Nazione, patrimonio, paesaggio: alle origini del moderno ambientalismo in Europa 1865-1914

di Luigi Piccioni

Una versione parziale in lingua inglese di questo saggio è stata pubblicata col titolo The rise of European environmentalism: a cosmopolitan wave, 1865-1914 in “Ekonomska i ekohistorija”, X (2014), n. 1, pp. 7-15.

Abstract

In Europa l’ambientalismo moderno si manifesta per la prima volta in coincidenza col processo di nation building, ne viene profondamente influenzato e finisce col contribuirvi in misura significativa. Di conseguenza in questa fase la protezione della natura viene intesa in primo luogo come tutela di oggetti che hanno un forte valore in termini di identità locale o nazionale: paesaggi, monumenti naturali, siti naturali con marcate connotazioni storico-artistiche. I cataloghi del patrimonio naturale e paesaggistico degli anni 1905-1925 documentano efficacemente queste caratteristiche fondative del primo ambientalismo europeo, che lascia il posto dopo la Seconda guerra mondiale a un ambientalismo più preoccupato dei limiti e della qualità delle risorse naturali e molto più influenzato dalle scienze ecologiche.

Abstract english

Nation, Heritage and Landscape at the Roots of Modern European Environmentalism 1865-1914.

Modern European environmentalism rise coincides with the nation building process, which deeply influenced and helped it in several ways. Consequently, in this period, nature protection is intended first and foremost as safeguard of objects having a great value in terms of national or regional identity: landscapes, natural monuments, natural sites with remarkable historic or artistic features. The nature’s catalogues created in the 1905-1925 years by different states offer a good illustration of such a vision. After the Second World War, this kind of environmentalism gives way to a new one, more concerned with the limits and the quality of natural resources and more influenced by natural sciences.

Il moderno ambientalismo e le sue origini

Sappiamo ormai da tempo che riflessioni sofisticate sul rapporto uomo-natura, forme di sensibilità verso la natura non lontane da quelle attuali e persino complesse misure di tutela possono essere rintracciate in epoche anche molto lontane, sia nei paesi occidentali che in altre aree del mondo. Per limitarci ad alcune tra le opere che ci hanno più aiutato a capire quanto remoti possano essere gli antecedenti del moderno ambientalismo possiamo citare Traces on the Rodian Shore di Clarence Glacken (1976), The Death of Nature di Carolyn Merchant (1980), Man and the Natural World di Keith Thomas (1983) e Les figures paysagères de la nation di François Walter (2004). Tutte queste opere, e altre ancora, ci hanno mostrato come molte delle immagini e delle argomentazioni che fondano le attuali sensibilità e culture ambientaliste sono a volte frutto di lunghe sedimentazioni e di sincretismi che a prima vista non è agevole percepire. Di fronte a questa lenta e complessa evoluzione dell’atteggiamento dell’uomo occidentale nei confronti del mondo naturale, colpisce invece la rapidità del processo di maturazione di quello che possiamo a tutti gli effetti considerare il moderno ambientalismo, del quale siamo ancor oggi partecipi.

E’ possibile infatti parlare di “moderno ambientalismo” – mutuo qui l’espressione da David Pepper (1996) – soltanto dalla metà dell’Ottocento se per con tale espressione si intende indicare – certamente in modo estremamente sintetico e approssimativo – la compresenza presso singoli individui o presso gruppi persone di quattro elementi:

  1. un atteggiamento di apprezzamento positivo nei confronti della natura in quanto tale e l’inclinazione a preservarla o a preservarne alcuni aspetti specifici;
  2. un sistema di argomentazioni razionali destinato a legittimare questo atteggiamento;
  3. una serie di concreti obiettivi di azione, che possono anche organizzarsi in programmi complessi e di vasto respiro;
  4. la volontà e la capacità di organizzarsi collettivamente e pubblicamente per perseguire il raggiungimento di tali obiettivi.

Questi quattro elementi si combinano poi in misure e in forme anche radicalmente diverse tra loro, dando vita a correnti, a progetti e a organizzazioni estremamente variegate e in qualche caso anche contrapposte (Dryzek 2013), ma la differenza rispetto alla lunga fase storica precedente mi pare molto evidente.

Non ho finora trovato riflessioni sistematiche su questo soggetto, ma comparando varie storiografie nazionali mi pare di poter dire che il processo di formazione del moderno ambientalismo così definito si delinei a partire dalla metà degli anni Sessanta dell’Ottocento e raggiunga un effettivo respiro internazionale nel giro di appena un trentennio, sia nel senso dell’avvio di un dibattito culturale transnazionale, sia nel senso della progressiva penetrazione delle nuove idee e delle nuove pratiche in un gran numero di paesi.

Per cogliere meglio questo processo è opportuno dare uno sguardo ad alcune date.

Nonostante sia rimasta un’opera isolata e poco conosciuta tra i contemporanei è importante osservare come la prima opera capace di additare le responsabilità storiche dell’uomo nel degrado ambientale su scala planetaria – Man and Nature di George Perkins Marsh – viene pubblicata nel 1864 (Marsh 1864). Allo stesso anno, con l’istituzione del parco californiano di Yosemite, può essere fatto risalire l’inizio della storia delle aree protette e otto anni dopo viene istituito – sempre negli Stati Uniti – il primo parco nazionale del mondo (Runte 1997, 29-34).

Il 1865 è invece un anno importante soprattutto per l’Inghilterra.

