Tra la siccità e le inondazioni: rischio, disastro e gestione dei danni nel mediterraneo spagnolo (XVIII secolo)

di Armando Alberola Romá

Bio

Armando Alberola Romá. Professore di storia moderna all’Università di Alicante. È direttore del Gruppo di ricerca sulla storia e il clima nella stessa università e autore di oltre 180 pubblicazioni. La sua principale linea di ricerca per 25 anni è stata dedicata allo studio delle catastrofi idrometeorologiche, geologiche o biologiche e all’impatto causato sulla società e sull’economia dal XVI al XVIII secolo. I suoi libri includono: Riesgo, desastre y miedo en la península Ibérica y México durante la Edad Moderna (2017), Los cambios climáticos. La Pequeña Edad del Hielo en España (Madrid, 2014), Clima, desastres y convulsiones sociales en España e Hispanoamérica, siglos XVII-XX” (Alicante-Zamora de Michoacán, 2016; en colaboración con Luis A. Arrioja;), Clima, naturaleza y desastre. España y América durante la Edad Moderna (Valencia, 2013), Quan la pluja no sap ploure. Sequeres i riuades al País Valencià l’época moderna (Valencia, 2010), Catástrofe, economía y acción política en la Valencia del siglo XVIII (Valencia, 1999). Dal 2018 gestisce, come IP, il Progetto di eccellenza Clima, riesgo, catástrofe y crisis a ambos lados del Atlántico durante la Pequeña Edad del Hielo (HAR2017-82810-P) finanziato dal governo spagnolo. È co-direttore del progetto APURIS (Casa de Velázquez-Université de Clermont/Auvergne-Universidad de Alicante-Universitá Federico II di Napoli) e membro dello staff senior del Progetto europeo DISCOMPOSE (IP: prof. Domenico Cecere, Università Federico II di Napoli ).

INTRODUZIONE

La bontà termica del clima mediterraneo, nelle sue varianti regionali e locali, è una delle caratteristiche che lo hanno reso enormemente attraente in ogni epoca. Le sue estati calde ―pur potendo risultare molto calde―, i suoi inverni miti ―con temperature medie che possono superare i 12º C― o gli oltre 200 giorni di bel tempo durante l’anno rendono il suo territorio di pertinenza una destinazione allettante. Tuttavia, questa attraente bonaccia nasconde dei notevoli inconvenienti: scarsità delle precipitazioni, elevata irregolarità interannuale e intensa evapotraspirazione potenziale (Gil Olcina, 1993). Le medie totali annuali delle precipitazioni possono oscillare tra i 120 e i 360 millimetri, una quantità di pioggia molto scarsa, ed inoltre, sono pochi i giorni in cui piove. Attualmente vi sono osservatori meteorologici che non registrano più di quaranta o cinquanta giorni di pioggia all’anno e, in alcuni, si arriva appena a venti. Tuttavia, queste precipitazioni abitualmente scarse offrono un doppio massimo autunnale in settembre/ottobre e ottobre/novembre, seguito da un inverno secco e un altro massimo idrico in primavera. Si tratta di piogge generalmente torrenziali, in grado di scaricare in poche ore il volume di un anno intero.

L’impatto di questo estremismo idrico ―siccità e inondazioni― nel bacino mediterraneo è storicamente noto. Per la penisola Iberica, soprattutto per il versante orientale, disponiamo di abbondanti informazioni documentarie che confermano la coesistenza, nei secoli scorsi, di lunghi periodi di siccità con imponenti tempeste equinoziali ad alta intensità oraria, che, in poche ore, provocavano lo straripamento di fiumi, ruscelli e torrenti, seguite da inondazioni che distruggevano raccolti e infrastrutture, allagavano villaggi e provocavano numerose vittime (Alberola, 2010).

