I movimenti delle donne dopo il ’68: eredità o rottura?

Elda Guerra, Elena Musiani

Il testo – frutto di una riflessione a due voci in cui Elda Guerra si è occupata in particolare del caso italiano e Elena Musiani di quello francese – è stato presentato in occasione del convegno: 1968 en Europe: héritage d’un événement,1968-2008 che si è tenuto il 29 e 30 maggio 2008 presso l’Università di Paris X, Nanterre, organizzato dal centro di ricerca Maison de l’Europe Contemporaine. Il convegno non ha voluto avere come scopo quello di ripercorrere la storia dei singoli eventi della crisi universitaria e dei suoi effetti sul terreno sociale. A trent’anni di distanza da quegli stessi avvenimenti, i partecipanti al convegno hanno avuto come compito quello di analizzare le ripercussioni della crisi sulla vita economica, sociale, politica e culturale dei paesi europei fino alla svolta del XXI secolo. Nella tradizione dei lavori della Maison de l’Europe Contemporaine il convegno è stato interdisciplinare, avendo come ambizione quella di mobilitare tutto lo spettro delle scienze umane e sociali e ha fatto appello allo sguardo incrociato di numerosi ricercatori europei, nella prospettiva di un approccio fortemente e volutamente comparato (Elda Guerra, Elena Musiani).

Il punto chiave di questo contributo è esplicitato nel titolo e riguarda due aspetti: il primo la definizione stessa di movimenti delle donne e le caratteristiche proprie della loro storia; il secondo, ad esso collegato, la periodizzazione, in riferimento a questo contesto, dell’evento ’68.

Affronteremo, in una prima comparazione tra la vicenda italiana e quella francese, il rapporto tra storia delle donne e ’68 – inteso come evento che si manifesta in quell’anno ma che ha una pluralità di antecedenti e una molteplicità di esiti – da un particolare angolo di visuale: la storia più lunga dei movimenti politici delle donne che, come è noto, comprendono in modo differenziato e articolato l’intera età contemporanea.

La ragione di questa scelta risiede, in primo luogo, nella convinzione che tra il XIX e il XX secolo questi movimenti abbiano dato luogo ad una specifica cultura politica fondata sull’autonoma espressione della soggettività femminile, una cultura che si è di volta in volta confrontata con le altre fondamentali culture politiche della modernità da quelle liberali a quelle socialiste (Rossi-Doria 2006, Guerra 2008). Di conseguenza, per quanto riguarda il nostro studio, il ’68 è da mettere in relazione da una parte con le eredità precedenti, vale a dire con quanto stava alle spalle, dall’altra con la rottura specifica prodottasi in quella congiuntura storica e con i suoi esiti (Flores-De Bernardi 1998; Passerini 1988 e 1992).

Guardando dunque all’indietro, quali erano le generazioni femminili che si presentavano sulla scena politica e pubblica alla fine degli anni Sessanta?

Nel caso italiano erano generazioni nate nel dopoguerra, donne che avevano conosciuta una parziale emancipazione, soprattutto attraverso una crescente e continuativa presenza nei percorsi di istruzione, che avevano vissuto sul piano sociale i processi di modernizzazione della società italiana degli anni Sessanta e insieme ai loro coetanei avevano partecipato alle culture giovanili di quel periodo e ai nuovi stili di vita che esse rappresentavano (Piccone Stella 1993; Cavalli e Leccardi 1998). Erano generazioni sociali prima che politiche, eredi non troppo consapevoli delle lotte di libertà e parità condotte dai primi movimenti suffragisti ottocenteschi e di quella generazione che, invece cresciuta durante il fascismo, aveva conosciuto e partecipato alle diverse forme di resistenza nel corso della Seconda guerra mondiale e prefigurato una più equa relazione tra sessi e generi, senza tuttavia mettere in discussione alla radice le strutture delle società patriarcali.

