Contro ogni conformismo Nicola Chiaromonte

di Michele Strazza

Abstract

Nicola Chiaromonte (Rapolla 1905-Roma 1972), fu antifascista, giornalista e filosofo. Esule in Francia, amico di Andrea Caffi, militò prima in “Giustizia e Libertà” e poi, nel 1936, allo scoppio della guerra civile spagnola, si arruolò volontario nelle forze repubblicane, combattendo nella squadriglia aerea “Espana” dello scrittore francese André Malraux che lo immortalò nel personaggio “Scali” del suo romanzo L’Espoir. Lasciata la Spagna, dopo essere stato arrestato, nel 1940 raggiungeva Algeri dove conobbe Albert Camus. Alla fine del 1941 si stabilì negli Stati Uniti. Vicino a Salvemini, frequentò la “Mazzini Society”, nonché gli intellettuali radicali che gravavano intorno alla rivista “politics” di Dwight Macdonald, collaborando a giornali e riviste d’avanguardia. Tornato in Italia nel dopoguerra fu in polemica con la cultura del tempo e con un Paese che stava diventando, per lui, una grande “democrazia cifrata”. Dal 1956 al 1968 diresse, insieme ad Ignazio Silone, “Tempo presente”. Antistoricista, contrario ad ogni idea totalizzante della politica, avvertiva la precarietà dell’individuo all’interno della società di massa.

Nicola Chiaromonte nacque il 12 luglio 1905 a Rapolla, in Basilicata, da Rocco e Anna Catarinella. Il padre, medico e cattolico osservante, si trasferì con la famiglia a Roma e Nicola poté frequentare per gli studi liceali il “Collegio Massimo”, prestigioso istituto dei gesuiti dove i figli della borghesia sedevano, ma senza confondersi, con i rampolli dell’aristocrazia “nera” (Berardinelli 1998, 51. Per una biografia sintetica di Nicola Chiaromonte cfr. Craveri 1980). Trasferitosi, in seguito, al liceo statale “Torquato Tasso”, da giovanissimo, come fecero altri intellettuali, per brevissimo tempo simpatizzò con D’Annunzio e col “diciannovismo”, un movimento proto-fascista dei primi anni Venti nato dalla opposizione alla tradizione giolittiana e liberale del tempo. Mussolini era per tale visione l’argine al ritorno verso la “palude parlamentare”. Ma il delitto Matteotti fece rinsavire molti e l’approdo all’antifascismo per Chiaromonte fu cosa fatta (Melandri 1997).

All’università frequentò i corsi di Giurisprudenza, laureandosi nel 1927. Da studente universitario partecipò al movimento democratico collaborando a “Il Mondo” di Amendola. È di questo periodo la sua frequentazione con studenti antifascisti come Ugo La Malfa e Lelio Basso. Con quest’ultimo condivise il progetto di dare vita ad una rivista in sostituzione del “Quarto Stato” (cfr. Bianco 1999). Allontanatosi dal cattolicesimo, ne conservò l’afflato etico e la severità morale come si nota nell’articolo Diagnostica dei ventenni che scrisse, il 25 settembre 1926, sulla rivista protestante “Coscientia” (Chiaromonte 1926a).

Sulla stessa rivista prendono già forma alcuni temi importanti per il suo pensiero. Il suo primo articolo, infatti, rappresenta un’aspra critica alla società di massa. Contro il potere “delle macchine e della tecnica pratica” e la spersonalizzazione dei rapporti non serve l’associazione “della massa” ma l’unione degli “individui viventi”a cui “l’inevitabilità della lotta” e “la forza spietata della corrente vitale” concedono “una pienezza nuova di dolore e di ansia, un nuovo senso di solidarietà umana”poiché essi riconoscono che la lotta non è rivolta alla “reciproca sopraffazione”ma alla “liberazione comune” (Chiaromonte 1926b). Dopo il 1930 collaborò anche ad “Italia letteraria” dove pubblicò le sue critiche cinematografiche (Lostaglio 2011). Nel 1932, tramite Vindice Cavallera, entrò in contatto con Rosselli e “Giustizia e Libertà” (Garosci 1972). Ma anche l’antifascismo era per lui inadeguato, essendo “semplice negazione della negazione”. Di qui il suo credere in una sorta di giusnaturalismo etico, frutto della sua formazione e della profonda conoscenza del pensiero classico. Di qui anche la sua polemica antistoricistica, in contrapposizione sia alla tradizione neoidealista di Croce che a quella di Gentile (Craveri 1980). Non mancava, in lui, una visione che andasse al di là del contingente momento politico e abbracciasse idee e intuizioni che precorrevano il tempo:

il fascismo è il morbo più grave, non il vero e serio problema del mondo contemporaneo: veri e seri problemi sono che cosa il mondo deve fare della tecnica, come bisogna organizzare la vita economica perché l’economia non diventi la tiranna della vita sociale, come, infine, salvare la civiltà moderna, eliminando ciò che ha portato essa civiltà alla tremenda impasse nella quale si dibatte (Chiaromonte 1976).