Questi episodi, accompagnati da grandinate, gelate, bufere o piaghe dell’agricoltura, causavano grande preoccupazione e timore nei contadini, consapevoli di abitare in un “territorio a rischio” e, di conseguenza, enormemente vulnerabile alla furia della natura. Ed è così. Da cinquecento anni e con ricorrenza decennale, molte delle popolazioni insediate in prossimità di corsi fluviali hanno subito gravi inondazioni o sono state completamente rase al suolo in autunno e in primavera (García Codrón, 2004; Butzer, Miralles e Mateu, 1983; Alberola, 2010). Il ripetersi di questi eventi durante la Piccola Era Glaciale (PEG) conferma il carattere estremo e la grande variabilità di questa oscillazione climatica1

SICCITÀ E INONDAZIONI: DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA

Gli studi effettuati negli ultimi anni ci permettono di conoscere nel dettaglio i disastri avvenuti nei territori del Mediterraneo spagnolo tra il XVI e il XVIII secolo, a seguito delle carenze e degli eccessi idrici (Barriendos, 2005; Alberola, 2010). Disponiamo, inoltre, di abbondanti informazioni sugli eventi estremi di origine geologica ―terremoti ed eruzioni vulcaniche― o biologica ―piaghe dell’agricoltura ed epidemie (Alberola, 1999, 2009, 2014). Pertanto, ed anche se il rischio, in quest’ambito, non è stato, né è, solo di natura idrometeorologica, è chiaro che il maggior rilievo, nel corso della storia, è stato attribuito a episodi di queste caratteristiche.

La sopraccitata irregolarità annuale e interannuale del regime pluviale risulta aggravata da una orografia frastagliata, che si snoda relativamente in prossimità della costa e si estende dai Pirenei fino ai contrafforti della Cordigliera Betica. Allo stesso modo, influisce la coesistenza di corsi fluviali di grande lunghezza, abbondante portata e grande sfruttamento agrario, insieme ad altri fiumi di minore entità, del tipo «ruscello» o «fiume-ruscello», i cui alvei restano in secca la maggior parte dell’anno. Gli uni e gli altri, tuttavia, possono arrivare a incrementare a dismisura i loro alvei, a seguito delle abituali precipitazioni autunnali ad alta intensità oraria, provocando grandi piene e inondazioni.

Nel XVIII secolo la penisola Iberica ha vissuto ciò che alcuni contemporanei definirono come «disordine climatico», essendo costanti l’estremismo e la variabilità climatica. Periodi molto freddi si alternarono ad altri di grande caldo e, già nell’ultimo quarto di secolo ―segnato dalla cosiddetta oscillazione o anomalia Maldá―, fu ricorrente la contemporaneità di episodi idrometeorologici di carattere straordinario con altri di segno opposto (Barriendos e Llasat, 2009; Alberola, 2014). Il caldo e la siccità caratterizzarono la prima metà del secolo, compromettendo vari raccolti consecutivi. Comparvero la fame, le malattie, la morte e l’inquietudine sociale che, in alcune occasioni, sfociò in gravi tumulti, come quelli dell’anno 1766 (Alberola, 2009).

La siccità di carattere locale e ciclo corto fu una costante nella penisola Iberica nel secolo in questione, ma vi furono anche alcuni episodi di tipo generale e lunga durata, come quello degli anni 1749-1753. Documentazione ufficiale, corrispondenza tra privati, rogazioni pro pluvia e altri rituali religiosi, chiedendo l’intermediazione di santi, sante e vergini affinché piovesse, forniscono, tra le altre fonti, delle eccellenti informazioni sullo stato dei campi nella Spagna dell’epoca (Martín & Barriendos, 1995; Alberola et alii, 2016).

Il Levante spagnolo e le Isole Baleari patirono una persistente assenza di piogge negli anni 1772-1774, 1779, 1792, 1799, 1801 e 1803. La generalizzata siccità di questi ultimi due anni si estese fino all’Andalusia, dove distrusse i raccolti, provocò un aumento eccessivo del prezzo dei prodotti di prima necessità e fece sì che il 1803 passasse alla storia come «l’anno della fame» (Alberola, 2008).