Qui, al culmine di una lunga fase di creazione di società naturalistiche e di vari gruppi locali, la fondazione della Commons Preservation Society inaugura uno straordinario fermento associativo che porterà in pochi anni alla costituzione della Kyrle Society, primo nucleo del National Trust, dell’English Lake District Association, della National Smoke Abatement Society, della National Footpaths Preservation Society e della Selborn League for the Preservation of Birds, Plants and Pleasant Places e quindi della popolarissima Society for the Protection of Birds. Negli stessi anni si moltiplicano anche le leggi contro l’inquinamento, per il verde pubblico, per il libero accesso alle proprietà di campagna, per la difesa dei monumenti e per la difesa della fauna. Tra queste ultime spicca decisamente per importanza e per ispirazione ambientalista il precoce Sea Birds Preservation Act del 1869 (Mathis 2010).

L’ondata protezionista inglese deve essere considerata pionieristica: se essa si dispiega a tutti gli effetti nel corso degli anni Settanta (Mathis 2010, cap. IV), negli Stati Uniti e sul continente europeo un’analoga fioritura avviene solo a partire dai primi anni Novanta per raggiungere il suo culmine alla vigilia della Prima guerra mondiale. Negli Stati Uniti, ad esempio, entrambe le principali correnti di protezione della natura trovano un loro sbocco organizzativo soltanto nel corso degli anni Novanta: John Muir fonda la prima associazione preservazionista nazionale, il Sierra Club, nel 1892 mentre sia Gifford Pinchot che Theodore Roosevelt iniziano a sviluppare quello che verrà definito Progressive Conservation Movement soltanto verso la fine del decennio (Hays 1959; Merchant 2002, cap. VII).

La prima ondata dell’ambientalismo europeo

Sul continente europeo la tempistica è all’incirca la medesima.

Una delle prime associazioni protezionistiche è in effetti la svizzera Association pour la protection des plantes, fondata nel 1883 dal celebre botanico Henri Correvon che svolgerà fino alla morte nel 1939 un ruolo di rilievo nel protezionismo europeo, ma in realtà nei paesi europei gli anni Ottanta si contraddistinguono più per la diffusione delle idee protezioniste che per la nascita di associazioni o per la promulgazione di provvedimenti legislativi. Nel 1880 viene ad esempio pubblicato in Germania l’importante articolo di Ernst Rudorff intitolato “Sulla relazione della vita moderna con la natura” (Rudorff 1880) e in Svezia quello di Adolf Erik Nordenskiöld intitolato “Una proposta per istituire dei parchi nazionali nei paesi nordici” (Nordenskiöld 1880), come pure negli anni immediatamente successivi gli studiosi della Società botanica italiana prendono a più riprese posizione su questioni di protezione della flora (Pedrotti 1992), ma un vero e proprio movimento protezionistico moderno sorge in Europa soltanto a partire dagli anni Novanta. È in questi anni che sorgono infatti molte delle più importanti associazioni turistiche europee e su questa scia vengono costituite diverse associazioni nazionali per la protezione dei monumenti, dei paesaggi e della natura, come ad esempio l’italiana Pro montibus et silvis, la belga Societé nationale pour la protection des sites et des monuments, il tedesco Bund fur Vogelschutz (Piccioni 2014, capp. III e VIII).

Nei quindici anni successivi le iniziative si moltiplicano, si arricchiscono, si collegano tra loro anche a livello internazionale e giungono in molti casi a conseguire successi straordinariamente significativi finché la guerra non giunge a congelare un fermento apparentemente inarrestabile.

E’ possibile illustrare questo slancio che investe tutto i paesi occidentali con un semplice elenco di dati:

. Tra il 1904 e il 1914 vengono pubblicate una serie di opere che hanno a che fare con la protezione della natura in modo diverso, ma tutte collegate da una medesima ispirazione e spesso in relazione diretta l’una con l’altra. Tra queste vanno sicuramente ricordate Il culto moderno dei monumenti dell’austriaco Alois Riegl (1903), il fondamentale La minaccia ai monumenti naturali del tedesco Hugo Wilhelm Conwentz (1904), l’articolo dell’italiano Luigi Parpagliolo sulle esperienze di protezione del paesaggio nei vari paesi europei (1905), le opere francesi di Fernand Cros-Mayrevieille (1907) e di Jean Astié (1912) rispettivamente sulla protezione dei monumenti e dei paesaggi, l’importante saggio “Per la protezione della natura in Belgio” di Jean Massart (1912), l’ampio volume dell’italiano Nicola Falcone Il paesaggio italico e la sua difesa (1914). Accanto a queste opere tutte in qualche misura specialistica troviamo poi altre opere destinate al grande pubblico e di notevole successo, come quelle del fotografo naturalista tedesco Carl G. Schillings (1904, 1906, 1911, 1913).

. Ancora tra il 1901 e il 1910 si assiste sul continente europeo a una straordinaria fioritura di associazioni protezionistiche tra cui si segnalano in particolare quelle di lingua tedesca che si rifanno in prevalenza alla lezione di Erns Rudorff e conoscono un grande successo mettendo al centro il complesso concetto di Heimatschutz, cioè di salvaguardia, preservazione della terra natia.

. Da un lato tutto questo fermento si traduce in una serie di importanti leggi, a partire dalla legge prussiana del 1902 contro lo sfiguramento delle città e del paesaggio fino al National Trust Act britannico del 1907, passando per la legge italiana per la difesa della Pineta di Ravenna del 1905 e soprattutto per quelle austriaca del 1903 sulle bellezze naturali e francese del 1906 sui siti naturali di interesse artistico; da un altro lato esso si traduce nella creazione dei primi uffici pubblici nazionali per la protezione della natura, come è il caso nel 1906 dell’Ente di Stato prussiano per la conservazione dei monumenti naturali (Staatliche Stelle für Naturdenkmalpflege in Preußen) o nel 1916 per il National Park Service statunitense.

