Il “Corriere della Sera” e i Fasci siciliani

Alberto Malfitano

Abstract

A fine Ottocento, il “Corriere della Sera”, sotto la direzione di Eugenio Torelli Viollier che lo rese il foglio della borghesia moderata lombarda, in contrapposizione al progressista “Secolo”, acquisì le caratteristiche per divenire il giornale più venduto in Italia, un traguardo che avrebbe raggiunto a inizio Novecento con Luigi Albertini. Tra i tasselli di questa ascesa vi fu anche l’attenzione per il genere dei reportages, e quello firmato nel 1894 da Alfredo Comandini, che descriveva l’agitazione dei Fasci siciliani, fu uno dei più fortunati del decennio. Oltre a favorire l’aumento della tiratura, gli articoli di Comandini aprivano all’attenzione dell’opinione pubblica del Nord, specie lombarda, uno squarcio sulle dure condizioni sociali del più profondo Sud, segnando un passo importante per il giornalismo italiano, che contribuiva alla conoscenza di un Paese ancora frammentato e attraversato da profonde tensioni.

Il contesto: Le agitazioni in Sicilia e la situazione politica nazionale

23 dicembre 1893: Francesco Crispi, appena tornato al governo, chiede e ottiene dal Consiglio dei ministri la possibilità di proclamare lo stato d’assedio per la Sicilia. Il gravissimo provvedimento sarebbe stato poi adottato alcuni giorni più tardi, il 3 gennaio 1894, per stroncare il movimento dei Fasci siciliani, una vasta agitazione contadina che da parecchi mesi turbava l’isola. La mossa del governo venne approvata dalla maggioranza dell’opinione pubblica borghese, portata a giustificarne l’adozione per il timore suscitato dalle forze popolari, in primo luogo socialiste, che anno dopo anno diventavano sempre più organizzate e diffuse nel paese e, nel caso specifico, per i timori suscitati da una realtà siciliana in ebollizione. Nell’isola, da un paio d’anni, un ampio movimento dei lavoratori sfidava i proprietari terrieri e le autorità, chiedendo una radicale revisione dei contratti di lavoro e dei patti colonici. All’iniziale agitazione dei braccianti si era unita anche quella dei mezzadri, che condividevano con i primi una condizione miserevole e appena al di sopra della soglia di sussistenza. La presenza di un padronato agricolo molto forte schiacciava le due classi, in altre zone d’Italia divise socialmente e politicamente, nella medesima disperazione, e le portava su posizioni convergenti, fino a riconoscersi in un’organizzazione inedita, che era sia “lega di resistenza esercitante un’azione sindacale finalizzata al raggiungimento di obiettivi specifici”, sia “organizzazione politica attivamente impegnata sul terreno della propaganda per la crescita della coscienza politica dei lavoratori” (Fedele 1994, 17).

Il primo Fascio era nato a Catania il 1° maggio 1891, e nei mesi seguenti il movimento si era esteso con ritmo crescente tanto che, nel 1893, si contavano Fasci di lavoratori ormai in tutta l’isola. Le drammatiche condizioni dei lavoratori, le conseguenze della guerra commerciale in corso da alcuni anni con la Francia, che aveva azzerato un’intera classe di piccoli e medi produttori vinicoli, un fisco iniquo, crearono condizioni generalizzate di disagio che esplosero a fine 1893, quando le conseguenze del cattivo raccolto esasperarono gli animi e diedero la stura ad agitazioni spontanee. Contro di esse si scagliò la repressione poliziesca, con decine di morti e feriti tra i lavoratori di diversi paesi, tra il dicembre 1893 e il gennaio 1894.