Nel 1934 riparò in Francia per evitare l’arresto in quanto accusato di aver partecipato ad una cospirazione per un attentato al Duce. Lo stesso Cavallera era stato già catturato dalla polizia fascista. Oltralpe restò in contatto con noti antifascisti come Mario Levi e Andrea Caffi, quest’ultimo presentatogli due anni prima da Moravia e che divenne il suo maestro di filosofia. Nel giornale di “Giustizia e Libertà” chiamò la sua rubrica di note settimanali “Impolitica”, non “Apolitica” o “Antipolitica”, termini entrambi inadeguati per esprimere ciò che portava dentro. “Impolitica”, invece, indicava “una realtà crudamente esposta e satireggiata al di là delle convenienze della opportunità” (Garosci 1972). Faceva, così, entrare nell’impostazione di Gl una originale visione della lotta antifascista insieme al bisogno profondo “di ritrovare la causa e la ragione dell’agire”. Di qui l’esigenza di discutere, anche animatamente, di idee e valori della tradizione liberale e socialista, della stessa cultura risorgimentale.

Insieme ad Andrea Caffi, Mario Levi e Renzo Giua formò la corrente interna a Gl dei c.d. “novatori”i quali riconducevano l’analisi del fascismo dentro fenomeni più complessi, innanzitutto la crisi della civiltà europea di cui la prima guerra mondiale era stata l’espressione. Proprio per i Quaderni di Giustizia e Libertà, sotto lo pseudonimo di “Sincero”, parlò del nuovo regime che, con l’enorme apparato poliziesco, non solo soffocava il Paese ma si sovrapponeva allo stesso partito fascista. Nell’articolo La morte si chiama fascismo, uscito nel 1935, dissertò della disgregazione morale, sociale, politica ed economica dell’Europa da cui era partorito il fascismo, puntando l’indice accusatore sugli apparati mostruosi dello Stato moderno:

 Lo Stato moderno ha finito per essere uno Stato informe, strumento di forze senza legge: cominciando dalle influenze sotterranee e capillari delle tradizioni morte che non è capace di riassorbire; continuando coll’industrialismo, il capitalismo e la tecnica, cui non è capace di dare una legge, ma soltanto di lasciarli fare o d’intralciarli con “regolamenti” che in fondo aumentano l’informità e accelerano il processo di crisi dello Stato; e terminando ai poteri dello Stato stesso, principalmente polizia, burocrazia e forza armata, del cui funzionamento la comunità può, nel più felice dei casi, rendersi conto, ma non dispone di strumento politico abbastanza efficace per controllarli, e finisce per subirli. Quando in uno Stato, al posto della forma politica s’installa l’amministrazione, al posto della legge, il comando, questa amministrazione e il sistema dei comandi potranno essere foltissimi, ma lo Stato non esiste più, perché non ha più nessuna forma. Diventa una pirateria organizzata ai danni della società, ai danni della vita stessa, nel senso più profondo e radicale: opprime tutto e falsifica tutto. È uno Stato fuori legge. Lo Stato fascista (Chiaromonte-”Sincero” 1935, 20-60).

Chiaromonte comprende perfettamente come il fascismo, ma in genere tutte le dittature moderne, esercitano il loro potere sulle masse in nome delle masse stesse. Tutti i principi tradizionali, tutti gli interessi si dissolvono all’interno di uno Stato onnicomprensivo, espressione e portavoce unico del suo popolo, mantenuto in uno stato amorfo e indistinto, in un conformismo assoluto. Si capisce in tal modo

fino a che punto queste tirannie siano tiranniche, e devano realizzare un conformismo assoluto, non basta vietare ciò che è direttamente o velatamente contrario all’ordine stabilito, ma più direttamente tutto ciò che è diverso, che non è immediatamente utile alla conferma di esso ordine. Quindo non esiste un criterio per discriminare l’eresia dall’ortodossia, quindi di una organizzazione vera e propria del pensiero manovrato vorrebbero venire a capo questi regimi (Chiaromonte-”Sincero” 1933b, 80).