In Francia, come in Italia, era la generazione del dopoguerra, quella del baby-boom e della società dei consumi, la cui aumentata ricchezza si era manifestata in primo luogo con un prolungamento della scolarizzazione (è del 1959 la legge francese che portava a 16 anni l’obbligo scolastico) (Winock 1987; Les années 68 2008).

Per le donne francesi il dopoguerra segnò l’inizio di un percorso di emancipazione che passò in primo luogo attraverso il lavoro e l’indipendenza economica: nel 1965 venne approvata la legge che riformava il regime matrimoniale, rendendo la donna libera di gestire i propri beni, lavorare senza autorizzazione maritale e aprire un conto in banca (Picq 1993). Sembrava giunto il momento per le donne francesi di liberarsi dal “corsetto” in cui l’aveva costretta la politica del generale De Gaulle: “la societé française dans le corset gaullien ne respirait plus” (Winock 1987, 217). A partire dal 1964 era infatti cominciato a scendere il tasso di natalità e ad aumentare il numero dei divorzi.

Fu tuttavia con gli anni Sessanta che fecero “irruzione” sulla scena politica nuovi attori sociali: i giovani e le donne, con il desiderio di sconvolgere le regole del comportamento sociale. Questa nuova generazione di donne, cresciute con la consapevolezza di non dover più lottare per ottenere il diritto di voto, si rendeva conto che tale diritto, trasformandole in cittadine, non le aveva tuttavia liberate dalle costrizioni sociali, tanto da giungere ad accusare la prima generazione di femministe di aver “scambiato” il diritto di voto con il dovere di tornare ad occupare un ruolo fondamentale all’interno delle pareti domestiche (Picq 2002). La lotta si trasferiva allora sul piano della piena espressione della soggettività individuale e del riconoscimento sociale, prendendo come postulato fondamentale gli insegnamenti di Simone de Beauvoir, che aveva considerato l’identità sessuale come una costruzione sociale.

Con il desiderio di andare oltre un’uguaglianza formale tra i sessi e di sviluppare la questione femminista in termini di liberazione dalle costrizioni sociali, la nuova generazione di donne partecipò attivamente ai movimenti studenteschi del 1968. Con i loro compagni queste giovani donne, in gran parte esponenti delle classi medie urbane, furono presenti, in Italia come in Francia, nelle occupazioni delle università, nelle manifestazioni, nell’impegno politico di quell’anno. Con loro condivisero la ribellione ai modelli sociali e politici della società dei padri, la critica all’autoritarismo, alla neutralità del sapere, alle forme tradizionali della politica comprese quelle delle organizzazioni storiche della sinistra. In altre parole, uomini e donne condivisero un sentimento comune di sottrazione a destini predeterminati: la crisi e le trasformazioni che avevano coinvolto e stavano coinvolgendo la famiglia, l’inadeguatezza delle strutture universitarie rispetto a nuove domande di sapere e di istruzione, l’appartenenza ad un mondo avvertito come globale dove erano presenti i movimenti di decolonizzazione, di opposizione alla guerra e dove si stavano profilando nuovi orizzonti e nuove speranze di riscatto e di giustizia.

Per la storia delle donne c’era poi anche qualcosa di più e di diverso. Con gli anni Sessanta era apparso sul mercato un nuovo contraccettivo: la pillola, che ebbe, al di là della sua concreta assunzione, un grande valore simbolico di separazione tra sessualità e riproduzione.

