Suggestioni della memoria e riflessioni storiografiche

Paolo Sorcinelli

Le presenti pagine sono una rivisitazione dal capitolo “La memoria nella storia”, in Paolo Sorcinelli, Viaggio nella storia sociale, Bruno Mondadori, 2009.

Il concetto storiografico di “luogo della memoria”, elaborato da Pierre Nora a metà degli anni Ottanta (1984), è uno spazio fisico e mentale che si caratterizza per essere costituito da elementi materiali o puramente simbolici, dove un gruppo, una comunità o un’intera società riconosce se stessa e la propria storia mediante un forte aggancio con la memoria collettiva. Può essere un museo, un archivio, un monumento, un anniversario, certi territori e località segnati da eventi significativi, ma anche miti, pagine letterarie, personaggi, date. Cioè, per estensione, l’orizzonte culturale e simbolico che ha caratterizzato la storia e la formazione di una compagine nazionale e statale o di una singola comunità. Da questo punto di vista, tali luoghi devono possedere un’eccedenza semantica, che renda possibile una metamorfosi delle attribuzioni di significato, in grado di stabilire e generare delle connessioni con esperienze emotive, mitiche, immaginali, capaci di trasferire nel tempo un contatto le esperienze e i fatti significativi del passato.

“Luogo della memoria” è un concetto che a partire dagli anni Venti del secolo scorso (complice anche la memoria della Grande guerra) ha avuto ampia diffusione nell’ambito della ricerca storica e dell’allestimento museale. E ultimamente anche attraverso Internet, dove sono stati attivati numerosi siti Web con l’elaborazione di pagine multimediali e interattive collegate ai luoghi della memoria, ossia luoghi reali come monumenti, edifici storici, musei, fabbriche, campi di concentramento, fortificazioni ecc., oppure a territori e itinerari segnati da fatti storici significativi, quali per esempio eventi bellici legati alla Grande guerra, alla Seconda guerra mondiale e a episodi della lotta partigiana o alle stragi nazifasciste. Rimane tuttavia aperta la possibilità di ampliare il campo di applicazione al di là della specificità politico-istituzionale e in prospettiva pluridisciplinare. Consideriamo per esempio il rapporto tra “luogo della memoria” e il paradigma dell’“Heritage” del patrimonio culturale, tangibile e intangibile, e le loro possibili implicazioni e correlazioni sul piano dell’indagine storica. Infatti, in ragione delle connessioni scientifico-espistemologiche che si configurano tra la categoria del patrimonio intangibile e la categoria della trasmissione storica, per quanto costituisce l’identità e la continuità di una comunità, l’accento analitico si può spostare dal piano riguardante i fatti della storia, alla memoria dei luoghi.

Nella Convenzione Unesco del 2003 il “patrimonio culturale intangibile” è definito nei termini di rappresentazioni, espressioni, conoscenze, come pure strumenti, oggetti, manufatti e spazi culturali “che le comunità, i gruppi riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso di identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”. Un patrimonio che tra l’altro si definisce nei seguenti ambiti: “a) tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale; b) le arti dello spettacolo; c) le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi; d) le cognizioni e le prassi relative alla natura e all’universo; e) l’artigianato tradizionale”.

Come il concetto di “luogo della memoria” è oggetto di diverse valutazioni storiografiche, anche il concetto di “Heritage” è oggetto di analisi, in quanto non di facile definizione, riferendosi a tutto ciò che riguarda il passato in senso concreto e materiale e in senso astratto e immateriale. In un primo momento gli ambiti concettuali di “Heritage” si ritrovavano principalmente nelle opere d’arte, nei siti archeologici, nei monumenti, nel patrimonio architettonico. Oggi questo concetto contempla anche l’insieme delle tradizioni immateriali e sta a rappresentare l’intero patrimonio che le nuove generazioni ricevono in eredità da quelle precedenti e tutto ciò che viene conservato e protetto per far si che non vada perso nel tempo. Riguarda le persone, le loro attività sociali, lavorative, culturali e i luoghi in cui si attuano le diverse relazioni. È un concetto fortemente polisemico: ciò che risulta essenziale perché si possa parlare di “Heritage” è la presenza del binomio spazio-tempo, trattandosi di un retaggio storico-culturale che appartiene al passato e che è connaturato ad un determinato luogo. A ciò si connette il sense of past concepito come la percezione da parte di una comunità di sentirsi consapevoli del proprio passato, come esperienza collettiva e come parte integrante del tessuto intellettuale comune. In questo senso il passato non viene percepito soltanto come qualcosa che “è già stato” in altri momenti storici, ma soprattutto come un fenomeno del presente e in quanto tale in grado di incidere sulla realtà del momento e di condizionare in qualche modo il futuro. Così, oltre al “passato oggettivo”, si fa sentire la compresenza di un “senso del passato”, che produce senso culturale, attraverso dei prodotti selezionati dal “passato oggettivo”, nel presente. Questa operazione avviene attraverso la capacità di saper identificare i segni umani e naturali presenti nel paesaggio, collocandoli in una cornice temporale e in una prospettiva storica. Il riconoscimento di tali segni sviluppa il senso e il valore del luogo, nonché la consapevolezza dell’importanza di conservarlo e valorizzarlo attraverso la continua rivitalizzazione della memoria.