Tuttavia, queste fasi di siccità furono interrotte da intense precipitazioni autunnali ad alta intensità oraria, che fecero circolare l’acqua in abbondanza e con grande violenza, provocando innumerevoli danni. Il carattere stagionale di questi eccessi idrici, non in grado, d’altra parte, di placare la siccità, costituisce una caratteristica propria del Mediterraneo spagnolo nel quale, storicamente, i tre quarti dei disastri idrologici più gravi hanno avuto luogo tra i mesi di settembre e novembre. I Comuni colpiti ―da siccità persistente o da piene e inondazioni― inviavano immediatamente al Consiglio della Castiglia, il principale organo di governo interno della Monarchia, rapporti e memoriali, chiedendo l’aiuto della Corona. Lo studio di questa documentazione permette di identificare la gravità delle diverse situazioni e di valutare la risposta politico-amministrativa di fronte a questo tipo di catastrofi. Informazioni complementari, a volte molto rilevanti, riguardanti tali avvenimenti, le troviamo, tra l’altro, nei diari personali di alcuni contemporanei, nei quaderni dei contadini, negli stampati del tipo delle «relazioni dei fatti», «lettere» e simili, nelle già citate rogazioni ―sia quelle pro pluvia, per invocare la pioggia; sia quelle pro serenitate, per implorare la cessazione dei «diluvi»―, nella stampa, a partire dall’ultimo quarto del secolo, etc. (Alberola, 2015).

Tra il 1700 e il 1750, i fiumi catalani e valenziani strariparono in autunno con frequenza quadriennale ed effetti catastrofici. In Catalogna, le zone più colpite furono quelle dell’Ampurdán, Maresme e Campo de Tarragona, segnalandosi le piene dei fiumi Ter ―1716, 1726, 1732 y 1737— e Llobregat ―1726, 1734 y 1749. Anche le piene del fiume Ebro provocarono importanti danni nelle località presenti lungo il suo corso, in particolare Saragozza e Tortosa, e, in special modo, nel 1743. Nel territorio valenziano, il fiume Júcar inondò i territori lungo cui si snoda nel 1709, 1714, 1716, 1733, 1740, 1744 e 1745; il Turia fece lo stesso a Valencia nel settembre del 1731 e nella primavera del 1735. Più a sud, e al confine con Murcia, il fiume Segura straripò ad Orihuela nel 1701, 1704, 1714, a giugno e settembre del 1731 e del 1733, nell’aprile del 1736, nell’ottobre del 1739 e nel novembre del 1745. Due dati risultano rilevanti. Il primo è che, solo nel decennio del ‘40, il fiume Segura superò la sua portata abituale otto volte. Il secondo mette in evidenza il rischio legato alla posizione di Orihuela: nei primi 50 anni del secolo, la città è stata, infatti, colpita da ben 26 inondazioni di varia entità (Alberola, 2010: 96-115; García Torres, 2018: 179-194).

Nell’ultimo terzo del XVIII secolo, predominò una fase fredda, coincidente con la anomalia Maldá, con le conseguenze già richiamate per il Mediterraneo. Negli anni sessanta abbondarono le gelate; l’inverno del 1765-1766 fu durissimo ―l’Ebro gelò alla foce, lungo Tortosa―, l’estate fu inusualmente fredda e, verso la fine di quello stesso anno, nevicò in abbondanza, inaugurandosi un periodo in cui le grandi nevicate sarebbero state frequenti. La relativa siccità della prima metà di questo decennio si contrappose ad un aumento significativo della piovosità negli ultimi anni dello stesso. Valencia subì due inondazioni del Turia nell’autunno del 1770 e del 1776; Orihuela fu sommersa dalle acque del Segura nel 1773 e nel 1776 mentre, in territorio catalano, Gerona fu inondata nel dicembre del 1776 dai quattro fiumi che la lambiscono (Alberola, 2014:200-208; Ribas, 2007).

