Moda e nazione. Lydia De Liguoro e la creazione di “Lidel”.

di Alberto Malfitano

 

Il 1919 fu un anno importante per la stampa italiana. Era il primo di pace dopo una guerra sconvolgente in cui il giornalismo era stato oggetto di un’occhiuta vigilanza da parte delle autorità militari e politiche, consapevoli a utilizzarlo per controllare, dirigere, formare l’opinione pubblica. In tutta Europa l’informazione del tempo di guerra fu sottoposta a un controllo, politico e militare, al quale non sfuggirono nemmeno i giornali italiani, oppressi da un sistema di censura, autocensura e propaganda, asfissiante (Gozzini, 200-205 Bergamini, 212-217). Con la pace, giunsero a compimento alcuni grandi cambiamenti nel panorama della stampa nazionale, con passaggi di mano e modifiche nell’assetto proprietario (Murialdi, 121-123). Ma, ancor di più, i giornali italiani parteciparono attivamente al nuovo clima post bellico, attraversato da aspettative di palingenesi sociale e da fermenti politici e culturali assai vivaci. Come è stato scritto, con la fine del conflitto

tutti i maggiori [quotidiani] mostrano un interessamento particolare, politico e culturale, per quello che accade nel mondo. Nello stesso tempo, nella cronaca cittadina danno risalto alla politica locale. E la ormai famosa terza pagina assume una dimensione culturale e non esclusivamente letteraria (Murialdi, 126-127).

A questo clima non faceva difetto la politica, con la nascita del Partito popolare di Luigi Sturzo, l’avanzata del Psi, che alle elezioni di novembre sarebbe stato il partito più votato e la nascita dei Fasci di combattimento a opera di Benito Mussolini, nel marzo 1919, resisi ben presto autori di gravi violenze ai danni dei socialisti e del loro quotidiano, l’Avanti!

E’ sempre a Milano che in quella stessa primavera nasce una nuova rivista, destinata a segnare la storia del giornalismo femminile divenendo, per circa tre lustri, un punto di riferimento assoluto per gli amanti del lusso e dell’eleganza: “Lidel”. Il titolo era l’acronimo di “letture, illustrazioni, disegni, eleganze, lavoro”, ma soprattutto del nome della sua fondatrice e direttrice, Lydia Dosio De Liguoro, una intraprendente giornalista piemontese che, ancora giovanissima, aveva iniziato nel 1910 la sua attività giornalistica collaborando alla prestigiosa testata torinese “La Donna” (Pisano, 154-155) e che con “Lidel” intendeva mettere in atto le idee già propugnate pochi mesi prima.

A marzo, infatti, si era tenuto il Primo congresso nazionale dell’industria del commercio dell’abbigliamento, svoltosi a Roma sotto gli auspici del ministero dell’Industria e del Commercio. “Proposito principale del congresso era di liberarsi dall’assoluto dominio francese in fatto di moda” (Gnoli2005, 40), un compito più che arduo visto la totale dipendenza del mercato italiano dai dettami parigini nel campo dell’abbigliamento, fin dal Settecento. Che si trattasse di un obiettivo difficile, in mancanza di una industria della moda italiana ampia e strutturata in grado di competere con quella parigina, lo dimostra anche il fallimento della principale proposta del Congresso, la nomina di una commissione che avrebbe dovuto porre al giudizio del governo lo schema di un ente nazionale della moda e di un istituto nazionale dell’abbigliamento. La proposta finì nel nulla, anche a causa delle turbolenze politiche e della caduta del ministero, pochi mesi dopo. Ma le giornate romane misero in luce le idee e la personalità di due partecipanti: Fortunato Albanese, che fin da prima del conflitto lottava per l’affermazione di una moda nazionale, e Lydia De Liguoro, che lo seguì su quel medesimo sentiero.

“Lidel” nasceva da queste premesse, per sostenere la nascita di una moda italiana, inserendosi perfettamente nel clima di fervore nazionalistico post bellico che animava la borghesia italiana, e proponendosi fin dagli esordi come una rivista destinata alle elite (a partire dal prezzo – quattro lire – tutt’altro che economico) o a chi sperava di diventarne parte. Non vi era infatti solo la moda come elemento integrante del mensile, ma un insieme di temi e argomenti ritenuti i più adatti per la dama italiana della nuova era di pace. Soprattutto spiccava la volontà di sfruttare l’onda lunga del nazionalismo imperante suscitato dall’immane prova bellica in tutto il paese per

dare al nostro paese – scriveva la fondatrice – una rivista italiana che riunisca qualità d’arte, d’estetica e di praticità pari a quelle che i nostri alleati ci mandano; che rispecchi per intero tutta la vibrante genialità latina, rivelandola meglio a noi stessi, portandone la eco in tutti i più lontani paesi1.

La “genialità latina”, e in particolare italiana, andava proposta al pubblico attraverso la letteratura, offrendo “pagine di lettura interessanti, varie, emozionanti, in prose vivaci, in liriche alate di vera poesia dovute alle nostre migliori penne”; riportando il fedele resoconto “di tutti gli avvenimenti mondani, artistici, musicali, sportivi degni di nota per chi legge”; occupandosi “di eleganza e bellezza nella moda femminile e maschile con l’aspirazione augurale di far giustamente conoscere ed apprezzare quanto di buono, di bello, di degno produce il nostro paese, e impedire che tanto danaro emigri all’estero”. A ciò ci si aggiungevano notizie su “quanto è utile, nuovo e di buon gusto nell’arredamento della casa, dal salotto più raffinato all’ambiente più modesto” e, infine, le “rubriche più diverse: rassegne di libri, echi teatrali, notizie cinematografiche, consigli educativi”2.

