ll ruolo della diplomazia italiana nel processo di integrazione europea. Pietro Quaroni e la Comunità di Difesa

di Francesco Baiocchi

Abstract

Dopo una breve premessa sullo stato dell’arte, l’articolo ripercorre la carriera dell’ambasciatore Pietro Quaroni, altissimo esponente della diplomazia italiana contemporanea, dall’inizio fino alla nomina a Parigi. La parte centrale del testo esamina i rapporti tra il diplomatico e le trattative riguardanti la Comunità Europea di Difesa. Chiude una conclusione di carattere riflessivo. Scopo dell’articolo è determinare il ruolo che la diplomazia italiana ebbe nel secondo dopoguerra in relazione ad uno dei più discussi progetti di integrazione europea, riportando l’attività, le considerazioni e i suggerimenti di Pietro Quaroni. Destreggiandosi tra volontà italiana, costruzione europea e politica atlantica, tutti aspetti che ruotarono attorno alla nascente divisione in blocchi tipica della guerra fredda, l’ambasciatore Quaroni fornì un contributo essenziale alla politica estera italiana, fatto di considerazioni critiche e realiste, scettico sulla reale fattibilità del progetto francese di difesa europea. Il pragmatismo e la spregiudicata capacità di giudizio di Quaroni, che durante il Ventennio misero seriamente a rischio la sua carriera, furono però ignorate dai governi italiani; si evidenzia in questo modo la distanza tra la volontà politica, che con troppa leggerezza spingeva per un’aggregazione europea di ampio respiro, e la posizione di Quaroni, tipica della classe diplomatica, legata alla realtà dei fatti e delle possibilità. Per la stesura dell’articolo si è attinto prevalentemente dai Documenti Diplomatici Italiani pubblicati dal Ministero degli Esteri o presenti nell’Archivio Storico Diplomatico della Farnesina. Preziose fonti di informazioni sono state quotidiani e riviste di approfondimento storico-politologico tra le quali si citano: «Rivista di Studi Politici Internazionali» e «Nuova Storia Contemporanea», ed anche numerosi testi di storia della diplomazia e delle relazioni internazionali. Di notevole importanza ed aiuto sono state le numerose pubblicazioni (volumi, articoli, saggi, memorie) ad opera dello stesso Quaroni, fonti indispensabili per comprendere ed inquadrare al meglio la posizione di questo illustre diplomatico.

Abstract english

After a brief foreword about the state-of-the-art, the article recall the carerr of the ambassador Pietro Quaroni, high-ranking exponent of the contemporary italian diplomacy, from the beginning up to the appointment in Paris. The central part of the text examines the relationships between the diplomat and the concerning negotiations for the European Community of Defense. It closes a reflective nature conclusion. Purpose of the article is to determine the role of the Italian diplomacy in the second postwar period, in connection to one of the more debated proposal of European integration, bringing the activity, observations and suggestions of Pietro Quaroni. Managing himself among italian will, european construction and atlantic policy, all aspects that rotated around the dawning cold war typical blocs division, the ambassador Quaroni procured an essential contribution to the Italian foreign politics, made of critical and realistics advices, sceptic about the French proposal of European defense real feasibility. The pragmatism and the unprejudiced judgment ability of Quaroni, that during the Mussolini’s dictatorship seriously jeopardized his career, were ignored by the Italian governments; in this way it is underlined the distance among the political will, that with too much carelessness pushed for a wider European aggregation, and the position of Quaroni, typical of the diplomatic class, united to the reality of facts and possibilities. For the pass of the article it is mainly gleaned from the Italian Diplomatic Documents published by the Foreign Ministry or reachable at the Diplomatic Historical Archive of Farnesina. Precious sources of information have been daily newspaper and historical-political in-depth analyses magazines among which are quoted: “Rivista di Studi Politici Internazionali” and “Nuova Storia Contemporanea”, and also numerous texts about diplomacy and international relationships history. Remarkable importance has the numerous publications (volumes, articles, reviews, memories) written by Quaroni, essential sources to better understand and to frame to the position of this illustrious diplomat.

– Premessa

Generalmente, lo studio delle relazioni internazionali concentra la sua osservazione sulle dinamiche dei rapporti tra gli attori del sistema internazionale e gli effetti che ne scaturiscono, diversa analisi da quella invece compiuta dalla storia della diplomazia, la quale pone il focus sul ruolo di questa e dei suoi funzionari. La letteratura, infatti, tende a porre l’accento sull’attività compiuta dai grandi leader politici, spesso non riconoscendo appieno l’azione – essenziale – dei funzionari del ministero degli Esteri. Si è scelto pertanto di approfondire il ruolo che ebbe uno dei maggiori esponenti della diplomazia italiana contemporanea, in relazione ad un importante progetto di integrazione europea: Pietro Quaroni fu ambasciatore a Parigi dal 1947 al 1958, ed in quegli anni svolse un preziosissimo ruolo nel riavvicinamento tra i due paesi e nel processo di costruzione di un’Europa unita. La volontà dei paesi europei di aggregarsi in un unico organismo sovranazionale, ebbe per ogni Stato una motivazione e uno scopo differente. Denominatore comune fu però il desiderio di creare una coalizione di Stati, con relativo dispositivo militare, capace di far fronte alla minaccia sovietica. Il timore di un’aggressione russa in Europa occidentale fu infatti tale da spingere la Francia a proporre la creazione di un organismo difensivo: la Comunità Europea di Difesa. L’iter storico che condusse alla nascita ed al subitaneo fallimento della Ced è noto ma meno lo è il contributo che l’ambasciatore Quaroni fornì alle concernenti trattative tra Roma e Parigi.

Su Pietro Quaroni non è stato scritto molto. Un prezioso approfondimento riguardante il periodo da lui trascorso a Mosca è di Bruno Arcidiacono, “L’Italia fra sovietici e angloamericani: La missione di Pietro Quaroni a Mosca (Di Nolfo, Rainero, Vigezzi, 1992.)

