Nicola Del Corno (cur.) Carlo Rosselli: gli anni della formazione e Milano Milano, Biblion Edizioni, 2010

Fiorella Imprenti

Copertina ImprentiIl volume, Carlo Rosselli: gli anni della formazione e Milano, curato da Nicola Del Corno per Biblion Edizioni (2010), è il risultato di una giornata di studi tenutasi presso l’Università Bocconi nel settembre 2007. Si tratta quindi di una serie di saggi che offrono nell’insieme un’ampia analisi, ricca di spunti interpretativi e di originali proposte di ricerca, sugli anni milanesi di Carlo Rosselli, tra 1923 e 1926.

Un’esperienza breve ma intensa, quella vissuta da Rosselli nel capoluogo lombardo, sia dal punto di vista relazionale ed umano, sia da quello formativo; un percorso che si rintraccia nel rapporto con altri giovani intellettuali – alcuni dei quali avrebbero preso in seguito strade molto diverse dalla sua –, nello scambio con il mondo accademico, con studiosi e docenti, nella frequentazione di riviste e luoghi di cultura, nei viaggi londinesi per guardare da vicino il modello laburista, nel confronto con i grandi nomi del socialismo riformista, nello studio assiduo di un intellettuale ancora in bilico tra l’idea di una carriera universitaria e la definitiva scelta dell’impegno politico e antifascista.

È Nicola Del Corno, nel suo intervento, a seguire le mosse del ventiquattrenne Carlo Rosselli che arrivò in una Milano “chiacchierona e vuota”, dopo aver ottenuto un posto come assistente di Luigi Einaudi alla Bocconi, grazie all’interessamento di Gaetano Salvemini e forte delle sue due lauree in Scienze sociali e in Giurisprudenza. Il suo primo giudizio negativo sulla città, lasciò in breve il posto alla convinzione di aver trovato, nel capoluogo lombardo, il centro propulsore per la rinascita del socialismo italiano, impegno cui dedicò tutte le sue forze.

L’esperienza universitaria di Rosselli, da allievo a docente, è analizzata da Edoardo Borruso, che nel suo saggio segue le prime prove del giovane studioso di economia, dal confronto con le teorie dei suoi diretti maestri, riconoscibili in Salvemini, Einaudi e Attilio Cabiati, fino all’ingresso nel dibattito nazionale. Rosselli si cimentò sulla questione monetaria, grande volano delle politiche economiche del primo dopoguerra, recependo da una parte le critiche di Keynes al laissez faire, ma rifiutando di assegnare un ruolo dominante alla politica, soprattutto in Italia, negli anni in cui si consolidava il regime fascista. Il percorso accademico di Rosselli si sviluppò in modo intensivo per un periodo limitato di anni, tra il 1923 e il 1926, dall’assistentato milanese alla Bocconi alla cattedra di economia politica all’Istituto superiore di studi economici di Genova. Qui seppe incidere da vero maestro sul pensiero e sull’azione di un gruppo di giovani che “andavano all’esame con la dogmatica liberale dell’economia di mercato preparandosi sui testi dell’economia liberale classica (Ricardo e Marshall) ma poi scendevano in piazza, si dibattevano contro lo statalismo fascista, si impegnavano in avventure giornalistiche e nell’attivismo politico, andavano in carcere, al confino, nelle tetre compagnie di disciplina, per l’ispirazione che veniva dalla fede, e dal senso della dignità e della coscienza dell’individuo, che la sua tranquilla e pacata esposizione didattica imprimeva in ognuno di noi”.