Il tutto forniva l’immagine di una rivista in linea con la tradizione della stampa femminile, che in Italia vantava già oltre un secolo di vita e la cui nascita è databile a fine Settecento, sebbene le esperienze più strutturate, come quella del “Corriere delle Dame” di Carolina Lattanzi, siano ottocentesche: un pout pourri di ingredienti che prevedevano l’attenzione all’ambiente casalingo e ai figli, per essere una buona madre e moglie; la cura nell’abbigliamento e nelle buone maniere, per potersi destreggiare con scioltezza nella società urbana; una buona dose di cronache mondane, per conoscere la vita del “bel mondo” o sognare di farvi parte; qualche buon consiglio bibliografico e un po’ di cronaca teatrale, luogo per eccellenza, assieme ai salotti, della sociabilità borghese del XIX secolo e dei primi anni del XX. “Lidel” vi aggiungeva altri due fattori: un’attenzione molto forte, e che si sarebbe rivelata costante nel tempo, all’arte, e un tono fieramente patriottico.

Era quest’ultimo il maggiore richiamo all’attualità: non discussioni specifiche di politica, interna o estera, ma un nazionalismo forte e ostentato appena era possibile, che permeava anche le pagine dedicate alla moda. La creatura di Lydia De Liguoro si inseriva nella scia, ben delineata nel corso del tempo sebbene gli esempi non fossero estremamente numerosi, di operatori nel campo della moda, e della stampa di settore, che propugnavano una svolta per uscire dalla soggezione nei confronti della moda francese.

Il vizio di origine, l’assoluta sottomissione ai gusti parigini, era parso evidente fin dalla fine del Settecento, con i primi periodici femminili a reclamizzare le ultime mode d’Oltralpe, ma già nel corso dell’Ottocento, mentre una coscienza nazionale si diffondeva, qualche voce si era levata per sperare nella nascita di una vera industria della moda italiana che potesse arginare la supremazia francese. Il bolognese “Felsineo”, periodico dei moderati bolognesi che, negli anni Quaranta del XIX secolo, propugnavano riforme nei campi dell’economia, della finanza, dell’amministrazione, sotto la guida di Marco Minghetti, sperava anche che nascesse una moda italiana, riflesso nel campo dell’abbigliamento del più generale dibattito sulla necessità di liberarsi dell’egemonia straniera e di pervenire a qualche forma di costruzione statale nazionale. Ancora dopo l’Unità, alcuni giornali rivolti a un pubblico femminile, come “La moda italiana”, erano tornati sull’argomento, anche per le difficoltà di rifornirsi dei ricercati figurini parigini a causa della guerra franco-prussiana del 1870 (Carrarini, 809-810). A fine secolo, si era fatta conoscere una sarta che, ispirandosi ai costumi rinascimentali, sperava di essere la capofila di un risorgimento nazionale nel campo della moda. Era Rosa Genoni, che avrebbe anche scritto diversi articoli sia sulle riviste femminili più rinomate, come “Margherita”, sia su periodici letterari in voga nel panorama culturale dell’Italia giolittiana, come “Il Marzocco” (Carrarini, 810).

Ed era proprio Rosa Genoni a scrivere sul primo numero di “Lidel”, con un articolo che prendeva in esame, appunto, la questione più importante che la moda italiana doveva ancora fronteggiare: il rapporto di dipendenza e di amore-odio nei confronti della Francia, regina indiscussa di gusto ed eleganza, matrigna che soffocava ogni aspirazione di autonomia delle case sartoriali che proliferavano anche in Italia ma che si scontravano con il desiderio delle lettrici di conoscere e indossare l’ultima moda di Parigi. Nel pezzo della Genoni si avvertiva l’ansia palingenetica dei primi mesi di pace, dopo una guerra che aveva cambiato tutto, causando immani sacrifici ma aprendo le porte a un futuro ancora indecifrabile perché tutto da costruire. Un mondo nuovo era possibile, anzi inevitabile, ma quali sarebbero state le sue caratteristiche, e chi avrebbe tracciato i suoi parametri? Per la Genoni

tutto può naufragare, tutto sommergersi, ottenebrarsi, sparire; ma l’Arte e la Bellezza sopravviveranno e manderanno sempre lampi o guizzi di luce, sfolgorii tali da illuminare le tenebre del mondo e saranno ognora chiamate a sollevare lo spirito3.