In Francia il movimento per il controllo delle nascite era cominciato già nell’immediato dopoguerra, sulla scia di una forte polemica legata all’elevato numero di aborti clandestini e alla lotta alla legge del 31 luglio 1920 che condannava con la detenzione sia l’aborto che la contraccezione. A partire dagli anni Cinquanta un gruppo di donne cominciò una campagna d’informazione per il controllo delle nascite. Sull’esempio del movimento americano del family planning,nel 1956 la dottoressa Marie-Andrée Lagroua Weill-Hallé fondava l’associazione Maternité heureuse il cui scopo fondamentale era “l’étude del problèmes de la maternité, de la natalité, de leur répercussions sociales et familiales” (Chaperon 2000, 242). La polemica che scoppiò in seguito alla nascita del movimento per la pianificazione delle nascite si può comparare con quella suscitata anni prima dalla pubblicazione del saggio Secondo Sesso di Simone de Beauvoir. Nonostante l’opposizione dei principali partiti francesi (comunisti e conservatori) il movimento della Maternité heureuse ricevette fin dal principio il sostegno di altre associazioni femminili, in primo luogo delle donne protestanti e della Grande loggia massonica femminile. Diverso l’atteggiamento delle associazioni femminili più tradizionali, che dimostravano, di fronte al problema della contraccezione, un forte imbarazzo: l’Union national des femmes françaises sceglieva il silenzio, mentre la Ligue française pour le droit des femmes si limitava a una campagna di informazione delle aderenti (Chaperon 2000). La campagna per la contraccezione ebbe tuttavia il merito di mobilitare il fronte femminile su una nuova battaglia, di giungere, anche se con tempi più lunghi, a una ricomposizione del movimento femminile.

Il 1968 rappresentò anche da questo punto di vista un salto con la sperimentazione – se pure difficile e contraddittoria – di comportamenti sessuali più liberi, di invenzione di diverse forme di relazione e di espressione della propria diversità sessuale. I ruoli tradizionali femminili vennero criticati e in molte, come abbiamo detto, abbandonarono gli orizzonti quotidiani per occupare, insieme agli uomini, le fabbriche e le università, intravedendo aperture e nuove possibilità di accesso alla dimensione sociale e politica. Le memorie ci rimandano frequentemente una visione del ’68 come atto di nascita, momento fondante di svolta nelle traiettorie biografiche. Ma di lì a poco intervenne una rottura: le donne decisero di separarsi e distinguersi dal movimento collettivo in quanto avvertirono nella sua stessa radicalità incongruenze e nodi irrisolti nella relazioni tra i sessi.

Importanti furono i collegamenti con quanto già era avvenuto negli Stati Uniti dove proprio il 1968 – esito di movimenti già esistenti in quel paese, da quello dei neri a quello contro la guerra nel Vietnam – aveva rappresentato l’anno in cui il nuovo femminismo si era manifestato in modo dirompente sulla scena pubblica con due iniziative di grande impatto mediatico: il funerale della femminilità tradizionale inscenato presso il Cimitero di Arlington nel gennaio del 1968 la prima e la contestazione all’elezione di Miss America, nel settembre dello stesso anno, la seconda. In entrambi i casi la decostruzione dei modelli di femminilità dominanti si intrecciò con la critica alle forme prevalenti del maschile, con la protesta contro la guerra nel Vietnam e la contestazione di un sistema che mercificava il corpo delle donne: ad Arlington, il cimitero nazionale dei caduti in guerra, l’icona della sottomissione femminile fu, infatti, sepolta accanto ai simboli che celebravano la morte e l’eroismo maschile; ad Atlantic City, di fronte alle televisioni di tutto il mondo, la passerella delle Miss, fu interrotta con lo slogan “No more miss America”.

Fig. 1 L’attivista Robin Morgan (al centro) durante la protesta al concorso di Miss America (1968) Da “Newsweek”, nov. 19/2007

Fig. 1 L’attivista Robin Morgan (al centro) durante la protesta al concorso di Miss America (1968)
Da “Newsweek”, nov. 19/2007

Dietro a tutto ciò stava un movimento molecolare sorto fin dalla metà degli anni Sessanta fondato sulla formazione dei piccoli gruppi di presa di coscienza: in essi le singole donne misero in parola la loro esperienza, le loro emozioni, il loro soggettivo sentire confrontandolo con ciò che altre avevano vissuto e stavano vivendo. Il passaggio straordinario fu che quanto era avvertito come un problema individuale non venne più considerato come “una manifestazione di idiosincrasia, ma un prodotto dell’ideologia e delle istituzioni sessiste”: ciò significò la comprensione e la denuncia “della natura politica di ciò che è stato sempre definito personale.” (Koedt, Levine, Rapone 1973, 187).