. Il piano nazionale non esaurisce tuttavia il panorama protezionistico della belle époque. Nel 1900 si tiene infatti a Londra la prima conferenza internazionale sulla protezione della natura, dedicata alle misure per salvaguardare gli animali selvatici africani; a questo incontro ne faranno seguito altri due, uno nel 1909 a Parigi e uno nel 1913 a Berna, con una partecipazione sempre più ampia e con obiettivi più generali; ancora nel 1909 Theodore Roosevelt riesce a inserire nell’ordine del giorno della conferenza internazionale per la pace dell’Aia un punto riguardante la conservazione delle ricchezze naturali. Nello stesso periodo – e anche questo è un aspetto da non trascurare – la tematica della protezione della natura entra d’autorità nei congressi scientifici nazionali e internazionali, da quello di zoologia di Berlino del 1901 a quello di botanica di Bruxelles del 1910 (Holdgate 1999, McCormick 1995, Wöbse 2012).

In estrema sintesi possiamo insomma dire che il protezionismo moderno si afferma in Gran Bretagna dagli anni Settanta dell’Ottocento e si diffonde negli altri paesi di cultura europea a partire dagli ultimi anni del secolo. Dopo una straordinaria fioritura internazionale di inizio Novecento, il protezionismo subisce invece una battuta di arresto a seguito della Prima guerra mondiale e riprenderà pieno vigore soltanto dopo la fine della Seconda. Dopo il 1945 infatti il dialogo e la cooperazione ambientale tra stati e tra associazioni riprendono, ben al di là dei livelli raggiunti nei primi anni del secolo (Wöbse 2012). Una svolta è costituita in particolare dalla creazione, nel 1948, dell’Unione internazionale per la protezione della natura (Uipn, poi Uicn) anche se proprio il dibattito che si svolge nel 1948 a Fontainebleau in occasione della nascita dell’Uipn (Holdgate 1999) mostra chiaramente come al centro della scena stia ora un’impostazione nuova, focalizzata anzitutto su preoccupazioni di tipo ecologico o di conservazione delle risorse naturali, mentre la sollecitudine per il paesaggio e per i monumenti naturali – che era stata centrale nella prima fase – è relegata ora sullo sfondo o messa consapevolmente ai margini.

L’emergere e l’imporsi di questa nuova impostazione, con la quale l’ambientalismo attuale in gran parte si identifica, pone il problema di individuare e spiegare meglio i caratteri distintivi del movimento che si sviluppa tra la metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Un ambientalismo, come si è detto, sin dalle origini ricco di correnti già molto diverse tra loro – basti pensare alla dicotomia statunitense tra conservazionisti e preservazionisti (Hays 1959) – ma quasi tutte influenzate da una comune impostazione patrimoniale/nazionale. Il che non vuol dire che tale ambientalismo manchi di visioni e di progetti dalle solide basi scientifico-naturalistiche: le iniziative e le pubblicazioni delle dei sodalizi scientifici e di studiosi come Jean Massart e Hugo Conwentz ne sono un buon esempio e se in genere la motivazione “ecologica” per la protezione della natura è in questi decenni intimamente collegata con quella “letteraria” e “patriottica” e in posizione per lo più subordinata si possono però registrare interessanti eccezioni nazionali come quella belga (De Bont e Heynickx 2012).

Cosa intendiamo, in ogni caso, quando parliamo di impostazione patrimoniale/nazionale?

Per spiegare questo concetto è anzitutto necessario dare uno sguardo alle connessioni tra nazionalismo, nation building e patrimonio.

Il processo di nation building, i beni patrimoniali e la natura

È dalla metà degli anni Settanta del Novecento che storici, geografi, antropologi e sociologi si interessano al processo di nation building e del ruolo svolto al suo interno dalla cultura nazionalista. Tra il 1976 e il 1991, in particolare, gli studi pionieristici di autori come Eugen Weber (1976), Benedict Anderson (1982), Orvar Löfgren (1989) e Eric Hobsbawm (1990) hanno contribuito a fissare le coordinate di un dibattito storiografico che è diventato estremamente ampio e articolato.

Ciò che gran parte di questi studiosi ha sottolineato è che la creazione di stati moderni, non più basati sulle forme di consenso e di legittimazione tipiche di quelli di ancien règime, necessitava di un complesso lavoro di ricostituzione del corpo sociale. Tale ricostituzione, anzitutto simbolica, ha avuto nell’idea di nazione uno degli strumenti decisivi. Creare una comunità nazionale, di persone che si ritenessero cioè prima di ogni altra cosa cittadini francesi o tedeschi o statunitensi è diventato un obiettivo cruciale e condiviso per tutte le borghesie occidentali della prima metà dell’Ottocento, sia che esse appartenessero a stati già esistenti, sia che aspirassero alla creazione di nuovi stati.

Per raggiungere tale obiettivo sono state adottate pressoché ovunque alcune strategie standard. La comunità nazionale è stata creata anzitutto mediante l’imposizione di un’identità condivisa e questa identità è stata a sua volta costruita determinando i contenuti di un patrimonio nazionale e diffondendone il culto. Pur con percorsi e contenuti volta a volta diversi, nel corso dell’Ottocento l’opera di “invenzione” (Hobsbawm e Ranger 1983) di un’eredità comune, di un patrimonio nazionale, è stata comune a tutti i paesi di cultura europea. Si è giunti anzi al caratteristico paradosso per cui il processo di formazione di identità nazionali uniche, irripetibili e pensate per lo più come superiori a tutte le altre è stato uno dei processi più diffusi e standardizzati della storia occidentale.