Poiché per la Genoni la vestale dell’arte e della bellezza sarebbe sempre stata la donna, il problema diventava indovinare quali ruoli quest’ultima avrebbe dovuto interpretare nella nuova era piena di suggestioni e possibilità, dopo che la guerra aveva scardinato i vecchi canoni e gabbie che la imprigionavano. Nella visione dell’autrice la donna diventava la protagonista, non solo nel campo della bellezza e dell’arte, in cui lo era da sempre, ma nella società, con una maggiore consapevolezza e importanza che le derivava dai nuovi ruoli che l’epoca bellica le aveva conferito. Più che di un’interpretazione dai toni socialisti, che erano lontani, se non dalle idee della Genoni, dalla volontà della De Liguoro, si trattava di una suggestiva visione, per quanto vaga, che delineava una donna maggiormente cosciente dei propri mezzi, delle antiche funzioni come delle nuove opportunità che la nuova epoca le dava:

E la donna –proseguiva la Genoni con la sua prosa immaginifica – centro attorno a cui fiorisce tutta la flora dell’Arte decorativa, da quella della casa a quella della veste, la donna nuova, rinnovatasi nelle sue funzioni fra le pareti domestiche, nel diritto familiare e politico, nel lavoro delle officine, degli studi e dei servizii pubblici, nelle scuole professionali, classiche e di cultura moderna, la donna nuova del dopo guerra, come sta per sbocciare da questa rivoluzione delle cose e delle anime, a quali nuovissime, inaspettate forme ispirerà le future manifestazioni estetiche dell’Arte industriale?4

Il futuro era un libro da scrivere, specie per quanto riguardava l’arte della moda, dove regnava l’incertezza e nemmeno la città che fin dal Settecento era stata il fulcro irradiatore del concetto di eleganza, riusciva a raccapezzarsi. O almeno questo era quello che sperava la Genoni, quando descriveva la capitale francese come il centro del mondo per la conferenza di pace che vi era in corso, ma ciononostante ancora incapace di individuare chiaramente i nuovi parametri della bellezza femminile:

Parigi, che si risveglia dalle tenebre del tempo di guerra, solcate soltanto dallo scoppio della Berta e dalle bombe d’aeroplano, in una radiosa aurora d’un congresso mondiale di pace; […] Parigi le cui notti ora scintillano di bellezza, di ebbrezza, d’amore e di luce, quanto prima erano immerse nel pianto, nel dolore e nel silenzio; Parigi non ha saputo ancora trovare l’estro per inventare la nuova moda da bandire in tutto il mondo, che dalla città di luce aspetta il nuovissimo verbo5.

Poteva toccare allora all’Italia il compito che la Francia sembrava non riuscire più ad assolvere, almeno nella prosa della Genoni:

E, se […] la sovrana tirannica che è la moda parigina, sovrana assoluta in un paese di repubblica, non ha saputo questa volta piegare al suo giogo il gaio sciame femminile internazionale sotto il peso del suo scettro, allora non sarebbe il caso forse di rivolgere a noi stessi una domanda, che è tutta una proposta, un progetto, una speranza? L’Italia rinovellata non potrebbe tentare di alleggerire un giogo che le fa portare all’estero tanta parte delle sue ricchezze?6

Si noti come la proposta dell’autrice fosse legata a un leit motiv molto presente nella ciclica idea di emanciparsi dalla moda francese, quella della convenienza economica di una moda nazionale. Era un tema che, in tempi di patriottismo esasperato dalla guerra appena vinta, in un clima sociale acceso dalle lotte dei lavoratori, e con un’economia di guerra che stentava a riconvertirsi alla produzione di pace, poteva avere ancora più successo. Quanto meno si inseriva, senza difficoltà, nel pensiero dominante della borghesia italiana dell’epoca, sensibile alle parole d’ordine e ai discorsi roboanti che promettevano di riscattare i dolorosissimi anni di guerra nella maniera più redditizia possibile, reclamando le terre previste dal Patto di Londra del 1915 e che il presidente USA Wilson non intendeva riconoscere all’Italia. Nel suo piccolo, ammesso che potesse considerarsi tale un settore economico che muoveva un grosso giro d’affari, Rosa Genoni, e Lydia De Liguoro tramite lei, proponevano una moda italiana che avrebbe sollevato la bilancia commerciale, creando una reale industria e alimentando la forza della nazione:

Nessun momento è più favorevole alla nostra iniziativa! Ora le aspirazioni italiane sono compiute: lo stesso fervore e coraggio impiegati nell’opera di guerra, per la conquista della grandezza nazionale, si dovrebbero adoperare per redimerci, nella gran lotta di pace e di lavoro, dalla servitù e dal monopolio nell’industria dell’arte della moda. […] L’indipendenza politica dev’essere completata dall’affrancazione economica, artistica ed estetica, perché un popolo non rimanga tuttora soggetto, tributario e vinto nelle lotte del lavoro e della ricchezza le quali per una nazione diventano forse ora più importanti di quelle della armi7.

“Lidel” avrebbe fatto la sua parte per attuare questo ambizioso programma di creazione di una vera e solida industria dell’abbigliamento italiana, proponendosi come punto di raccolta di un ‘nazionalismo della moda’ che mirava a sostenere le creazioni di casa nostra in questo campo. E, a mo’ di incitamento, pubblicava a corollario dell’articolo della Genoni alcuni figurini decorati con un medaglione che riprendeva le decorazioni dell’età classica. Il richiamo era evidente ed esplicito: “LIDEL inizia la sua pagina di applicazioni di merce italiana presentando la creazione fattane, la quale rispecchia un poco l’epoca aurea in cui l’arte d’Atene e di Roma signoreggiava il mondo”8. La pochezza della creazione, con il medaglione applicato come accessorio su moderni figurini, testimoniava sia la scarsa vivacità della “genialità nazionale” che la redazione aveva sotto mano in quel frangente, sia la funzione della storia d’Italia, come la stessa Genoni aveva dimostrato prima del conflitto, un serbatoio immenso cui attingere per trovare quella vena di originalità che sarebbe servita per liberarsi dall’oppressione francese.