L’eruzione dei vulcani Laki ―Islanda, 1783―, Asama ―Giappone, 1783― e Vesuvio ―Napoli, 1787― influì sull’incremento della piovosità e sulla sensazione di disordine climatico degli anni ottanta (Alberola, 2012; Barriendos e Gómez, 1997). Molte località catalane e valenziane furono colpite da inondazioni straordinarie ―Mataró nell’agosto del 1783; Cullera, Sueca e Orihuela nel 1783 e nel 1784; Valencia nel 1784―, essendo opportuno segnalare i violenti temporali, con vento e pioggia che sferzarono il litorale mediterraneo a gennaio e nell’autunno dell’anno 1787. Ci furono molte vittime, i danni alle coltivazioni e alle infrastrutture idrauliche e delle comunicazioni furono ingenti e le acque del fiume Ebro inondarono Tortosa a inizio ottobre di quell’anno. Sulla fine dell’estate del 1788, un’altra eccezionale burrasca provocò innumerevoli danni in tutto il nordest peninsulare. Prima ancora di potersi riprendere dai disastri dell’anno precedente, Tortosa e le popolazioni del Delta dell’Ebro furono colpite da una nuova inondazione (Alberola, 2014: 217-218).

Negli ultimi anni del XVIII secolo furono numerosi ed intensi gli acquazzoni primaverili nelle zone interne della penisola, come confermano le numerose rogazioni pro serenitate celebratesi tra il 1793 e il 1797. Nell’area mediterranea, violente piogge autunnali fecero straripare numerosi fiumi che, in Catalogna, inondarono Gerona (1790), Montblanc e Tarragona (1792), Badalona (1795) e i nuclei urbani del Delta del Llobregat (1793, 1794, 1797, 1799). In terra valenziana, il fiume Turia inondò Teruel nel luglio del 1791, mentre il Júcar, in quelle stesse date, faceva lo stesso con Alzira e Algemesí. Due anni dopo, un altro violento temporale interessò, in settembre, tutto il territorio valenziano e provocò numerose vittime, danneggiamenti e significativi danni economici a Castellón de la Plana, Valencia, Alcoy e nelle zone meridionali alicantine (Alberola, 2014: 228-230). A fine secolo, il Júcar straripò nell’aprile del 1794 e nel febbraio 1795, e il Segura fu protagonista di una nuova piena «tragica e disastrosa» che inondò Orihuela nell’ottobre del 1797. Tuttavia, la siccità – come si è indicato in precedenza -, ricomparve nel 1800 e permase fino al 1807, come confermano le molteplici rogazioni pro pluvia che furono celebrate (Zamora, 2002).

PREVENZIONE E GESTIONE DEI DISASTRI

Descrizioni dettagliate di tutti questi avvenimenti di carattere straordinario, accompagnate dalla relazione dei danni materiali, delle perdite umane e del costo economico, le troviamo nella documentazione politico-amministrativa dell’epoca, ed anche in altre fonti manoscritte o stampate di natura più personale, nella stampa, nell’iconografia, nelle conseguenze per gli edifici e le opere pubbliche, etc. Lo studio d’insieme di tale corposo materiale documentario e grafico fornisce delle informazioni abbastanza aderenti ai fatti, visto che la soggettività propria dei racconti dei diretti interessati è compensata dal linguaggio più «amministrativo» impiegato dai responsabili politici per descrivere gli effetti, quantificare le perdite, elaborare le loro conclusioni e richiedere ai superiori organi competenti l’aiuto che corrisponde.

3.1.- Cosa fare con la siccità?