In riferimento al periodo trascorso a Parigi si legga invece, di Enrico Serra, “Ricordi e inediti su Pietro Quaroni e la Francia”. (“Rivista di Storia Contemporanea”, lug. 1987) Interessanti ritratti del diplomatico sono quelli scritti da Enrico Terracini, “Quaroni umanista (“Osservatorio politico letterario”, ago. 1962) e da Roberto Ducci, (1982) ed anche “Inchiesta sulla nostra diplomazia” di Giacomo Maugeri (“Epoca”, nn. 5, 12, 19 mag. 1963) articolo ricco di aneddotica ed interviste. Edito dal Ministero degli Esteri nel 1973 è invece un volumetto intitolato “Pietro Quaroni”, il quale riporta alcuni tra i documenti più importanti della sua carriera; ad opera dal ministero si segnala anche, a cura di Stefano Baldi, “Un ricordo di Pietro Quaroni” pubblicato nel 2014, che raccoglie molti articoli tra cui una testimonianza del figlio Alessandro, anch’egli diplomatico di carriera. È difficile tuttavia imbattersi in un’opera che analizzi in modo approfondito il rapporto tra Pietro Quaroni e le trattative per la Comunità di Difesa: il presente articolo si prefigge dunque lo scopo di inquadrare e riportare il più fedelmente possibile il pensiero e le dichiarazioni espresse dal diplomatico in merito, il tutto inserito nei più ampi contesti dei rapporti italo francesi e dell’integrazione europea.

– Pietro Quaroni: la carriera

Laureatosi in Giurisprudenza presso l’Università di Roma nel dicembre 1919 ed avendo contemporaneamente studiato il russo ed il serbo-croato all’Università Orientale di Napoli, Pietro Quaroni vinse il concorso diplomatico l’anno successivo. Figlio di un funzionario delle ferrovie, egli fu la punta di diamante di una nuova classe diplomatica di estrazione borghese, i cui esponenti pur essendo privi di un titolo nobiliare (requisito quasi fondamentale in quegli anni), diedero lustro all’azione del ministero degli Esteri. Figura di riferimento di palazzo Chigi in quegli anni fu Salvatore Contarini, capo della segreteria Generale, al quale la storiografia riconosce il merito di aver sapientemente gestito l’amministrazione del ministero tenendola al riparo dalle ingerenze eccessivamente nazionaliste del regime fascista. Contarini, definito da Sergio Romano “il diplomatico che cercò di educare Mussolini”, (2010, 97) godeva della stima di Quaroni ma non della sua simpatia, anzi lo definiva un “accentratore dispotico” col desiderio di voler controllare ogni cosa senza però apparire (Del Bo, Guidi, Quaroni, Serra, Zagari, 1970, 92).

Prima destinazione di Quaroni fu la Turchia: nel luglio del 1920 ebbe la nomina ad Addetto di legazione e fu inviato a Costantinopoli, sotto la guida del liberal-democratico Camillo Garroni Carbonara, autorevole personalità diplomatica che chiese espressamente di lui. Si trovò in un paese in forte tumulto, che non gradiva affatto l’occupazione anglo-franco-italiana, inquietudine dalla quale prese rapidamente vita una rivolta guidata da Mustafà Kemal. La venuta al mondo della nuova entità statale turca fu un momento di svolta nella storia coloniale europea, “il primo atto – scrisse Quaroni nelle sue memorie – della riscossa di quei popoli che oggi chiamiamo in via di sviluppo; la prima pietra che crollava del sistema coloniale, l’inizio della fine dell’Europa di un tempo. E nessuno se ne accorse, allora, nemmeno, credo, il conte Sforza, che pure fu il solo, quasi, sul piano locale, a rendersi conto che Mustafà Kemal avrebbe finito col vincere” (1965, 14).

Il mondo politico, a differenza di quello diplomatico composto di tecnici con grande preparazione storica, sembrò non accorgersi del significato che assunse il passaggio dall’Impero Ottomano alla repubblica di Turchia; già da allora Quaroni dimostrò di possedere quella virtù, da tanti stimata, che caratterizzò l’azione diplomatica della sua lunga carriera, ovverosia un pragmatico ed efficace realismo basato sull’inequivocabile realtà della storia. Quando la concretizzazione del movimento kemalista condusse alla firma del Trattato di Losanna, Quaroni si trovava a Buenos Aires, sotto il Conte Aldrovandi, già capo di Gabinetto del ministero Sonnino, in un paese che all’epoca lui definì felice e senza storia (1965, 42). Dopo la parentesi argentina durata fino al luglio 1925, fu trasferito a Mosca: la Russia era appena stata rimodellata dalla spinta ideologica della rivoluzione in cui “della strana gente detti bolscevìchi avevano preso in mano il governo, ed erano anche riusciti a vincere una certa guerra civile in cui nessuno era riuscito a raccapezzarsi” (1965, 53) ed infatti, soprattutto in Russia sottolineò il diplomatico, nessuno sembrò persuaso della longevità del nuovo regime politico e di questa convinzione generale fu lui stesso inizialmente vittima. Ottenuto frattanto il titolo di Segretario di legazione, Quaroni restò a Mosca fino all’ottobre 1927 e successivamente destinato a Tirana. Nell’aprile del 1931 fu poi richiamato a Roma, alla guida dell’Ufficio I della Direzione Generale Affari Politici e Commerciali di Europa, Levante e Africa, in cooperazione con Francesco Pittalis, istituita nell’ottobre 1929 e che nel settembre 1932 divenne semplicemente Direzione Generale per gli Affari Politici. Durante il periodo a Roma, Quaroni ebbe modo di vivere sotto Grandi prima e sotto Mussolini poi, una fase di prima fascistizzazione del ministero degli Esteri, durante la quale apprezzò e commentò positivamente l’iniziativa, irrealizzata, del Patto a quattro (Suvich, 1984, 140). Durante gli anni ’30, palazzo Chigi conobbe una configurazione amministrativa particolare: l’ex Segretario generale Contarini diede le dimissioni nella primavera del ’26 onde evitare la sicura rimozione dall’incarico e, dopo una breve parentesi che vide a capo della Segreteria il nobile Antonio Chiaramonte Bordonaro, nel febbraio del 1927 la carica fu soppressa per volontà del Duce. Senza più uno schermo tra la pressione politica del regime ed il bisogno di una continuità dell’azione diplomatica del ministero, la macchina amministrativa di palazzo Chigi fu praticamente affidata a Fulvio Suvich, sottosegretario di Stato, ed a Pompeo Aloisi, capo di Gabinetto. Quest’ultimo fu un personaggio col quale Quaroni collaborò strettamente dal ’32 al ’35, poiché Aloisi fu anche Ambasciatore alla Società delle Nazioni, assistito personalmente da Quaroni. Come tutti, o quasi, Quaroni si iscrisse al Pnf e seppur refrattario al fanatismo ed al revanscismo tipici del regime, propendeva verso un nazionalismo consapevole, la tutela degli interessi del proprio paese ed una affermazione del primato italiano che si manifestò ben diversa da quella messa in atto dal fascismo, come è possibile leggere nel suo saggio “L’azione dell’Italia nei rapporti internazionali. Dal 1861 a oggi” (1940). Nominato Consigliere di legazione nel 1932, il diplomatico romano ebbe, però, a scontrarsi con la regressione morale e politica che il governo fascista attuò durante il ventennio: nel 1935 alcune sue conversazioni con un giornalista francese, nelle quali espresse il suo disappunto verso la conduzione di politica estera italiana in relazione al caso etiopico, furono intercettate dai servizi segreti italiani e portate all’attenzione del Duce (Sogno,1998).