Difficile tuttavia che con lo sguardo rivolto al passato si potesse interpretare al meglio il desiderio di rinnovamento e novità della buona società borghese, come quella cui si rivolgeva “Lidel”, finalmente uscita dalla guerra e vogliosa di riprendere a spendere e sognare. L’idea di fornire notorietà con i propri articoli alle creazioni meritevoli della sartoria italiana fu mantenuta anche negli anni seguenti, ma ciò non significò, neppure per “Lidel”, dimenticare la Francia. Anzi, il rapporto con essa fu piuttosto articolato e ambiguo. Si prenda il trittico di contributi apparso pochi mesi dopo, nel numero dell’agosto 1919, dopo che il periodico, a detta della sua fondatrice, aveva incontrato una buona accoglienza tra il pubblico. Un primo articolo era intitolato “Sotto la lente di Parigi”, e non era altro che una cronaca delle ultima novità di moda della capitale francese, evidentemente non così priva di bussola, come aveva scritto poco tempo prima Rosa Genoni, camuffate sotto l’escamotage di una lettera che una dama del bel mondo scriveva da Parigi a un’amica appena trasferitasi a Milano:

Cara Michelina, tu mi scrivi che sei ancora tutta stordita e stanca del lungo viaggio di nozze; che ti senti un po’ sperduta nella tua nuova patria!… Eh sì, lo comprendo: per te, piccola graziosa parigina, il mutamento è grande, ma sono convinta che, quando ti sarai familiarizzata col nuovo ambiente, quando avrai fatto conoscenza con le ottime sarte e le eccellenti modiste di cui è pur ricca Milano, ogni disagio del tuo spirito sparirà. Non temere, ci sono in Italia tante fate dalle dita agili, creatrici di bellezza! Vedrai che anche costì l’eleganza vi regna come a Parigi. Mi domandi che ti scriva spesso, che ti tenga a giorno di tutte le novità sensazionali, che snidi per te, durante le mie peregrinazioni parigine, quei piccoli nonnulla, i quali formano veramente la signora chic?… Sì, cara, appagherò i tuoi desideri, perché tu possa esser la prima in Italia a lanciar la moda9.

Dopo questo piccolo espediente che serviva più che altro a ricordare l’attenzione della rivista per il tema dell’italianità, l’articolo proseguiva senza più alcuna remora descrivendo le più recenti novità in tema di “toeletta” femminile nei più bei luoghi della ville lumiére.

Le pagine immediatamente successive erano un’ulteriore dimostrazione che una rivista femminile in Italia non poteva fare a meno della moda francese. Cambiava solo il modo di presentare il tradizionale legame con Parigi, nel caso di “Lidel” vissuto con fastidio perché in contraddizione palese con lo spirito apertamente nazionalistico che stava alla base della sua nascita, e che faceva sì che il sentimento di sudditanza provocasse nuovi funambolismi retorici. Così, la pagina di Creazioni parigine, illustrata da tre figurini, era presentata quasi come un favore fatto ai sarti francesi dalla redazione, e contemporaneamente come uno sprone per i sarti italiani:

Parigi manda a Lidel, con largo compiacimento e cortese spontaneità, i modelli delle nuove creazioni della moda. Questi tre figurini di squisita e sobria eleganza ci sono graziosamente favoriti dalla Casa Drecoll. Noi speriamo che ciò serva a scuotere quella specie d’indifferenza che sembra trattenere le nostre grandi case dal seguirne l’esempio10.

Intanto, al pubblico erano state offerti nuovi figurini di abiti francesi. Come doveva ben essersi resasi conto la De Liguoro nei pochi mesi di vita della rivista, rimaneva quella la chiave per attirare il pubblico italiano. Le dame, o coloro che aspiravano a essere considerate tali, miravano a conoscere ciò che la mecca del buon gusto e dell’eleganza, Parigi, sfornava in tema di ultima moda, e gli argomenti legati alla rinascita economica della nazione e a un’emancipazione dalla Francia attraevano poco, mentre poteva incontrare il favore di una parte degli industriali dell’abbigliamento. Solo una parte però, perché il giro d’affari delle importazioni italiane dalla Francia in tema di moda era tale da aver creato interessi molto corposi, difficili da scalfire se non dietro una precisa e costante volontà dello Stato. Nel 1932, la stessa De Liguoro avrebbe scritto sul “Popolo d’Italia” che

risulta […] alle statistiche ufficiali […] che nel 1931 la cifra d’importazione di oggetti di lusso ammonta a un miliardo e mezzo, ciò che rappresenta un quarto, circa, del deficit commerciale italiano, e precisamente a circa un miliardo di lire pel solo abbigliamento, presumibilmente di provenienza francese. Ora, se si considera che la Francia, alla stessa voce, porta tre miliardi di esportazione, si constata, con stupore, di essere, da soli, i consumatori di circa un terzo di tale esportazione11.