L’analisi del totalitarismo e del fascismo negli scritti di questo periodo si muove ancora in un’ottica “politica”, sulla base di valori socialisti e libertari. Nel dopoguerra vedremo come questa fiducia nella forza politica di cambiamento verrà meno, spostandosi la speranza di trasformazione in un ambito più culturale. L’anticonformismo di Chiaromonte, ma anche di Caffi e di Levi, il richiamarsi a impostazioni di socialismo utopico, non potevano portare ad una serrata critica nei confronti di “Giustizia e Libertà”e delle sue concezioni tradizionali. Di qui l’attacco alle “sacre memorie”della nazione e la presa di distanza dalla esaltazione troppo entusiastica del risorgimento e di Mazzini. Ma la critica a “Giustizia e Libertà”di Chiaromonte e degli altri “novatori”non si limita a questioni prettamente filosofiche, coinvolgendo la mancanza di una ossatura organizzativa del movimento e di una precisa identità politica.

Nell’articolo Per un movimento internazionale libertario Chiaromonte indica la strada da percorrere nella creazione di un movimento politico “internazionale” e “libertario”, indipendente da ogni preconcetto sull’idea di nazione, da ogni pregiudizio di generico “democratismo”, in grado di sviluppare i germi del concetto di autonomia e di concretizzarli in un orientamento politico generale. Solo così si sarebbe cominciata “l’educazione del popolo”, sostenendolo “nella costruzione di ideali di dignità civile” (Chiaromonte-”Sincero” 1933a, 13-20). Convinti, quindi, che Rosselli si muovesse ormai “in una prospettiva di restaurazione della vecchia democrazia parlamentare”, i “novatori” lasciarono “Giustizia e Libertà” (Melandri 1997). Del resto, per Chiaromonte e gli altri era in atto un tentativo, assolutamente non condivisibile, di trasformare il movimento in un partito (Chiaromonte 1956a). Di contro essi auspicavano, invece, “un pensiero netto accompagnato da un continuo lavorìo critico” (Bagnoli 1996, 96-97. Sulle divergenze con Rosselli cfr. Bianco 1999, 26-41; 1977, 63-72). Distaccatosi, dunque, da “Giustizia e Libertà” nel gennaio del 1936, Chiaromonte aderì per un periodo al partito socialista in esilio, all’interno del gruppo “frondista”di Angelo Tasca.

Nello stesso anno, allo scoppio della guerra civile spagnola, si arruolò volontario nelle forze repubblicane, combattendo nella squadriglia aerea “Espana” dello scrittore francese André Malraux che lo immortalò nel personaggio “Scali” del suo romanzo L’Espoir (Malraux 1956). L’esperienza bellica non gli fece, però, perdere la lucidità d’analisi e la razionalità. Riparlandone nel 1959 su “Critica sociale”, mostrò tutto il suo “distacco antieroico”, conscio della tragicità degli avvenimenti e non nascondendo la critiche alla lotta tra due totalitarismi. Fascismo e Stalinismo erano per lui la negazione dello “Stato di diritto” kantiano e di quei valori naturali di libertà posti alla base della civiltà europea (Chiaromonte 1959b).

Dopo meno di un anno lasciò la Spagna in preda ad una profonda delusione a causa dell’intollerabile comportamento del partito comunista che aveva dato prova di impostazione accentratrice e dittatoriale. Tornato a Parigi, era poi costretto a riparare a Tolosa dopo l’invasione tedesca. Nella fuga la moglie Annie Pohl, malata di tisi, si aggravava e moriva. Dopo essere stato arrestato nel 1940 raggiungeva Algeri dove frequentò Albert Camus. A Casablanca, in Marocco, entrò in contatto con fuoriusciti italiani tra cui Leo Valiani, Cianca e Garosci. Alla fine del 1941 si stabilì negli Stati Uniti dove fu redattore del settimanale italiano di New York “L’Italia libera” e poi insegnante di letteratura inglese in un liceo. In questo periodo venne iscritto in Italia alla “Rubrica di frontiera” e denunciato al Tribunale speciale. Nel Casellario Politico Centrale risultava schedato come “comunista” (Archivio Centrale di Stato, Casellario Politico Centrale, B. 1296, fasc. Chiaromonte Nicola, 1934-1942).

