Bettino Ricasoli Imprenditore agricolo e pioniere del Risorgimento vitivinicolo italiano Convegno di studi, Siena, 18 novembre 2009

Christian Satto

Mercoledì 18 novembre 2009 ha avuto luogo presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Siena il convegno Bettino Ricasoli imprenditore agricolo e pioniere del Risorgimento vitivinicolo italiano grazie all’impegno organizzativo del Centro interuniversitario del Cambiamento sociale e dell’innovazione (Ciscam, Università degli studi di Siena), diretto da Maurizio Degl’Innocenti, e al patrocinio del Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario della nascita di Bettino Ricasoli, presieduto da Sandro Rogari.

Come si evince già dal titolo, il convegno in questione ha privilegiato la figura del Ricasoli imprenditore in campo agricolo. Infatti, tra il “Barone di Ferro” e l’agricoltura, come ha spiegato Zeffiro Ciuffoletti nella sua ampia relazione di apertura della prima sessione di lavori coordinata da Sandro Rogari, vi fu un legame profondo e duraturo non riconducibile esclusivamente al puro interesse economico, bensì ad un più alto ideale di “missione” civilizzatrice. “Io amo – scrisse al fratello Vincenzo nel gennaio del 1863 – di preferenza a tutto l’agricoltura e la vita di campagna, congiunta al progresso civile e morale dei miei dipendenti. La vita pubblica l’aborro”. Ricasoli assegnava un ruolo centrale ai proprietari che con la loro pratica assenteista erano stati i responsabili primi della decadenza dell’agricoltura toscana. Essi avrebbero dovuto riscattare la loro condotta trasformandosi da percettori di rendita incuranti in imprenditori agrari attivi e responsabili, a dimostrazione che l’aristocrazia terriera era ancora in grado di proporsi come una classe dirigente credibile e capace di affrontare le istanze politiche e sociali che accompagnavano l’ascesa di nuovi ceti sociali che con essa sarebbero dovuti venire a patti. L’unica via per porre rimedio a questa situazione era quella di tornare ad esercitare il ruolo di guida attiva, dedicandosi all’educazione dei contadini dipendenti dalle loro fattorie. “Per far progredire – scrisse all’agronomo Luigi Della Fonte nel gennaio del 1875 – l’agricoltura occorre che i proprietari se ne invaghiscano; […] senza l’agricoltura non sarà rimuneratrice”. Per questo impegno, ha sottolineato ancora Ciuffoletti, quello di Bettino Ricasoli è stato considerato un caso esemplare nel dibattito storiografico sulla mezzadria in Toscana iniziato nel secondo dopoguerra. Il barone, pur non partecipando direttamente ai dibattiti sull’opportunità o meno di mantenere la mezzadria che animarono l’Accademia dei Georgofili tra gli anni trenta e cinquanta del secolo XIX, perseguì una più razionale organizzazione del sistema mezzadrile attraverso l’accentramento delle scelte produttive strategiche nella fattoria, ridando così vigore alla figura del proprietario-imprenditore (sistema di fattoria). Un proprietario imprenditore, inoltre, molto attento ai nuovi ritrovati della scienza che potevano affiancarsi utilmente a quel modello di agricoltura miglioratrice da lui perseguito.

Nella seconda parte del suo intervento, invece, Ciuffoletti si è soffermato sull’impegno profuso dal “vignaiuolo del Chianti” per produrre un vino italiano di grande qualità facendosi affiancare nell’impresa da valenti scienziati quali il professor Cesare Studiati dell’Università di Pisa che lo aiutava nelle analisi dell’acidità dei vini. Anche in questo, infatti, il barone rivelò il suo spirito sperimentatore, curioso delle migliorie che le nuove conoscenze chimico-scientifiche avrebbero potuto apportare alla produzione vitivinicola. In particolare egli voleva servirsene per combattere quell’acidità che si manifestava nei vini di Brolio tra il secondo e terzo anno di invecchiamento che ne comprometteva il gusto. In una celebre lettera inviata a Cesare Studiati il 26 settembre del 1872, Ricasoli esplicitava la composizione dei vini di Brolio, composizione destinata a molto influire sulla storia del “Chianti Classico”: “Il vino riceve dal Sangioveto la dose principale del suo profumo (a cui io miro particolarmente) e una certa vigoria di sensazione; dal Canajolo l’amabilità che tempera la durezza del primo, senza togliergli nulla del suo profumo essendone pur esso dotato: la Malvagia, della quale si potrebbe fare a meno nei vini destinati all’invecchiamento, tende a diluire il prodotto delle due prime uve, ne accresce il sapore e lo rende più leggero e più prontamente adoperabile all’uso della tavola quotidiana”. Gli esperimenti enologici erano iniziati nel 1840 ed erano diventati più serrati dopo il 1867, vale a dire all’indomani delle fine della seconda esperienza ministeriale di un Ricasoli che da quel momento in poi sentirà la politica italiana sempre più estranea. I miglioramenti nella conduzione aziendale e nella produzione vitivinicola, quindi, furono una parte rilevante dell’attività imprenditoriale del barone imprenditore ed agronomo.