Dagli Stati Uniti il gesto separatista, attraverso incontri, scambi, circolazione e lettura di documenti, si moltiplicò nei diversi paesi europei e assunse caratteristiche specifiche. Se dovessimo quindi parlare di anno “zero” del movimento delle donne per l’Europa dovremmo andare immediatamente “dopo” il 1968 e collocarlo, nel caso italiano come in quello francese, nel 1970. Fu infatti in quella data che venne pubblicato un numero speciale della rivista “Partisans”, scritto interamente da donne e dal significativo sottotitolo: Libération des femmes année zero, in cui emergeva con forza il principio della “non-mixité” e quindi la necessità per le donne di crearsi uno spazio di discussione e di azione separato da quello dei partiti tradizionali e dagli uomini, in un contrasto definitivo con la società patriarcale in senso generale. Nell’editoriale un groupe de femmes, come si firmarono le autrici, spiegava la scelta del nuovo femminismo, erede della lotta del 1968, ma deciso a prenderne al contempo le distanze:

En France, mai 68 a constitué un tournant: la possibilité de s’exprimer pour la première fois, et pour la première fois d’être écoutées sans réticences […].

Mais notre prise de conscience s’est effectuée selon des vois différentes: certaines d’entre nous, organisées dans des groupes mixtes ou non mixtes sont parties de leur oppression spécifique; d’autres, appartenant déjà à des formations politiques révolutionnaires, souhaitaient intégrer la lutte pour la libération des femmes dans le combat général. […]

Il est important de faire remarquer que, comme dans les autres pays touchés par le mouvement, nous en sommes arrivées à la nécessité de la non-mixité. Nous avons pris conscience qu’à l’exemple de tous les groupes opprimés, c’était à nous de prendre en charge notre propre libération (“Partisans” 1972, 8-9).

Elemento fondante del movimento fu il riconoscimento della dimensione femminile e di una nuova soggettività femminile:

Commençons toute analyse, toute action, à partir de “nous”, car nous subissons une même oppression. Ne nous laissons pas diviser; nous nous libérerons toutes ensemble ou pas du tout (“Partisans” 1972, 88).

Anche per l’Italia, il 1970 rappresentò un anno fondamentale. Con l’importante antecedente costituito dal Demau – acronimo di un gruppo costituito da uomini e donne che poneva al centro, sulla scorta del pensiero critico francofortese, la demistificazione dell’autoritarismo nelle strutture sociali e familiari – il femminismo separatista si articolò attraverso la nascita tra il 1970 e il 1971 di diversi gruppi e collettivi, alcuni nati per scissione dai gruppi misti di appartenenza, critici nei confronti del movimento degli studenti o dei gruppi della sinistra extraparlamentare – come il Cerchio spezzato all’Università di Trento o Lotta femminista a Padova, altri sorti per autonoma iniziativa di alcune donne, come Anabasi o Rivolta femminile, destinato a rappresentare nel tempo – attraverso il pensiero della sua fondatrice, Carla Lonzi – una delle espressioni più rilevanti del femminismo italiano (Calabrò, Grasso 1985; Memoria 1987; Bertilotti, Scattigno 2005).