Il grosso degli studi economici di Rosselli si incentrò sulla teoria economica dell’azione sindacale, che scelse già come materia di laurea. È su questi temi che si sofferma l’analisi di Giuseppe Berta, che nel suo saggio prende in considerazione in particolare quattro articoli scritti per “La Riforma sociale” di Einaudi tra il 1924 e il 1925. L’obiettivo dichiarato di Rosselli era quello di indagare nel concreto le possibilità riformatrici del sistema da parte del sindacato operaio, inteso come forza agente sul mercato. La tesi che sostenne fu quella dell’impossibilità, per il movimento sindacale, di sottrarsi alle logiche del capitalismo: se ampi margini di azione e di miglioramento erano stati accordati all’associazionismo operaio al suo nascere, in virtù dei larghi profitti delle classi capitalistiche, un tale andamento non avrebbe potuto essere, secondo Rosselli, sostenuto in prospettiva. Un declino già iniziato e che l’avvento del fascismo aveva reso solo più drammatico. Influenzato dalle teorie del conflitto di Cole e immaginando un futuro in cui le forme di economia regolata avrebbero avuto sempre maggiore spazio, Rosselli assegnava al socialismo, emancipato dal determinismo economico che lo bloccava, una responsabilità fondamentale nel sostenere politicamente gli interessi dei lavoratori. Ruota attorno a questi temi anche il saggio di Cristina Accornero, che muove dall’analisi degli scritti di Rosselli per “La riforma sociale” e si sofferma sugli scambi intrattenuti con gli ambienti riformatori torinesi. Spiccava qui il ruolo del Laboratorio di Economia politica fondato da Salvatore Cognetti de Martiis nel 1893 e che divenne, negli anni ’20, un fondamentale luogo di elaborazione sui concetti del liberalismo e del liberismo, attirando studiosi come Einaudi, Luigi Albertini, Pasquale Jannacone, Giuseppe Prato, Riccardo Bachi e lo stesso Attilio Cabiati.

Esce dall’ambito strettamente economico il saggio di Salvo Mastellone, che mira a rintracciare nel pensiero di Rosselli i lasciti mazziniani, mediati dagli scritti dell’amico Alessandro Levi. Fondamentale per i due giovani era opporsi al tentativo del fascismo, interpretato con forza da Gentile, di ridurre al nazionalismo il senso della mazziniana lotta dei popoli per la libertà. Levi e Rosselli non solo recuperavano la centralità in Mazzini dell’idea democratica, ma puntavano sulla scoperta della questione sociale, che portava a una convergenza tra mazzinianesimo e socialismo, depurato quest’ultimo dalle derive del partito unico bolscevico. Anche da questo punto di vista gli studi inglesi offrivano un valido sostegno, come gli scritti di Hobhouse, che citava Mazzini accanto a John Stuart Mill, o di John Hobson, che nel suo celebre The crisis of liberalism. New issues on democracy, dedicava ampie parti alla relazione tra socialismo e liberalismo. Stimolati da queste riflessioni, e incoraggiati dall’esperienza del primo governo laburista del 1924, anche in Italia molti giovani iniziarono a premere per innescare una discussione sui principi del socialismo, che trovò spazio sulle colonne di “Libertà”, il quindicinale giovanile del Psu. Vi si potevano rintracciare due grandi linee interpretative: una marxista, rappresentata tra gli altri da Rodolfo Mondolfo, e una etica-mazziniana che si richiamava agli scritti di Alessandro Levi.

Non fu però solo l’accademia o il mondo della giovane intellettualità antifascista a segnare le frequentazioni di Rosselli nel capoluogo lombardo. A Milano faceva ancora capo tutta la classe dirigente del socialismo riformista, la vecchia guardia con la quale il giovane entrò in polemica ma anche in fecondo scambio ideale. Parte da questo assunto Gian Biagio Furiozzi, che nel suo saggio ricostruisce il legame tra Rosselli e Filippo Turati, cercando di sottolineare le convergenze e il profondo vincolo di affetto, che non venne mai meno anche nel dissenso. Furiozzi mette in evidenza lo sforzo di “autocritica” e non di “demolizione” che mosse Rosselli (a differenza ad esempio del più sprezzante Gobetti). Alla tradizione riformista egli rimproverava lo spirito compromissorio, l’eccessivo economicismo e l’inerzia di fronte al fascismo, ma il giudizio su Turati fu sempre pieno di profondo rispetto. Turati era il maestro che aveva saputo trasformare “una piccola setta in un grande partito politico” e che, convinto all’espatrio, a Parigi assumeva a pieno titolo il ruolo di “capo morale dell’Italia”.

