Lo stragismo sul grande schermo: terrorismo, didattica e le strategie dell’oblio in Italia

di Andrea Hajek

Abstract

Gli anni ’70 in Italia sono senza dubbio tra gli anni più traumatici della storia italiana. Spesso si parla di una ferita non rimarginata, che è stata riaperta – recentemente – dal nuovo film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage, che parla della strage di Piazza Fontana del 1969 – la prima di una serie di gravi attentati terroristici che hanno profondamente traumatizzato il paese – e delle successive indagini. Questo articolo parte da un’analisi del film e del suo ruolo nella costruzione di una memoria pubblica degli anni ’70, facendo riferimento anche al nuovo libro di Alan O’Leary sul terrorismo nel cinema italiano – Tragedia all’italiana. Italian Cinema and Italian Terrorisms, 1970-2010 (2011), per indagare sulla lacuna nella didattica italiana a proposito degli “anni di piombo”, in particolare per quanto riguarda il terrorismo di destra, lo stragismo.

Abstract english

Terroristic bloodsheds on the silver screen: terrorism, didactics and the Italian strategies of oblivion

The 1970s in Italy are without doubt among the most traumatic years in the country’s history. Reference is often made to a wound that has not healed and which has recently been reopened by the latest movie of Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage (History of a Massacre); the movie is about the 1969 Piazza Fontana massacre – the first in a series of ominous terroristic attacks which profoundly traumatized the country – and the subsequent investigations into it. This article examines the movie and its role in the creation of a public memory of the 1970s, referring also to Alan O’Leary’s latest book about terrorism and the way it is dealt with in Italian cinema – Tragedia all’italiana. Italian Cinema and Italian Terrorisms, 1970-2010 (2011), in order to explore the gap in Italian didactics regarding the so-called “Years of Lead”, and in particular the right-wing terrorism or “stragismo”.

Gli anni ’70 in Italia sono senza dubbio tra gli anni più “traumatici” della storia italiana. Spesso si parla in effetti di una ferita non rimarginata che ha prodotto un “oblio difensivo” con significanti ripercussioni sulle generazioni futuri (Glynn 2006, 318), come ha dimostrato Cinzia Venturoli (2007) nel suo libro Stragi fra memoria e storia. Una ferita riaperta, recentemente, da due eventi: l’uscita del nuovo film di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage, sulla strage di Piazza Fontana del 1969 – la prima di una serie di gravi attentati terroristici che hanno profondamente traumatizzato il paese – e le successive indagini sulla strage; l’attentato all’amministratore delegato dell’Ansaldo Nucleare a Genova, il 7 maggio 2012, con cui si è tornato ancora una volta a parlare degli anni ’70. Non è la prima volta che un atto di violenza di un certo tipo fa scattare la paura di un ritorno agli “anni di piombo”, ormai diventati una specie di fantasma che continua a tormentare il paese. Ma non nel senso che dice Benedetta Tobagi in un suo commento su “La Repubblica” dell’8 maggio, se fosse solo per il contesto diverso in cui avvengono gli incidenti recenti, e per il fatto che gli italiani degli anni ’70 non sono gli italiani di oggi. Eppure, in questi casi si tirano sempre fuori gli anni di piombo, che ormai sono diventati una specie di parolaccia, uno sfogo o una negazione di qualcosa che bisogna scongiurare mettendoci sopra un’etichetta.

Tutto sommato, gli anni ’70 sono un tema tuttora difficile da trattare, come risulta anche da un servizio del TG3 a proposito del nuovo film di Giordana, dove la giornalista constata che “[n]on si studia a scuola la strage di Piazza Fontana” (TG3 del 26 marzo 2012). In effetti, c’è una grossa lacuna nella didattica italiana a proposito dei famigerati “anni di piombo”, in particolare per quanto riguarda il terrorismo di destra, ovverossia lo stragismo, come ha osservato ancora la Venturoli (2012) in un recente articolo pubblicato su “Storia e Futuro”. È una lacuna che, finora, è stata affrontata soprattutto dai familiari delle vittime delle stragi, che hanno dovuto assumersi quella responsabilità politica e civile che invece spetterebbe allo stato italiano. Si pensi alle varie associazioni dei familiari delle vittime che, nel corso degli anni, hanno tentato di avere giustizia o perlomeno di sapere la verità sulle stragi, o alle iniziative per rendere accessibili le fonti e promuovere programmi didattici, come la Rete degli Archivi per non Dimenticare e le Case della Memoria. Di conseguenza sono stati i familiari a prendersi la responsabilità di – come scrive Anna Lisa Tota (2003) nel suo saggio sulla strage di Bologna del 1980 – “avere l’autorità e il potere di dire, su quella versione del passato, l’ultima parola” (128).