Attraverso canali elitari come quello della stampa e della comunicazione politica ma anche e soprattutto attraverso canali destinati all’educazione dell’intero corpo sociale come la leva militare e la scuola è stato quindi proposto e successivamente imposto un po’ dappertutto un insieme di elementi di identificazione nazionale che Orvar Löfgren (1989) ha sintetizzato in un noto elenco che comprende:

. una storia che stabilisca la continuità con i grandi antenati

. una serie di eroi prototipi di virtù nazionali

. una lingua

. dei monumenti culturali

. un folclore

. dei luoghi sacri

. un paesaggio tipico

. una mentalità particolare

. delle rappresentazioni ufficiali (inno e bandiera)

. delle identificazioni pittoresche (costume, specialità culinarie o animale totemico)

Questa necessità di fissare i contenuti del patrimonio nazionale, di ciò insomma che gli antenati o i fondatori della nazione hanno lasciato, oppure di ciò che la storia ha sedimentato sul suolo patrio, oppure ancora di ciò attraverso cui si è espresso il genio nazionale e in cui si sono via via identificate generazioni di connazionali, ha portato presto a prendere in considerazione la necessità di preservare gli elementi costitutivi del patrimonio stesso, primi fra tutti i monumenti e gli oggetti d’arte. È ben noto peraltro come il primo paese ad adottare una politica organica e consapevole di conservazione del patrimonio artistico e monumentale sia stata la Francia rivoluzionaria, impegnata al contempo a fissare i contorni di una nuova identità nazionale e a impedire le devastazioni delle opere d’arte commissionate nei secoli da re, aristocratici e clero (Poulot 1997). Il pieno dispiegamento di queste politiche di tutela non diviene tuttavia evidente se non nella seconda metà dell’Ottocento, nel momento in cui i paesi occidentali stanno completando il processo di nation building e di istituzionalizzazione dell’ideologia nazionalista.

Secondo alcuni studiosi infatti il nazionalismo si è imposto nel corso dell’Ottocento, sia in Europa che nei territori coloniali, attraversando in ciascun paese tre fasi: la prima di tipo culturale, di consolidamento di idee e progetti; la seconda di tipo politico, con la nascita di minoranze attive impegnate direttamente nel promuovere i progetti nazionali; la terza di tipo istituzionale, con la conquista di un consenso di massa e il consolidamento di strutture volte a sostenere il processo di nation building (Hroch 1985). Queste fasi si sono succedute in tempi e con modalità diverse a seconda dei vari paesi e delle varie aree, ma la seconda metà dell’Ottocento è stata sicuramente l’epoca in cui gran parte dei grandi stati occidentali hanno sperimentato l’istituzionalizzazione del nazionalismo fino a farne uno strumento cruciale per sostenere dapprima l’avventura imperialista e poi quella bellica della Prima guerra mondiale.

Nation building e primo movimento ambientalista in Europa

Questa coincidenza temporale tra l’emergere di preoccupazioni di tipo moderno verso la natura e la fase di maggior slancio e successo del processo di nation building influenza profondamente l’apparato concettuale, i valori, gli obiettivi e le stesse realizzazioni del primo ambientalismo nei paesi occidentali e ne determina la fisionomia per un lungo periodo (Walter 2004, cap. VI; Lekan 2004).

Le crescenti domande di protezione ambientale (ad eccezione di quelle, pur importanti, riguardanti la riduzione dell’inquinamento e la protezione degli animali) vengono infatti declinate in questi decenni in senso prevalentemente patrimoniale e nazionale e questa impostazione finisce con l’influire anche sul linguaggio e sulle posizioni di quei naturalisti che partono da esigenze già in qualche modo ecologiche. La protezione della natura viene quindi intesa anzitutto come protezione di “oggetti” – anche vasti e complessi come i paesaggi – che ne appaiono meritevoli in quanto parte costitutiva del patrimonio della nazione e in quanto fonte di identificazione e di ispirazione per il popolo. Di conseguenza, il principale obiettivo che gran parte delle associazioni, dei movimenti e dei singoli protezionisti si pongono in questa fase è quello di riuscire a fare in modo che la natura e gli oggetti di natura entrino a far parte di quello che si potrebbe definire l’elenco dei beni patrimoniali nazionali, sia dal punto di vista concettuale, sia dal punto di vista istituzionale che infine da quello della percezione popolare.

Questo a me sembra l’aspetto più caratteristico della prima fase del movimento ambientalista e ciò ha fatto anche in modo che le prime leggi di protezione della natura – gran parte delle quali promulgate tra il 1902 e il 1911 con forti legami ai precedenti provvedimenti in difesa del patrimonio artistico e monumentale – siano soprattutto rivolte alle bellezze naturali e ai monumenti naturali considerati come elementi fondamentali dell’identità e di conseguenza anche del patrimonio nazionale. La pionieristica legge francese, approvata nel 1906 dopo anni di intenso dibattito, non protegge infatti il paesaggio o i monumenti naturali in quanto tali, ma solo se essi sono caratterizzati da “qualità artistica”.

Un’altra caratteristica chiave della visione patrimoniale e nazionale del primo protezionismo è la centralità del paesaggio.

Negli ultimi decenni un gran numero di studi ha sottolineato l’importanza del paesaggio e del concetto di paesaggio nella definizione delle identità nazionali. Si sono confrontati con l’argomento storici, geografi, antropologi e sociologi dando vita a opere spesso di grande rilievo come ad esempio quelle di Simon Schama (1995), Kenneth Olwig (2002), Christopher Ely (2002), Thomas Lekan (2004) e François Walter (2004). Anche quando non al corrente di questo dibattito, gli studiosi del fenomeno nazionalista appaiono spesso ben consapevoli di come il paesaggio, per quanto un po’ defilato, fosse elevato al rango di uno degli elementi costitutivi del patrimonio nazionale (Thiesse 2001, cap. IX). Ciò fa in modo che una parte consistente dei primi provvedimenti legislativi di protezione ambientale riguardino proprio i paesaggi, intesi soprattutto come luoghi sacri alla memoria nazionale, come una delle espressioni cruciali e distintive dell’eccezionalità del paese o anche come sintesi visiva dello spirito e della storia di un popolo.