La “missione” di innovatore in agricoltura, come ha illustrato Danilo Barsanti nella sua relazione, Ricasoli tentò di esplicarla anche in Maremma dove nel 1855 aveva acquistato, stimolato dal fratello Vincenzo già proprietario, la grande tenuta di Barbanella, alle porte di Grosseto. Il tratto distintivo di questa nuova esperienza del barone fu l’ingente impiego di macchine. L’esperienza maremmana lo portò a criticare duramente la scelta operata dal governo granducale negli anni cinquanta di disimpegnarsi dalle opere di bonifica, scelta questa in contrasto con gli sforzi profusi nel ventennio 1828-48 quando per volontà di Leopoldo II, che al risanamento della Maremma aveva dedicato tutto se stesso, erano stati realizzati enormi progressi, ora messi a repentaglio dall’incuria. Sulla scelta del governo granducale non poteva non pesare l’enorme peso economico provocato dal mantenimento sul suolo toscano degli occupanti austriaci. Tuttavia, ha concluso Barsanti, Bettino Ricasoli presidente del consiglio per due volte all’indomani dell’Unità poco fece, come del resto tutta la destra storica allora al potere preoccupata da altre sfide prima fra tutte la costruzione dello Stato, per ridare slancio alle politiche di bonifica.

Un altro scenario nel quale Ricasoli dette prova della sua abilità agronomica nel corso degli anni cinquanta dell’Ottocento, fu la fattoria che possedeva nel Valdarno Superiore, oggetto della relazione di Christian Satto, nella quale fra le altre cose egli sperimentò la bachicoltura per controbilanciare i danni provocati alla viticoltura a partire dal 1852 dall’oidium.

A partire da quello stesso anno, inoltre, Ricasoli divenne il riferimento politico della comunità di Terranuova che in lui identificò il proprio tutore e il proprio rappresentante anche a livello nazionale. In quel comune, così come a Gaiole, egli tenne ininterrottamente fino alla morte (1880) la carica di consigliere comunale promuovendo opere di interesse pubblico per quell’area, su tutte il ponte sull’Arno che collegava Montevarchi a Terranuova e più in generale il Chianti con il Valdarno, senza dimenticare il suo impegno per la ferrovia aretina il cui tracciato attraversava il Valdarno Superiore. Insomma, anche nel Valdarno si concretizzarono sia l’impegno economico che quello politico perseguiti entrambi con quel senso di responsabilità e di missione che contraddistinsero sempre l’operato di Bettino Ricasoli.

Antonio de Ruggiero, invece, si è soffermato sull’intenso rapporto che ha legato il barone di Brolio all’Accademia dei Georgofili, della quale entrò a far parte dal 1834, che fu un vero centro propulsore delle innovazioni agrarie grazie soprattutto al respiro internazionale che la caratterizzò sempre. La grande attenzione verso tutte le nuove idee relative all’agricoltura, propria anche di Bettino Ricasoli, fu, infatti, una componente essenziale delle vicende legate all’Accademia dei Georgofili durante tutto il periodo risorgimentale, in particolare per i rapporti di confronto scientifico con enti e persone in Europa e fuori dal continente che questa promosse. In tale contesto il barone di Brolio, che fin da giovanissimo aveva mostrato una notevole attitudine per gli studi scientifico-naturalistici, ai quali si avvicinò guidato da maestri quali Antonio Targioni Tozzetti e Carlo Passerini, poté approfondire e mettere in pratica la propria cultura agronomica. De Ruggiero ha infine sottolineato come l’Accademia, negli anni del Risorgimento, fosse divenuta l’espressione degli interessi di quella classe di proprietari, in massima parte innovatori e propugnatori del progresso tecnico-scientifico in agricoltura, che avrebbe costituito la costola toscana classe dirigente moderata di cui Ricasoli, come è noto, fu l’esponente di maggior prestigio.

Nella seconda sessione dei lavori, presieduta da Maurizio Degl’Innocenti, il Ricasoli imprenditore ha lasciato il posto ad alcuni interventi che hanno contestualizzato il barone nella politica e nella cultura economica del suo tempo (Paolini e Cardini) e ai primi passi della storiografia ricasoliana (Moretti).