Con Romanzo di una strage sembra tuttavia che l’ultima parola sulla strage di Piazza Fontana spetti né ai familiari delle 17 vittime, né all’anarchico Giuseppe Pinelli, trattenuto a lungo in questura per accertamenti in seguito all’attentato, prima di morire cadendo dall’ufficio del commissario Luigi Calabresi. Il film è incentrato proprio su quest’ultimo, sul suo coinvolgimento nelle indagini e sul suo assassinio da parte di terroristi di sinistra, qualche anno dopo. Giordana sembra allora voler promuovere un discorso pacificante, ritraendo Calabresi come un poliziotto in buona fede che non era nemmeno presente quando Pinelli “cadde” dalla finistra, e che in seguito fu costretto a contribuire alle dichiarazioni falsi dei suoi capi riguarda l’accaduto. Anzi, nel ricorrere alla dubitosa tesi delle due bombe portata avanti da Paolo Cucchiarelli nel suo libro Il segreto di Piazza Fontana (2009), cioè una bomba di matrice anarchica – che avrebbe dovuto esplodere durante l’orario di chiusura – e una bomba di destra che ha innescato l’altra bomba, Giordana annulla anche quelle verità “che faticosamente sono state accertate in questi anni”, come ha scritto Ezio Mauro nel suo commento su “La Repubblica” (3 aprile 2012). Questo dimostra quanto sia problematica la scelta del cinema come mezzo di trasmissione di memorie controverse come quelle delle stragi, la maggior parte delle quali è caratterizzata da un vuoto giudiziario che impedisce di sapere la verità su quelle stragi (De Luna 2009, 30), un vuoto che viene spesso “riempito” dai romanzieri e dai registi (Foot 2009, 28).

Ma non bastano le sentenze, e una seconda causa della mancanza cronica di una memoria condivisa su questo passato sta nell’uso pubblico e politico della storia, come ci spiega anche la Venturoli (2012): “Una memoria ed una storia sottoposte all’uso pubblico e all’uso politico, quindi, una memoria a cui sovente si chiede di mutarsi in oblio in nome di una non così chiara pacificazione nazionale e per la costruzione di una ‘memoria condivisa’ che implica la dimenticanza e il silenzio su molti fatti, come se si ritenesse necessario e legittimo cancellare eventi e protagonisti”.

Se Giordana rende in modo abbastanza fedele le condizioni sospette in cui morì Pinelli così come le contraddizioni nelle dichiarazioni che fecero gli ufficiali a proposito della sua morte, le sue intenzioni per il film sembrano comunque quelle di promuovere una memoria condivisa dove nessuno è colpevole e tutti sono colpevoli, creando una versione falsa dei fatti che, appunto, annulla alcune delle verità accertate. L’idea stessa che ci furono due bombe, una anarchica e una di destra, simbolizza questa “spartizione” delle colpe. In modo simile, i personaggi di Calabrese e di Pinelli spesso si specchiano, e nonostante appartengano a due parti ideologicamente opposte, lo spettatore non può che simpatizzare con entrambi.

Ma più che condivisione il film crea confusione: richiede una familiarità dei fatti e dei vari personaggi tale da confondere anche chi conosce la storia, per non parlare dei giovani che magari non hanno nemmeno sentito parlare di Piazza Fontana. È un problema accennato da Alan O’Leary nel suo libro Tragedia all’italiana. Italian Cinema and Italian Terrorisms, 1970-2010 (2011): il ruolo del cinema (ma si pensi anche alla letteratura o al teatro) nell’interpretazione della storia.