Mussolini, venuto a conoscenza della dissidenza e della mancata riservatezza del giovane diplomatico, si produsse per infliggergli una punizione; le qualità e le competenze di Quaroni erano però ben note nell’ambiente ministeriale tanto che fu chiamato, in qualità di consigliere politico, a partecipare alla conferenza di Stresa nell’aprile 1935; nello stesso anno pubblicò sotto il suo noto pseudonimo Latinus un volume intitolato “L’Italia e i problemi internazionali” ove inquadrò la politica europea di Mussolini rapportandola al consesso internazionale di quegli anni. È lecito dunque pensare che forse le alte sfere del fascismo e lo stesso Mussolini si resero conto dell’utilità che poteva avere questo brillante seppur eterodosso funzionario, pertanto si “limitarono”, ed a questo contribuì anche il solidale aiuto della casta diplomatica, ad imporgli un esilio punitivo destinandolo, con patente di Console generale, a Salonicco nel settembre del ‘35. Dopo neanche un anno ottenne credenziali di Inviato straordinario e Ministro plenipotenziario ed una nuova destinazione: l’Afghanistan. A Kabul trascorse poco meno di otto anni, da lui considerati tra i più belli della sua carriera. Le relazioni diplomatiche tra Italia e Afghanistan, ampiamente trattate nell’opera di Monzali, (2012) meriterebbero una trattazione dedicata; in questa sede ci si limiterà a riportare che all’epoca in cui Quaroni arrivò nella capitale afghana, i rapporti tra i due paesi conoscevano un momento di freddezza. In realtà, la legazione italiana a Kabul non si limitava ad essere solamente una lontana destinazione dove allontanare i diplomatici non allineati al fascismo: conquistato dalle parole di Ugo Sabetta, ministro italiano a Kabul prima di Quaroni che prospettava l’Afghanistan come un terreno strategico per ostacolare le politiche di Unione Sovientica e Regno Unito, Ciano, assunto intanto l’interim degli Esteri, incaricò Quaroni di “studiare se l’Afghanistan possa eventualmente essere inserito nel quadro di una politica anti-inglese” (Di Rienzo, 2014, 87). Quaroni, ideologicamente distante dalla mentalità colonialista del Regno Unito, partecipò attivamente alla politica anti-britannica sostenuta dal regime fascista, appoggiando i movimenti di autonomia nazionale, attirandosi così un vivo risentimento da parte inglese (Monzali, 2015).

Tuttavia la non facile situazione della politica interna del paese ospitante e la sua politica estera proiettata all’annessione dei territori musulmani dell’India, contesti da lui chiaramente descritti in numerosi dispacci, ed il sempre più fragile equilibrio internazionale, contribuirono ad affievolire ulteriormente i rapporti diplomatici tra Roma e Kabul. Relegato quindi in terre così distanti, in uno Stato che con l’Italia non aveva significativi rapporti e circondato da paesi ostili all’Asse, Quaroni fu quasi del tutto tagliato fuori dall’avvicendarsi della politica estera italiana ed invero non fu informato dell’ingresso in guerra nel giugno del 1940, fatto che suscitò in lui una profonda amarezza (Quaroni, 1956, 270).

Con buone probabilità, il regime fascista non ebbe la lungimiranza per comprendere che Kabul, ai confini tra impero sovietico e britannico, sarebbe poi divenuto un osservatorio di prim’ordine in cui Quaroni, seppur ivi mandato per castigo, assunse una posizione di grande importanza. Nell’immediato dopoguerra, seppur precedentemente stroncata dal fascismo, la sua carriera intraprese quell’irreversibile processo di ascesa che lo portò ai massimi vertici della diplomazia italiana. Il fattore scatenante fu la scelta dell’Unione Sovietica di accettare le aperture indirizzategli nel gennaio 1944 dall’allora Segretario generale Renato Prunas. Il 4 marzo successivo fu l’inizio di una nuova e complicata fase delle relazioni tra gli Alleati e l’Italia e tra gli Alleati riguardo ad essa; quel giorno il rappresentante russo presso l’Advisory Council for Italy, Bogomolov, comunicò a Badoglio la volontà sovietica di procedere ad uno scambio di rappresentanti col governo di Salerno, scelta intrapresa senza alcuna consultazione o comunicazione presso gli angloamericani, i quali definirono la mossa un dirty trick atto solo ad aggirare ed opporsi al regime d’armistizio posto in essere dagli Alleati. Badoglio chiese a Prunas di pensare ad un elemento di “primissimo ordine” da destinare a Mosca e la scelta ricadde su Quaroni (Arcidiacono,1992). A seguito dell’armistizio breve, Quaroni fu uno dei candidati per la carica di Segretario generale per la quale si scelse però Prunas, all’epoca ministro a Lisbona, in grado di raggiungere Salerno più facilmente rispetto al suo collega di stanza a Kabul. La preferenza ricadde su Prunas anche perché, come rimarca Enrico Serra, la nomina di Quaroni non sarebbe stata cosa gradita agli inglesi (Serra,1990; Borzoni, 1994). Il perché fu scelto Quaroni per la rappresentanza a Mosca racchiude al suo interno molte altre motivazioni di innegabile importanza: da Kabul era possibile raggiungere la capitale sovietica senza dover chiedere visti agli angloamericani, inoltre era già stato a Mosca, aveva moglie russa, parlava correntemente la lingua e, particolare più rilevante, era personaggio gradito ai sovietici. La notizia della nomina a Mosca gli giunse inattesa ed un messaggio dove Badoglio scrisse “non è necessario che le sottolinei l’importanza della missione che le viene affidata” gli fu personalmente consegnato dall’Incaricato d’Affari sovietico (Arcidiacono, 1991, 97).