Vito Teti, di fronte ad antichi nuclei calabresi ormai spopolati, abbandonati e in rovina avverte la necessità di “andare, partire, tornare, ripartire, restare, con il corpo, ma molto spesso con la mente e con la fantasia”. Perché in fondo “noi siamo il nostro luogo, i nostri luoghi: tutti i luoghi reali o immaginari, che abbiamo vissuto, accettato, scartato, combinato, rimosso, inventato. Noi siamo anche il rapporto che abbiamo saputo e voluto stabilire con i luoghi. Quando parlo di sentimento dei luoghi, pur non escludendo la magia che essi possono esercitare, non intendo costruire una metafisica dei luoghi, collocarli in una sorta di immobilità e di astoricità. I luoghi hanno una loro posizione geografica, spaziale, ma sono sempre, ovunque, una costruzione antropologica. Hanno sempre una loro storia, anche quando non decifrabile; sono il risultato dei rapporti tra le persone. Hanno una loro vita: nascono, vengono fondati, si modificano, mutano, possono morire, vengono abbandonati, possono rinascere. Poche terre come la Calabria, attraversata fin da epoche preistoriche dai popoli più diversi, segnata dal succedersi di civiltà, da abbandoni e da ricostruzioni, possono raccontare la mobilità e la storicità dei luoghi” (Teti 2004).

Un’operazione che da un certo punto di vista segue questo “discorso storico-antropologico” di cultura della memoria è anche Geografie della memoria di Antonella Tarpino. Qui l’autrice introduce il concetto di “memoria spezzata”, analizzando tre differenti visioni di memoria: quella della casa d’origine, della casa di guerra e della casa del lavoro. In ogni caso uno “spazio aperto-luogo di memoria”, “il prodotto di un gioco in cui storia e memoria si sovrappongono, surdeterminandosi a vicenda”.

Un “composto ambiguo”, direbbe Pierre Nora a proposito del “gioco storia-memoria”, che si muove “agli incroci tra passato e presente, tra prosaico e sacro, tra ricordo individuale e collettivo” e in cui le case (di un villaggio distrutto dalla guerra), le rovine (della casa di famiglia) e gli oggetti (anche una semplice forchetta piegata) testimoniano la memoria quotidiana nel tempo della storia.

Su un versante più propriamente storico-sociale e culturale legato alla memoria istituzionale, collettiva, celebrativa può essere posto invece il lavoro curato da Mario Isnenghi I luoghi della memoria. Un’opera collettiva che si muove su una selezione “di quegli eventi e personaggi, quelle situazioni e date canoniche dell’Otto e Novecento, che si sono venuti affermando [in Italia] come luoghi della memoria e sono stati attivi lungo il corso dei centocinquat’anni di vita unitaria: con percorsi e tempi di persistenza che solo in alcuni casi appaiono vitali dall’inizio alla fine; in altri prendono il via dopo o si esauriscono prima”. L’intento è capire come alcuni luoghi e percorsi siano diventati tappe “cruciali della memoria degli italiani”. O “delle memorie al plurale, variamente combinate fra loro” durante autonomi processi temporali e culturali, magari ignorandosi l’uno con gli altri, o scontrandosi, sfumando, o assommando pian piano le loro valenze originarie. Per Isnenghi non si è trattato dunque di mettere insieme “un repertorio di avvenimenti o di personaggi”, ma di articolare “una mappatura di quegli eventi, personaggi, miti ed emblemi che si sono rivelati più a lungo e più intensamente memorabili” nel vissuto collettivo. Con la consapevolezza che in certi casi è necessario muoversi attraverso assunzioni contenutistiche successive: “come è entrato nella memoria Garibaldi, come vi ha agito e come si è venuto via via trasformando”; o per “punti fermi” riconosciuti e accettati universalmente: “le Campane, per esempio, sono tali e sono ‘Italia’ sia per i repubblicani che per i papalini nel 1849, sia per Don Camillo che per Peppone nell’Emilia rossa del secondo dopoguerra” Nell’ambito di tale prospettiva storiografica viene dunque ad assumere un ruolo centrale l’incrocio tra lo studio storico dei “luoghi della memoria” e l’”Heritage” e la loro trasmissione attraverso le generazioni. Un’operazione che consente di dilatare gli spazi d’indagine relativi alla storia contemporanea nell’ottica di un nuovo modo di interpretare il passato e di raggiungere nuovi risultati storiografici.