Accanto alla protezione del paesaggio, un’altra tematica è stata al centro del processo legislativo di inizio secolo: la protezione di vasti territorio per mezzo di parchi nazionali. La creazione delle prime aree protette, negli Stati Uniti ma soprattutto in Europa, va infatti compresa anzitutto nel contesto della cultura nazionalista e del nation building. Già da tempo gli storici hanno messo in evidenza come alla base dell’istituzione dei parchi americani ci siano state le pressioni della nascente industria turistica e dei trasporti ma soprattutto la convinzione che i grandiosi, spettacolari paesaggi del West potessero costituire quel patrimonio monumentale nazionale ereditato dal passato che il popolo statunitense – a differenza di quelli europei – non poteva avere.

Ha scritto Alfred Runte (1997, 8 e 12):

When national parks were first established, protection of the environment as now defined was the last preservationists’ aim. Rather America’s incentive for the national park idea lay in the persistence of a painfully felt desire for time-honored traditions in the United States. […] In the West the United States had one final opportunity to protect a truly convincing semblance of historical continuity through landscape.

Pur con qualche decennio di ritardo, in Europa le cose sono andate nello stesso modo. Tom Mels ha studiato la genesi dei primi parchi nazionali europei, quelli creati in Svezia nel 1909 e ha potuto osservare (Mels 1999, 70)1:

Whereas in the Swedish debate several alternatives to the term national park were considered, neither nature park, state park, protected park, nor protected land would clearly enough reflect the underlying aim of conservation. Obviously, the term national park had already enjoyed some international adoption due to the American example. But more importantly, it suggested ‘that the aim of park establishment is … to create an object for patriotism’ (Prop. 1909, 102).

Le parole del legislatore svedese non sono peraltro diverse da quelle del grande botanico italiano Romualdo Pirotta, che nel 1917, dopo aver illustrato le motivazioni ecologiche che stanno alla base della proposta di un parco nazionale in Italia conclude (1917, 29-30):

Occorre che tutti coloro che sentono l’incanto della bellezza della natura contribuiscano […] alla conquista dei mezzi per poter preservare e conservare, proteggendolo anche con norme legislative, come fortunatamente si è potuto fare per i monumenti storici e di arte, il bellissimo monumento fra i pochi che ancora rimangono intatti ad attestare delle grandi bellezze naturali, del paesaggio della flora e della fauna nostre. Concorrere a quest’opera di salvataggio, di protezione, di conservazione del patrimonio nazionale di bellezza, di arte, di scienza, è fare opera civile, opera patriottica, opera degna del grande paese che è stato all’avanguardia della civiltà del mondo, che ambisce di ritornarvi e che, se vuole, vi tornerà.

Un altro elemento “sistemico” di questa prima fase del protezionismo è costituito da una circolazione di informazioni, di idee e di stimoli capace molto spesso di travalicare i confini nazionali. La simultaneità e l’ampia diffusione dell’associazionismo protezionistico, delle proposte di nuove aree protette e delle legislazioni per la difesa dei paesaggi e dei monumenti naturali rispondono infatti a logiche che sono anzitutto nazionali ma che sono anche il frutto di studi comparativi, di scambi di informazioni a livello internazionale, di incontri tra funzionari e studiosi di nazioni diverse.  Gran parte delle pubblicazioni europee riguardanti la protezione del paesaggio e dei monumenti naturali contengono capitoli – o quantomeno ampie sezioni – dedicati all’illustrazione delle correnti culturali e dei provvedimenti legislativi stranieri, come nel caso del pionieristico articolo pubblicato dal funzionario italiano Luigi Parpagliolo nel 1905 (Parpagliolo 1905) o meglio ancora dell’ampio volume dell’avvocato Antonio Nicola Falcone del 1914 (Falcone 1914).

Non è un caso, del resto, che in questa fase forse ancor più che nei decenni successivi il protezionismo europeo abbia dei personaggi unanimemente riconosciuti come leaders internazionali, tra i quali sicuramente gli svizzeri Henri Correvon e Paul Sarasin, il belga Jean Massart ma soprattutto il tedesco Hugo Wilhelm Conwentz che abbiamo già visto autore di un’opera decisiva nel 1904 tradotta in inglese cinque anni dopo dalla Cambridge University Press e considerata come una pietra miliare del giovane protezionismo europeo (Conwentz 1904)2.

È opportuno infine osservare il carattere squisitamente nazional-patrimoniale del movimento più organico, consapevole e influente, meglio organizzato e meglio studiato degli anni che precedono la Prima guerra mondiale: quello rappresentato dagli Heimatschutzbund dei paesi di lingua tedesca (Rollins 1997). Il movimento Heimatschutz nasce in Germania sulla base di elaborazioni risalenti all’inizio degli anni Ottanta quando – come si è già accennato – Ernst Rudorff aveva pubblicato il celebre articolo “Sulla relazione della vita moderna con la natura” ma si costituisce in lega nazionale nel 1904 ottenendo non solo un grande successo in patria (30.000 iscritti nel 1914) ma anche all’estero. Poiché infatti l’Heimatschutzbund nasce in un momento di grande fervore protezionistico sia in Europa che negli Stati Uniti e può giovarsi sia pur indirettamente dell’autorevolezza internazionale di Hugo Conwentz, la notizia della sua costituzione circola rapidamente in tutti i paesi europei dando vita ad associazioni analoghe in Austria e in Svizzera e a parziali tentativi di imitazione anche in altri paesi.

