Il passato in un presente che cambia Conversando di storia con Fulvio Cammarano

a cura di Andrea Ragusa 

Da più parti si avverte con preoccupazione una crisi, se non addirittura un declino, della professione di storico: il “mestiere” cui Marc Bloch dedica un testo fondamentale quasi in forma di testamento spirituale e civile di un impegno, appare disarticolato nei suoi canoni epistemologici, nei suoi statuti metodologici, nelle sue istituzioni formative e strumenti di trasmissione, persino nella sua autorappresentazione. Cosa è divenuto oggi il mestiere di storico?

In effetti l’immagine della disarticolazione rappresenta bene le attuali difficoltà della storiografia da decenni impegnata nella ricerca di formule euristiche che di fatto si presentano come veri e propri progetti egemonici che, partendo da istituzioni, scuole, paradigmi concettuali, ecc. cercano di indirizzare la ricerca verso determinati ambiti tematici e metodologici escludendone molti altri. Perché ancora oggi ci attardiamo nel contrapporre quei diversi “addensamenti” problematici e metodologici a cui diamo i nomi di storia politica, sociale, evenemenziale, di lunga durata, immobile, locale, microstoria, narrativa, “comprendente”, globale e così via. Gli storici, spesso, hanno considerato questi diversi approcci alla storia come dei veri e propri partiti alternativi. In realtà, sono solo prospettive e strumentazioni di cui ci si dota per rispondere a domande diverse e che non dovrebbero avere difficoltà a convivere sulla base dell’unico criterio che conta: la qualità della ricerca. Nel momento in cui, invece, tali prospettive rivendicano primati culturali, sorge il sospetto che, dietro il bisogno di reciproca sopraffazione spesso si nascondano, non solo esigenze egemoniche (di natura politico-ideale), ma anche, più prosaicamente, regolamenti di conti per il controllo delle scarse risorse accademiche e più in generale degli spazi di visibilità pubblica. Nel corso del Ventesimo secolo gli storici sono andati proprio verso l’amplificazione delle frammentazioni all’interno della disciplina, che di fatto favoriva la costruzione di nuovi spazi accademici, moltiplicando vantaggi e rendite di posizione sulla base di competenze sempre più settoriali. Naturalmente, mettere in luce questo rischio, non deve far dimenticare il lato positivo di una pluralizzazione degli approcci che ha permesso anche lo sdoganamento di temi di ricerca e approcci metodologici che erano rimasti ai margini o considerati irrilevanti. Per ritornare al punto, si è trattato di una trasformazione funzionale non solo alla evoluzione del mondo accademico, ma anche al pluralismo politico e sociale e alle nuove forme di organizzazione del sapere che hanno caratterizzato la seconda metà del Ventesimo secolo. I grandi settori (storia politica, sociale, economica, delle istituzioni ecc.) sembravano alludere ad uno specialismo che in realtà spesso è risultato più un terreno di manovra per grandi guerre egemoniche che utile strumento di indagine scientifica. Per non parlare delle “storie d’area” separate anche settorialmente dal resto della storia moderna e contemporanea. Si è trattato di un complesso fenomeno di “invenzione” culturale che meriterebbe di diventare oggetto di una specifica ricerca storica. Quanto cioè la specializzazione e il senso di appartenenza sono stati necessari per imporre e legittimare ambiti di ricerca nuovi o quanto invece queste rivendicazioni sono state solo l’esito della costruzione delle discipline come fortezze gestite da logiche di potere questo è un interrogativo che meriterebbe di essere approfondito, specie nel contesto italiano dove i “settori scientifico-disciplinari” rappresentano fortezze a volte inespugnabili. Per intere generazioni di storici non bastava specializzarsi, ma diventava fondamentale “appartenere”, con tanto di identità orgogliosa e guerriera. In Italia, ad esempio, dentro la storia politica, si organizzavano le tribù dei risorgimentisti, ottocentisti, novecentisti, ecc. All’interno della storia sociale si fronteggiavano i fautori della lunga durata, della microstoria, della sociabilità e così via. Un “tutti contro tutti” che alla fine ha contribuito a indebolire il ruolo e la figura dello storico. Non ne ha però potuto intaccare lo statuto metodologico. Il mestiere di storico è rimasto quello, anche se la cassetta degli attrezzi si è aggiornata e resa più capiente. L’incremento delle tipologie di domande che rivolgiamo al passato e la sempre più estesa pluralità delle fonti non hanno cioè modificato l’essenza dell’indagine storica. Lo storico per essere tale deve porre delle domande al passato e a partire da quelle si attrezza per rispondere, individuando le fonti necessarie (da utilizzare con metodi verificabili) e interpretandole con indispensabile contestualizzazione empatica, senza la quale la ricostruzione per quanto esatta può rivelarsi persino fuorviante. Lo storico deve rivendicare pubblicamente il fatto che le domande che pone al passato non sono il frutto di una curiosità erudita, ma scaturiscono dai problemi che incontra nel presente. Probabilmente ci sono delle responsabilità anche da parte degli studiosi nel non aver saputo comunicare la “contemporaneità” della storia, ma il punto è affermare senza mezzi termini che lo storico non è un antiquario, come già raccomandava Marc Bloch. Eppure questa identificazione è diffusa nella rappresentazione pubblica e, finché non verrà spezzata, lo storico sarà destinato a occupare un ruolo pubblico del tutto marginale. Lo storico, le sue idee e metodi sono nel loro insieme dinamiche forgiate da quel passato, non importa quanto lontano, con cui si sta cercando di dialogare. Da qui la fondamentale importanza della lingua e dei concetti su cui continua a giocarsi gran parte della qualità della ricerca storica. Al tempo stesso, però, gli storici forgiano quel passato, che diventa un terreno di contesa scientifica tra approcci diversi, i quali possono però essere valutati e discussi sulla base del tipo di domande che lo studioso formula e non per le finalità etiche o l’abilità narrativa con cui quel medesimo passato viene presentato. La storia non è né magistra vitae né storytelling. Fare storia significa prendere sul serio la complessità dei problemi, senza scorciatoie, e per questo è un’attitudine fondamentale per il tempo presente, che è il tempo della complessità per eccellenza.

