La montagna dopo la guerra. Continuità e rotture nell’Appennino bolognese tra Idice e Setta-Reno: 1945-2000 a cura di Mauro Maggiorani, Paola Zagatti Bologna, Aspasia, 2009

 Alberto Malfitano

Scaffale MalfitanoÈ una ricerca a tutto tondo quella che ha dato vita al volume La montagna dopo la guerra. Continuità e rotture nell’Appennino bolognese tra Idice e Setta-Reno: 1945-2000. Ne va merito all’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea, che l’ha voluta, e ai curatori, Paola Zagatti e Mauro Maggiorani, quest’ultimo non nuovo a studi relativi all’Appennino emiliano-romagnolo, avendo già praticato il campo appenninico attraverso lo studio delle iniziative cooperative nell’Appennino forlivese nel secondo dopoguerra. In questo caso il corposo volume, uscito nel 2009, è la prosecuzione ideale di un’altra fortunata ricerca dell’Istituto bolognese, quella relativa alla montagna provinciale durante la Seconda guerra mondiale (La montagna e la guerra. L’Appennino bolognese fra Savena e Reno 1940-1945), che ha dato vita a una collana editoriale rivolta allo studio del territorio utilizzando differenti punti di vista. Non a caso i curatori (Brunella Dalla Casa e Alberto Preti) di quel primo volume hanno firmato la presentazione a questo in cui è inevitabile che la prima delle sei sezioni di cui è composto sia dedicata ai danni inferti dalla guerra.

Il bolognese fu infatti particolarmente colpito dal conflitto. Il fronte, nel tardo autunno del 1944, si soffermò in provincia proprio lungo le valle appenniniche, tagliandole in maniera trasversale, con un estremo sulle colline a pochi chilometri da Bologna, nella zona di Pianoro e Loiano, e un altro estremo verso le cime più alte della provincia in direzione del Corno alle Scale. Lo stabilizzarsi degli schieramenti contrapposti, che rendeva Bologna una città dell’immediata retrovia nazifascista, fece dell’Appennino un campo di battaglia che accelerò il disgregarsi di una società già in crisi, innanzitutto per le ferite materiali e umane sopportate. Marzabotto è un nome tragicamente noto ed emblematico del martirio che le popolazioni della montagna bolognese, come di altre zone d’Italia, hanno dovuto sopportare, ma in generale il territorio subì devastazioni materiali che lo segnarono in profondo, arrivando in certi casi, come per i citati Pianoro e Marzabotto, a punte del 90% di edifici distrutti o lesionati. Come poteva risollevarsi da devastazioni di così ampio raggio un ambiente già sofferente? Era da prima della guerra infatti che le popolazioni dell’Appennino avevano cominciato a lasciare le loro case per trovare una sorte più favorevole nei campi della pianura o nelle città. L’esodo cominciò a inizio Novecento, e non era altro che la manifestazione di uno squilibrio tra risorse disponibili e popolazione residente. Quest’ultima era troppo numerosa rispetto alle possibilità della montagna e della collina di sfamarla, e reagiva al tentativo di renderla coltivabile con frane e alluvioni che non facevano che rendere ancor più grama la vita dei suoi abitanti.

È una storia comune a gran parte della montagna nazionale, ma specialmente all’Appennino settentrionale, i cui mali giunsero all’attenzione delle classi dirigenti regionali fin da prima dell’Unità, senza tuttavia che si trovassero mai strumenti realmente incisivi per sanare una situazione via via insostenibile. Neppure il fascismo lo fece, con la sua predilezione per il rimboschimento rispetto alle condizioni di vita dei montanari. È normale quindi che già negli anni Trenta, nonostante le misure prese dal regime contro l’urbanizzazione, i montanari lasciassero le loro povere case. La Seconda guerra mondiale non fece altro che accelerare la decadenza di questa porzione importante del territorio nazionale e bolognese in particolare, ponendo ai superstiti ostacoli ancora più grandi rispetto al passato nello sforzo di tenere in vita un ambiente tanto affascinante quanto difficile. Il differenziale di sviluppo, già grande prima del conflitto, tra monti e zone di pianura, è diventato ancora più ampio nei decenni seguenti, determinando un esodo epocale. Come questa emigrazione sia stata affrontata da chi è rimasto, come è cambiato il modo di vivere l’Appennino, di lavorarlo, di abitarlo, come sono mutati gli stili di vita, la politica locale, l’economia e gli sforzi di entrare nella scia di una modernizzazione che per la montagna ha significato una sorta di “boom al contrario”, è oggetto di questo bel volume, che pare non voglia trascurare nessun aspetto: senza pretesa di citare tutti i numerosi saggi e rispettivi autori, vanno segnalati quelli dedicati non solo alla politica e all’economia, ma anche alla presenza dell’Appennino nella letteratura, e nella pittura, così come la nascita di luoghi di una memoria dolorosa e raccolta: il cimitero di guerra tedesco del passo della Futa, quello sudafricano di Castiglione de’ Pepoli, ma anche il ricordo della bomba sul treno Italicus.

Ne esce, nel complesso, un quadro sfaccettato e affascinante di una società che molto ha patito nel corso del Novecento, almeno fino agli anni Settanta, quando l’emigrazione si è sostanzialmente arrestata, e che forse ha raggiunto un nuovo equilibrio nei decenni successivi, con l’ingresso sulla scena di nuovi soggetti istituzionali, a partire dall’Ente regione e dalle Comunità montane. È motivo di ulteriore interesse il grande numero di competenze raccolte per dare vita alla ricerca, da studiosi affermati, a giovani e validi ricercatori, ad ancor più giovani laureati. Una compagnia numerosa e variegata, ma di certo accomunata da una passione, quella per la ricerca e per la montagna, che fa ben sperare nel senso di un definitivo superamento dell’oblio storiografico in cui le aree montane del nostro Paese sono state a lungo, almeno fino a vent’anni or sono, mantenute.