Vicino a Salvemini, frequentò la “Mazzini Society”, nonché gli intellettuali radicali che gravavano intorno alla rivista “politics” di Dwight Macdonald, collaborando a giornali e riviste d’avanguardia come “The New Republic”, “The Nation”, “Atlantic Monthly” e “Partisan Review” (Russo 2012. Sull’influenza di Chiaromonte negli ambienti culturali americani si veda anche Bianco 1999, 68 ss.). Negli Usa sposa la sua seconda moglie, Miriam Rosenthal. È di questo periodo la frequentazione con importanti personaggi della cultura americana come la filosofa Hannah Arendt, la scrittrice Mary McCarthy, Victor Serge, Anton Ciliga e George Orwell (per questo periodo cfr. anche Donno 1983, 159-204). Grazie alla sua influenza “politics”, prima dominata dalle tendenze trotzkiste di Dwight Macdonald, si aprì alle idee anarchiche e libertarie. Vi collaborarono da Parigi anche Andrea Caffi e Mario Levi, nonché l’americano James Agee. Sulle sue pagine Chiaromonte portò l’afflato pacifista sostenendo, verso la fine della guerra, l’inutilità di radere al suolo le città tedesche come Dresda. Il conflitto era quasi concluso e si potevano evitare inutili stragi (McCarthy 1972).

Tornato in Italia nel 1948, collaborò a diversi periodici italiani e stranieri. Scrisse anche sul quotidiano socialdemocratico “L’Umanità”. L’anno successivo si trasferì a Parigi per collaborare all’Unesco. Nella capitale francese si sentì nuovamente vitale, dopo la delusione avuta l’anno prima in Italia per il modo come i partiti antifascisti stavano gestendo il dopoguerra. Da qui continuò ad inviare articoli per giornali americani e italiani. Molte anche le sue frequentazioni, oltre a Caffi e Mario Levi vedeva Alfred Rosmer, Raymond Aron, il filosofo Jean Wahl, lo scrittore americano Lionel Abel e molti altri.

Nel 1951 ritornò nuovamente in Italia ma si sentì un pesce fuor d’acqua. Confidò ad un amico: “Trovare un lavoro è un impresa disperata se non si appartiene a qualche ghenga politica”. Solo Aldo Capitini ad altri intellettuali anticonformisti avevano la sua stima. Odiava profondamente la retorica ed aveva un grande senso del limite umano. Il concetto del limite era uno dei suoi punti fermi. Un azione, per lui, non si qualificava solo per la sua natura, ma per la sua misura. Fare dieci – soleva dire – è una cosa, farne venti è un’altra. Per questo, volere ottenere un cambiamento attraverso la conquista immediata ed integrale del potere, era sciocco, “perché nel perseguire il potere, si snatura e sorpassa il limite”, creandosi “una contraddizione fra ciò che si vuole, e ciò che si ha imponendo” (McCarthy 1972).

Nel 1953 si stabilì in modo definitivo in Italia, prendendo casa a Roma. Nello stesso anno esce, a cura dell’Associazione italiana per la libertà della cultura, Il tempo della malafede (Chiaromonte 1953). Negli articoli di questo periodo pubblicati su “Il Mondo” di Pannunzio, su “Il Ponte” e “Nuovi Argomenti” si nota la presa di distanza dal conformismo della cultura e della politica del tempo e l’affermazione della sua autonomia intellettuale.

Profondamente moderno, era quasi “straniero”in un Italia dove nasceva la partitocrazia e la cultura veniva colonizzata dalla politica militante. “L’Italia odierna”, soleva dire, “immeschinisce” (Russo 2012). Il Paese stava diventando, per lui, una grande “democrazia cifrata”, quasi uno “Stato fuorilegge”con una “oppressione burocratica di tipo orientale”. Non a caso nel 1956 il suo nome compare nella lista dei fondatori del partito radicale (cfr. “Il Mondo”, 28 febbraio 1956).

Dal 1956 al 1968 diresse, insieme ad Ignazio Silone, “Tempo presente”. Pur avendo spesso divergenze con il suo condirettore, il suo intento fu quello di “promuovere il riesame dei modi di pensare correnti, mettendoli a confronto con la realtà del mondo attuale” (Milano 1972). La rivista voleva dare voce “a quella parte della cultura italiana che non si era sottomessa alle chiese cattolica e comunista” e, proprio per questo, dalla cultura ufficiale italiana fu sempre guardata con sospetto (su “Tempo presente” cfr. Fofi, Giacopini, Nonno 2000). Scettico nei confronti della politica, Chiaromonte pensava “che se una trasformazione era da aspettarsi, lo era solo in quanto si riusciva a fare emergere nella cultura e dalla cultura degli aspetti nuovi, non conformisti rispetto alla logica clericale, da una parte, e al marxismo dall’altra” (Melandri 1997).