Quale è l’immagine dello storico oggi? Oggi la rappresentazione pubblica ce ne mostra due. C’è lo studioso impegnato a intrattenere il pubblico, il suo è un ruolo di cantastorie, di narratore di memorie. Abbondano come mai prima spazi dedicati alla storia (ci sono ormai molti canali televisivi riservati, moltissime le riviste presenti anche in edicola), ma sempre più spesso si tratta di una presenza che non ha il compito di mostrare la complessità degli eventi e dei contesti storici. Non a caso c’è molta richiesta di un approccio al passato basato soprattutto su strumenti iconografici e visuali di più rapida e (apparentemente) agevole comunicazione in cui gioca un ruolo decisivo la Public history che è uno spartiacque fondamentale per cercare di penetrare criticamente l’opinione pubblica sensibile alla storia, ma non interessata ai suoi metodi filologici.

Non solo: se la storia è solo intrattenimento, curiosità, narrazione di fatti eccezionali o di elementi di vita comune, se conquista le pagine dei giornali solo se si possono inserire titoli “strillati”, allora non è strano che in realtà non siano gli storici, ma i giornalisti a saper meglio raccontare e intrattenere, più capaci di semplificare e quindi di rivolgersi a un pubblico più vasto. D’altronde la storia in pubblico deve fare i conti con i processi di trasformazione economica e imprenditoriale dei grandi gruppi editoriali. Ormai l’informazione si trova dentro un “sistema” imprenditoriale che vede la messa in rete di giornali, case editrici, televisioni, nuovi strumenti di comunicazione digitale. All’interno di questo sistema, la narrazione storica diventa parte integrante e sinergica di un sistema che, collocandosi sul mercato, non può che razionalizzare le risorse e investire riducendo al minimo il rischio economico. Il grande giornalista, colui che fa opinione pubblica, appare più in grado di soddisfare il bisogno del grande pubblico della storia come racconto più o meno avvincente, più disposto a dialogare o a mettere in funzione la memoria piuttosto che affrontare la comprensione a partire da una complessità che comunque non dovrebbe voler dire pedanteria.