Il movimento Heimatschutz non è in realtà nazionalista in senso stretto in quanto la sua scala privilegiata d’intervento è la scala regionale o locale. L’Heimat che fa da base all’ideologia di Rudorff e dei suoi seguaci è infatti una ‘patria’ locale, che non corrisponde alla Vaterland nazionale, anche se le due realtà non si escludono a vicenda e – mediante il Bund – il movimento è organizzato su scala nazionale. Ciò che però rende importante ai nostri occhi un caso influente come il movimento Heimatschutz è la sua chiara caratterizzazione patrimoniale. Il suo obiettivo è infatti quello di “proteggere l’unicità, naturale e storica, della patria tedesca” (Rollins 1996, 95). In questo senso esso rappresenta in modo esemplare le tendenze culturali prevalenti nel protezionismo europeo dei decenni a cavallo tra i due secoli, tanto più che molta della sua ispirazione deriva dall’insegnamento di John Ruskin e William Morris (Rollins 1997, 58). Il carattere fondativo del movimento Heimatschutz sta proprio nell’avere come obiettivi di tutela al tempo stesso il patrimonio storico-urbanistico, il paesaggio, i monumenti naturali e il retaggio linguistico-folklorico, tutti elementi intesi come pilastri dell’identità locale e nazionale minacciati dalla modernizzazione.

Oltre ad essere un movimento teoricamente consapevole, numeroso, ben organizzato e visibile anche oltre i confini nazionali, l’Heimatschutz ha infine – a differenza del pur forte movimento inglese – un solido rapporto con le istituzioni pubbliche anche prima della fondazione del Bund tanto da riuscire già nel 1902 a imporre in Prussia una legge contro lo sfiguramento delle città e del paesaggio che verrà rivista nel 1907 e, sempre nel 1907, imitata da un’analoga legge inglese (Rollins 1997, 66).

Una cartina di tornasole: i cataloghi della natura 1905-1925

L’ampio spettro di oggetti di tutela e il rapporto con le istituzioni che caratterizza il movimento Heimatschutz è ben riflesso anche in uno strumento di tutela sperimentato a partire dal 1906 dalla Staatliche Stelle für Naturdenkmalpflege ma che negli anni seguenti vede una discreta diffusione anche in altri paesi europei: il catalogo del patrimonio paesaggistico e naturalistico. Ciò che sappiamo di questo strumento (Piccioni 2012) ci consente di tentare una prima valutazione di quanto gli elementi del primo protezionismo europeo finora individuati siano effettivamente presenti alla coscienza dei protagonisti e della coerenza con cui essi vengono applicati.

Il catalogo viene previsto da diverse leggi per la protezione della natura di inizio secolo e ricalca un analogo strumento previsto per la tutela dei monumenti e delle opere d’arte nel corso dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento.

Dopo alcuni esperimenti nella Repubblica di Venezia (Emiliani 1978), il concetto di catalogo si afferma soprattutto durante la Rivoluzione francese essenzialmente con due finalità, una di tipo conoscitivo e una di tipo conservativo. Grazie a esso le istituzioni di uno stato si dotano infatti di una conoscenza dettagliata dei beni storico-artistici del Paese in modo da poterne sorvegliare la consistenza e l’integrità e possono al contempo vincolare le trasformazioni e gli spostamenti di ciascun bene mediante la notifica del suo carattere di interesse pubblico al proprietario. Lo strumento trova  applicazione sistematica soltanto a partire dal 1810 (Audrerie 1997, 17; Chastel 1986, 418-19) quando il ministro francese dell’Interno invita i prefetti a redigere l’inventario generale dei castelli, delle abbazie e delle sepolture presenti nei propri dipartimenti, inventario che verrà ripreso e reso permanente mediante aggiornamenti continui negli anni immediatamente successivi. A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento la questione della difesa del patrimonio storico entra nelle agende parlamentari di tutti i paesi occidentali, e dalla fine degli anni Novanta sono molti quelli che si dotano di leggi spesso ispirate a quelle francesi, compresa l’Italia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Una notevole legittimazione teorica a questo movimento viene tra l’altro data nel 1903 dall’importante saggio del critico e storico dell’arte austriaco Alois Riegl intitolato Il culto moderno dei monumenti (Riegl 1903).

Quando, sempre all’inizio del Novecento, inizia a porsi il problema di come difendere i paesaggi e i monumenti naturali minacciati molti rivolgono il loro sguardo allo strumento del catalogo, tanto più che proprio in questi anni associazioni turistiche e case editrici di vari paesi iniziano a svolgere un’informale ma importante attività di inventariazione del patrimonio storico-artistico e paesaggistico nazionale i cui risultati confluiscono in pubblicazioni popolari come le guide illustrate, le riviste delle associazioni stesse e collane editoriali rese più accattivanti dalla recente possibilità di ospitare fotografie. Non è un caso, quindi, che il primo intervento organico sulla stampa nazionale italiana in difesa del paesaggio si concluda con un appello al Touring Club Italiano affinché si realizzi un “catalogo dei paesaggi essenziali al carattere nazionale, bellissimi e intangibili” (Ojetti 1904).

