Sergio Romano, In lode della Guerra Fredda. Una controstoria Longanesi 2015

di Marco Bizzocchi

in lode della guerra fredda

Sergio Romano è nome noto nel panorama politico, giornalistico e storico italiano. Ambasciatore presso la NATO ed a Mosca, è commentatore presso alcune delle più prestigiose testate giornalistiche italiane. Nella sua carriera di studioso sono presenti lavori dagli anni ’50 fino ad oggi prediligendo gli argomenti di storia e politica estera nel Novecento. Il presente testo, In lode della Guerra Fredda. Una controstoria, edito da Longanesi, porta avanti il discorso già iniziato dall’autore nel suo testo precedente, Il declino dell’Impero americano, Dalla sua analisi traspare una crisi di leadership degli Stati Uniti quali garanti della stabilità internazionale mondiale ed un punto di vista inusuale sulla Guerra Fredda, soprattutto per l’Europa.

Il libro può essere concettualmente diviso in tre parti: la prima, di una cinquantina di pagine, racconta a volo d’uccello, la storia della Guerra Fredda attraverso i principali eventi, evidenziando che, “i quasi cinquant’anni trascorsi dalla fine della Seconda guerra mondiale erano stati la pace più lunga del continente euroasiatico dai trattati di Vestfalia ai nostri giorni”1. Secondo Romano, infatti, i diversi casi-eventi studiati nel libro evidenziano come i due principali antagonisti siano sempre riusciti a non coinvolgersi contemporaneamente su uno stesso campo di battaglia e di come, paradossalmente, l’Europa abbia vissuto un periodo di relativa pace. Inoltre viene sottolineato come lo status quo, soprattutto dopo l’inizio della distensione, veniva salvaguardato, sia da USA che da URSS, anche prevaricando interessi indipendentisti di altri Stati o comunità etniche, tradendo in parte, o totalmente, i presupposti teorici che sorreggevano rispettivamente i due blocchi.

Nella seconda parte, più corposa e densa della prima, l’autore parla della sitazione geopolitica delle due superpotenze USA e Russia impegnate nelle conseguenze geopolitiche della fine della Guerra Fredda. Soffermandosi in particolare sulle regioni un tempo facenti parte dell’URSS e del Patto di Varsavia, sull’area mediterranea e sul Medio Oriente, Romano, esattamente come nella prima parte del testo, propone un excursus storico fornendo, in alcuni casi, chiavi di lettura alternative. Al di là dei singoli casi analizzati, che vanno dallo smembramento jugoslavo alla crisi ucraina, mi pare di maggior interesse soffermarmi su alcune considerazioni teoriche che sottendono al quadro d’insieme degli eventi forniti da Romano. Primo, il ribaltamento di prospettiva che vedrebbe con la conclusione di una guerra (quella fredda) il sorgere di un conseguente periodo di pace, mentre Romano è portato ad evidenziare, semmai, l’ipotesi contraria e cioè che “non ci rendemmo conto, […] che l’Europa, nel 1989, non stava passando dalla guerra alla pace”2. Anzi, furono proprio i picconi dei tedeschi sul Muro di Berlino a sconvolgere l’equilibrio geopolitico instaurato e mantenuto per anni dalle due

superpotenze, innescando dinamiche e processi conflittuali internazionali che avrebbero condizionato anche l’Europa per molti anni a venire.

Una seconda riflessione significativa del testo è che la convinzione degli Stati Uniti di aver vinto politicamente la Guerra Fredda sia un errore di valutazione degli stessi americani, primo tra tutti del Presidente George H.W. Bush che ha sostenuto la vittoria americana nel discorso sullo stato dell’Unione il 28 gennaio 1983.3 In realtà “l’Unione Sovietica non fu sconfitta dagli Stati Uniti. Fu sconfitta dalle riforme di Gorbačev”4, fortemente criticate dai “poteri forti”5 dello Stato sovietico, dai dirigenti PCUS e dai grandi conglomerati ed organi pubblici.

La convinzione della vittoria portò l’America a considerare la situazione geopolitica ancora con categorie di pensiero tipiche della Guerra Fredda con gli USA vincitori e la Russia, come antagonista sconfitto. Da ciò derivarono due conseguenze importanti: primo, gli Stati Uniti si sentivano legittimati a fare il bello e cattivo tempo nell’Europa dell’est e nel Medio Oriente; dopotutto “se l’America aveva vinto la guerra perchè avrebbe dovuto tenere conto dei desideri di uno Stato sconfitto?”.6 Secondo, la percezione di una Russia come antagonista sconfitto ha impedito di vederla come una possibile partner per risolvere problemi comuni, come il conflitto con il fondamentalismo arabo nel quale entrambe le due superpotenze sono impegnate.

Un terzo punto chiave interpretativo del testo è il ribaltamento della tesi dello storico tedesco Leopold von Ranke del Primat der Aussenpolitik, cioè del primato della politica estera nella determinazione di quella interna e che è stato, anche per Romano, un caposaldo imprescindibile per interpretare tutto il Novecento, ma che oggi si vede ribaltato a favore di lobby interne e soprattutto dal potere dell’elettorato sulle decisioni presidenziali degli Stati Uniti e delle democrazie in generale.7 Romano si sofferma particolarmente sugli ultimi presidenti USA, a cominciare da Clinton nella crisi somala fino al rapporto teso tra Israele e gli Stati Uniti di Obama nel quale il premier Benjamin Netanyahu

«si comportava come se i veri interlocutori americani di Israele non fossero più alla Casa Bianca»8. Questo, insieme alla lunga sequela di errori americani in politica estera che la seconda parte del libro

mette in luce, dimostra, secondo Romano, non solo una falla strutturale della presidenza americana, ma anche la crisi della leadership statunitense come garante della stabilità internazionale.

La terza parte concettuale del testo si riduce alle due sorprendenti pagine conclusive, in cui si esorta l’Unione Europea a dare inizio ad un programma politico unitario che possa risultare competitivo nella situazione geopolitica odierna in contrapposizione agli interessi dei singoli poteri nazionali europei ormai insufficienti per ottenere rispetto e timore dalle altre potenze: una chiara esortazione affinchè l’Unione Europa prenda il mano il proprio destino.

Conclude Romano con la bella similitudine dell’Europa politica paragonata all’Italia rinascimentale: “[l’Europa] sarà l’Italia del Rinascimento, grande tesoro di talenti e splendori, ma troppo divisa per essere rispettata e temuta”.9

1 pp. 9-10.

2 Ibidem.

3 P. 103.

4 P. 104.

5 Ibidem.

6 P. 106.

7 P. 118.

8 P. 122.

9 P. 126.