Contro un’idea totalizzante della politica egli avvertiva la precarietà dell’individuo all’interno della società di massa dominata dal “macchinismo”, dalla burocrazia, dalla complessità crescente della tecnica, dalla specializzazione scientifica. In questa società, autoritaria e dominata da un “senso brutale dell’effimero”, al singolo venivano imposti comportamenti necessari, dettati da esigenze tecniche e razionali, privi di un contenuto valoriale, che mettevano da parte i grandi problemi etici: “La domanda se ciò che si fa sia bene o sia male, quale senso abbia, è presente e inquietante proprio perché è rinviata, o meglio, repressa”. Si finiva, così, per agire solo per “ragioni di convenienza, più che di coscienza”, rinunciando ad una scelta consapevole (Chiaromonte 1956b). L’individuo, privato della sua libertà, della possibilità di scegliere consapevolmente sulla base della differenza tra bene e male, diventava allora “l’uomo massa”, cioè “struttura” di comportamenti stereotipati nei quali si esprimeva “la tendenza, o piuttosto: l’inerzia, della società contemporanea”. Di qui l’aberrante conclusione: “Vivere reprimendo la questione se ciò che si fa giorno per giorno abbia un senso, sapere che la si reprime e accorgersi, al tempo stesso, che ciò non cambia il senso delle cose” (Ibidem).

Ed è proprio l’annullamento del singolo quale cittadino all’interno della società di massa che sancisce la morte della “politica”, quale patto tra l’individuo e lo Stato, e la sua trasformazione in pura “illusione”, “mistificazione”e manipolazione dell’opinione pubblica (Chiaromonte 1962). In tutto questo conformismo, il ruolo dell’intellettuale è quello di mantenere a qualsiasi costo il senso delle cose, del vero e del falso, di difendere il principio dell’individualismo di fronte alle verità imposte, il diritto al dubbio ed alla critica, di rifiutare le “menzogne utili”e di rifondare una sorta di “utopia come metodo critico”. L’intellettuale libero diventava così, per Chiaromonte, l’opposto del “chierico”, di colui, cioè, che manteneva la “dottrina della comunità”, l’intermediario tra il potere e la massa, figura ampiamente diffusa anche oggi. Era, dunque, necessario resistere sempre, al conformismo imperante, alle lusinghe, al potere autoreferenziale, avendo la capacità di dire “no”:

Di fronte alla violenza del potere organizzato, oggi, la prima cosa è dire “no”, e ritrovarsi con i pochi (inevitabilmente pochi) pronti a dire “no”e a resistere; la seconda è cercare i modi della resistenza nella direzione del rifiuto d’obbedienza, della resistenza passiva, del sabotaggio silenzioso, e non sul terreno della violenza, sul quale si è certi di essere sconfitti; la terza, infine, è di non cercare il successo rapido e vistoso, ma sapersi ritirare nell’ombra e preparare lentamente il momento in cui, come diceva Proudhon, “le pietre si solleveranno da sole” (Chiaromonte 1959a).

La forza della “non violenza”era per lui importantissima, la sottile linea che collegava il “discorso della montagna” di Gesù a Tolstoj, a Gandhi, a Martin Luther King. Tale messaggio costituiva veramente “un principio risolutivo di azione morale e sociale” (Chiaromonte 1968b). Durante la crisi ungherese e quella cecoslovacca Nicola Chiaromonte non mancò di fare sentire la sua voce contro il totalitarismo sovietico, professando una concezione di “sinistra utopica”, pubblicando saggi ed articoli di esuli che fuggivano alla violenza sovietica. Contro il “gesuitismo moderno”e i “mediocri soddisfatti” amava definirsi “eretico” e considerava “dilettanti di comunismo” quegli intellettuali fiancheggiatori del Pci che non esercitavano fino in fondo lo spirito critico, sottolineando la malafede di quelli che, per far dimenticare di essere stati fascisti, avevano preso la tessera comunista. Soleva, infatti, affermare che quella non era “un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità”. Era, invece, “un’epoca di malafede”, cioè “di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine” (Chiaromonte 1971).