Nel Mediterraneo spagnolo sono sempre state messe in atto delle strategie per far fronte sia alla carenza, sia all’eccesso di acqua. A tal proposito, fu prioritario investire nella costruzione di infrastrutture per garantire la disponibilità di risorse idriche sufficienti con cui far fronte ai periodi di prolungata siccità. Fin dall’epoca medievale, sono ben noti i sistemi di irrigazione delle aree in prossimità di zone aride ―a sud di Alicante, Murcia, Almeria―, caratterizzati dallo sfruttamento esaustivo degli scarsi corsi d’acqua circolanti, grazie all’applicazione di un rigoroso calcolo orario (Glick, 2003; Gil Olcina, 1993; Alberola, 1998).

All’ampliamento e al miglioramento dei sistemi di irrigazione seguì, già nel XVI secolo, la costruzione di bacini di varia entità ―soprattutto in territorio valenziano― con l’obiettivo di raccogliere le precipitazioni autunnali e primaverili ed evitare la loro perdita in mare. Al bacino modello di Tibi, costruito alla fine del XVI secolo, seguirono una quindicina di bacini costruiti nel corso del XVII e del XVIII secolo (López Gómez, 1987; Alberola, 1993). Anche i progetti per costruire canali proliferarono durante l’Età Moderna. Perseguivano un triplice obiettivo: fornire irrigazione alle terre lontane dai corsi fluviali, mitigando, così, gli effetti della siccità; mantenere sotto controllo le piene autunnali e primaverili e facilitare il trasporto di merci e persone. Il canale Imperiale di Aragona, la cui costruzione, iniziata ai tempi di Carlo I, si protrasse fino al XVIII secolo, fu una delle iniziative più emblematiche che, già in questo secolo, propiziò opere di minore entità, ma utilissime, a livello locale. Fu il caso, per esempio, del canale d’irrigazione che collegò il fiume Ebro con Tortosa o del famoso Canale di Urgell, di cui si dibatté la costruzione fino alla metà del XIX secolo e, alla fine, non si giunse a una conclusione.

Nel XVIII secolo, furono numerose le iniziative singole per catturare e canalizzare le acque nel litorale catalano mentre, in terra valenziana, oltre all’ampliamento dei sistemi di irrigazione già esistenti, l’opera più singolare fu il prolungamento del cosiddetto Canale Reale del Júcar. Nell’ultimo terzo del secolo, la politica idraulica del riformismo borbonico perseguì la costruzione di una rete di canali per migliorare le comunicazioni interne e dotare di fertirrigazione ampie aree del territorio nazionale, rete che doveva essere integrata dalla costruzione di grandi bacini nel Sudest spagnolo. I risultati di questa ambiziosa politica furono limitati, poiché dei canali iniziati, pochi furono portati a termine, e gli unici bacini costruiti furono quelli di Puentes e Valdeinfiernos (Gil Olcina, 1992 e 1998; Alberola, 2009).

3.2.- Misure contro le precipitazioni intense, piene e inondazioni

In precedenza si è indicato come, nel versante spagnolo del Mediterraneo, i tre quarti dei disastri idrologici più gravi hanno avuto luogo tra i mesi di settembre e novembre quando, dopo le violente precipitazioni ad alta intensità oraria tipiche dell’autunno, i fiumi straripano, provocando importanti inondazioni ed effetti catastrofici legati, altresì, alle condizioni generali di vulnerabilità del territorio e, logicamente, a quelle particolari di ogni popolazione.

In funzione di tali circostanze, si elaborarono le risposte al problema. La prevenzione fu sempre presente nelle iniziative adottate e in alcuni dei progetti elaborati nel corso del XVIII secolo, anche se i risultati non furono sempre quelli attesi. Fu il caso dei piani previsti per ingrandire, rettificare e dragare gli alvei dei fiumi, eliminare o cambiare l’ubicazione di infrastrutture idrauliche o variare la posizione di nuclei urbani ripetutamente inondati. Gli innegabili vantaggi che tutto ciò avrebbe potuto apportare si scontrarono con la abituale penuria economica e non potettero realizzarsi, nel migliore dei casi, fino alla fine del XVIII secolo.