Fig. 2 “Sottosopra”, n. 2, 1974. Fondata a Milano, era inizialmente pensata per raccogliere le esperienze dei diversi gruppi di donne

Fig. 2 “Sottosopra”, n. 2, 1974. Fondata a Milano, era inizialmente pensata per raccogliere le esperienze dei diversi gruppi di donne

In Francia a partire dalla primavera del 1970 una serie di incontri e manifestazioni si susseguirono e la neonata Università di Vincennes divenne uno dei luoghi principali di riunione; emblematica fu tuttavia la decisione di deporre una corona di fronte al monumento del milite ignoto a Parigi il 26 agosto[1], con lo slogan “Il y a plus inconnu que le soldat inconnu: sa femme” (Génération MLF2008, 51), atti che contribuirono a formare progressivamente il Mouvement de libération des femmes (Génération MLF2008). Il lungo articolo, pubblicato nel numero di maggio del 1970 de “L’Idiot international”[2] e firmato da Monique Wittig, Gille Wittig, Marcia Rothenburg e Margaret Stephenson, aveva come titolo Combat pour la libération de la femme e si presentava come una ripresa dei principali temi del pensiero femminista sviluppati a partire dal 1968. Il testo ripercorreva la storia dell’emancipazionismo femminile, da Olympe de Gouges, al 1848, alla Comune di Parigi fino all’acquisizione del diritto di voto, intendendo quest’ultimo momento non come la fine della lotta ma come il punto di partenza: “La lutte commence pour nous” (“L’Idiot international”, n. 6, mai 1970). A partire da quella data il movimento andò sempre più ingrandendosi, organizzando manifestazioni, incontri, riunioni, secondo i punti fondamentali della lotta espressi nel già ricordato numero di “Partinsans”, e sottolineati anche negli scritti pubblicati su “Le Torchon Brûle” (la rivista del Mouvement de libération des femmes il cui primo numero uscì il 1 maggio 1971): la necessità della non-mixité, l’autonomia nei confronti dei principali partiti politici, il rifiuto di ogni forma di organizzazione, della gerarchia e della burocrazia e la lotta contro la struttura patriarcale della società. Come nel movimento italiano, così nel movimento francese emersero presto tendenze, visioni e pratiche differenti: alcune furono più vicine all’eredità di un modello di pensiero oppresso-oppressore e individuarono nelle donne il soggetto oppresso e nelle strutture sociali del patriarcato il “nemico principale”, altre, invece, presero come riferimento principale il pensiero psicoanalitico e la decostruzione delle strutture profonde dell’inconscio alla ricerca di un soggetto femminile rimasto inespresso dalle costruzioni culturali del maschile. Fondamentale da questo punto di vista fu il gruppo Psycoanalise et Politiqueche ebbe forti legami con una parte del femminismo italiano.

Un’altra caratteristica infatti del movimento fu la circolarità degli scritti, la molteplicità degli incontri: femministe italiane e francesi si recarono negli Stati Uniti portando con sé testi che furono rapidamente tradotti ed ebbero larga circolazione, donne italiane si recarono in Francia agli incontri femministi e sperimentarono soprattutto attraverso lo scambio con le donne di Psiché-Pol la radicalità e la complessità dei rapporti tra donne (Libreria delle donne di Milano 1987; Passerini 2006).

Non è possibile procedere ad una ricostruzione analitica della complessità del movimento, ciò che in questo contesto ci interessa sottolineare è la novità costituita dal neofemminismo rispetto ai precedenti movimenti delle donne, una novità che accomuna i diversi casi nazionali e assume una curvatura specifica nel caso italiano e francese: la pratica dell’autocoscienza e il rapporto inscindibile tra la parola e il corpo. Il ’68 aveva portato, con la critica ai ruoli e alle istituzioni familiari, anche l’affermazione di una maggiore e diversa libertà nei rapporti tra i sessi. Per le donne questo aveva significato la scoperta della propria diversa sessualità; il desiderio di sottrarsi ai destini femminili imposti e alla rappresentazione che ne era stata data da parte della scienza e dell’immaginario maschile; l’inizio di una lunga e faticosa affermazione di una soggettività radicata nel proprio sentire e nella propria corporeità sessuata.