Tragedia all’italiana è la traduzione e rielaborazione di una prima versione in italiano, uscita nel 2007, che si pone l’obiettivo di rivelare “la costruzione discorsiva di [incidenti di violenza politica] come percezioni formalizzate e memorie articolate nel medium del film” (2011, 4). In altre parole, O’Leary si interroga sui vari modi in cui i registi italiani – negli ultimi 40 anni – hanno tentato di affrontare il trauma del terrorismo in Italia, occupandosi dunque di discorsi sia di rappresentazione e di “estetizzazione” che di memoria e commemorazione. Allo stesso tempo, il libro esplora il concetto di cinema d’impegno e il suo “tentativo implicito di dare ai suoi spettatori il senso di fare parte di una comunità – un pubblico concepito come un gruppo politico” (15).

Verso la fine di un capitolo introduttivo dove l’autore discute con competenza le difficoltà di una definizione unanime di terrorismo e della trasmissione di una storia comprensiva del terrorismo in Italia, O’Leary affronta il problema della rappresentazione di questo argomento delicato sul grande schermo. Considerando il cinema come “testo sociale”, egli sottolinea che il cinema non va considerato come un semplice mezzo di trasmettere resoconti verosimili del passato: “Nessun fatto non esiste al di fuori di un sistema di modelli testuali; cioè, nessun evento può essere indipendente dal contesto della sua interpretazione” (12). Il cinema va allora letto a seconda di altri criteri, come la sua capacità di rappresentare la vita, o il modo in cui riproduce modelli narrativi e generi cinematografici. Come ci rivela anche il titolo, un gioco di parole che ricorda la commedia all’italiana, il libro si occupa soprattutto di convenzioni di genere e come queste aiutano gli spettatori a capire meglio il messaggio dietro al film.

Il film di Giordana potrebbe essere allora interpretato come un film che non cerca di svelare la verità su Piazza Fontana, ma che usa il modello del filone “poliziottesco” per raccontare il “clima nero di violenza” di quegli anni, come lo stesso Giordana spiega in una lettera al “Corriere della sera”: “È soprattutto un film che – come si conviene a un’opera di finzione – racconta di ‘personaggi’, uomini e donne, ragazzi e adulti travolti da un evento che modificherà la loro vita trasformandola in perdenti sotto ogni cielo” (29 marzo 2012). Abbiamo tutti gli ingredienti per un poliziottesco: una strage senza autore e una morte sospettosa, un giovane commissario alla ricerca della verità che viene a battersi contro uno stato potente e, infine, contro il terrorismo di sinistra che nacque proprio con la strage di Piazza Fontana. In vista anche del grande successo del poliziottesco negli anni ’70, Romanzo di una strage – che fa tornare in mente vecchi film che mettevano in scena il terrorismo di destra. come La polizia ringrazia (Stefano Vanzina, 1972) e La polizia accusa: il servizio segreto uccide (Sergio Marino, 1975) – potrebbe allora essere una specie di omaggio a questo genere. Inoltre, nel suo libro O’Leary dimostra come il personaggio del commissario duro ma buono nei poliziotteschi degli anni ’70 era spesso modellato sulla figura di Calabrese, per cui anche qui la scelta di raccontare la strage di Piazza Fontana nella forma del poliziottesco e dal punto di vista del commissario implica una scelta più “artistica” che politico o morale.

Ma il film può essere interpretato come “testo sociale” anche in un altro modo. Dopo l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978, un evento traumatico per la nazione ma anche (e forse, soprattutto) per la sinistra italiana, il cinema iniziò a concentrarsi invece sul terrorismo di sinistra. Spesso i registi di questi film erano politicamente di sinistra, il che ha portato O’Leary a parlare di “tentativi di interrogare la legittimità e di capire le conseguenze di violenza politica proveniente dall’interno dei gruppi della loro propria posizione politica” (2008, 36). In altre parole, il terrorismo di sinistra “rappresentò una questione particolarmente stressante per i registi italiani politicamente impegnati, così come per i loro spettatori, e questi registi hanno spesso preso la responsabilità di esprimere chiaramente il significato di questa forma di violenza politica praticata da membri della loro ‘circoscrizione’” (2011, 79). In questo senso, Romanzo di una strage potrebbe essere letto come un modo di prendere responsabilità per gli effetti devastanti dell’eversione terroristica di sinistra che nacque dopo la strage di Piazza Fontana.