Ma c’è di converso anche l’immagine dello storico rinchiuso dentro una logica esclusivamente specialistica, lo storico che viviseziona gli eventi preferendo parcellizzare l’indagine per potersi accreditare con minor rischio nei circuiti accademici o il cui orizzonte di riferimento non è più la comunità nazionale di appartenenza, ma quella inter e transnazionale che ha linguaggi e codici sempre più formalizzati e che non sempre possono essere tradotti all’interno invece di un discorso pubblico e civico.

In entrambi i casi, tuttavia, lo storico non si caratterizza più come la figura che sino alla metà del Ventesimo secolo veniva ascoltata e interpellata nell’ambito della sfera della decisione pubblica. Oggi, la riflessione sui problemi della comunità spetta in primo luogo allo scienziato sociale –  il sociologo, l’economista, il politologo – che usa un linguaggio formalizzato e pretende di enunciare leggi di portata generale su come funziona il mondo. Un tempo la storia era al centro dell’indagine nel lavoro di grandi classici della sociologia come Max Weber, o dell’economia come Joseph Schumpeter e John Maynard Keynes.  Ma il riferimento alla profondità del retroterra storico si è in gran parte perduto. Gli economisti utilizzano soprattutto modelli matematici. I politologi privilegiano gli schemi e le tabelle. I sociologi spesso formulano le loro analisi in forma astratta e astorica. Le discipline “senza tempo” prevalgono in una società schiacciata sul presente. La storia richiede attenzione per la complessità. Oggi invece, in un contesto d’incertezza e ansia per il futuro, domina il presentismo, la fretta di trovare soluzioni immediate, senza curarsi di esaminare le radici dei problemi. Quindi è molto più rassicurante, per il pubblico e per i mezzi di comunicazione, sentirsi dire che esistono leggi “scientifiche” della vita sociale, che consentono di proporre ricette buone in ogni circostanza. Non è un caso che negli studi televisivi, quando uno storico è chiamato a esprimere la propria opinione, venga presentato quasi sempre come “politologo”. Sembra un termine più solido, serve per trasmettere l’impressione che stia parlando uno scienziato, quindi una persona affidabile per definizione. Eppure era stata proprio la migliore sociologia a metterci in guardia dall’eterogenesi dei fini, che di fatto significa diffidare delle risposte facili a problemi complessi.

Le ultime tendenze ad una ricerca di nuovi strumenti e forme di trasmissione della conoscenza storica sembrerebbero di converso evidenziare una apprezzabile ed addirittura crescente “domanda di storia”: cosa cerca il lettore, il fruitore, lo spettatore di uno “spettacolo” a sfondo storico, o nelle diverse forme che ad esempio la Public history pratica ormai da alcuni anni anche nel nostro paese? Che tipo di storia si chiede oggi allo storico?

In tempi di grande incertezza e precarietà, il lettore/fruitore nella storia spesso cerca il lieto fine, vale a dire l’esito morale delle vicende, delle biografie, dei fenomeni ricostruiti. Non a caso si sta registrando una crescente domanda di storia che di per sé non significa affatto che l’indagine storica goda di buona salute, anzi a mio avviso la storia è oggi sotto attacco. Non perché, come detto, non abbia un proprio spazio pubblico, ma perché viene spesso presentata, a scuola, come forma di sapere del passato (e dunque operativamente inutile) e in pubblico, come intrattenimento per soddisfare curiosità. Lo storico invece per essere tale non può non addentrarsi nella complessità, che è la caratteristica del “materiale” su cui lavora: l’incoercibile caos frutto dell’agire umano in contesti e situazioni imponderabili e mutevoli. Non c’è disciplina di qualunque altro settore del sapere che abbia un ambito di ricerca più complesso e incontrollabile di questo e pertanto chi chiede alla storia “forme di senso” che diano risposte nette e semplici, che forniscano la morale della “storia”, ha sbagliato indirizzo. Queste risposte semplici e rassicuranti sono poi l’esito di una storia presentata come narrazione avvincente, dove conta l’intreccio, il ritmo, il colpo di scena, perché si è affermato il dogma che il lettore di storia è soprattutto un “consumatore” e, come tale, vada solleticato e appagato fornendo “prodotti storici” che sembrano sfornati da sceneggiatori di serie tv. Eppure avallare questo indirizzo non aiuta in alcun modo la storia né come disciplina accademica né come approccio problematico al presente. Cavalcare l’onda, sperando che qualche goccia di sapere storico penetri nella coltre di indifferenza del grande pubblico, è illusorio. L’interesse non è un valore di per sé. La proliferazione di prodotti culturali con ambientazioni medievali ha forse stimolato il fruitore di questi prodotti a capire il Medioevo o ha invece diffuso l’immagine di un Medioevo che non è mai esistito?