Da questo punto di vista il neofemminismo portò un elemento dirompente in quella storia di lungo periodo dei movimenti delle donne cui abbiamo fatto riferimento, un elemento non solo di liberazione, ma di libertà, non solo di rivendicazione di diritti esistenti, ma di affermazione della differenza di un nuovo soggetto. Questo significò il sorgere di una nuova parola, che portava il segno della differenza sessuale, la critica radicale all’interpretazione dell’esperienza femminile dei grandi maestri del pensiero, la messa in discussione dell’universalità del soggetto maschile. Nel caso italiano, come in quello francese, grande rilevanza assunse l’affermazione della differenza sessuale con il salto paradigmatico che ne conseguì nella cultura e nel linguaggio.

Fondamentale da questo punto di vista furono, nel caso italiano, le elaborazioni del gruppo di Rivolta Femminile e il pensiero della sua fondatrice Carla Lonzi che già nel 1970 scriveva nel Manifesto del gruppo:

La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà. L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna. La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli.[…] Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza (Manifesto di Rivolta Femminile 1970, in Lonzi 1974).

A metà degli anni Settanta la traduzione degli scritti di Luce Irigaray e in primo luogo di Speculum. L’altra donna segnarono un altro momento importante nel dibattito femminista italiano. Ma a questo filone e a questi specifici percorsi se ne accompagnarono altri che privilegiarono fino in fondo la pratica dell’autocoscienza, il rapporto tra vita ed esperienza, tra produzione e riproduzione: in altre parole con stili e approcci differenti una soggettività femminile plurale, variegata e complessa appariva sulla scena pubblica.

Grande rilievo poi assunse: l’emergere nella dimensione politica delle vicende legate al corpo e alla sessualità e il movimento che ne scaturì con la formazione dei gruppi sulla salute della donna, di consultori autogestiti, di ricerca di una visione alternativa e autonoma rispetto alla medicina ufficiale della conoscenza del proprio corpo (Percovich 2005).

Elemento chiave, insieme assolutamente concreto e fortemente simbolico, fu la lotta per la depenalizzazione del reato d’aborto – che accomunò Francia e Italia, oltre che altri paesi europei –, a cui si unì la grande questione della violenza sessuale. Il nodo presente in entrambi fu proprio la libertà femminile, sia come autodeterminazione rispetto alla scelta della maternità, sia come inviolabilità del corpo rispetto a violenze subite dentro e fuori la sfera domestica. Intorno a tali questioni si sviluppò un movimento che vide mobilitazioni esemplari in Italia e in Francia di fronte a processi nei confronti di donne accusate del reato d’aborto.

In Francia la questione si era aperta con il movimento del planning familial su i due piani della libertà di contraccezione e quella dell’aborto. Se nel 1967 era stata emanata la legge che autorizzava la contraccezione, rimaneva tuttavia aperta la questione della depenalizzazione dell’aborto. La questione assunse una dimensione di massa il 5 aprile 1971 quando “Le Nouvel Observateur” pubblicò un manifesto firmato da 343 donne, che dichiaravano di aver abortito. Il manifesto, sottoscritto tra le altre da Simone de Beauvoir, Marguerite Duras, Catherine Deneuve, provocò una reazione nell’opinione pubblica francese anche perché la richiesta delle donne non si limitava all’idea che l’aborto dovesse essere legale, ma anche libero e gratuito con lo slogan “notre ventre nous appartient”. Avvocato delle 343 donne fu Gisèle Halimi, divenuta nota in Italia l’anno seguente, per l’eco che ebbe la sua difesa di una giovanissima donna[3] (accusata di aver abortito, dopo aver subito uno stupro da parte di un compagno di classe) e della madre di lei nel corso di un processo che mise sotto accusa una legge (quella del 1920) e una società che sembravano ignorare la realtà dell’aborto clandestino.