A prescindere dalle interpretazioni formaliste, simboliche o metaforiche che si possano dare al film, rimane il fatto che i mass media – la TV e il cinema in primis – hanno un forte impatto sull’immaginario collettivo, e la scelta di fare un film su un evento la cui memoria, nella sfera pubblica, non è ancora del tutto condivisa, pone dei problemi morali ed etici che nel libro di O’Leary non vengono affrontati. Questi spiegano le critiche, ad esempio, da parte delle figlie di Pinelli a proposito del fatto che, nel film, “[t]utto tende ad assolvere il commissario Calabresi” (TG3 del 4 aprile 2012). Per loro Calabresi rimane il responsabile dell’incolumnità di Pinelli, essendo stato la più alta carica in quella notte. C’è, dunque, una specie di scontro o cortocircuito che si svolge nella sfera pubblica, tra le scelte (formali) di un regista e la ferita di un trauma persistente che è ancora troppo forte per lasciare che la storia passi nell’ambito della finzione.

In effetti, questa ferita impedisce un’elaborazione seria e non governata da interessi politici che si manifesta anche nella didattica. Nonostante la popolarità dei mass media al giorno di oggi, essa svolge ancora un ruolo fondamentale nella diffusione delle memorie collettive e nazionali del passato. Qualche anno fa svolsi un’analisi di circa 30 manuali di storia pubblicati tra il 1980 e il 2008, riguardo la rappresentazione del terrorismo e dello stragismo degli anni ’70, alla quale vorrei dedicare l’ultima parte di questo articolo.

Da questa ricerca risultò, tra l’altro, che gli autori di manuali considerano raramente gli esiti dei processi per le stragi, ignorando delle sentenze come quella del 1979 riguarda Piazza Fontana, quando due esponenti del gruppo neofascista Ordine Nuovo furono condannati a vita. Inoltre, l’uso frequente degli aggettivi “occulto” e “oscuro” nella descrizione delle stragi lascia intendere che si tratta di qualcosa che non sapremo mai, ignorando le varie informazioni che abbiamo avuto successivamente su queste stragi e sui loro responsabili.

Mancano poi riferimenti ad altri incidenti terroristici, o incidenti di violenza che si potrebbero anche definire “traumatici”, come il crollo misterioso dell’aereo vicino all’isola di Ustica nel 1980, l’attentato neofascista a Peteano del 1972 (tre morti e un ferito), e l’attentato contro l’ufficio dei carabinieri a Milano nel 1973, durante la commemorazione dell’omicidio Calabrese (quattro morti e 46 feriti). Si potrebbe spiegare queste assenze con motivi di limiti di spazio e – negli ultimi due casi – di numeri inferiori di morti (rispetto alle stragi). Tuttavia questi eventi hanno avuto un certo impatto storico: il disastro aereo di Ustica non fu un incidente qualsiasi, ma si rivelò un errore da parte dell’esercito americano che lo stato italiano ha tentato di nascondere, e che fece scandalo. I casi di Peteano e Milano, invece, furono caratterizzati da depistaggi della polizia o da tentativi di incolpare la sinistra anarchica. L’omissione di questi casi sembra allora avere a che fare con il fatto che, o non rappresentano incidenti puramente di terrorismo (Ustica), o comprendono comportamenti controversi o addirittura illegali che potrebbero mettere in imbarazzo lo stato italiano. Questo implica che, nella narrazione degli anni ’70, i manuali promuovano un discorso di terrorismo dove qualsiasi incidente violento che non c’entra direttamente con un atto di terrorismo viene omesso.