Ci si deve allora chiedere se sia possibile divulgare la storia in un senso alto, fuori dalla cerchia degli specialisti, senza però scadere in un’operazione di storytelling a sfondo morale. La risposta non è per niente scontata e necessita di una riflessione collettiva da parte della comunità degli storici. Ed è una domanda fondamentale perché ha a che fare con la penetrazione del sapere storico nella società e con il ruolo che la storia vi occupa. Per restituire alla storia il ruolo sociale e politico un tempo detenuto, alcuni storici (si veda la recente polemica sollevata da Armitage e Guldi) propongono di tornare alle indagini di grande respiro dando un drastico taglio alla storiografia specialistica e frammentata fine a sé stessa. Si tratta di una riflessione interessante. La questione tuttavia è più complicata. Bisogna “ricostruire” socialmente l’immagine della storia, cancellando l’idea che la storia sia un racconto del passato con intenti moraleggianti, magistra vitae, per restituirla al suo ruolo di disciplina che affronta la complessità dell’azione umana attraverso un rigoroso metodo d’indagine​. Una palestra in cui i problemi si affrontano, non si “aggiustano”. Se questa impostazione culturale che restituisce alla storia il fascino della sfida sul terreno del passato per l’orizzonte del presente, avrà successo la storia apparirà come un’opportunità per l’intera società di riflettere seriamente su se stessa.

Il venir meno di organizzazioni politico-culturali forti – quali sono stati ad esempio i partiti politici di massa nel secondo dopoguerra – capaci di costruire reti di elaborazione intellettuale e di ricerca a sostegno di una attività intellettuale politicamente impegnata ma scientificamente di grande rigore, costituisce una cesura fondamentale. Anche la Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea nasce in fondo dal problema di una “riorganizzazione” della storiografia in una prospettiva di superamento delle antiche collocazioni. Quanto oggi il venir meno dell’impegno incide sulla disarticolazione se non addirittura sulla scomparsa di canoni interpretativi forti che sorreggano l’intera visione della storia (come sono stati ad esempio il marxismo, il liberalismo, il nazionalismo ecc.)?

A me sembra che se la storia è sempre storia del presente, allora il problema va rovesciato. I cambiamenti post-1989, la messa in discussione dello stato-nazione, la crisi delle grandi culture politiche del lungo novecento inevitabilmente si riflettono anche sulle domande e sull’approccio degli storici. Il problema è che la disarticolazione non è dovuta tanto alla crisi della storia in quanto tale, perché questo in realtà riguarda anche le altre discipline – dalla scienza politica, alla filosofia, all’economia, come ha messo in luce Daniel T. Rodgers nel suo Age of Fracture – ma ai processi di trasformazione a livello globale.

In realtà ci sono due tendenze: da un lato un ripiegamento sul micro – inteso anche come iperspecializzazione – e dall’altro invece la necessità di affrontare i problemi storici nella loro dimensione globale e transnazionale. Questo significa individuare nuove categorie interpretative e schemi di indagine mettendo da parte l’idea di individuare un canone interpretativo forte e cercare invece di lavorare sul problema della “sintesi” (non mi riesce in questo momento dire la cosa in modo più articolato). È la complessità del reale – passato o presente che sia – che deve indirizzarci verso questa sintesi, perché quella complessità sfugge sia alle macro che alle micronarrazioni.