Nel 1919 le cifre erano sicuramente inferiori, considerati gli scossoni che la guerra aveva inferto al commercio internazionale e alla capacità di acquisto dei consumatori, ma la dipendenza dalla moda francese aveva una lunga storia che solo in tempo di conflitti si era allentata. “Lidel” si era infilata in quella breccia causata dalla guerra ed era stata la voce che aveva indicato una possibile via alternativa. Quanto fosse difficile realizzarla, tuttavia, lo aveva fatto comprendere la stessa De Liguoro quando, nel primo numero della rivista, aveva inserito una lettera aperta agli industriali milanesi che avevano disertato il citato Primo congresso nazionale dell’industria del commercio dell’abbigliamento. L’assenza di questi ultimi aveva inferto un duro colpo al proposito del Congresso di creare un “Istituto nazionale dell’abbigliamento”, e la De Liguoro si era ripromessa, evidentemente appoggiata da altri interessi, di fare da ponte nei confronti degli assenti, preoccupati di essere colpiti nel loro tradizionale autonomismo e spaventati dall’idea di una moda italiana che potesse danneggiare i propri affari con la Francia. Nel secondo incontro, previsto a Torino, la De Liguoro sperava di avere almeno una rappresentanza dell’industria milanese:

L’Italia, […] non potrebbe, senza gravissimo suo danno e dolore, constatare l’assenza d’una rappresentanza milanese in tale risveglio [nazionale]; e noi siamo persuasi che in un prossimo Congresso tale rappresentanza non mancherà, sia per sfatare la banale leggenda del regionalismo che per valorizzare con la sua potente ed illuminata collaborazione la grande riunione d’industriali per l’efficace scambio di idee sui più opportuni provvedimenti, dai quali dovrebbe uscire compiuto l’organismo nuovo, rispondente ai tempi, e con una propria autorità legale e legislativa per le nuove norme nazionali, reggitrici di quel complesso di industrie che si avviano […] all’emancipazione graduale dall’estero12.

Era un auspicio destinato a non realizzarsi, almeno a breve, e l’industria milanese avrebbe sempre guardato con sospetto a tali iniziative. Alla De Liguoro non facevano difetto le capacità e l’ambizione, ma l’obiettivo di emergere nel convulso panorama sociale e culturale dell’immediato dopoguerra, cavalcando il tema del patriottismo nel campo dell’abbigliamento, non era di per sé garanzia di successo, perché l’ostilità del mondo produttivo milanese non avrebbe certo giovato agli scopi di “Lidel”. Inoltre, a dimostrazione che a favore della moda francese, prescindendo dall’atteggiamento del mondo economico milanese, giocava l’insindacabile favore del pubblico vi era, sempre nel citato numero di agosto, un’ulteriore prova.

Parigi, superbo crogiuolo della moda, raccoglie i suoi artefici creatori di bellezze e d’eleganze dai paesi più diversi, in Francia ed all’Estero. Non di rado gli artisti più meritatamente apprezzati della matita, del taglio, delle linee più pure, sono italiani. Ecco sei bellissimi modelli che la Casa di moda italiana Riva, 12 rue Helder a Parigi, manda alla nostra rivista. Essi offrono con la signorilità della creazione e la squisitezza della scelta un esempio di vera arte superiore13.

Insomma, se non si poteva fare proprio a meno della moda francese, almeno che si mettesse in luce che molti artigiani attivi a Parigi erano connazionali.

Al di là delle roboanti dichiarazioni di esaltazione della moda italiana, “Lidel” doveva quindi fare i conti con una realtà consolidata, in cui le lettrici continuavano a chiedere quali fossero le ultime novità parigine, e gli imprenditori milanesi coinvolti nell’importazione di capi d’abbigliamento guardavano con ostilità a imprese nazionalistiche che mettevano a repentaglio i propri affari. Era pertanto inevitabile che la venatura nazionalistica sottesa all’opera della Liguoro si riversasse meglio in altri campi, dove la genialità italica aveva prodotto risultati più solidi e non toccava nervi scoperti. Da qui la presenza in ogni numero di “Lidel” di articoli o rubriche che di volta in volta inneggiavano a “La casa italiana”, una rubrica fissa e presente fin dal primo numero, con foto di ricche dimore storiche di qualche famiglia aristocratica, oppure si esaltasse “l’incanto delle spiagge italiche dove lo sguardo vede più lontano”14, come durante la stagione estiva. Il tutto era connotato dall’ampio uso delle immagini, sia disegni, spesso figurini per ciò che riguardava l’immancabile servizio di moda, sia fotografie, utilizzate ampiamente e per trattare ogni argomento, ad anticipare la stagione aurea dei rotocalchi.