In più, il terrorismo di cui si parla nei manuali è prevalentemente di sinistra: quando gli autori trattano di questo tipo di terrorismo, sono molto più chiari ed espliciti di quanto non siano quando si riferiscono allo stragismo “oscuro” e “occulto”. La sinistra domina anche negli appendici: Venturoli (2007) ha osservato, ad esempio, che la metà dei documenti in appendici sul terrorismo focalizzano esclusivamente sulle Brigate Rosse, mentre non ci sono appendici che si riferiscano solo e esclusivamente al terrorismo di destra (278). Questa attenzione alla sinistra terrorista si deve indubbiamente alla forte attenzione dei mass media all’epoca, ma anche il fatto che molti ex-terroristi di sinistra hanno raccontato le loro esperienze tramite (auto)biografie e romanzi ha contribuito ad una loro maggiore visibilità pubblica (Glynn 2008). Sul terrorismo di destra, invece, ci sono meno sentenze e confessioni, e i terroristi stessi si presentano spesso come se fossero loro le vere vittime (Cento Bull 2007). È quindi più facile per il pubblico connettere il terrorismo di sinistra al trauma della violenza degli anni ’70. Tuttavia, come ha dimostrato Anna Cento Bull nel suo libro sul neofascismo in Italia, le fonti per capire meglio lo stragismo esistono e vanno consultate.

Ma i manuali fanno anche un uso specifico del linguaggio, che lascia intendere anche qui una strategia di oblio, cioè di sottolineare alcuni fatti e di tacere di altri. Se il termine “strategia della tensione”, ad esempio, è uno dei termini più frequenti nei manuali (dopo “terrorismo”), viene usato in modo parziale e semplificato. Indica, ad esempio, solo il periodo da Piazza Fontana in poi, ma si potrebbe anche includere il tentato golpe del ’64 e altri incidenti che sembrano ispirati da un sentimento di anti-comunismo nel dopoguerra.

Più significante è l’uso ristretto che fanno i manuali di “stragismo”, un concetto importante per capire la strategia della tensione: secondo Anna Cento Bull (2007), lo stragismo fece parte di un vasto complotto anti-comunista che incluse sia i neofascisti che i servizi segreti dello Stato (7). In mancanza, però, di prove materiali del ruolo dello Stato nello stragismo, e dunque in mancanza anche di consenso pubblico su questo dato di fatto, il concetto di stragismo è probabilmente considerato troppo controverso per essere utilizzato nei manuali.

Questa assenza non si deve unicamente alla mancanza di sentenze giudiziarie o al timore di storici ed insegnanti di innescare polemiche, ma viene anche mantenuta dal difficile accesso ai materiali che possano rivelare informazioni importanti sul coinvolgimento dello Stato nelle stragi. È dunque anche un problema della gestione e dell’accessibilità delle fonti.

Il carattere compromettente del termine stragismo spiega inoltre perché il termine di “terrorismo” ricorre molto di più: più neutro e dunque meno conflittuale, esso si presta bene per descrivere sia la violenza di sinistra che quella di destra. Tuttavia, i manuali lo usano in modo indistinto e indifferenziato, distinguendo semplicemente tra due poli: terrorismo di destra da un lato, terrorismo di sinistra dall’altro lato. Soprattutto nei manuali della fine degli anni ’80 e inizio anni ’90, i due terrorismi vengono considerati come due parti dello stesso male e con lo stesso scopo: quello di destabilizzare la democrazia. Di conseguenza, non c’è più nessuna differenza ideologica tra i due tipi di violenza.

In modo simile, i manuali collocano il terrorismo di destra nei primi anni ’70, mentre il terrorismo di sinistra è confinato alla seconda metà del decennio. Nonostante sia vero che il terrorismo di sinistra incrementò dopo il 1975, mentre l’estrema destra fu attiva soprattutto tra il 1969 e il 1975, dovremmo comunque tenere presente che i gruppi di destra e di sinistra furono attivi per tutto il decennio.