La secolare, e frequentamene richiamata, coesistenza delle conclamate carenze ed eccessi idrici, fece sì che molti Comuni del Mediterraneo spagnolo includessero nelle loro Ordinanze di governo, fin dall’inizio dell’Età Moderna, disposizioni specifiche per gestire efficacemente queste risorse abitualmente scarse. Così, per esempio, certe Ordinanze stabilivano con precisione, all’interno del proprio testo, la ripartizione e distribuzione delle acque per l’irrigazione dei campi, affidavano il loro controllo ad ufficiali comunali e obbligavano gli addetti all’irrigazione a pulire i canali con l’arrivo dell’estate, momento chiave dell’anno agrario, per fare in modo che l’acqua, sia quando era scarsa, sia quando proveniva da acquazzoni straordinari propri della stagione, potesse circolare senza ostacoli e adempiere al suo compito. L’inadempimento di tali norme veniva sanzionato con multe severe.

Una iniziativa esemplare per prevenire gli effetti delle piene a lungo termine la troviamo nella città di Valencia che, cosciente della minaccia rappresentata, nei mesi autunnali, dall’aumento della portata del fiume Turia, istituì, nel XVI e nel XVII secolo, le cosiddette Fábrica de murs i valls e la Fàbrica nova del riu, con l’obiettivo di pianificare la costruzione di massicci ed alti moli nel letto del fiume, nel suo percorso lungo la città, per contenere le piene ed evitare straripamenti (Melió, 1991).

Tuttavia, quando, dopo intense precipitazioni, iniziava l’inondazione, si metteva in marcia la «reazione attiva» della gente, coniugandosi le iniziative individuali con quelle collettive al momento di costruire difese ―muri, motas, tablachos― per contenere, deviare e impedire l’accumulo delle acque e la loro posteriore azione distruttiva. Le autorità locali organizzavano gruppi che, sapientemente diretti, agivano laddove il pericolo era maggiore. Tra le loro missioni, la protezione e il salvataggio di persone e beni o la apertura di strade e spazi preclusi a seguito degli allagamenti, senza dimenticare il consolidamento delle infrastrutture e degli edifici per evitarne la frana e, naturalmente, la garanzia dell’ordine pubblico. La solidarietà è sempre stata presente al momento di affrontare queste situazioni, traducendosi, tra l’altro, nell’accoglienza, da parte delle popolazioni vicine, di coloro che avevano perduto la loro casa a seguito delle piene, nonché la somministrazione immediata di alimenti e di assistenza finché la situazione non si normalizzava. (Alberola, 1999: 303-304; Peris, 2001; Alberola, 2010: 109, 111-113).

Un buon esempio di ciò lo troviamo nelle grandi inondazioni subite dalla città di Valencia ad ottobre e novembre del 1776 e del 1783. Quando la portata del fiume Turia iniziò ad aumentare pericolosamente, le autorità stabilirono dei picchetti per la vigilanza di moli e ponti della città, per monitorare, in ogni momento, il livello delle acque. Mobilizzarono anche squadre di muratori e falegnami per pulire gli archi dei ponti che correvano il rischio di occlusione e, altresì, per farsi carico di qualunque contingenza improvvisa. Le ronde di queste squadre erano supervisionate dallo scrivano, dal “síndico personero” del Comune e dal capomastro della città. Per il mantenimento dell’ordine pubblico, la Capitaneria Generale spiegò contingenti di soldati, con l’ordine di intervenire immediatamente dinanzi a un qualunque principio di tumulto. Una identica condotta si può osservare in altre popolazioni soggette a simili rischi e problematiche, dove gli abitanti e le autorità accumularono una lunga esperienza per ciò che riguarda questo tipo di situazioni limite (Alberola, 2010).

