Stefano e Marco Pivato, I comunisti sulla Luna. L’ultimo mito della Rivoluzione russa, Bologna, il Mulino, 2017

di Alberto Gagliardo

Gli anniversari, si sa, costituiscono un’utile occasione per redigere bilanci e ripensamenti storiografici. Quelli “tondi”, poi, e tra essi i centenari hanno posizione eminente, sono particolarmente ghiotti anche per l’industria editoriale, che spera, sull’onda del tam tam mediatico, di richiamare alla lettura un pubblico più ampio e, come nel caso italiano, meno aduso alla frequentazione di biblioteche e librerie.

È stato così per la memoria della Grande guerra 1915-1918 e non poteva fare eccezione questo 2017, in cui abbiamo assistito alla fioritura su banconi e scaffali di una messe di titoli che rievocavano i cento anni dalla Rivoluzione d’ottobre.

Ma se i bilanci di quei «giorni che sconvolsero il mondo» sono stati prevalentemente di tipo politico e/o ideologico, l’approccio scelto da Stefano e Marco Pivato nel loro I comunisti sulla Luna (Bologna, il Mulino, 2017) si segnala per originalità e freschezza.

Già il sottotitolo (L’ultimo mito della Rivoluzione russa) si rivela illuminante, poiché ci dice che nel volume l’impresa cosmonautica sovietica viene letta come l’anello conclusivo di una catena mitopoietica (rectius: propagandistica) che proprio nella Rivoluzione d’ottobre affondava le sue radici.

Il libro consta di nove capitoli suddivisi in due parti ben distinte: la prima, L’immaginario, affidata a Stefano Pivato; la seconda, La realtà, al figlio Marco. Le due sezioni, perfettamente armonizzate e complementari, si possono leggere anche con ordine inverso rispetto a quello proposto dagli autori e dall’editore: Marco Pivato, infatti, da bravo giornalista scientifico, ricostruisce nei capitoli 6-9 la storia e i protagonisti della vicenda tecnica e scientifica che condusse alla conquista dello spazio; Stefano, da quel grande storico sociale e delle idee che è, esplora le implicazioni culturali di quella sfida tra superpotenze.

E proprio partendo dalla seconda parte del libro, si osserva che la corsa alla conquista dello spazio ebbe origini di gran lunga precedenti gli anni Cinquanta e Sessanta. Nel corso del Novecento, e a ridosso del limite cronologico della Seconda Guerra mondiale, erano Unione sovietica, America e Germania ad avere scienziati e laboratori al lavoro su progetti di razzi vettori che potessero portare armi a distanze considerevoli. Se in queste ricerche Mosca ebbe una sorta di primato cronologico (stabilito dalla figura pionieristica di Ciolkovkij), fu però la Germania, incalzata dall’andamento sfavorevole della guerra, a sviluppare una tecnologia più avanzata. Ma quando la guerra fu perduta definitivamente dai Tedeschi, Wernher von Braun, terrorizzato dall’idea di finire in mano sovietica, si consegnò all’esercito americano, che lo utilizzò nell’ambito del proprio programma di ricerche balistiche e missilistiche. Ai Russi restarono il campo di Peenemünde, dove la squadra di von Braun aveva lavorato, e un centinaio di razzi del programma V2 da poter studiare per integrare le proprie ricerche in quel settore.

Ed è qui che comincia la corsa alla Luna, che già in questa prospettiva si rivela un prolungamento, sotto altre forme, della guerra mondiale prima e della guerra fredda poi, in cui Statunitensi e Sovietici si contesero, ancor prima che lo spazio interstellare, i cuori e le passioni che si agitavano in quello terrestre.

La Rivoluzione (e il suo mito) che nel 1917 aveva infiammato le speranze dei movimenti proletari di tutto il mondo, aveva successivamente subito un appannamento conseguente alle politiche staliniane della seconda metà degli anni Trenta: le purghe e il Grande terrore, le violenze scatenate in Spagna, il patto Ribbentropp-Molotov.

L’impegno e il sacrificio profusi poi nella guerra, a partire dall’epico scontro di Stalingrado fino alla bandiera rossa sul Reichstag, costituirono un’indubbia rivitalizzazione di quel mito per i tanti che in Europa desideravano un nuovo ordine sociale a conclusione della lotta contro i fascismi.