Il termine di “anni di piombo”, infine, offre il miglior esempio di un uso politico del passato. Originariamente un termine giornalistico preso dal titolo di un film tedesco sul terrorismo, non appare nei manuali fino agli anni ’90, quando importanti eventi geopolitici come la caduta del Comunismo, Tangentopoli e la nascita della Seconda repubblica cambiarono profondamente la scena politica nazionale e internazionale. Evidentemente il termine si prestò bene per descrivere un decennio buio con cui si voleva chiudere. Rivela, però, una presa di posizione: “piombo” essendo metafora di proiettile, il termine si riferisce sostanzialmente al terrorismo di sinistra, che usò prevalentemente le armi da fuoco, mentre le stragi provocate dalle bombe neofasciste non cadono sotto questo termine. Il termine sembra dunque riferirsi solo alla seconda metà degli anni ’70, quando il terrorismo di sinistra incrementò. Tuttavia, la maggior parte dei manuali usa la definizione di anni di piombo per tutto il decennio, dando l’impressione che ci fu solo il terrorismo di sinistra e quindi creando una memoria incompleta che ignora o “dimentica” la presenza dello stragismo (O’Leary 2007, 51).

Tutto questo implica che i manuali di storia rivelano una specie di strategia politica per promuovere un specifico discorso sulla violenza negli anni ’70, una strategia che oscura certi fatti e mette in rilievo altri. Ma chi decide il curriculum? Alcuni autori di manuali a cui ho posto questa domanda mi hanno spiegato che “[n]on esistono criteri, né prescrittivi né orientativi, per determinare i contenuti o il taglio culturale dei manuali” (Emilio Zanette, comunicazione personale, 28 ottobre 2009). Al massimo, il ministero prescrive dei programmi per i vari argomenti dove vengono descritti dei “contenuti imprescindibili”, come l’Unificazione d’Italia, o la Seconda guerra mondiale. Le case editrici poi fanno una specie di controllo sulla presenza di argomenti chiavi nei testi, la comprensibilità del linguaggio usato, etc. In effetti, un redattore della Zanichelli di Bologna mi ha confermato che la redazione controlla, tra l’altro, se gli autori “producano testi attendibili e aggiornati per quanto riguarda i dati di fatto, linguisticamente corretti, funzionali all’uso didattico cui sono destinati, coerenti con i programmi scolastici”. Essa pretende “una scrupolosa verifica dei dati di fatto e una attenta valutazione delle opinioni, in riferimento anche alle opinioni prevalenti all’interno della comunità scientifica” (Giorgio Valdré, comunicazione personale, 30 novembre 2009).

Ma quali sono esattamente i “dati di fatto”, e chi costituisce quella “comunità scientifica” che decide sulle opinione prevalenti da emanare ai giovani? Sembra allora che la didattica italiana si basi su un’interpretazione del passato mediata nella sfera pubblica, una specie di “senso comune” (Jedlowski 2008) che proviene da una strategia esplicita di selezione di informazione.

Biografia

Andrea Hajek ha ottenuto il suo dottorato di ricerca presso l’Università di Warwick (Inghilterra), con una tesi sulle memorie pubbliche del movimento studentesco del 1977 a Bologna, in corso di pubblicazione presso Palgrave Macmillan. Dal 2009 lavora come assistente editoriale per la rivista Memory Studies (Sage), e dal 2010 per la rivista Modern Italy (Taylor & Francis). È tra le fondatrici della Rete di Storia Orale dell’Università di Warwick. Oltre a memoria culturale e collettiva, movimenti di protesta e storia orale, si occupa di memorie digitali e visive, terrorismo nella didattica italiana, genere, e trauma.

Biography

Andrea Hajek got her PhD at the Warwick University with a thesis on the Student Movement of 1977 in Bologna (in course of publication with Palgrave Macmillan). She has been co editor of the magazine Memory Studies (Sage) since 2009, and for the magazine Modern Italy (Taylor & Francis) since 2010. She is among the founders of the Rete di Storia Orale at the Warwick University. Her main interests concern collective cultural memories, protest movements, oral history, terrorism (as it is dealt with in Italian didactics), genre and trauma studies.

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