Più tranchant fu il giudizio sulla tradizione riformista espresso da Piero Gobetti, il cui rapporto con Rosselli è descritto nel saggio di Marco Scavino. Uno scambio intellettualmente denso che, nonostante i conflitti, fornì reciprocamente ai due giovani intellettuali gli stimoli per precisare il proprio pensiero e i propri riferimenti culturali. Nel cammino parallelo verso una rielaborazione e ridefinizione delle culture politiche italiane, Rosselli e Gobetti partivano da un diverso modo di intendere il rapporto tra intellettuali e società, con il primo sempre più esposto verso la politica militante e il secondo più propenso ad un’azione di stimolo dall’esterno dei partiti, senza per questo cedere nell’opposizione al fascismo. Rosselli riconobbe infatti, prima e dopo la tragica fine di Gobetti, come questi rappresentasse per tutti un punto di riferimento imprescindibile nella lotta al regime.

Ancora il confronto tra socialismo e idee liberali si trova al centro dello scambio tra Carlo Rosselli e Riccardo Bauer, analizzato da Arturo Colombo. Fu su questi temi che si intrecciò il primo rapporto tra i due, le cui firme si incrociarono su “La Rivoluzione liberale” di Gobetti, ma fu poi la precoce e ferma scelta antifascista a cementare l’amicizia. Non mancarono i distinguo ideologici, con Bauer che non arrivò mai a definirsi socialista (tra libertà e giustizia diceva di stimare fondamentale la prima), ma il legame tra i due fu umano ancora prima che politico, rinsaldato dalla comune esperienza carceraria, dalle difficoltà e dalla lotta.

Il saggio di Giovanni Scirocco si sofferma sul rapporto tra Carlo Rosselli e Ernesto Rossi, iniziato a Firenze per poi proseguire a Milano e trasformarsi infine in profonda stima ed amicizia. Il loro comune retroterra nell’esperienza dell’interventismo democratico e della grande guerra intesa come mezzo per difendere “la concezione liberale dello Stato”, il riconoscere in Gaetano Salvemini un maestro comune, la scelta di campo del “Non mollare”, rinsaldarono negli anni un legame umano profondo, pur nella distanza fisica. Scirocco segue il progressivo spostamento del pensiero di Ernesto Rossi verso il socialismo liberale di Rosselli, che rimpianse, dopo la sua morte, non solo come amico ma come un “termine di confronto” e una insostituibile guida politica.

Ci porta ancora nel solco della tradizione riformista milanese lo scritto di Carlo De Maria, che rintraccia il rapporto tra Rosselli e Alessandro Schiavi, partendo dal fallito tentativo di costituire, nel 1925, un centro studi intitolato a Giacomo Matteotti. L’iniziativa aveva affiancato l’attività dell’Università proletaria di Milano, che aveva in Schiavi il principale animatore, accanto a giovani intellettuali che negli anni successivi avrebbero fatto scelte molto diverse fra loro.

Chiude il volume il saggio di Carmelo Calabrò, che analizza il confronto tra Rosselli e Rodolfo Mondolfo, proposto dalle colonne della “Critica Sociale”, sul ruolo del pensiero di Marx nel socialismo. Lo scambio di articoli lasciò i due ognuno sulle proprie posizioni, con Mondolfo fermo nel considerare il marxismo come coscienza storica e critica del movimento operaio, un necessario impianto dottrinario organico contro la confusione teorica e il disorientamento politico. Non poteva essere d’accordo Rosselli, che già allora ne denunciava lo sterile dogmatismo e la pesantezza ideologica, iniziando un’elaborazione che lo avrebbe portato anni dopo a concepire “Socialismo liberale”, la cui attualità, a ottanta anni dalla comparsa, non accenna a cedere il passo.