L’interdisciplinarietà, agitata come un mantra e indicata come prioritaria anche nelle direttive ministeriali (vedi i dottorati), sembrava essere la risposta. Eppure è stata una risposta fumosa, non solo per le difese corporative e gli orgogli identitari che pure sono piuttosto vivi in ogni settore disciplinare o perché dietro il mantra dell’interdisciplinarietà vi è in realtà l’obiettivo di razionalizzare e quindi tagliare le spese (vedi ancora i dottorati, ma anche le fusioni tra i dipartimenti). Prima di evocare l’interdisciplinarietà c’è forse un lavoro da fare all’interno di ogni disciplina. C’è bisogno cioè di una disarticolazione dei confini e degli steccati che separano i diversi rami della storia, per restare al nostro campo di studi, per favorire una maggiore comunicazione tra approcci differenti, una sintesi, appunto. La domanda è: si può fare una storia globale solo da una prospettiva politica o sociale o culturale ecc.? Evidentemente no. In questo caso globale non deve essere solo lo spazio dell’indagine storica, ma la visione dei problemi da parte dello storico, ovvero la sua capacità di servirsi di differenti approcci e letture della realtà così come di muoversi su scale spaziali e temporali diverse. Certo, può apparire illusorio pensare a una sorta di “superstorico” capace di destreggiarsi tra metodi, tempi e spazi potenzialmente sconfinati. L’approccio globale richiede infatti un lavoro di squadra, in cui l’approccio micro può essere valorizzato: è anzi quest’ultimo il materiale su cui interpretazioni ampie possono essere costruite su basi solide e non su inconsistenti filosofie della storia.

Ecco allora la necessità della comunicazione all’interno di ogni singola disciplina, resa ancora più impellente dalla produzione a ciclo continuo di volumi e saggi, alimentata d’altra parte dai diktat dei meccanismi di valutazione ben sintetizzati nella formula «publish or perish». Sappiamo quanto la digitalizzazione del sapere ha penalizzato un sapere complesso come la storia. Ma perché non rovesciare il piano? Al di là dei canali tradizionali della comunicazione tra storici – seminari, workshop, convegni, ecc. – perché non iniziare a riflettere seriamente su come possiamo piegare ai nostri scopi il carattere sempre più tecnologico della comunicazione.

L’utilizzo dello strumento tecnologico costituisce un altro elemento che muta in profondità metodi e connotazioni dell’attività di ricerca. Quali vantaggi e quali svantaggi esso comporta nella disponibilità e nell’utilizzo delle fonti storiche, ma anche nell’organizzazione della loro conservazione? Ci si potrebbe chiedere ad esempio che cosa diventerebbero i grandi archivi o le grandi biblioteche – luoghi della ricerca ma anche della sociabilità intellettuale – nel momento in cui tutto il patrimonio – facendo un’ipotesi paradossale – dovesse essere digitalizzato.

Il tema del rapporto fra innovazione tecnologica, rivoluzione digitale e approccio alle fonti è la sfida più significativa e anche quella dove più forti sono le insidie. Da una parte, gli storici e le storiche hanno adesso a disposizione una quantità enorme di fonti sia primarie sia secondarie, quasi da rendere difficile la loro elaborazione. Da un certo punto di vista, la “lentezza” del lavoro di scavo del passato che si coniugava all’individuazione di “spazi” dedicati (archivi, biblioteche, musei ecc.) ha lasciato il posto a un tempo “veloce” e all’annullamento (quasi) dello spazio. In molti casi non c’è più bisogno di andare fisicamente in archivio o in una biblioteca.

Dall’altra parte però è necessario portare avanti una riflessione sulle aporie insite nell’uso dei big data o semplicemente dei grandi aggregatori di fonti. Se compito dello storico è sempre stato anche quello di stabilire una gerarchia delle fonti, o di introdurre, proprio in virtù della ricerca e dello scavo archivistico, nuove fonti o nuovi approcci, uno dei rischi è quello della pre-determinazione delle fonti ad opera dei motori di ricerca. È un po’ la legge dell’algoritmo che rischia di influenzare e predeterminare il lavoro di indagine storica. È un rischio contro il quale dobbiamo attrezzarci prima che sia troppo tardi. Il prezzo che abbiamo pagato per aver chiuso gli occhi di fronte alla marginalizzazione della storia o alla sua trasformazione in “prodotto culturale” lo abbiamo davanti agli occhi. Attrezzarsi significa in questo caso iniziare a fare una riflessione critica sull’apparente neutralità degli algoritmi attraverso cui i big data vengono ordinati e gerarchizzati. Ad esempio, l’algoritmo che governa un motore di ricerca non solo ordina e dispone le fonti influenzando a monte la ricerca, ma compie un’operazione simile sul prodotto finito. L’algoritmo è tutto fuorché “artificiale”. È anzi «umano, troppo umano», poiché è costruito secondo dei valori sulla base dei quali potrebbe premiare la visibilità di un, poniamo, “prodotto culturale” a carattere storico che sia appetibile al grande pubblico e, invece, penalizzare un lavoro serio e ponderato, scientificamente impeccabile. Tanto più gli algoritmi diventeranno autonomi, sviluppandosi secondo gli indirizzi del machine learning e dell’intelligenza artificiale, quanto più la loro logica e le gerarchie che producono diventeranno indiscutibili. Non stiamo parlando di distopie fantascientifiche, ma del presente o al massimo del futuro prossimo. La storia, proprio perché è un’attitudine a guardare i fenomeni in profondità e nella loro complessità, deve mettere in discussione la “filosofia” degli algoritmi, non ritirarsi in un passato in cui la ricerca storica era solo il contatto materiale, vissuto, con le “sudate carte”. Altrimenti la storia – e lo storico con essa – diventeranno una variabile dipendente inserita in un meccanismo che non può controllare.