In questa direzione si orienta il progetto di ricerca per la costituzione di “storie di vita” (una sorta di prosopografia “dal basso”) su una campionatura di individui omogenei in quanto facenti parte della stessa generazione, o per aver iniziato un’attività imprenditoriale in un medesimo ambito cronologico e territoriale, o per esser nati e cresciuti nello stesso quartiere o nello stesso paese. In quest’ultimo caso l’attenzione del racconto si articola sui momenti soggettivi e su momenti comunitari, su un livello narrativo di memoria territoriale e di storia nazionale. La vita in famiglia, i rapporti tra uomini e donne, gli approcci amorosi, le partenze in cerca di lavoro, i riti e le persecuzioni del fascismo, la guerra dei tedeschi e l’arrivo degli alleati e ancora: la bandiera rossa issata nel punto più alto del paese il 1° maggio 1930, il suicidio per amore dall’alto della torre, l’assalto al silos di grano il 9 settembre 1943, i racconti di “quando faceva davvero la neve”, le lotte fra “bianchi e rossi”, i comizi di Gigi il sindacalista, la figura del calzolaio comunista chiuso per l’intero ventennio fascista in casa, sono altrettanti topoi della memoria che attraversano la maggior parte delle storie di vita raccolte.

Si tratta insomma dello studio di luoghi in quanto “cantieri” della memoria e nella consapevolezza che le “pietre, il paese o la valle narrano il racconto delle generazioni che si sono succedute” e che “sui muri di chiese, di palazzi, di fontane si conservano le tracce di gesti ripetuti”. È qui infatti che si forgiano i ricordi e si alimenta la memoria, che può essere letta sui segni delle cose e può essere ascoltata e catturata nel racconto generazionale. Un’operazione che muovendo dalla memoria collettiva (che è stata definita come “un insieme di rappresentazioni del passato elaborate all’interno di un gruppo sociale”) può acquistare la dimensione di “storia” con una “problematica apertamente contemporanea” e un “procedimento decisamente retrospettivo”: rinunciando cioè “ad una temporalità lineare” a vantaggio di “molteplici tempi vissuti”. Anche se la questione del rapporto tra storia e memoria non appare di facile applicazione e soluzione. I due termini non sono sinonimi, anzi appaiono di difficile compatibilità “ambientale”: la memoria è un “fenomeno sempre attuale”, “in evoluzione permanente”, “aperta alla dialettica del ricordo e dell’oblio”; la storia è la ricostruzione di “qualcosa che non c’è più”, “una rappresentazione del passato” che non può essere adattata al presente.

In un recente saggio che prende in esame i segni e i luoghi delle stragi nazifasciste in Emilia-Romagna, Enrica Cavina e Irene Di Jorio (2008), prendendo spunto da alcune pregevoli suggestioni (Gallerano 1999), hanno mostrato che le “forme specifiche” che caratterizzano lapidi, cippi, monumenti, possano ricadere in una diversificazione concettuale che di volta in volta rimanda lessicalmente al termine ricordo oppure al termine memoria o invece al termine storia.