Ad accrescere il senso di pericolo incombente che la borghesia italiana avvertiva leggendo le notizie provenienti dalla Sicilia, era la grave crisi che colpiva tutta Italia, crisi che si declinava in diversi settori. In primo luogo quello economico, dove ancora si avvertivano pesantemente le conseguenze sia della fine dell’età dell’oro della speculazione edilizia, specie nella capitale, sia quelle della generale crisi dell’economia mondiale iniziata negli anni Settanta. Gli effetti si erano fatti sentire sulla finanza nazionale, facendo progressivamente emergere il grumo di interessi, spesso illeciti, tra economia, istituti finanziari e politica, specialmente per ciò che riguarda i reati commessi dalla Banca romana, guidata in maniera fin troppo disinvolta da Bernardo Tanlongo. L’opinione pubblica era disorientata, colpita da uno scandalo dai contorni pochi chiari ma sicuramente enorme, che si trascinò per anni gettando fango su uomini politici anche di primo piano, a loro volta impegnati ad accusarsi l’un l’altro, mentre cresceva il rimpianto per i tempi eroici del Risorgimento, e l’Italia diventava più simile alla Francia scossa dagli scandali legati alla costruzione del canale di Panama, senza però averne il peso e il ruolo da protagonista sulla scena internazionale.

Era dunque un contesto drammatico, quello in cui il governo di Giovanni Giolitti si dibatteva. Al potere dal maggio 1892, il politico piemontese, alla sua prima esperienza da presidente del Consiglio, si trovò via via coinvolto sempre più nello scandalo della Banca Romana, specie dall’inizio del 1893: gli si rimproverava, in particolare, di essere già a conoscenza delle gravi irregolarità di cui l’istituto si era macchiato, ma di non averle mai denunciate, e di avere anzi nominato come senatore il suo direttore, Tanlongo. Nell’autunno del 1893 la posizione di Giolitti si fece insostenibile. Fu presentata in Parlamento la relazione della commissione d’inchiesta, e sebbene l’accusa che gli era stata mossa, di avere goduto di un passaggio di denaro della Banca Romana, non fosse provata, fu comunque costretto alle dimissioni, il 21 novembre 1893.

La crisi politica si incrociò quindi con quella economica, finanziaria, sociale: il panico colpì le banche, e tra novembre e gennaio del 1894 due grossi istituti, il Credito mobiliare e la Banca generale, chiusero i battenti, trascinando con sé altri piccoli istituti, collettori del denaro di tanti piccoli risparmiatori di provincia ma anche di uomini politici con pochi scrupoli che sulla connivenza delle piccole banche, protette dalla Banca Romana, avevano costruito i propri piccoli imperi notabilari.

Il tutto avveniva mentre in Sicilia la situazione precipitava. Il governo Giolitti aveva evitato, nei mesi precedenti, di adottare misure eccezionali, che pure molti avevano invocato. Ciò non aveva scongiurato gravi episodi di violenza, come l’eccidio di alcuni lavoratori a Caltavuturo, in provincia di Palermo, nel gennaio 1893. Eventi tragici ma tutto sommato isolati mentre, alla fine di quello stesso anno, la pratica brutale da parte dell’esercito di sparare sui dimostranti era diventata tragicamente frequente: 11 morti a Giardinello, altrettanti a Lercara, e numerosi feriti a Monreale, tutti tra i lavoratori, formavano il drammatico bilancio della repressione nel solo mese di dicembre. In questo contesto, il desiderio di un uomo forte, che potesse riportare l’ordine in un’Italia squassata dai moti sociali, dagli scandali e dalla crisi finanziaria, diventava sempre più diffuso e penetrava tra i ceti borghesi nazionali. Dopo un breve tentativo di Giuseppe Zanardelli, Francesco Crispi sembrò il politico più adatto per risolvere i gravi problemi esistenti.

Il “Corriere della Sera”

Il “Corriere”era nato da poco, nel 1876, ma negli anni Novanta aveva già raggiunto una diffusione e un’autorevolezza che gli consentivano di giocare un ruolo importante nel dibattito politico nazionale. Dopo un primissimo periodo vissuto faticosamente, da foglio modesto che tentava di strapparsi a una condizione provinciale e scapigliata, a partire dai primi anni Ottanta, Eugenio Torelli Viollier, fondatore e direttore, riuscì a fargli superare le maggiori difficoltà, a dotarlo delle prime penne talentuose, e a renderlo sempre più il quotidiano della borghesia moderata lombarda, in contrapposizione al progressista “Secolo”. L’ingresso dei capitali dell’industriale del cotone Benigno Crespi, nel 1885, aveva favorito un ulteriore salto di qualità, tanto che, guardando ai primi decenni di vita, la seconda metà degli anni Ottanta segnò forse il momento più felice del quotidiano: una polifonia di voci autorevoli scriveva fondi di grande interesse; “redattori viaggianti” (gli inviati speciali) si avventuravano nei Balcani, a raccontare le frequenti guerre che turbavano l’area più inquieta d’Europa, o in Africa orientale, a cercare notizie sulla prima timida espansione coloniale italiana; la tiratura cresceva e oltrepassava alla fine del 1889 le sessantamila copie dichiarate1.