Ma “Lidel” dimostrava di voler tenere fede alle promesse fatte di proporre una ricca gamma di contenuti. Oltre alla moda, sempre presente e con un ruolo centrale, ma raramente preponderante, non mancavano mai temi che risultavano classici per le riviste femminili italiane e che erano trattati in rubriche fisse: i matrimoni di volti celebri o dell’alta società, a partire da quella milanese (“Sotto il candido velo”); le novelle d’amore o i giochi per bambini, secondo la tradizionale ottica della donna “angelo del focolare domestico”, le pesche di beneficenza e un po’ di fama regalata a qualche dama di carità dell’alta società che si era distinta per opere pie nei confronti di chi era meno fortunato (“Femminilità benefica”). Accanto a essi, “Lidel” si caratterizzava tuttavia per la fortissima presenza di temi legate all’arte, al teatro, alla letteratura: le splendide copertine e le illustrazioni di disegnatori del calibro di René Gruau, Marcello Dudovich, Sergio Tofano, di pittori come Lino Selvatico, Pietro Dodero, Noel Quintavalle, Giuseppe Amisani e altri ancora; le cronache di mostre in giro per l’Italia; l’attenzione alle avanguardie e alle novità; la rassegna bibliografica e le recensioni a opere teatrali, magari di qualche scrittore o drammaturgo considerato amico o che era annoverato nella fantomatica lista dei “Collaboratori”, presente fin dal primo numero. In tali casi, sebbene la redazione potesse annoverare l’appoggio di intellettuali del calibro di Luigi Pirandello, Massimo Bontempelli, Marino Moretti, Giovanni Papini, Matilde Serao, Grazia Deledda e altri ancora, in realtà costoro erano assai poco presenti con propri scritti sulla rivista. Ciò non toglie che artisti più o meno minori vi fossero spesso e che qualcuno ricambiasse con novelle o altri contributi. E che un sistema di reciproci favori si avvertisse anche con qualche potente azienda presente sulle pagine di “Lidel” con delle pagine pubblicitarie, secondo uno schema comune a tanti periodici, risulta evidente nel caso dell’articolo pubblicato nel marzo 1921, che descriveva con dovizia di particolari la sede della Banca commerciale di Milano, inserzionista del mensile, elogiandone il gusto e la raffinatezza, il che permetteva di superare lo snobismo insito in una rivista patinata sui temi riguardanti il denaro (“Lidel che vuol essere una rivista di signorilità, d’arte e di grazia, non pratica le banche che sono ordinariamente il simbolo della mercantilità moderna, ove il dio dell’oro del mondo signor troneggia e comanda nella sua gonfia e grossa trivialità. Ma non sempre è stato, e non sempre è così”15).

Era scarsamente presente, anche in tal caso secondo un’ottica tradizionale per le riviste destinate a un pubblico femminile, la politica. Rari e sfuggenti potevano comparire alcuni accenni alla vita del Paese, come avvenne nel numero di ottobre del 1921, in occasione di un evento estremamente sentito e coinvolgente per l’opinione pubblica italiana, quella almeno che si riconosceva nei sentimenti patriottici e cattolici: la ricollocazione della statua dedicata alla Madonna Ausiliatrice, inaugurata nel 1901 dal futuro Pio X e poi mutilata durante il primo conflitto mondiale. La statua sorgeva in un luogo sacro alla memoria della Grande guerra e della difesa compiuta dopo la disfatta di Caporetto, sul Monte Grappa, che da lì a poco sarebbe diventato un “luogo della memoria” nazionale per il ruolo fortemente simbolico di ultimo bastione, assieme al vicino Piave, per fermare l’invasione e la definitiva sconfitta contro gli Imperi centrali. Il tutto avveniva mentre in Italia si era spento il periodo del cosiddetto “biennio rosso” e imperversava già la violenta reazione fascista, gradita a larga parte dell’opinione pubblica liberale, che aveva temuto che i fantasmi della rivoluzione socialista potessero materializzarsi anche in un’Italia fortemente scossa dalle convulsioni sociali, politiche, economiche, lasciate dal conflitto. Ecco allora il commento di “Lidel”, in linea con la dolorosa rievocazione ed esaltazione patriottica dei sacrifici bellici, e polemico nei confronti di chi non li riconosceva tali:

Dalla fine di giugno l’Italia memore – l’altra è vile! – compone corone di alloro sui campi che segnarono la strada del trionfo, incorona gli uomini che ve l’addussero. Il Montello, il Grappa, Gorizia, Le Tofane… quanto eroismo, quanto sangue, quanta gloria! Dai nomi fatidici, dalle terre distrutte e rinate poi al clamore del trionfo, venga ammonimento ai tepidi e agli sviati e venga anima e amore a chi sogna l’avvenire di una Grande Italia16.

Perfettamente inserita nel milieu culturale della borghesia italiana, “Lidel” aveva in quei primi anni di pubblicazione, più che una posizione politica chiara, e comunque che ben si guardava dall’esprimere con maggiore chiarezza rispetto alle frasi citate, alcuni punti di riferimento. Non tanto Mussolini, che sicuramente conosceva la rivista e che concesse un proprio autografo alla direttrice, ma il “il magico duce”, come la rivista arrivò a definirlo17, che aveva affascinato tanta parte d’Italia con la sua penna e le sue imprese belliche: Gabriele D’Annunzio. Nulla di strano, perché D’Annunzio fu la vera stella per quella parte della società italiana intrisa di nazionalismo e risentimenti verso gli alleati, a causa del presunto ingiusto trattamento a Versailles nei confronti del “sacro egoismo” nazionale. A lui “Lidel” dedicò numerose citazioni, seguendone i movimenti o semplicemente, ma con un forte valore evocativo, pubblicandone foto, ritratti, recensioni a opere di suo pugno o ispirate alla sua azione, e alimentandone il divismo, il fascino, il carisma. Tutto fino a che le vicende della politica italiana non portarono definitivamente alla ribalta il fascismo e oscurarono la stella del poeta pescarese. Anche “Lidel” allora si allineò a una più opportuna e sottile adulazione del nuovo leader, come nel numero di ottobre del 1923, che pubblicava una foto di Mussolini durante le recenti vacanze estive con la famiglia alle Cinque terre 18.