La sua critica al marxismo, che conteneva un’insidia totalitaria, lo spinse ad affermare apertamente la necessità di gettarlo “alle ortiche”se veramente si voleva “arrivare a un inizio di chiarezza”. Così su “Tempo presente” fece conoscere agli italiani le prime testimonianze del dissenso sovietico, riportando scritti di Sinjavskij e di Gustaw Herling, proibito in Polonia. Sulla rivista condusse importanti battaglie contro la guerra in Algeria, l’autoritarismo di De Gaulle, il colpo di stato dei colonnelli greci, la dimensione teocratica del nuovo Stato di Israele, l’apartheid in Sud Africa, l’imperialismo americano in America Latina, la guerra in Vietnam. Così come non mancarono le sferzate alla società italiana, alla partitocrazia, al clericalismo, alla corruzione, al malaffare.

Contrario ad ogni forma di totalitarimo e di limitazione delle libertà individuali, sottolineava l’inutilità di moralizzare lo Stato, come se esso fosse una entità indipendente dagli individui, così come era inutile concretizzare politicamente le utopie, preparando gli inferni in terra. Pur affermando, infatti, che non vi poteva essere civilizzazione senza “molteplicità di utopie”, ne sottolineava il vocabolo “moltiplicità”, escludendo l’interpretazione secondo cui le utopie dovevano essere realizzate per essere significative e per cambiare la vita degli uomini. Richiamandosi al pensiero giusnaturalista sosteneva che la giustizia esiste prima del diritto, coincidendo con un sentimento innato e rendendo immorale qualsiasi sottomissione alla ragion di Stato. Di qui l’esaltazione della libertà di disobbedienza al potere ingiusto.

Ma la libertà non doveva mai fare dimenticare all’uomo la coscienza dei propri limiti. Egli, illudendosi di essere un assoluto, finiva col cadere nella violenza della sua autoaffermazione: “sull’individuo convinto che scopo unico della vita è realizzare se stesso a qualunque costo, manifestare in qualunque modo il suo essere qui, in questo mondo, e che non c’è altro, la ragione non ha nessuna presa”. L’uomo moderno era, dunque, convinto della sua onnipotenza, di poter soddisfare totalmente ogni suo desiderio, di essere se stesso lo “scopo ultimo della vita”:

La demenza, la violenza e l’avvilimento in mezzo a cui viviamo, hanno la loro origine morale in questo principio che non è di sinistra né di destra, né di avanguardia né di retroguardia, e al quale nessuna società, nessuna forma di cultura o di vita spirituale, possono alla lunga resistere. Tuttavia, assurdo com’è, oggi come oggi esso impera […] Ma non ha verità. E non avendo verità, merita soltanto ironia da una parte, pietà dall’altra (riportato in Milano 1972).

Tra gli ultimi scritti sulla rivista vi è, del maggio 1968 , La tirannia moderna nel quale ritornò a stigmatizzare la tirannìa della collettivizzazione e meccanizzazione della società, contestando il concetto di crescita materiale come necessità dell’era moderna. Su questi temi aveva portato in Italia il punto di vista di esponenti della cultura europea come Leo Strauss e Hanna Arendt (Chiaromonte 1968a). La rivista chiuse nel 1968 per difficoltà finanziarie ma l’anno prima era rimasta coinvolta nello scandalo internazionale suscitato da alcune rivelazioni su finanziamenti della Cia al “Congress for Cultural Freedom”, fondato a Parigi nel 1950, che aveva elargito contributi anche a “Tempo presente”. Chiaromonte, pur non sapendo nulla dei finanziamenti e pur non avendo accettato mai alcuna pressione, visse la vicenda come un affronto alla sua integrità morale (l’episodio è raccontato in Bianco 1999, 141-142). Svolse una fervida attività di critico teatrale pubblicando, nel 1960, La situazione drammatica (1960), contenente molte note e recensioni (Chiaromonte  1960). Altre apparvero su “Il Mondo” e “L’Espresso”. Nel teatro egli vedeva “un momento quasi sacrale dell’espressività umana”, un momento “di confessione, di dramma e dolore” ma, al tempo stesso, espressione di “poesia e moralità” (Siciliano 1972).

Nelle sue acute analisi cercava di “andare alla radice delle idee”, “facendo giustizia delle tante sciocchezze correnti in una cultura formalista e provinciale quale era quella italiana”. Come ha ricordato Gino Bianchi, ciò che lo interessava di più era la comunicazione, il confronto delle idee, verso cui aveva un grandissimo rispetto anche quando non le condivideva. Per questo auspicava “il ritorno a una cultura consapevole del suo compito formativo, dove l’individuo si ritrovasse a tu per tu con se stesso, con la società e con il mondo, per trovare ciò che è essenziale e ciò che non lo è, ciò che importa e ciò che non vale” (Melandri 1997). Nel 1975 vennero pubblicati postumi i suoi Scritti sul teatro dal quale traspare la sua concezione del teatro non come illusione ma come occasione per discutere della verità (Chiaromonte 1975).