Nel maggio 1944 pertanto Quaroni, primo diplomatico italiano che dopo l’armistizio ebbe l’incombenza di svolgere una missione all’estero, partì per Mosca. Il viaggio fu difficile ed ancor più lo furono le condizioni in cui si ritrovò a compiere il proprio lavoro, causate dal governo che rappresentava e da quello di accreditamento: egli partì senza conoscere la composizione del gabinetto che avrebbe rappresentato tantomeno dove si trovasse e l’accoglienza dei russi, benché corretta nelle forme protocollari, fu glaciale. La difficoltà maggiore fu l’assenza di un canale diretto di comunicazione col governo italiano, complicanza alla quale si sommarono la mancanza di fondi e di istruzioni precise. Nonostante le difficoltà logistiche e le condizioni, da lui stesso definite disonorevoli, egli svolse il proprio incarico con coscienza e professionalità: la sua missione, almeno secondo quanto ci si auspicava al ministero, aveva una doppia natura: la promozione degli interessi italiani in e attraverso la Russia e la funzione di speciale osservatorio della politica sovietica verso gli alleati occidentali. Con schiettezza e costanza però, Quaroni mise al corrente il proprio governo dell’effettivo significato e valore che ebbe il riconoscimento del governo italiano, ben sapendo in quale delicato gioco diplomatico l’Italia era entrata. Egli non alimentò mai false aspettative anzi richiamò continuamente l’attenzione dei propri interlocutori sul ruolo meramente strumentale che l’Italia aveva per l’Unione Sovietica. La lucidità e l’indipendenza di giudizio sono le qualità basilari che Mario Toscano attribuisce ai rapporti di Quaroni (Arcidiacono, 1992, 98), il quale con disarmante franchezza disilluse i deboli governi della liberazione, verso i quali non nutrì molta stima, con l’amara medicina della verità. A Quaroni fu permesso – scrive Roberto Ducci – quel che da nessun altro si sarebbe tollerato (1982, 269-270). Su quel periodo Quaroni infatti scriverà anni dopo queste parole: “Una volta sola, nella mia, ormai lunga, carriera, ho veramente creduto di avere una funzione importante per le sorti del mio Paese” (1965, 165).

Il periodo post-bellico fu molto difficile per la nostra diplomazia, non solo a Mosca ma anche nelle principali capitali della comunità occidentale, la ripresa dei rapporti fu lenta a causa dall’atteggiamento dei governi stranieri che, pur essendo formalmente corretto, non fu, almeno in principio, animato da sentimenti amichevoli. Il processo che riportò l’Italia ad avere un posto dignitoso nella vita internazionale fu abilmente condotto dai nostri diplomatici, tra i quali Quaroni spiccò tanto da meritarsi l’appellativo de “il Papa” (Ducci,1982, 139).

Dopo aver partecipato in qualità di consigliere politico alla Conferenza di pace, Quaroni lasciò il posto a Manlio Brosio e nel febbraio 1947 si insediò al 51 di rue de Varenne, sede dell’ambasciata italiana a Parigi; la sua ambasceria, durata ben undici anni, rimane a tutt’oggi una delle più longeve nella storia della diplomazia italiana. Nello splendido palazzo dei La Rouchefoucald, l’ambasciatore Quaroni (ottenne il titolo il mese successivo) si impegnò subito nelle delicate trattative per la revisione del Trattato di Pace; durante la permanenza a Mosca infatti ne studiò a fondo il negoziato, acquisendo la consapevolezza che esso sarebbe stato duro per l’Italia. Per l’appunto nel gennaio del 1946 scrisse al presidente De Gasperi queste parole: “V.E. mi permetta di ricordare che non ho avuto mai molte illusioni su quello che sarebbe stato il Trattato di Pace per noi e non ho mai celato a V.E. né le mie conclusioni pessimistiche, né le ragioni per le quali ero arrivato a queste conclusioni” (Serra, 1987, 474). Quando poi nel febbraio del ’47 il Trattato di pace fu firmato, esso si confermò essere molto severo nei confronti dell’Italia e della sua cobelligeranza. La Francia non nutriva per l’Italia sentimenti affettuosi, essendo ancora animata dai rancori che si portava dietro dal giugno 1940, tanto da considerarla un ex nemico dal quale doveva tenersi ancora in guardia e al quale non voleva legarsi eccessivamente (Duroselle, Serra, 1988; Toscano, 1963). Quaroni pertanto si occupò del riavvicinamento tra i due paesi ed, in scala maggiore, della realizzazione dei primi organi di coesione europea.