Anche la tendenza a inserire nelle prime proposte di legge protezioniste il meccanismo del catalogo come fondamento della tutela degli oggetti di natura è dunque una tendenza condivisa da diversi paesi. Il catalogo è presente anzitutto nella legge francese del 1906. Essa prevede la costituzione di una Commissione dei siti e dei monumenti naturali a carattere artistico incaricata di redigere una lista delle proprietà fondiarie la cui conservazione rivesta un interesse generale dal punto di vista artistico o pittoresco. I proprietari di tali immobili verranno poi invitati a non distruggere né a modificare lo stato dei luoghi o il loro aspetto senza autorizzazione. Nel 1905, in previsione dell’approvazione della legge,  il Comité des sites et monuments pittoresques del Touring Club Français promuove un censimento dei siti del tutto sbilanciato sul versante estetico e, in parte, su quello della memoria, nazionale e locale. La struttura della scheda informativa, piuttosto semplice, è saldamente incentrata sul concetto di “pittoresco” e prevede soltanto due gruppi di beni: i siti e i monumenti pittoreschi. I siti, tra cui vanno implicitamente compresi i paesaggi, sono a loro volta classificati per ordine di importanza su tre livelli mentre per i monumenti si predispone una breve lista esemplificativa che comprende manufatti umani, monumenti naturali ed edifici di importanza storica o mitologica. Questo censimento rappresenta dunque al meglio la sensibilità estetico-patriottica, mettendo del tutto ai margini ogni preoccupazione di altro genere.

Nel medesimo anno la neonata Staatliche Stelle für Naturdenkmalpflege in Preußen diretta da Hugo Conwentz lancia un dettagliato questionario volto a stabilire l’inventario dei monumenti naturali della Prussia (Conwentz 1914) ma con un livello di complessità che riflette da un lato il rigore e l’ampiezza di interessi dello stesso Conwentz e da un altro lato l’interazione caratteristicamente tedesca tra esigenze naturalistiche ed esigenze del movimento Heimatschutz. La scheda prussiana è incentrata infatti sul concetto di “monumento naturale”, che viene  definito – a differenza che in Francia – senza riferimenti diretti alla bellezza o alla memoria nazionale. Conseguentemente tali monumenti vengono suddivisi in quattro categorie, una generale e una per ciascun regno naturale (il suolo, la vegetazione, la fauna) con una sensibilità estremamente moderna per gli aspetti ecologici. Tra i monumenti del regno vegetale, ad esempio, figurano le “associazioni tipiche” o i “limiti geografici e specie notevoli” e tra quelli del regno animale compaiono i “luoghi abitati da uccelli rari” oppure i “limiti di distribuzione di animali notevoli”. L’aspetto estetico non è comunque assente in quanto una delle due specificazioni dei “monumenti naturali in genere” è costituita dai “punti di vista notevoli”.

La scheda diffusa nel 1908 dai ministeri ungheresi di agricoltura, degli interni e dell’istruzione  si situa in una posizione mediana tra quella francese e quella prussiana. Già la definizione che viene data per individuare i “monumenti naturali” è di rimarchevole ampiezza, comprendendo in sé tutti gli aspetti via via sottolineati dalle diverse anime del movimento protezionista europeo di inizio secolo: “Tutte quelle formazioni del territorio alle quali si riferiscono ricordi storici o quelle di notevole interesse dal punto di vista scientifico o estetico, o che, per una qualunque ragione, rappresentano una rarità”. Ne consegue una scheda costituita da due categorie di monumenti naturali, quelli di interesse storico e quelli di interesse scientifico ed estetico. Se la prima categoria comprende oggetti che ricordano abbastanza quelli francesi, la seconda è articolata in nove esempi che ricordano al contrario piuttosto da vicino la scheda prussiana in quanto soltanto l’ultimo è di interesse estetico e sono i soliti “punti di vista notevoli”.

Arrivata infine soltanto nel 1921, la proposta italiana di censimento lanciata dalla Direzione per le antichità e belle arti del Ministero della pubblica istruzione è – come quella francese – finalizzata a favorire l’applicazione della legge sulle bellezze naturali in discussione in parlamento e che verrà approvata l’anno seguente. La scheda distribuita alle strutture territoriali del Ministero, alle associazioni e ai singoli che ne facciano richiesta è suddivisa in sei categorie, le prime tre delle quali sono quelle strategiche in quanto raggruppano gli oggetti al centro del progetto di legge in discussione, la quarta comprende giardini e parchi già tutelati dalla legge 688 del 1912 e i boschi in generale mentre le ultime due sono aggiunte solo “a scopo di studio e per avere il materiale di iniziative future”. Le sei categorie del catalogo italiano ci interessano in quanto costituiscono di fatto un tentativo di riassumere la discussione del protezionismo europeo dei primi venti anni del secolo e di dare a essa uno sbocco normativo sul piano nazionale e vale la pena di esaminarle in dettaglio.

La prima categoria è quella dei monumenti naturali veri e propri ma intesi prevalentemente in senso estetico, più precisamente definiti come le “cose che presentano un notevole interesse a causa della loro bellezza naturale”. Si tratta di singoli fenomeni geologici, orografici, vegetali, idrologici di particolare bellezza cui si aggiungono le categorie antropiche delle “rovine” e dei “dolmen” e quella naturalistica, spuria rispetto al resto, delle “piante rare”. La seconda categoria è quella dei singoli oggetti che coniugano caratteristiche estetiche e memoria nazionale, definiti come “cose che presentano un notevole interesse a causa della loro bellezza naturale e della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria”. La terza e ultima categoria di bellezze naturali effettivamente tutelate dalla legge in corso di approvazione è quella rigorosamente visuale che comprende punti di osservazione, panorami e siti pittoreschi. Segue una categoria composita costituita da oggetti effettivamente non coperti dalla legge in discussione: da un lato i boschi in quanto tali e da un altro lato ville, parchi e giardini anche se non di particolare valore estetico purché siano opera di artisti o ricordino eventi o personaggi notevoli. Le due categorie “residuali”, per le quali cioè non è per il momento ancora prevista la protezione, sono quella degli animali rari o minacciati e quella del patrimonio folklorico (“abbigliamenti tradizionali, usi, costumi, riti, che danno al paesaggio speciali caratteristiche”). La posizione sia pur provvisoriamente marginale di queste ultime categorie è di grande interesse perché esse si situano in posizione estrema: la prima dal lato della piena naturalità, che non implica quasi alcun elemento visuale, letterario o patrimoniale/nazionale, la seconda dal lato della piena culturalità, che non implica al contrario quasi alcun elemento naturale o paesaggistico.