Pur con le contraddizioni presenti all’interno stesso del femminismo tra chi voleva solo la depenalizzazione e chi invece era favorevole a una legge che rendesse possibile abortire nelle strutture pubbliche, l’esito in entrambi i paesi fu quello di leggi che salvaguardavano il principio dell’autodeterminazione: in Italia la legge che consentiva alle donne maggiorenni l’aborto nelle strutture pubbliche all’interno del sistema sanitario nazionale fu del 1978, confermata con il referendum del 1981; in Francia nel 1975, il ministro della salute Simone Veil fece approvare una legge che depenalizzava il reato d’aborto, pur mantenendo il divieto di fornire informazioni alle donne, mentre nel 1982 venne promulgata la legge che garantiva il rimborso da parte della Securité Sociale.

Se drammaticamente l’aborto si poneva su un piano diverso da quello storico dei diritti per affrontare il nodo delle libertà individuali e del rapporto difficile tra il corpo e la legge, contemporaneamente la nuova presenza sulla scena pubblica delle donne accelerò da parte delle politiche statuali il cammino iniziato agli albori della nascita degli Stati moderni per il riconoscimento della parità giuridica tra i sessi. Gli anni Settanta videro l’eliminazione delle discriminazioni ancora esistenti nel diritto di famiglia e nell’ambito del lavoro e posero le basi per il riconoscimento successivo di pari opportunità per soggetti differenti. Interessante è la cronologia comparata dei provvedimenti in Italia e in Francia: in Italia con due sentenze della Corte Costituzionale del 1968 furono abrogate le norme civili e penali sul diverso trattamento dell’adulterio maschile e femminile, mentre solo nel 1981 venne abolito la norma sul “delitto d’onore” che riduceva la pena a chi uccideva la madre, la moglie, la figlia o la sorella adultere per “difendere l’onore della famiglia”. Ulteriori passi furono successivamente la legge del 1970 sul divorzio, il nuovo diritto di famiglia del 1975 e la legge del 1977 sulla parità nel lavoro. In Francia la legge del 1965 sulla riforma del regime matrimoniale, che aveva reso la donna libera di gestire i propri beni, fu seguita nel 1970 da una legge che aboliva tutti gli elementi patriarcali retaggio del Codice napoleonico, rendendo entrambi i genitori ugualmente responsabili verso i figli[4]; mentre si dovette attendere il 1972 per la legge sulla filiazione che aboliva la distinzione tra figli legittimi e illegittimi. Infine è del 1999 la promulgazione dei Pacs, Pact civil de solidarité, che ha rivoluzionato la società civile francese.

Ma il risultato non fu solo questo: l’esito più radicale fu l’affermazione di una differente soggettività sulla scena pubblica che si tradusse, a partire dagli anni Ottanta, nella creazione di luoghi di incontro e di elaborazione culturale e politica: dagli women’s studies, alle case e ai centri delle donne, alla formazione di reti internazionali.

Ci limitiamo a quest’ultimo ma significativo esempio.

Il 1975 venne proclamato dall’Onu anno internazionale della donna e venne convocata a Città del Messico la prima conferenza mondiale sulla condizione della donna, che proclamò aperto il Decennio della donna. Fu il primo di una serie di appuntamenti in cui, accanto alla conferenza dei e delle rappresentati dei governi, si svolsero i forum delle organizzazioni non governative a cui parteciparono migliaia e migliaia di donne provenienti dalle differenti parti del mondo.