“Se qualcuno crede che l’opera di un ambasciatore possa realmente capovolgere i rapporti fra due Paesi, si sbaglia di grosso: un ambasciatore può contribuire molto a guastare i rapporti fra due Paesi. Il superamento dei risentimenti della guerra e del dopoguerra è venuto su spontaneamente dal fondo dei due popoli” (Quaroni, 1965, 202). L’abilità diplomatica di Quaroni contraddisse persino le sue stesse parole, i due paesi infatti non impiegarono molto tempo a riavvicinarsi, condividendo medesime politiche ed obiettivi, tra i quali la ricerca di una soluzione al problema tedesco: “Ai nostri fini, mi sembra di un certo interesse avere avuto da parte francese per la prima volta l’assicurazione che la Francia riconosce il nostro diritto a prendere parte alle discussioni concernenti la pace con la Germania” (Quaroni a Sforza, 16 nov. 1949, DDI, serie XI, vol. 3, doc. 406, MAE, Roma, 2007).

– Quaroni e la CED

Nell’epoca moderna, la storia europea è stata caratterizzata da una continua contrapposizione di forze, condizione nella quale nessuna entità statale riuscì mai ad imporsi totalmente e lungamente sulle altre. L’Europa ha infatti ciclicamente vissuto periodi di guerre alternati a periodi di pace, quest’ultima statuita dalla potenza vincitrice. Diversamente, in età contemporanea, la dimensione internazionale degli Stati Uniti ha fatto sì che questa nazione influisse sui rapporti intereuropei come nessun altro paese fino ad allora. Nel secondo dopoguerra agli Stati Uniti si contrappose però l’Unione Sovietica, creando un sistema imperniato sul confronto tra due potenze sostanzialmente equivalenti ma ispirate a principi guida totalmente in contrasto. Durante gli anni che seguirono il conflitto mondiale, le potenze europee cercarono faticosamente di costruire un sistema di alleanze militari per la sicurezza del continente: fu in questo delicato contesto storico che il piano di lavoro per la realizzazione della Comunità di Difesa prese vita. Nella sua opera del 1935 Quaroni, avvalorandosi di un’acuta analisi storica e geopolitica, riconobbe all’Italia una naturale e decisiva funzione di equilibrio nelle contese europee. L’Italia non poteva certo disinteressarsi della difesa del vecchio continente, ma le modalità con le quali i governi italiani si occuparono del problema difensivo non raccolsero mai il consenso dell’ambasciatore che, col suo ormai ben noto franc parler, cercò di indirizzare la politica estera italiana verso più ragionevoli rotte. Quando Francia e Gran Bretagna si resero spontaneamente conto che il Trattato di Dunquerque non era più sufficiente per tutelarsi contro Germania e Unione Sovietica, decisero di allargare l’alleanza anche al Benelux e successivamente ad altri paesi europei tra cui l’Italia; quest’ultimi dovevano però aderirvi in una posizione di inferiorità rispetto agli altri. Il governo italiano non accettò questa discriminazione, pertanto Sforza subordinò l’adesione italiana ad una condizione di parità tra gli stati partecipanti. Quaroni, già scettico sulla reale efficacia del piano Bevin, da lui valutato come espressione della volontà inglese di porsi come intermediario tra America ed Europa, manifestò la sua contrarietà a tale idea poiché considerava insensato chiedere ed estremamente difficile ottenere la condizione di parità per l’Italia (Quaroni a Sforza, 27 gen. 1948, DDI, X, 7, 185). Roma, precisò ancora il diplomatico, non aveva nei confronti del Patto di Bruxelles alcun margine di negoziato visto che Francia e Inghilterra “ci considerano dal punto di vista militare un peso morto” (Quaroni a Sforza, 29 mag. 1948, DDI, XI, 1, 70).

Quasi a controbilanciare la posizione di Sforza, che desiderava un pieno coinvolgimento italiano nella difesa europea, prese vita in quegli anni una corrente neutralista guidata da Pietro Nenni che, avendo assunto il portafoglio degli Esteri tra l’ottobre ’46 ed il febbraio ’47, propose per l’Italia la “neutralità equidistante”, teoria tesa al distanziamento italiano dai due blocchi. Come quella di Nenni, anche la “neutralità politico-militare” suggerita dall’ambasciatore Brosio fu giudicata inadatta dal Quaroni che, come comunicato al ministro nel giugno del 1948, sostenne l’incapacità italiana di ottenere la neutralità. Questo fu forse possibile nel 1915 “quando l’Italia rappresentava un’entità militare capace di spostare l’equilibrio esistente” o nel 1940, sebbene ancor più difficile. L’Italia, scrisse Quaroni, di neutrale non aveva neppure la mentalità: continuava nella sua rivendicazione dei territori e delle colonie perdute, pretendeva di riarmarsi ed insisteva nel voler partecipare all’amministrazione della Germania; questi atteggiamenti non rientravano certo nel comportamento di un paese neutrale (Quaroni a Sforza, 2 giu. 1948, DDI, XI, 1, 85). A rendere ancor più complesso il tema della difesa europea e del riarmo tedesco furono la proposta di Esercito integrato avanzata da Churchill e la politica atlantica degli Stati Uniti, verso la quale Quaroni era orientato in ragione della sua maggiore praticità e concretezza di risultati.

Dall’arrivo a Parigi, una delle questioni più delicate per l’Ambasciatore fu quella di mediare tra le contrapposte posizioni di Italia e Francia nei confronti del riarmo tedesco: i francesi espressero totale contrarietà all’idea di vedere nuovamente un “tedesco in divisa”, timore accresciuto anche a causa della loro miracolosa crescita economica, mentre l’Italia fu al contrario consapevole della necessaria partecipazione tedesca alla difesa europea; a questo proposito Quaroni insistette nel suggerire a Roma di agire con molta prudenza proprio per non inficiare i rapporti diplomatici, faticosamente sanati con gli alleati d’oltralpe (Serra, 1987, 480).