Infatti “il ricordo racchiude in sé una dimensione affettiva” che tende ad esprimersi attraverso le lapidi e i cippi, in quanto monumenti funerari tradizionali attraverso i quali chi ha avuto un “legame intimo“ con le vittime e ha “condiviso il momento del lutto” celebra la loro morte. In questo senso “i luoghi e i tempi di apposizione esprimono” il bisogno della comunità coinvolta “di ricordare dove e quando gli affetti sono venuti meno”. È un ricordo di tipo interpersonale fra vittima e superstiti e è “soggetto a diluirsi con il passare del tempo”, a differenza di quanto succede con il monumento che implica invece una “memoria” commemorativa all’interno di una “dimensione collettiva e pubblica”. Gli “attori della memoria”, cioè di coloro che decidono l’erezione di un monumento, non sono parenti e amici di coloro a cui il monumento è dedicato; sono piuttosto istituzioni e enti pubblici che con il manufatto ad memoriam affidano alla collettività una “storia esemplare”. In questo caso la morte non è più intesa come la perdita dolorosa di una persona cara, ma assurge al significato di “sacrificio dell’eroe per il futuro della propria collettività”. Il monumento assume cioè una “dimensione che va oltre il ricordo poiché trasforma l’evento in exemplum”, da celebrare periodicamente all’interno di date e partecipazioni ufficiali e istituzionali.

“Il ricordo è di chi ha vissuto l’evento, la memoria è sia di chi ha vissuto l’evento sia di chi lo ha sentito raccontare”; la storia è indagine e interpretazione del passato “di cui può far parte tanto la memoria quanto il ricordo” ma “ricordo, memoria e storia non sono compartimenti stagni: al contrario, sembrano legati da rapporti circolari”. Infatti, come chiarisce Anna Rossi-Doria (1998) “la memoria tende a rendere presente il passato; la storia ne ratifica e ne persegue la irreparabile separazione. Si potrebbe dire che in un certo senso la memoria rifiuta la morte, la storia l’accetta”.

La storia è la disciplina del contesto; la memoria è “il presente del passato”. Sulla base di questa differenziazione contenutistica e concettuale si è alimentata da parte della storiografia tradizionale una diffidenza verso le esperienze di “storia orale” della seconda metà del secolo scorso. Certo, in molti casi si è trattato di improvvisazioni ingenue o di strumentali scelte in contrapposizione alla storiografia “dei vincitori” e delle classi dominanti, ma non va neppure sottovalutato l’impegno e le finalità che certa “storia orale” nascondeva: il recupero di testimonianze su capitoli di storia contemporanea i cui documenti ufficiali giacevano in archivi non consultabili. Per la legge dei “70 anni”, pagine come quelle della Resistenza e dell’antifascismo, della Shoà e degli eccidi nazifascisti difficilmente potevano essere studiate sui documenti d’archivio e in questi casi la “storia orale” ha svolto un ruolo importante e imprescindibile. Tuttavia, la nascita dei nuovi strumenti di comunicazione di massa, come la televisione, il computer, o Internet non ha modificato solo il modo di fare storia, ma ha ridefinito la stessa memoria collettiva, generando attraverso l’utilizzo di immagini, filmati, registrazioni sonore una memoria visiva e virtuale che si è giustapposta a quella scritta e orale. Ecco che allora, ricalcando le orme di ciò che è stato fatto dal Settecento in poi in tutte le nazioni europee con la costituzione di musei, archivi, biblioteche nazionali, si può veramente pensare alla possibilità di far convivere a fianco degli archivi cartacei ufficiali, istituzionali e privati, “banche” e “archivi” virtuali. Files di voci e di immagini per tramandare e quindi far confluire anche la memoria del passato nei documenti della storia. La storia del “secolo breve” oggi è ancora in parte recuperabile attraverso la memoria. Oggi che di memoria si parla assai più che di storia, il recupero e la considerazione della prima appare come un transito obbligato verso la conoscenza della seconda, che a tutti gli effetti non è nient’altro di più e nient’altro di meno di un qualsiasi “documento/monumento”, e quindi parimenti legittimato ad essere usato e consumato – beninteso con le stesse cautele e metodologie – dalla storiografia di oggi e di domani.