A rendere “Lidel” una rivista di notevole interesse era anche l’atteggiamento nei confronti della questione femminile, che permeò la vita del periodico almeno a tutto il 1923, cioè fino a quando fu diretto da Lydia Dosio De Liguoro. In tal campo “Lidel” fu portavoce di un modo di intendere il ruolo della donna nella società non solo confinato alle feste, ai ritrovi mondani, ai matrimoni dell’alta società o all’ambiente domestico, ma anche in settori come lo sport, molto curato dalla redazione, che però era pur sempre appannaggio della fascia socialmente più elevata delle donne italiane. L’emancipazione che tra le righe “Lidel” propugnava era dunque riservata solo a coloro che potevano permetterselo per la loro condizione sociale privilegiata. Più timidi e rari gli interventi sul tema delicato del voto femminile, come quello, prudente e calcolato, sebbene sostanzialmente favorevole, con cui si espresse il deputato, scrittore e giornalista Innocenzo Cappa in un articolo dell’agosto 1919. In pratica, l’autore stabiliva un filo diretto tra il diritto al voto femminile e il sacrificio fatto durante la guerra, inteso però non come partecipazione attiva alla vita della nazione, magari sostituendo tanti uomini nelle attività lavorative, ma come sofferenza subita per la lontananza dei propri cari e difficoltà a riprendere una vita in comune dopo il loro ritorno:

C’è qualcheduna, fanciulla od anziana, povera o ricca, che non abbia avuto il suo piccolo o grande dramma dal 1915 in poi? […] Ma l’altra parte del dramma o della commedia (nessuna tragedia è così tragica da escludere un sorriso o una smorfia di grottesco) è cominciata con l’ora dell’armistizio […]. Le statistiche possono contare il numero dei matrimoni, ma non c’è una statistica che faccia il conto del numero delle lagrime o di quello dei sorrisi. Dopo quattro anni di distacco, il rivederci è sempre un ritrovarci?19

E sulla proposta, che qualcuno aveva avanzato, di portare una rappresentanza di madri di caduti in Parlamento, Cappa scriveva:

A me par di vedere Montecitorio affollato. I partiti stanno per ricominciare l’antica rissa. Si sogghigna di scetticismo, si cicaleggia di vanità. Ed ecco passano coloro che persero tutto e diedero tutto, dando la carne della loro carne. Non passa anche in quell’attimo del primo incontro il brivido della morte con la religione delle memorie?20

“Lidel” in quegli anni fu una rivista vivace e brillante, destinata al pubblico della media e alta borghesia italiana, ricca – specie nell’ultimo numero, quello dicembrino – di moda, arte, cultura, cronache mondane e sportive, e aperta alle innovazioni culturali. Dopo il 1919, la vena nazionalistica si attenuò leggermente ma rimase sempre presente, e Lydia De Liguoro, una volta assestata la sua impresa su una tranquilla e feconda linea di navigazione che ne fece velocemente la rivista di lusso italiana per eccellenza, come si ricava anche dalle numerose inserzioni di beni assai costosi prodotti dalle principali industrie italiane, come le automobili, rilanciò la battaglia per una moda autoctona. La stessa vulcanica direttrice avrebbe ricordato alcuni anni dopo che

già nelle sale della Rivista […] avevano cominciato a prender voga le prime sfilate di modelli nostri; e nello stesso inverno [1922-‘23] si ebbe il primo concorso italiano di figurini di moda, lanciato dalla Rivista […]; e le opere, in numero di 218 dei migliori nostri artisti, vennero esposte alla “Promotrice” dove si svolse il primo grande ballo della Moda. Nell’aprile poi, dello stesso anno, la Rivista, vincendo completamente le ostilità incontrate precedentemente, o meglio eludendole, riusciva, dopo averne avuto ufficiale incarico, a preparare il primo Padiglione della Moda alla Fiera Campionaria di Milano, nonché la relativa festa di inaugurazione dei vari spettacoli (De Liguoro, p. 10).

Non paga, la De Liguoro aprì anche, a partire dal giugno dello stesso anno, una rubrica in cui dava la parola ai principali sarti italiani, naturalmente perché si esprimessero a favore della nascita di una moda nazionale, così introducendola:

Attorno alla scottante questione della moda italiana e non italiana in questo anno che ha suonato una diana di risveglio è tutto un agitarsi di discussioni e polemiche, un fiorire di proposte accettabili e revocabili. Lidel ha pensato di riunire in questa rubrica volta a volta il pensiero dei sarti su tale argomento, ed apre la serie degli articoli con questa lettera di Marta Palmer […] nella quale l’artista ed artefice geniale […] mostra quale passo immenso la moda nostra potrebbe compiere se le case di tessuto in intelligente ed amorosa fraternità con le sartorie, ideassero per queste, aiutate da veri artisti, i tessuti meravigliosi dalla bellezza dei quali nasce, quasi spontaneamente, la bellezza di una nuova linea armoniosa. Ed è nella speranza di veder sorgere tale collaborazione che Lidel bandisce il Concorso della Moda21.