Esso, tuttavia, non mira a rappresentare la realtà, mettendola, anzi, in discussione. Oggetto del teatro non è, dunque, la realtà, bensì il “mondo interiore e puramente umano di credenze comuni di cui l’ordine sociale non è che l’aspetto esteriore, e che è tanto più reale quanto più gli uomini non solo vi credano ma anche vi dubitino insieme” (Craveri 1980). Si lamentava molto della mancanza, a parte Pirandello, di “un autentico teatro italiano” e ciò per la ragione che la società italiana era incapace di interrogarsi, di guardarsi allo specchio, di mettersi in discussione. Anche sul cinema era piuttosto critico. Dopo avere amato molto quello degli anni Trenta, con registi come Eisenstein, si allontanò da un fenomeno considerato ormai troppo industriale, “un aspetto della cultura di massa e della meccanizzazione del mondo moderno” (Ibidem). Morì a Roma il 18 gennaio 1972.

Molti suoi scritti, come Guerra e pace, erano stati raccolti, l’anno prima, nel volume Credere e non credere, pubblicato da Bompiani (Chiaromonte 1971). Nel 1978 uscirono postumi, nel volume Silenzio e parole, i suoi saggi su Mallarmè, Manzoni, Pirandello, Simone Weil, Solzenicyn (Chiaromonte 1978). Del 1976 è, invece, la pubblicazione, sempre postuma, dei suoi Scritti politici e civili, miniera di notizie per la sua vita e il suo pensiero (Chiaromonte 1976). Nel 1992, per “Il Mulino”di Bologna, uscì Il tarlo della coscienza e nel 1995 Che cosa rimane. Taccuini 1955-1971 (Chiaromonte 1992; 1995). Nel 2001, infine, venne pubblicato Le verità inutili (Chiaromonte 2001). Si è detto della sua originalità e del suo isolamento nel panorama culturale italiano a causa delle sue idee e della sua impostazione filosofica. Proprio nel saggio su Guerra e pace di Tolstoj è evidente tutto il suo antistoricismo.  In una visione profondamente esistenzialistica, egli analizzava, attraverso le esperienze del grande romanzo europeo, l’assenza “intimamente ambigua” di ciò che viene chiamato “storia” e “fatto storico”, concentrando “l’attenzione sull’evento e sul rapporto assurdo e drammatico dell’uomo con l’evento”, sottolineando “cioè quella catena di frammenti impalpabili che, frantumandosi all’infinito, sembra(va)no dissolvere la Storia maiuscola nell’assurdo, piuttosto che ricomporla nell’ordine di un’Idea o di una Ragione superiore” (Bettiza 1972). Per Chiaromonte, dunque, esiste un profondo dissidio tra Storia e Libertà ed il tentativo di decodificare la Ragione nella Storia rappresenta una semplice illusione: “Non solo siamo noi stessi parte dell’avvenimento, quindi in buona misura sue vittime e non soltanto suoi agenti, ma anche parte di un corso di eventi cosmici che supera una volta per sempre la nostra capacità di comprensione” (Chiaromonte 1971, 76).

Più che una critica alla Storia la sua è la contestazione della sua assolutezza, la lezione della storia interpretata come comando, fede, quasi una sorta di “religione”. Di qui il suo isolamento in un’Italia intrisa di storicismo idealista, marxista o cattolico. Tutte concezioni che non accettava, rigettando ogni forma di finalismo o fatalismo della necessità. Di qui il titolo della raccolta Credere e non credere che esprime proprio il dubbio in un finalismo raccoglitore degli eventi convogliati in un loro divenire. Nel libro l’autore, partendo dalla rilettura di Martin du Gard e dalla prima guerra mondiale, approda alle tesi di Tolstoj riscoprendo i profondi sentimenti di scrittori come Malraux e Pasternak.

In questo “spettacolo dell’irrazionalità della storia” vano è “sperare di immettere, a guida, il povero senno umano”, per cui la conclusione resta sospesa tra il “credere” e il “non credere”. Chiaromonte preferisce scegliere il secondo, “contro l’illusione mitica di una sapienza profetica, anche non grossolana, che anima chi pretende d’avere o trovare la chiave della storia”, ma, nello stesso tempo, “sempre tiene in riserva il credere, contro chi credesse di potersene ritrarre” (Garosci 1972). Due anni prima di morire identificava le radici della “falsa religione” del mondo contemporaneo nel connubio tra due grandi “superstizioni”, la Storia e la Politica, “l’idea che l’uomo sia padrone della propria storia e quella che la politica sia il mezzo migliore per realizzare integralmente la sua natura morale” (Chiaromonte 1970). Il suo è stato definito “un umanesimo ridotto, lucido, stoico nella coscienza del limite, allergico ai rinvii perenni alla Grande Storia di domani”, indubbiamente una grande “lezione di libertà” (Bettiza 1972).