Se già le categorie del catalogo italiano restituiscono di per se stesse con discreta fedeltà la scala di priorità del primo movimento ambientalista europeo, le risposte al sondaggio ministeriale svolto tra il 1921 e il 1926 confermano come queste priorità siano largamente condivise dalla base del movimento. Nei cinque anni in cui si svolge il censimento 244 soggetti, individuali o associativi, di 165 località restituiscono al ministero almeno 3.400 schede (va tenuto presente che la documentazione conservata all’Archivio centrale dello Stato3 è quasi certamente lacunosa).

La categoria preferita dagli osservatori è di gran lunga la prima, quella che comprende in sostanza i monumenti naturali veri e propri e le testimonianze “morte” del passato storico come le rovine o i dolmen: qui è concentrato il 42,4% delle segnalazioni. Seguono ben distaccate la categoria più estetica, la terza, quella dei paesaggi e dei siti pittoreschi, con il 25,9%, e la quarta, quella miscellanea che comprende ville, giardini, parchi e boschi con il 21,3%. Come sappiamo, queste tre categorie sono, assieme alla seconda, le più importanti per il censimento in quanto coprono gli oggetti tutelati dalle leggi 688 del 1912 e 778 del 1922. È significativo però che la seconda categoria, quella degli oggetti che coniugano bellezza naturale e storia patria, raccolga appena 79 segnalazioni, pari al 2,3%, il che indica una minore sensibilità del protezionismo italiano agli aspetti strettamente identitari e di memoria storica particolarmente cari ai movimenti di tipo Heimatschutz. Le categorie infine “residuali”, quelle riguardanti cioè le specie rare e i fenomeni folkorici, raccolgono appena il 2 e il 6% delle segnalazioni confermando il minore interesse del movimento italiano per gli aspetti più schiettamente scientifici della conservazione e, anche in questo caso, un taglio meno “vernacolare” rispetto agli Heimatschutz dei paesi di lingua tedesca.

Conclusione

La vicenda dei cataloghi europei del patrimonio naturale e paesaggistico – ancora in gran parte da approfondire, soprattutto in ottica comparativa – esemplifica in modo plastico la profonda influenza reciproca di nazionalismo e processo di nation building da un lato, con tutto il loro portato letterario, estetico e visuale, e primo emergere di una sensibilità e di una cultura ambientaliste in Europa dall’altro. Il parziale appannarsi dell’ambientalismo europeo negli anni della crisi europea e il suo riemergere nel secondo dopoguerra in un quadro profondamente mutato dal punto di vista culturale – crisi del nazionalismo, cooperazione internazionale, maggiore attenzione per la rarefazione delle risorse e per i fenomeni di degrado fisico dell’ambiente, influenza crescente delle scienze naturali – porta a un progressivo distacco delle tematiche ambientali da quelle paesaggistiche e patrimoniali, con una notevole perdita di peso di queste ultime. Restano, nel corso del tempo, dei nessi significativi – incarnati in Italia, ad esempio, dall’operato di Italia Nostra – e di tanto in tanto il dialogo tra queste diverse anime dell’ambientalismo moderno ha occasione di rinsaldarsi attorno a temi e vertenze specifiche. Ciò che sicuramente non si ripresenta più è il peculiare impasto di sensibilità verso la natura, di costruzione dell’identità nazionale e di gusto estetico/letterario che ha caratterizzato l’emergere dell’ambientalismo moderno in Europa tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del secolo seguente.

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Biografia

Luigi Piccioni (Avezzano 1959) si è laureato in Lettere alla “Sapienza” di Roma e si è successivamente perfezionato all’Istituto Croce di Napoli e alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Insegna attualmente Storia economica presso l’Università della Calabria ed è vicepresidente della Società Italiana di Storia della Fauna “Giuseppe Altobello”. Tra le sue opere più recenti Primo di cordata. Renzo Videsott dal sesto grado alla protezione della natura (Trento 2010), Fourty Years Later. The Reception of the Limits to Growth in Italy 1971-1974 (Brescia 2012), la seconda edizione di Il volto amato della Patria. Il primo movimento italiano per la tutela della natura (Trento 2014) e la curatela dei volumi Ninety Years of the Abruzzo National Park 1922-2012 (Newcastle upon Tyne 2013) e Giorgio Nebbia, Scritti di storia dell’ambiente e dell’ambientalismo 1970-2013 (Brescia 2014).

  1. Una recente analisi comparata sui rapporti tra istituzione di aree protette e costruzione dell’identità nazionale è in Blanc 2014.  []
  2. Su Conwentz si veda Milnik 2006; un bilancio storiografico dell’influenza dell’opera nel contesto europeo è in F. Walter 2004, 258-260. []
  3. Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione. Antichità e Belle Arti, Div. XIII (1924-26), b. 29, fascicolo “Inchiesta sulle bellezze naturali. Elenchi trasmessi dalle Soprintendenze”. []