Ma la morte di Stalin (5 marzo 1953), l’ascesa al vertice del PCUS di Nikita Krusciov, la sua denuncia dei crimini dello stalinismo e infine i fatti d’Ungheria del 1956 ebbero come conseguenza un nuovo offuscamento del mito dell’Ottobre rosso, se non nelle scelte delle segreterie dei partiti comunisti occidentali, certo in quelle di singoli (ma spesso assai autorevoli) militanti.

Ed è in questo quadro che si inserisce la storia di questo “assalto al cielo” che vide contrapporsi Statunitensi e Sovietici, con i secondi, per circa un decennio, in posizione di evidente vantaggio.

Quando infatti il 4 ottobre 1957, ad un anno dallo scoppio della rivolta d’Ungheria, l’URSS lanciava dal cosmodromo di Baikonur lo Sputnik 1, conquistava il primato assoluto nella storia dell’umanità della messa in orbita di un satellite artificiale.

Non solo: ad appena un mese di distanza veniva lanciato in orbita un secondo satellite del programma Sputnik, con a bordo una cagnolina, Laika, che fu il primo essere vivente a varcare il confine dell’atmosfera terrestre. Fu un colpo dall’efficacia simbolica e comunicativa potentissima: era infatti il 4 novembre 1957, quarantesimo anniversario della Rivoluzione.

Poi seguirono il primo uomo nello spazio (Jurij Gagarin, 12 aprile 1961), la prima donna (Valentina Tereskova, 16 giugno 1963) ed altri primati che nell’immaginario collettivo (tanto quello comunista quanto quello dei suoi avversari – sebbene con valutazioni di segno opposto) si incisero come prove di una superiorità tecnologica sovietica, che necessariamente rispecchiava quella del suo sistema politico.

Non si sottovaluti il fatto che nella memoria collettiva recente gli Americani erano stati i padroni assoluti dello spazio aereo durante la Seconda guerra mondiale: ora i formidabili successi cosmonautici Russi ribaltavano questo paradigma militare, assommando alla forza aggressiva “orizzontale” dell’Armata Rossa ad una nuova (inquietante per alcuni, auspicata per altri) supremazia “verticale”.

L’esplorazione di Stefano Pivato segue le tracce di questi rivolgimenti e delle loro implicazioni simboliche in ambiti della cultura assai diversi tra loro: fa ricorso a una documentazione che proviene dalle pagine dei maggiori quotidiani dell’epoca (dove scrivono gli intellettuali più in vista o dove prendono voce le posizioni ufficiali dei partiti e delle istituzioni), ma soprattutto ne cerca testimonianza nelle rubriche delle lettere, nelle vignette, nelle favole per bambini, nei fumetti, nei testi delle canzoni. Insomma si addentra in territori “pop”, che meglio di altri rivelano l’incidenza e la persistenza di quelle vicende nel profondo degli immaginari privati e collettivi. Ed è qui che il successo spaziale sovietico si incontra con le aspettative, le speranze, le utopie di milioni di occidentali, nel nome di un’era e di un’umanità nuove e migliori, che rinverdiscono il mito della Rivoluzione russa.

Al punto che in molti adeguarono i loro comportamenti quotidiani alla forza di quel mito, ad esempio acquistando automobili sovietiche come le Zaz, che poi si rivelarono decisamente scadenti sul piano dell’efficienza e della funzionalità più elementare (cfr. il capitolo 5 dal significativo titolo «Questi vanno sulla Luna e non sanno fare le macchine»).

Il finale è noto: quando il 20 luglio 1969 Neil Armstrong compì il suo «piccolo passo» sulla Luna, la partita cosmica si chiudeva con la vittoria definitiva degli Stati Uniti, che avevano messo sul piatto del programma Apollo 25 miliardi di dollari, contro i 2 miliardi di rubli (1,6 miliardi di dollari al cambio dell’epoca) di quello sovietico. Ma più ancora: gli Statunitensi avevano legato gli investimenti della ricerca spaziale alle possibili applicazioni in ambiti vari e diversi della produzione industriale pubblica e privata; i Russi, invece, ne avevano fatto un esclusivo strumento di battaglia ideologica e propagandistica. E se per questa strada diedero linfa ancora per un decennio al mito della potenza della Rivoluzione, non poterono sottrarsi alla portata simbolica e in certo senso anticipatrice della sconfitta più ampia, che sarebbe stata storicamente sancita tra il 1989 e il 1991.

Il libro di Stefano e Marco Pivato ha il grande merito di raccontarci questa storia del Novecento da un punto prospettico insolito, ma raggiungendo livelli di grande efficacia, facendolo poi con un tono divulgativo e narrativo che ne fa una lettura molto piacevole, documentata, istruttiva.