di Tito Menzani
Da alcuni anni è rifiorita una storiografia che si occupa di territori montani, e che – memore delle lezioni di Raul Merzario – affronta la storia delle comunità valligiane al di fuori degli stereotipi dell’arretratezza culturale ed economica. Ad oggi, è stato soprattutto l’arco alpino ad essere indagato in tal senso, spesso sulla base di progetti internazionali che si sono sforzati di cogliere i tratti comuni che interessavano i diversi versanti, come ha fatto il centro studi Labisalp di Mendrisio. Più in generale, a livello europeo, numerosi altri ricercatori si sono di recente accostati allo studio dei rilievi orografici, da Marie-Pierre Arrizabalaga per i Pireni, a Hovann H. Simonian per i Monti del Ponto in Turchia, solo per citare due esempi tra i tanti che si potrebbero fare.
Il volume di Alberto Malfitano – ricercatore di storia contemporanea all’Università di Bologna – entra all’interno di questo dibattito con un caso di studio effettivamente ancora poco noto e di assoluto interesse: l’Appennino emiliano-romagnolo, nel tratto che va dal Reno all’Adriatico. L’analisi inizia dagli anni quaranta del XIX secolo, quando già l’amministrazione pontificia si interrogava sulle criticità che il territorio montano cominciava a mostrare.
I problemi dell’assetto idrogeologico, le preoccupazioni per un’agricoltura meno efficiente, la questione dell’isolamento di certe valli rispetto al contesto più dinamico dell’asse della via Emilia sono solamente alcuni dei temi che animarono la discussione prima e dopo l’Unità d’Italia. A ben vedere, si tratta di aspetti che vennero sollevati anche in seguito, ma principalmente entro un quadro analitico novecentesco che – progressivamente – iniziò a vedere nello spopolamento e nella senilizzazione della popolazione montana i principali problemi con cui fare i conti.
Di qui la messa in campo di una serie di politiche di sostegno allo sviluppo montano, non esenti da accompagnamenti retorici o trionfalistici, che talvolta impattarono su una situazione di concreto disagio, ed ebbero – entro certi limiti – un effetto di contenimento dei costi sociali. Va da sé che queste scelte non si limitarono a cercare di frenare l’emorragia che stava interessando le valli bolognesi e romagnole attraverso agevolazioni fiscali o incentivi per le attività produttive montane, ma si indirizzarono verso una valorizzazione delle peculiarità che l’Appennino offriva, per esempio in termini di risorse boschive, naturalistiche o simili.
Si tratta di prodromi che anticiparono la successiva politica regionale per la montagna, della quale Malfitano non si occupa, poiché la ricerca giunge fino al 1970. Ad ogni modo, nel dibattito che l’autore ricostruisce e ripercorre è ben visibile quel solco che perimetra il territorio appenninico e lo colloca di volta in volta nell’agenda politica dei governi dell’Italia liberale, dell’Italia fascista, dell’Italia repubblicana. L’idea di una forte specificità di questo ambito geografico – percepito da molti come una zona di antiche tradizioni da preservare – è stata uno dei leit-motiv che hanno condizionato gli approcci al problema.
È forse più rimasta sullo sfondo, spiega Malfitano, la capacità di liberarsi dalla gabbia interpretativa di un territorio montano “al servizio delle città e delle aree della pianura padana”, che come tale veniva giudicato e percepito in funzione delle ricadute a valle. Si va dalla necessità di sistemare i corsi d’acqua per limitare il trascinamento dei detriti che ostruivano gli alvei dei fiumi nei tratti pianeggianti, alla percezione della migrazione come un problema di congestionamento dei centri lungo la via Emilia, più che di depauperamento delle zone appenniniche. Una svolta in tal senso si colloca proprio negli anni settanta del Novecento, con la creazione dell’Ente Regione, il quale, a sua volta, prelude alla nascita delle Comunità montane, deputate all’assolvimento di compiti specifici e come tali portatrici di un angolo visuale endogeno.
In appendice al volume troviamo una serie di importanti rilevazioni statistiche, ma soprattutto una decina di bellissime immagini storiche – splendida anche quella scelta per la copertina – che contribuiscono a rievocare le atmosfere di vita materiale, nel nostro immaginario collettivo idealmente divise fra i disagi delle zone impervie e l’armonia delle verdi e sinuose colline.
In estrema sintesi, il volume di Malfitano scandaglia una serie di temi e problemi di prim’ordine del nostro territorio, e li declina sul piano storiografico, per dare spessore a vicende e dibattiti che ad alcuni possono apparire recenti, ma che al contrario hanno un retroterra molto più vasto. Se una serie di domande trovano risposta – in primis in merito al ruolo svolto dalle élites politiche e intellettuali cittadine nelle produzione di una legislazione specifica per la montagna – alcune altre questioni sono poste all’attenzione di chi legge, ma la risposta è rinviata ad ulteriori approfondimenti e studi.
In particolare, si attende di comprendere se lo sviluppo turistico moderno – dagli anni del miracolo italiano ad oggi – abbia svolto o meno un ruolo decisivo a livello identitario e soprattutto economico. Infatti, dalle “villeggiature” di cinquant’anni fa agli attuali percorsi eno-gastronomici, il territorio montano è diventato sempre più meta di viaggi ed escursioni. È questo, forse, uno dei temi che meriterebbero uno studio storico dedicato.