La Francia, forse ispirata da desideri di antico prestigio, tentò di arginare la spartizione che Russia ed America stavano operando in Europa, sostenendo la politica di una “Terza forza”, rinominata sarcasticamente da Quaroni “terza debolezza” (1954, 459), che si frapponesse tra le due. Ben conscio delle rivalse nazionaliste dei paesi europei, nelle quali il confronto franco-tedesco trovò comodamente posto, preoccupato che l’incapacità dei governi di accordarsi tra loro portasse ad un totale annullamento del peso internazionale del Vecchio continente, lasciando agli Stati Uniti ed all’Unione Sovietica carta bianca sul suo futuro, Quaroni si impegnò in prima persona nel trovare una risposta al problema difensivo. Alcuni mesi prima del lancio del Piano Pleven, quando Parigi già si orientava verso l’idea di un organismo difensivo di tipo comunitario, egli suggerì al ministro Sforza una diversa soluzione, a suo avviso più sensata ed efficace: “Secondo me, sarebbe stato meglio partire da un’altra base: dare al futuro esercito, almeno europeo, un carattere federale: una volta stabilito il carattere federale di questo esercito, sarebbe stato molto più facile passare al principio di federalizzare anche il finanziamento di questo esercito” (Quaroni a Sforza, 27 mar. 1950, DDI, XI, 4, 78). Quaroni fu del parere che il problema della difesa avrebbe trovato una via d’uscita solo in termini di Europa nel suo insieme e non come semplice giustapposizione di forze militari nazionali; inoltre non credeva che la Germania di Adenauer, già piegata e tarpata da occupazione ed armistizio, avrebbe accettato di pagare le spese del riarmo francese. La sua risposta fu dunque quella di epurare dalle volontà nazionaliste il futuro organo difensivo: una snaturalizzazione degli eserciti, compreso quello tedesco, col fine di eludere le pretese e gli ostacoli posti dagli Stati. Il suggerimento di Quaroni cadde però nel vuoto e nell’autunno del 1950 il Primo ministro francese presentò un progetto per la creazione di un apparato di difesa, edificato con la stessa struttura organizzativa della Comunità del carbone-acciaio. La proposta francese non trovò mai credito nell’ambasciatore italiano che pur riconoscendone gli intenti unionisti, non ne condivise mai le insite discriminazioni verso la Germania: “Saltava agli occhi l’assurdità di difendere le linee dell’Elba con truppe inglesi, americane, francesi, e magari italiane, lasciando ai tedeschi la funzione di vivandiere” (1965a, 60). Toni simili furono da lui tenuti anche nelle conversazioni coi diplomatici francesi: “L’Italia ha sempre considerato assurdo pensare alla difesa dell’Europa e della Germania senza i tedeschi” (Berti, 1992, 82). A non convincerlo fu soprattutto la debolezza dell’impostazione comunitaria, che si risultò il più lampante intralcio alla realizzazione della Comunità Difensiva. I paesi europei, stremati dalla guerra, non avevano ripristinato i loro apparati bellici; difformemente da ciò il Piano Pleven enunciò la messa in comune delle esili forze militari di stati che avevano appena finito di combattersi tra loro, seguendo una struttura comunitaria che avrebbe intaccato significativamente la sovranità nazionale dei paesi coinvolti. Atti come la dichiarazione di guerra o il controllo del bilancio militare non potevano essere gestiti da un organismo comunitario, proprio in ragione della loro natura politica, trattandosi di prerogative alle quali nessuno stato avrebbe rinunciato. “Con la Comunità di Difesa – scrisse Quaroni nel 1969 – una vera integrazione anche politica era inevitabile: teoricamente almeno un esercito deve servire per fare la guerra e non era certo un’altra autorità anonima che poteva dichiarare la guerra in nome dell’esercito europeo. La dichiarazione di guerra è un atto politico che non può essere compiuto che da una autorità politica” (1969, 1252).

La prima metà degli anni ’50 fu infatti per l’Europa un momento storico nel quale una soluzione di stampo comunitario poteva risolvere i problemi economici ma non certamente quelli legati alla difesa militare. Quaroni non fu mai avverso alla creazione di un esercito europeo, al quale dovevano contribuire maggiormente Italia, Francia e Germania “ossia la parte realmente importante dell’Europa occidentale” (Quaroni a Sforza, 24 dic. 1950, DDI, XI, 5, 123), lo riteneva anzi passaggio fondamentale per addivenire ad una maggiore coesione europea; ciò nonostante questo ente difensivo presuppose un’integrazione politica che il Piano Pleven non tenne minimamente in considerazione: “[…] l’idea di Europa – continuava Quaroni – è precisamente il superamento degli interessi nazionali: l’idea dell’abbandono della sovranità nazionale, è appunto la subordinazione delle autorità nazionali a nuove autorità supernazionali. Ma se, sul piano verbale, siamo non solo pronti ma entusiasti per tutti i superamenti, sul piano pratico temo che noi non siamo meno reticenti degli altri. Ripeto, perché non ci siano equivoci: personalmente sono più che favorevole; ma siamo in un momento in cui dal piano teorico si rischia di scendere ai fatti. È pericoloso accettare un’idea, solo perché ideologicamente allettante […]” (Ibidem). I lavori per l’Esercito comunitario inoltre richiesero un consistente impegno di integrazione a livello di alto comando ed una attenta valutazione delle varie forze di opposizione; prima ancora della sottoscrizione del Trattato Istituente (maggio 1952), Quaroni avvisò De Gasperi delle scarse probabilità di successo di questa al Parlamento francese, stando alle forti contestazioni provenienti da gaullisti, comunisti, socialisti, popolari, radicali e destra nazionalista. Nell’ottobre 1952, con un realismo quasi profetico, consigliò di “riflettere anche alla possibilità che tutto questo finisse in un insuccesso; e pensare a evitare che l’insuccesso di una iniziativa non diventi in Italia un insuccesso suo personale” (Serra, 1987, 482). Dopo la firma del Trattato, Quaroni espose costantemente al ministero le scarse probabilità di successo che negli ambienti parlamentari accompagnarono la Ced, ed i timori francesi verso la sempre più concreta possibilità di un riarmo tedesco sotto controllo americano. Ad aggravare la situazione fu anche una pesante campagna anticedista della stampa francese, sulla quale Quaroni non mancò di informare il Primo ministro (MAE, 1973, 49 ss.).