Se da un lato l’impegno di un grande organismo sovranazionale significò per molti paesi un impulso ad affrontare una questione (quella della sempre maggiore presenza femminile nella politica, nella società e nell’economia) che andava emergendo, dall’altro la presenza sulla stessa scena di un movimento femminista autonomo e radicale mise in discussione rappresentazioni e politiche nei confronti delle donne considerate ancora tradizionali. Dieci anni dopo a Nairobi si svolse la terza Conferenza dell’Onu (la seconda si era svolta a Copenhagen nel 1980) con il compito di valutare i risultati del Decennio delle Nazioni Unite per la donna, ma fu nel parallelo forum delle organizzazioni non governative che emerse con forza la presenza di un movimento mondiale delle donne. In quella sede infatti si sviluppò un confronto forte e ravvicinato tra donne diverse per appartenenza etnica e culturale (il 60% delle partecipanti provenivano da paesi del Terzo mondo), sempre però nella consapevolezza della necessità del riconoscimento di un orizzonte comune. Infine a Pechino nel 1995 si giunse ad una Dichiarazione e aduna Piattaforma di azione, che hanno riconosciuto i diritti delle donne come diritti umani e indicato come obiettivi fondamentali per il nuovo millennio il potenziamento delle capacità femminili e la trasversalità delle politiche di genere per migliorare ogni aspetto delle condizioni della vita.

Potrebbe sembrare un bilancio positivo: in questa prospettiva il 1968 potrebbe essere visto come un momento di accelerazione delle contraddizioni esistenti nelle relazioni tra i sessi e di conseguente affermazione di una nuova e differente liberà delle donne. Ed è questa la nostra interpretazione. Tuttavia molte domande restano sospese: il femminismo, che certamente è andato oltre il ’68 per giungere al nuovo millennio, si presenta oggi ancora con una carica dirompente? Che esito ha avuto quella richiesta di trasformazione della politica in termini di rappresentanza quantitativa e qualitativa? Come si presentano oggi quelle radicali questioni sul rapporto tra vita e politica, tra corpi e leggi apparse sulla scena pubblica negli anni Settanta?

Nei dibattiti più recenti sul significato storico del ’68, analisi diverse convergono nel distinguere gli esiti più propriamente politici di quell’anno chiave, da quelli di trasformazione culturale portati dal movimento. E se i primi implosero rapidamente nei diversi contesti nazionali, assai più profondo e duraturo fu l’esito della seconda: si trattò insomma di una rivoluzione culturale e non di una rivoluzione politica. Questo, secondo la maggior parte degli studiosi, è particolarmente evidente nel caso del movimento delle donne (Neri Serneri 2008). È un’interpretazione che ci convince, con una precisazione. Nel caso dei movimenti delle donne nella prospettiva di lungo periodo più volte richiamata possiamo anche vedere innovazioni e mutamenti relativi alla sfera politica: a partire da quella congiuntura le donne hanno ottenuto certamente una nuova e più forte visibilità, il gender system è stato in parte incrinato e per le generazioni successive qualcosa è mutato nelle autorappresentazioni e nelle relazioni tra i sessi. Tuttavia, anche in questo caso, resta da chiedersi se una stagione è definitivamente conclusa, se i risultati sono assestati o se invece non sia opportuno reinventare un discorso che affronti in termini nuovi e in una prospettiva di mondializzazione la questione della presenza delle donne nella politica, nella società, nelle relazioni interpersonali, nelle forme mediatiche di rappresentazione. E reinventare, proprio a partire da quella eredità, azioni capaci di contrastare alle radici le forme vecchie e nuove di violenza in una rinnovata affermazione di inviolabiltà e libertà.

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Winock M.

1987                Chronique.

[1] La scelta della data coincideva con la manifestazione organizzata negli Stati Uniti in occasione dell’anniversario della concessione del suffragio universale nel Usa, dove il Women’s Liberation Mouvement aveva organizzato una giornata di sciopero generale della donna: sciopero del lavoro, dei lavori domestici, del sesso… Cfr. Bibliothèque Marguerite Durand, Dossier MLF, Femmes en grève.

[2] Un giornale dai toni fortemente polemici fondato nel 1969 da Jean Edern-Hallier.

[3] Il processo ebbe luogo a Bobigny l’11 ottobre 1972.

[4] Restava un problema in caso di divorzio, quando il padre restava responsabile, problema che fu risolto nel 1987, rendendo responsabili entrambi i genitori.