Passata l’emergenza, era d’uopo prendere delle decisioni che permettessero un rapido ritorno alla normalità quotidiana. Le autorità civili e le istituzioni religiose agivano con sollecitudine, approntando vari tipi di aiuti e risorse economiche per le operazioni di sgombero, di localizzazione delle vittime e ricostruzione e, contemporaneamente, elaboravano rapporti e memoriali indirizzati alle autorità monarchiche, richiedendo lo stanziamento immediato di risorse economiche che permettessero di tornare rapidamente alla normalità.

L’esecuzione dei meccanismi di aiuto e ricostruzione si combinò, nel XVIII secolo, con le riflessioni di vari responsabili ―politici o religiosi― nelle quali, tra le altre cose, si cominciava ad alludere all’insolito comportamento del “tempo”, indicandolo come la causa dei mali patiti. Del pari, possiamo trovare proposte molto serie ed ambiziosi piani per scongiurare il rischio di piene e inondazioni autunnali.

Sul finire del secolo, va messa in risalto la particolare attenzione che si voleva prestare a quelle popolazioni di comprovata vulnerabilità, le cui richieste il Consiglio di Castiglia cercò di soddisfare celermente, una volta passata la calamità, autorizzando l’uso di risorse economiche straordinarie e commissionando ad ingegneri militari una stima dei danni, il miglioramento o, se del caso, una nuova progettazione delle opere di difesa contro il rischio di inondazione e perfino il trasferimento delle popolazioni in luoghi più sicuri (Sambricio, 1991).

CONSIDERAZIONE FINALE

La «società del rischio» è sempre esistita, ma, al giorno d’oggi, è ovvio che la società post-moderna, molto più informata, esiga maggior sicurezza, dato che, ormai, ha assodato che il rischio è qualcosa di consustanziale al momento presente (Beck, 2006). E ancora, il rischio è una condizione dell’essere umano, vulnerabile fin dalla comparsa delle prime civilizzazioni. Per questo, ora che l’analisi della pericolosità naturale e dei mezzi di riduzione del rischio si è convertito in un tema chiave, non sembra fuori luogo dedicare degli studi al comportamento del clima e della natura e agli effetti che ebbero sulla dinamica delle società in vari periodi storici. Queste pagine intendono porre in rilievo l’importanza che hanno le variabili idrometeorologiche in queste analisi, senza dimenticare, naturalmente, tutte quelle solitamente impiegate al momento di svolgere indagini socioeconomiche, che permettano di ottenere una visione più ampia del fatto storico in un periodo e in una localizzazione geografica esatti. In questo caso, il XVIII secolo e il versante spagnolo del Mediterraneo.

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Questo studio è stato elaborato nell’ambito del progetto HAR2017-82810-P, integrato nel Piano Statale di Promozione della Ricerca Scientifica e Tecnica di Eccellenza, promosso dal Ministero della Scienza, Ricerca e Università (Governo della Spagna), dall’Agenzia Statale per la Ricerca e i Fondi FEDER.

La traduzione italiana dell’originale di questo testo è stata fatta da Claudia Donelli (Servicio de Traducción. Centro Superior de Idiomas de la Universidad de Alicante). I miei più sinceri ringraziamenti per il suo lavoro.

1 La PEG fu una pulsazione climatica fredda che, iniziata dopo l’Optimum climatico medievale, si verificò all’inizio del XIV secolo e si protrasse fino agli anni sessanta del XIX secolo. Si caratterizzò per l’abbassamento delle temperature medie tra 1º C e 2º C, la predominanza di inverni molto freddi e nevosi, il reiterarsi di estati fresche e umide, l’avanzamento dei ghiacciai alpini in Europa e un notevole incremento delle precipitazioni. Vedi Lamb, 1972; Grove, 1988; Bradley & Jones, 1992; per la Spagna Alberola, 2014.