La rinnovata pulsione nazionalistica nel campo della moda di “Lidel” fece sì che gli interessi imprenditoriali maggiormente toccati nel vivo per i legami con la Francia dall’offensiva della De Liguoro, e che lei stessa aveva ammesso di avere eluso fino a quel momento, si muovessero e rompessero gli indugi. Per la direttrice non furono sufficienti né gli appoggi di altri industriali di cui evidentemente godeva, né l’adesione al fascismo. Il numero di novembre del 1923 fu l’ultimo da lei diretto. Il rapporto con la rivista si interruppe improvvisamente, e senza segnali premonitori, almeno a sfogliare le pagine dei mesi precedenti la rottura. Lei stessa confermò successivamente la brusca conclusione del rapporto di lavoro e la notizia del licenziamento, giunta appena un giorno dopo una nuova iniziativa a favore della moda italiana cui aveva partecipato: la nascita di una Associazione degli artefici dell’abbigliamento, dove riunire imprenditori tessili, sarti, artisti, per creare le basi di una reale industria della moda italiana (De Liguoro, p. 19):

Senonché dopo 24 ore, senza che nessuna ragione plausibile giustificasse tale provvedimento […] venni di colpo dimessa dalla mia carica, con conseguente divieto della mia attività in nome di “Lidel” (De Liguoro, pp. 23-23).

I motivi dell’improvviso licenziamento della creatrice e fondatrice di “Lidel” non sono mai stati chiariti, ma è probabile che il suo attivismo a favore di una moda nazionale avesse ormai provocato troppe ostilità. Fino a che si era trattato di una campagna di stampa nazionalistica e in linea con il sentimento diffuso nel pubblico di riferimento, era stata tollerata e in qualche modo avallata dal potere fascista, ma le nuove aggressive iniziative messe in atto nel corso del 1923 dalla De Liguoro costituivano un serio pericolo per coloro che facevano grandi affari con la moda francese, e che dovevano avere ascolto anche a Roma. Nei mesi seguenti la rivista non perdette infatti il ruolo di portavoce della “bella moda nazionale”: continuò a pubblicare creazioni di sarti italiani, accanto alle rubriche sulla moda parigina, ma accantonò altre iniziative extragiornalistiche, come quelle avanzate dalla De Liguoro negli ultimi mesi di direzione. Quest’ultima, da parte sua, non si rassegnò al duro colpo subito e iniziò una battaglia, anche giuridica, contro la casa editrice “Sapere” che l’aveva licenziata, che però solo sette anni dopo, nel 1930, le diede qualche soddisfazione.

E’ probabile che la vicenda, per i forti interessi economici che toccava, e per il personale e costante interesse verso il mondo dell’informazione, sia stata seguita dal duce in persona, e che questi nel 1923 abbia ritenuto inopportuno una campagna antifrancese troppo forte, con il sistema democratico ancora formalmente in auge e i rapporti esteri da preservare. Però le idee sfrenatamente nazionalistiche della De Liguoro sarebbero potute tornare utili al momento opportuno e ciò, oltre alle sue indubbie capacità giornalistiche e organizzative, spiegherebbe come la focosa giornalista potesse riprende la sua attività, ma su altri lidi: qualche anno dopo il licenziamento divenne direttrice di “Fantasie d’Italia”, rivista fondata nel 1929, organo ufficiale dell’agognata Federazione nazionale fascista dell’industria dell’abbigliamento, e iniziò a scrivere sul quotidiano di proprietà di Mussolini, “Il Popolo d’Italia”, dove proseguì la sua lotta per una moda italiana. Ma era ormai una nuova era, lontana anni luce dall’immediato dopoguerra. Ci si addentrava negli anni Trenta, ben diversi, per gli effetti drammatici della crisi del 1929 e per i venti autarchici sempre più forti, dall’immediato e per molti versi più libero periodo del primo dopoguerra, quando “Lidel” vide la luce.

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2004 Donne del giornalismo italiano. Da Eleonora Fonseca Pimentel a Ilaria Alpi, Milano, FrancoAngeli

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2009 Dizionario della moda, Milano, Baldini Castoldi Dalai

1 “Lidel”, Programma e collaborazione, maggio 1919.

2 Ivi.

3 “Lidel”, Moda d’armistizio, maggio 1919.

4 Ivi.

5 Ivi.

6 Ivi.

7 Ivi.

8 Ivi.

9 “Lidel”, Sotto la lente di Parigi, agosto 1919.

10 “Lidel”, Creazioni parigine, agosto 1919.

11 “Il Popolo d’Italia”, 19 novembre 1932, cit. in De Liguoro, 1934.

12 “Lidel”, Ritornando da un congresso. Lettera aperta agli industriali milanesi, maggio 1919.

13 “Lidel”, Arte di bellezza italica nella moda parigina, agosto 1919. Si veda sui temi dell’italianità anche l’articolo della De Liguoro La donna nelle nuove opere di rivendicazioni nazionali, “Lidel”, agosto 1920.

14 “Lidel”, giugno 1919.

15 “Lidel”, Nuovi orizzonti finanziari. Le grandi banche italiane, marzo 1921.

16 “Lidel”, Corono di gloria per l’Italia nostra!, ottobre 1921.

17 “Lidel”, aprile 1921.

18 “Lidel”, ottobre 1923.

19 “Lidel”, La donna e il voto, agosto 1919.

20 Ivi.

21 “Lidel”, Il pensiero dei grandi sarti sulla moda italiana, giugno 1923.