La rivoluzione metodologico-documentaria e la rivoluzione tecnologico-mediatica che hanno investito la società e (anche) il lavoro storiografico negli ultimi decenni, hanno mutato il rapporto stesso che correva tra storia e memoria, ma hanno anche modificato l’immagine stessa del passato che, pur in presenza di una dotazione ed elaborazione continua di elementi informativi, appare sempre più labile e meno attraente. Soprattutto di fronte alla considerazione dei giovani che hanno ormai perso il senso della memoria (quella che conservava e tramandava in primis la famiglia con i suoi riti, le sue occasioni periodiche di incontri parentali allargati e la trasmissione per narrazione da parte degli anziani) e l’interesse verso la storia. Anche se questo non è una novità; già Nietzsche sosteneva che la storia era “un’occupazione da vecchi”, un “culto dei morti”, e che era proprio dei vecchi “guardare indietro”, “cercare conforto nel passato”. Ma a parte la provocazione del filosofo, il passato c’era, incombeva e i giovani ne erano consapevoli. Invece perché i giovani oggi dovrebbero interessarsi alla storia? Perché lo studio del passato dovrebbe attirarli? Secondo Augusto Placanica la storia è “il solo mezzo per farsi un’idea di uomini e di cose” del passato e questo permetterebbe di comprendere i problemi del presente. Far capire come e perché la società di oggi è diventata quella che è, e dunque come siamo fatti noi, uomini dei nostri giorni, è l’obiettivo dell’insegnamento e dell’apprendimento della storia. Altrimenti nulla giustificherebbe il “conoscere e studiare cose vecchie e sepolte”. Ma siamo sicuri che ai giovani basti questa motivazione per appassionarsi alla storia? In fondo l’affermazione di Friedrich Nietzsche, almeno fino al 1968, ha coinciso con la concezione di una storia intesa come strumento del potere “per educare le nuove generazioni all’obbedienza, al rispetto delle gerarchie sociali”. Venute meno le “identità collettive”, le nuove generazioni (e forse non solo loro) si sono assuefatte “ad un oggi senza passato”. E proprio su questo “oggi senza passato” (Prodi, 1999) si sofferma Piero Bevilacqua (1997), secondo il quale la “crescente insensibilità” giovanile nei confronti della storia è indice di un loro “mutamento psicologico e culturale” che si basa su un “nuovo modo di sentire il passato”. Un modo che trova terreno fertile nei cambiamenti che ha subito la famiglia negli ultimi sessantenni, fino ad essere qualcosa di profondamente diverso dalla “cellula da cui si generava la necessità della ricostruzione storica”: attraverso la trasmissione dei nomi e il “dialogo fra generazioni” (da nonni, genitori e figli all’interno della casa); attraverso “l’elaborazione del ricordo” e con “l’attivazione della memoria” (ricorrenze, ricordi, volti, dialetti, soprannomi, feste). La famiglia come un insieme di identità sociali in cui “il passato non veniva quotidianamente buttato via [ma] occupava un posto rilevante, costituiva una parte integrante, emotivamente viva, dell’esperienza di vita di ognuno”.

Tutto ciò ha subito una trasformazione attraverso i nuovi ritmi di vita, di lavoro, di svago e di studio che impediscono la rielaborazione dei ricordi e delle esperienze. Al posto di tutto questo è subentrato un “eccesso di informazione”, in cui i fatti sono “senza storia”, isolati nel tempo e nello spazio: “senza vincoli, senza passato e senza futuro”. Ma Bevilacqua non chiama in causa solo la famiglia: è l’intero corpo sociale e culturale che, con i suoi cambiamenti, minaccia la memoria e la storia. Con “l’affievolirsi dell’attitudine religiosa”, con il “declino delle grandi ideologie del XX secolo”, con l’indebolimento dello Stato-nazione, “formidabile contenitore di memorie collettive”, infatti è venuto meno anche il bisogno del racconto storico e “il passato ha perso la sacralità” o ha cessato “di essere una premessa indispensabile per l’avvenire”. In questa maniera “agli occhi di un numero crescente di ragazzi, la storia finisce con l’apparire un grottesco e insensato culto dei morti”. La storia in fondo, ricorda ancora Bevilacqua (1997), “non è che il racconto di imprese collettive. Se si indebolisce il senso dello stare insieme, se l’individualismo rimane l’unica bussola […], la memoria del comune passato viene abbandonata. Non ha più senso”.

Tutti hanno bisogno del passato “in cui affondare le proprie radici”: in un certo senso – attraverso le memorie collettive e la storia – si esplica una funzione parallela a quella “che lo psicanalista esercita a proposito della coscienza individuale”. Infatti, in entrambi i casi, lo scopo è di “fare emergere brandelli che rimangono nascosti e non emergono in superficie se non con un paziente lavoro di ricerca” (Prodi, 1999). La differenza è che lo psicanalista lavora sulle storie individuali, lo storiografo su una dimensione collettiva.

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2004                L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Bologna, Il Mulino.

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2001                L’età moderna. Alle radici del presente: persistenze e mutamento, Milano, Bruno Mondadori.

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2008                Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, Torino, Einaudi.

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