 

Bibliografia

Bagnoli P.

1996                Rosselli, Gobetti e la rivoluzione democratica, Firenze, La Nuova              Italia.

 

Berardinelli A.

1998                Autoritratto italiano. Un dossier letterario 1945-1998, Roma, Donzelli.

 

Bettiza E.

1972                La lezione di Chiaromonte. Cittadino del mondo, in “Corriere della sera”, 8 febbraio.

 

Bianco G.

1977                Un socialista “irregolare”. Andrea Caffi intellettuale e politico d’avanguardia, Cosenza, Lerici.

1999                Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede, Manduria (La), Lacaita.

 

Chiaromonte N.

1926a              Crisi e soluzione della modernità, in “Coscientia”, 19 giugno.

1926b              Diagnostica dei ventenni, in “Coscientia”, 25 settembre.

1933a “Sincero” Per un movimento internazionale libertario, “Quaderno di Giustizia e Libertà”, serie II, n. 8, agosto.

1933b “Sincero” Ufficio stampa, “Quaderno di Giustizia e Libertà”, serie II, n. 9, novembre.

1935 “Sincero” La morte si chiama fascismo, Quaderno di Giustizia e Libertà, serie II, n. 12, gennaio.

1953                Il tempo della malafede, Roma, Associazione italiana per la libertà della cultura.

1956a              L’intellettuale e la politica, in “Il Mondo”, 28 febbraio.

1956b              La situazione di massa e i valori nobili, in “Tempo presente”, aprile.

1959a              Discussione. La tentazione dell’Est, in “Tempo presente”, agosto.

1959b              La guerra di Spagna, in “Critica sociale”, 20 giugno.

1960                La situazione drammatica, Milano, Bompiani.

1962                Riflessioni su una crisi, in “Tempo presente”, settembre.

1968a              La tirannia moderna, in “Tempo presente”, maggio.

1968b              Violenza e non violenza, in “Tempo presente”, agosto.

1970                Sono i falsi mistici, in “L’Espresso”, 1 novembre.

1971                Credere e non credere, Milano, Bompiani.

1975                Scritti sul teatro, a cura di Chiaromonte M.,Torino, Einaudi.

1976                Scritti politici e civili, a cura di Chiaromonte M., Milano, Bompiani.

1978                Silenzio e parole, Milano, Rizzoli.

1992                Il tarlo della coscienza, a cura di Chiaromonte M., Bologna, Il Mulino, 1992.

1995                Che cosa rimane. Taccuini 1955-1971, a cura di Chiaromonte M., Bologna, Il Mulino.

2001                Le verità inutili, a cura di Fedele S., Napoli, L’ancora.

 

Craveri P.

1980                Chiaromonte Nicola, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol.                       XXIV, Treccani.

 

Donno A.

1983                Dal New Deal alla guerra fredda, Firenze, Sansoni ed.

 

Fofi G., Giacopini V., Nonno M.

2000                Nicola Chiaromonte, Ignazio Silone. L’eredità di “Tempo presente”,                    Roma, Fahrenheit.

 

Garosci A.

1972                Addio a Nicola Chiaromonte, in “L’Umanità”, 21-22 gennaio.

 

Lostaglio A.

2011                Nicola Chiaromonte lucano illustre, in “La Nuova del Sud”, 4 gennaio.

 

Malraux A.

1956                Espoir, Milano, Mondadori.

 

McCarthy Mary

1972      Storia di una persona seria, in “L’Espresso”, 30 gennaio.

 

Melandri Franco

1997                Intervista a Gino Bianchi. Fra cinici e gesuiti, in “Una città”, n. 60,                       giugno-luglio.

 

Milano P.

1972                Nicola Chiaromonte, in “Una Città”, 30 gennaio.

 

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2012                Nicola Chiaromonte, lo “straniero in Italia” che affascinava Camus,                    in “Corriere della Sera”, 17 gennaio.

 

Siciliano E.

1972                L’intellettuale nella storia, in “La Stampa”, 19 gennaio.