In quest’ ottica incerta, l’ambasciatore raccomandò caldamente di attendere la ratifica francese, onde evitare le negative conseguenze che l’Italia avrebbe subito in caso di fallimento della Ced ed anche perché “una nostra ratifica sollecita, a seguito della ratifica di Bonn, sarebbe in Francia un argomento contro la ratifica francese” (Serra, 1987, 482).

Due anni e tre mesi dopo la firma del Trattato, l’allora Primo ministro francese Mendes-France sottopose il documento al giudizio di palazzo Borbone, in un momento nel quale la Francia si trovava al centro di un complicato gioco di politica estera coinvolgente Russia, Stati Uniti, Indocina e nord Africa. Il leader francese tentò alla precedente Conferenza di Bruxelles (19-22 agosto 1954) di inserire nel Trattato alcune modifiche che avrebbero permesso all’Assemblea Nazionale di votare a favore, ma tali clausole privarono la Comunità della sua connotazione difensiva e suscitarono le vive opposizioni degli altri paesi contraenti. Quaroni, presente alla conferenza, invece raccomandò vivamente Roma di accettare questi ritocchi, poiché aventi il solo scopo di ottenere maggiori consensi all’Assemblea Nazionale: senza tali variazioni il rigetto del Trattato sarebbe stato un fatto certo (Del Bo, Guidi, Quaroni, Serra, Zagari, 1987, 110).

A nulla servirono anche le istanze federaliste in precedenza avanzate da De Gasperi, che pur avendo riscontrato un ampio successo negli ambienti europeisti, appesantirono l’organo difensivo di implicazioni che non ebbero mai il sostegno dalle maggioranze politiche dei paesi europei. Quando nell’estate del 1954 De Gasperi morì, assieme a lui ebbero fine le speranze di creare un sistema europeo federale. Il 30 agosto il Trattato istituente fu sottoposto al vaglio del Parlamento francese: con 319 voti a favore e 264 contrari, fu approvata una mozione procedurale per l’aggiornamento sine die del Trattato, sancendo in modo implicito ma innegabile l’affossamento della Comunità di Difesa. L’ambasciatore non fu sorpreso di questo rigetto, egli stesso considerò il Trattato come frutto di un macchinoso ed eccessivamente dettagliato negoziato: degli oltre duecento articoli “forse venti erano realmente utili” (1965a, 67).

Nel periodo successivo alla votazione, Quaroni specificò che la responsabilità della capitolazione della Ced non fu interamente attribuibile all’azione di Mendès France ma piuttosto ad una profonda crisi politica interna, scaturita dalla contrapposizione tra volontà nazionaliste, volontà europeiste ed opinione parlamentare; questa situazione complicata si incastonò in una discutibile gestione di politica estera che mal tollerò le pressioni americane e temette le probabili reazioni sovietiche. Questo complesso di forze in gioco si tradusse in una divergenza di pensieri che tagliò in due il Parlamento francese, così riassunta dall’ambasciatore: “In altre parole, quelle che hanno votato per la Ced sono tutte persone conscie o rassegnate all’idea che con i russi non c’è niente da fare: e che quindi conviene, prima di mettersi in condizioni di forza e poi, dopo, forse, si potrà trattare. Quelli invece che hanno votato contro la Ced sono tutti gente che ritiene invece che si debba, prima, provare a trattare colla Russia, e fare di tutto per riuscirci” (MAE, 1973, 56). Quaroni pose anche l’attenzione sul rilevante fatto che non fu contro la Comunità di Difesa che il Parlamento votò, bensì contro il pericolo di una nuova guerra: la Francia, rovinosamente battuta nella seconda guerra mondiale e sconfitta in Indocina, non desiderò in modo alcuno aumentare le probabilità di un nuovo conflitto, potendo questo essere causato da un’aggressione russa, da un desiderio unificatore tedesco, dal concetto di guerra preventiva americana o dalla combinazione di questi. La Francia perciò non volle concedere ad un organismo sovranazionale il potere di coinvolgerla in uno scontro che non desiderava e che non era in grado di affrontare.

Ma la paura di un’aggressione sovietica in Europa fu realmente così fondata? A questo proposito Quaroni, che ben conobbe la mentalità sovietica, si espresse più volte: “Da notare: non credo che sia nell’essenza della dottrina comunista l’espansione con le armi: lo hanno sempre negato, e credo che sia esatto. Ma insomma, nel 1949 e nel 1950, all’epoca dell’inizio del Patto Atlantico, militarmente parlando, in Europa di fronte ai russi c’era il vuoto assoluto, ripeto assoluto, ed era veramente un po’ troppo esporre i russi a delle tentazioni così forti” (1959, 18). Parole molto simili furono da lui pronunciate qualche anno dopo, quando da poco in pensione, tenne a Roma un applaudito discorso sul tema distensione internazionale: “Stalin ha mai realmente pensato ad una conquista manu militari dell’Europa occidentale? Non lo sapremo mai […]. È doveroso dire che la dottrina comunista non ha mai previsto l’espansione del comunismo per mezzo delle armi. Ma dottrine ed intenzioni a parte, noi diciamo nel paternostro ‘non ci indurre in tentazione’ […] Ora, dopo la smobilitazione tumultuosa delle truppe americane, la tentazione poteva essere molto forte” (“Possibilità e limiti della riconciliazione internazionale”, discorso pronunciato presso la sede del Banco di Roma sotto gli auspici del Centro Italiano di Studi per la conciliazione internazionale, 21 ott. 1964).

Poco dopo il tracollo della Ced, le principali potenze europee, compresa l’Italia e la Repubblica Federale di Germania si accordarono per unirsi nella nascente Unione Europea Occidentale, che altro non fu che un allargamento del precedente Patto di Bruxelles: atto che decretò inequivocabilmente il definitivo ed irreversibile fallimento della Comunità Europea di Difesa.