Con uno dei temi classici della storiografia ricasoliana si è misurato Gabriele Paolini che ha fatto il punto sulla soluzione della questione romana proposta da Ricasoli durante i suoi due mandati di presidente del Consiglio (1861-62 e 1866-67). “Senza Roma l’Italia non è, e la libertà vera e compiuta neppure”. Quest’affermazione del 1861 riassume con efficacia l’atteggiamento di Bettino Ricasoli nei confronti del problema di Roma capitale, per lui intrecciato indissolubilmente con quello della libertà della Chiesa. Forte di questa convinzione e di una profonda fede religiosa, Ricasoli si distinse all’interno della classe dirigente postunitaria per la ricerca di concrete iniziative politiche per agevolare una profonda riforma della Chiesa, obiettivo per il quale il potere temporale costituiva il primo ostacolo da superare, che consentisse in pari tempo di sciogliere il nodo di Roma capitale. Nel 1861 tentò un approccio diplomatico, insistendo in particolare con la Francia di Napoleone III, mentre nel 1867 cercò di abbinare alla liquidazione dell’asse ecclesiastico, passo fondamentale per salvare la credibilità finanziaria del giovane stato che dopo la terza guerra d’indipendenza sfiorava la bancarotta, il “grande principio di separazione dello Stato dalla Chiesa”, come egli lo chiamava. Tuttavia, la politica promossa dal barone suscitò forti perplessità non solo nella sinistra, ma nella sua stessa maggioranza, molto cauta in fatto di concessioni alla Chiesa. Egli non riuscì a ricompattare il proprio schieramento neanche ricorrendo alle elezioni (10 e 17 marzo 1867) dopo le quali si dimise non tornando più a ricoprire incarichi ministeriali, ma rimanendo comunque uno dei riferimenti dello schieramento moderato.

Antonio Cardini, invece, si è soffermato sul rapporto fra Ricasoli e la cultura economica liberista del tempo, notando come la Toscana sia stata un ambiente molto favorevole al liberismo fin dal settecento quando teorici quali Sallustio Bandini e Ubaldo Montelatici, fondatore dell’Accademia dei Georgofili, prepararono il terreno per le riforme economiche varate da Pietro Leopoldo. Un liberismo, quello toscano, strettamente legato ad un’economia agraria, per il miglioramento della quale Ricasoli si spese per tutta la vita considerando l’agricoltura la vera leva di sviluppo per la nuova Italia nata dal Risorgimento. Il legame fra la proprietà agraria e la destra storica, in particolare quella toscana, fu molto stretto essendo la maggior parte degli esponenti di questa dei possidenti, tuttavia ciò non impedì l’affermarsi di una cultura economica liberista, figlia anche dell’apertura internazionale che caratterizzò il liberalismo italiano ottocentesco, che vide personalità come Ricasoli battersi per uno sviluppo economico che mettesse l’Italia al passo con le altre potenze europee.

L’intervento conclusivo di Moretti, invece, si è articolato intorno ai primi passi mossi dalla storiografia ricasoliana analizzando le prime biografie del barone, da quella di Francesco Dall’Ongaro, uscita nel 1861 con Ricasoli ancora in vita, a quella classica di Aurelio Gotti del 1894, senza dimenticare l’edizione, non sempre fedele alle necessità della critica storica, delle Lettere e documenti del barone Bettino Ricasoli, uscita in dieci volumi fra il 1887 e il 1895 per cura dello stesso Gotti e di Marco Tabarrini. Obiettivo di Moretti era focalizzarsi su alcuni aspetti della ‘fortuna’ storiografica di Ricasoli, inquadrandola nel più generale processo di sviluppo degli studi sul Risorgimento che lentamente da politici si fanno storici, per poi approdare alle successive riflessioni offerte dalla storiografia italiana su alcuni temi ricasoliani quali quelle proposte da Giovanni Gentile, Federico Chabod e Carlo Pischedda.

In assenza, a distanza da duecento anni dalla nascita, di una biografia critica complessiva di Bettino Ricasoli, tali infatti non possono considerarsi i pur documentati lavori di Enrica Viviani della Robbia o di Fausto Landi, il convegno senese, i cui atti sono in pubblicazione, ha cercato di fare il punto sui principali nodi storiografici riguardanti un personaggio sicuramente complesso che ancora oggi si presta a molti approfondimenti. In questa sede si è riusciti a cogliere diversi aspetti caratterizzanti del barone cercando di tenere collegata la dimensione imprenditoriale con quella politica, dalle quali emerge come per Ricasoli la dimensione personale sia sempre stata strettamente connessa a quella nazionale.