla sostanziale debolezza della posizione negoziale italiana di fronte all’inscalfibile idealismo wilsoniano e dalla precarietà dei governi al banco di prova del Parlamento, di fatto incapace di superare la nuova declinazione della frattura del tempo di guerra tra neutralisti e interventisti. Attorno a questi due elementi ruota la ricostruzione dell’autrice che, in sede di interpretazione, offre tuttavia un contributo di chiarezza circa l’articolato complesso di fattori interni e internazionali che contribuirono a rendere drammatica quella congiuntura storica: la radicalizzazione politica prodottasi in Italia a seguito della guerra e della rivoluzione bolscevica, lo scollamento tra il governo e le Forze armate – emerso in maniera eclatante all’epoca dell’impresa di Fiume, gli anticorpi che a livello internazionale provocava la “politica di potenza” ispirata al Patto di Londra – non solo a causa dell’opposizione del presidente americano, ma pure in virtù della concorrenza delle aspirazioni italiane con la politica di Parigi nell’area danubiano-balcanica.

Nel clima concitato di quei mesi il contributo determinante a una prima sistemazione della vertenza venne dall’inopinata eclissi politica di Wilson e dall’azione congiunta di Londra e Parigi, decise a spegnere almeno uno dei molteplici focolai di tensione aperti nell’Europa postbellica. Con il Trattato di Rapallo, accolto positivamente da una larga maggioranza del Parlamento italiano, il Governo sperava di fermare le convulsioni che avevano agitato il paese a causa dell’irrisolta questione adriatica. Il suo principale artefice, Carlo Sforza, ne sottolineava le potenzialità come strumento volto ad inaugurare una politica di amicizia e cooperazione tra Roma e Belgrado che, di per sé, avrebbe dato una risposta alle esigenze di sicurezza lungo il confine orientale, oltre che aprire la strada ad una “serena influenza italiana” (p. 117) nella penisola balcanica e nella regione danubiana. Tuttavia, osserva Cattaruzza, “tale calcolo si sarebbe rivelato errato: il Trattato di Rapallo non fu la premessa di buoni rapporti con la Jugoslavia e la Francia assunse, rispetto agli Stati della Piccola Intesa, quel ruolo centrale che Sforza aveva concepito per l’Italia” (p. 129).

Com’è noto, dopo Rapallo calò il sipario sull’avventura dannunziana a Fiume, ma ben presto le ambiguità dell’accordo con la Jugoslavia vennero alla luce provocando l’ennesima crisi politica e con essa il fallimento del tentativo di Giolitti di cooptare i fascisti nell’area di governo. Nel ricostruire questo passaggio, l’autrice di fatto ribadisce come la questione adriatica continuasse, anche dopo il 1920, a inoculare veleno nel corpo del paese e al tempo stesso rappresentasse il simbolo dell’impotenza degli ultimi governi prefascisti. E così, epiloga Cattaruzza, “l’attribuzione di uno scalo legnami [Porto Baross] di un porto secondario dell’Adriatico nord-orientale [Fiume] [alla Jugoslavia] divenne l’ostacolo contro il quale si infranse l’ultimo tentativo di contrapporre un’alternativa istituzionale alla montante pressione fascista da parte dell’uomo politico più esperto di cui disponesse l’Italia liberale” (p. 154).