 

Il mancato tentativo francese di creare un organismo militare comunitario fu la dimostrazione dell’inidoneità delle nazioni dell’Europa centrale nel gestire le complicanze e le implicazioni che accompagnarono la nascita di un nuovo equilibrio globale, il manifestarsi concreto dell’illusione dell’Europa di sentirsi ancora nel 1914 o nel 1922, quando essa fu al centro della politica mondiale. “È il dramma dell’Europa di oggi – scrisse Quaroni nel 1954 – che quelle che furono, un tempo, le grandi potenze europee, non si rendono conto […] di quello che è stato il loro decadimento, più relativo che assoluto, nel corso degli ultimi quarant’anni.” (1954, 457). I consigli e le previsioni di questo illustre diplomatico non derivarono da uno scetticismo fine a se stesso, furono bensì il prodotto finale di una consapevolezza che affondò le sue radici in una profonda conoscenza della storia delle relazioni europee. Dalla Grande Guerra, evento che vide per la prima volta l’ingresso di potenze d’oltremare in una guerra europea, le nazioni del Vecchio continente non si resero conto che i passati sistemi di alleanze non erano più efficaci e che le nuove forze si muovevano come pezzi pesanti sulla scacchiera internazionale, lasciando all’Europa solamente l’amara consapevolezza di giocare un ruolo ormai marginale.

“Per vincere o non lasciarsi vincere nel loro sottile giuoco di equilibrio di egemonia – scrisse Quaroni pochi anni dopo il rigetto della Comunità – le potenze europee hanno attirato nel giuoco la Russia prima e l’America dopo: anche esse hanno pensato, poi li rimanderemo a casa. Ed un bel giorno ci siamo risvegliati con questa gente padrona a casa nostra; tanto più forti di noi. Un secolo e mezzo di abilità diplomatica ci ha portati al bel risultato che se non vogliamo essere mangiati dai russi, se vogliamo continuare a vivere in quell’ambiente di democrazia, di libertà, di rispetto della persona umana che noi proclamiamo essere il nostro, bisogna che ci raccomandiamo agli americani perché abbiano la bontà di difenderci loro, perché altrimenti da noi, non siamo capaci di difenderci.” (1959, 8). Nell’analisi storica compiuta a posteriori da Quaroni è logicamente insita un’attribuzione di colpa: egli imputò la mancata realizzazione della Ced prevalentemente alla contraddittoria politica francese, eccessivamente imperniata sulla preminenza dello stato nazionale, che rifiutò ma al contempo cercò, nuove forme di aggregazione supernazionale (1969, 1252). Un altro aspetto a non dover essere tralasciato fu la scarsa considerazione che il governo diede alle previsioni di Quaroni sul fallimento della Comunità di Difesa: esse furono sempre, o quasi, ignorate: nell’ ottobre 1952 l’ambasciatore scrisse a De Gasperi queste parole: “V.E., a cui ho avuto più volte occasione di segnalare questa crescente ostilità francese a tutto quello che sa di integrazione europea, mi ha sempre risposto che alla fine dei conti la Francia sarebbe stata obbligata a fare quello che voleva l’America. Debbo dirLe che non ne sono sicuro, anzi che ne sono sempre meno sicuro.” (MAE, 1973, 51) Ulteriore conferma di questo si ritrova un documento immediatamente successivo al rigetto del Trattato Ced, indirizzato all’allora ministro Piccioni, nel quale l’ambasciatore spiegò le ragioni dietro il gesto del Parlamento francese: “Questa preoccupazione c’è sempre stata, qui in Francia, e l’ho segnalata a V.E. da parecchi anni” (Ibidem, 58). Anche in scritti di diversi anni posteriori al caso Ced, Quaroni sostenne la continua indifferenza di Roma alle sue raccomandazioni: “Personalmente, fin dal 1951 avevo avvertito il governo italiano che la Commissione di Difesa non sarebbe mai stata ratificata dal parlamento francese, e che bisognava quindi tener conto di ciò nei nostri calcoli politici. So che queste mie previsioni pessimistiche dispiacquero molto a De Gasperi.” (1965a, 68). Il suggerimento della creazione di un sistema federale di difesa, contrapposto alla ideologia comunitaria che intrise la Ced, l’orientamento atlantista ed il sostegno al federalismo degasperiano, assumono alla luce di quanto precedentemente detto, la connotazione di un vera e propria forma mentis realista, proiettata alla risoluzione ed al superamento di quel sistema europeo ormai fallace poiché basato su un difficile bilanciamento di sovranità statali; un troppo fragile equilibrio che avrebbe, ed infatti ha, impedito all’Europa di ritrovare la sua antica dimensione internazionale. Questo fu il pensiero di Pietro Quaroni e non ha mai mancato di esprimerlo: “L’Alta Autorità della Comunità del Carbone e dell’Acciaio e altre autorità simili […], avrebbero potuto continuare a vivere per lungo tempo senza essere coperte da un’autorità politica superiore; la Comunità di Difesa no.” (Ibidem, 63-64).

Nella primavera del 1958, Alberto Rossi Longhi subentrò al posto di Quaroni destinato a Bonn, e tre anni dopo inviato a Londra. Fu proprio al 4 di Grosvenor Square, che Quaroni concluse nel agosto 1964 la sua brillante carriera. Dopo il collocamento a riposo, scrittore instancabile, pubblicò preziose memorie e numerosi saggi di storia delle relazioni e della diplomazia e tenne numerose conferenze e discorsi. Fu presidente della Rai e della Croce Rossa Italiana e diresse la nota rivista Affari Esteri dalla sua fondazione nel 1969 fino al momento della sua morte, sopravvenuta a Roma nel giugno 1971.

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Biografia

Francesco Baiocchi, laureatosi presso l’Università degli Studi di Cagliari in Economia e Politiche Europee, ha proseguito i propri studi in campo politologico all’Università degli Studi di Siena, specializzandosi in Scienze Internazionali e Diplomatiche, con una tesi che più lungamente discorre dell’argomento, proposta dal Prof. Gerardo Nicolosi. L’Autore, alla sua prima pubblicazione, concretizza così il suo interesse verso la storia della diplomazia contemporanea.