Che valutazione dà dell’attuale sistema di formazione e di organizzazione dello storico, e dei risultati che la ricerca italiana sta producendo negli ultimi anni?

Siamo da molto tempo al pessimo. Non è una deprecatio temporum ma la constatazione della scomparsa dei percorsi di formazione degli storici. Di fatto mancano dottorati specificamente dedicati e nel complesso gli insegnamenti di storia negli atenei si riducono. Persino i corsi di laurea sono ormai contenitori che impediscono un approfondimento della conoscenza storica. Se in passato laurearsi in una disciplina storica significava sostenere almeno due esami in quella disciplina, adesso questo sarebbe impensabile. Non solo, i criteri di valutazione dei corsi di laurea finiscono per far prevalere una cultura “delle competenze” invece che della conoscenza, privilegiando il dato quantitativo. Sarebbe importante una valorizzazione delle discipline storiche a partire dai licei, sciogliendo il logico ma impraticabile connubio “filosofia e storia”. Come è noto la maggior parte dei docenti ha una decisa preferenza che dipende dal proprio curriculum per cui gli studenti che incontrano un “professore-filosofo” di fatto rinunciano a una formazione storica di qualità, cosa che lascerà il segno anche nei successivi percorsi universitari.

Vi è poi una sopravvalutazione del ruolo della pedagogia nella formazione degli insegnanti, che naturalmente è un problema che riguarda anche le altre discipline e non solo la storia. Non si tratta solo di lamentare un tipo di formazione degli insegnanti tutto centrato sulla “tecnica educativa”, la competenza, e poco attento ai contenuti e alle conoscenze che si veicolano. Il fatto è che il primato della pedagogia, sancito dai percorsi per diventare insegnanti, non fa che rafforzare quell’idea di storia come racconto, come intrattenimento, come storytelling che non a caso proprio nella pedagogia trova larga applicazione e che rappresenta una delle sfide più insidiose per la storia come disciplina che vuole interrogare il passato e non semplicemente raccontarlo per soddisfare i palati narrativi del suo pubblico. Infine, vi è un vecchio problema che la diffusione della storia come intrattenimento (per derivazione dall’infotainment si potrebbe chiamare historytainment) sta aggravando. Mi riferisco alla scarsa trasmissione del sapere accumulato dalla ricerca storica nei circuiti dell’insegnamento secondario. Quanti stereotipi, se non bufale, che la ricerca ha da tempo smontato, vengono ancora insegnati da docenti in totale buona fede nelle nostre scuole secondarie? E, al di là dei contenuti, è il metodo che la storia ha acquisito in ambito universitario che non viene trasmesso al gradino immediatamente inferiore dell’istruzione. Ho cioè la sensazione che a livello di istruzione secondaria la storia venga ancora insegnata come la disciplina delle date e delle battaglie, da cui pure ci siamo emancipati da tempo immemore. Ecco allora che, data la scarsa attrattività di una disciplina presentata come una congerie di date e un cumulo di erudizione, si soddisfa la domanda di sapere storico con l’intrattenimento storiografico. È un circolo vizioso. Da interrompere.