Pur radicato sul territorio lombardo, portavoce degli interessi della locale borghesia industriale, e incline a difendere questo ruolo, il “Corriere”di Torelli mostrò fin dall’inizio, anche quando la ristrettezza di mezzi e tiratura avrebbe scoraggiato chiunque, l’ambizione di diventare un protagonista del dibattito politico nazionale. All’inizio degli anni Novanta questo status era ormai raggiunto. Aveva contribuito al successo anche la contrapposizione con le prime esperienze governative di Francesco Crispi, mai amato da Torelli Viollier: uomo della Sinistra storica il primo, incline al riformismo ma anche a una concezione forte dello Stato che tendeva a scivolare facilmente nell’autoritarismo del modello bismarckiano; fedele all’idea cavouriana dello Stato liberale, leggero, e alla sacralità dei principi statutari e delle leggi il secondo. Il concetto di ordine, presente in entrambe le concezioni, era pertanto declinato in maniera differente: per Crispi si intendeva il rafforzamento dell’autorità statale, da raggiungersi eventualmente anche con misure eccezionali, mentre per Torelli l’ordine sociale era concepibile solo in ottemperanza alla libertà: l’autorità suprema, cui tutto si doveva, non era quindi lo Stato, ma la legge, alla quale non si poteva derogare. In un paese che si era formato sulla spinta ideale del concetto di unione, ma anche di libertà, in odio ai passati e tanto esecrati regimi, ma in cui spesso le istituzioni avevano chiuso un occhio sull’effettivo rispetto di questo principio, la posizione di Torelli e del “Corriere” costituivano un’eccezione fatta di coerenza e indipendenza di giudizio, due termini alla base della fortuna del quotidiano milanese in quegli anni.

Quei principi avevano fatto sì che anche il predecessore di Crispi non godesse delle simpatie del “Corriere”: il giudizio sul governo Giolitti era rimasto inizialmente in sospeso, a tratti era stato anche positivo, poi era virato decisamente in senso negativo, dopo il novembre 1892 e l’uso di metodi spregiudicati da parte di Giolitti nella gestione delle elezioni politiche. Era un’accusa che avrebbe seguito il politico di Dronero anche nella seconda fase della sua carriera governativa, nella prima parte del Novecento, ma che Torelli già allora, tra 1892 e 1893, lanciava, e che i gravi sospetti sollevati dalla questione della Banca Romana aggravavano. Al contrario, Alfredo Comandini, al quale Torelli aveva affidato la direzione politica, era più disposto a concedere fiducia e meno scettico del fondatore del giornale nei confronti della politica e dei suoi giochi. Non a caso Comandini lasciò il posto da direttore quando fu eletto deputato, a fine 1892, per l’opposizione di Torelli, che asseriva, non a torto, che la sua nuova carica fosse incompatibile con la necessaria indipendenza di un direttore di quotidiano2. Consapevole del talento giornalistico di Comandini, Torelli gli chiese però di rimanere nella redazione, affidandogli il ruolo di commentatore politico da Roma, che il giornalista romagnolo accettò di buon grado.

Quando, dunque, Giolitti cadde, a fine 1893, Torelli non ebbe a rallegrarsi a lungo, perché ben presto il governo fu affidato a Crispi. Il direttore del “Corriere” tuttavia concesse all’anziano politico siciliano un’apertura di credito, concordata con Comandini. A questi scrisse un biglietto in cui raccomandava nei propri commenti romani “tatto e prudenza” e una freddezza “senza ostilità”3. Il 14 dicembre, poi, uscì il primo commento ufficiale del “Corriere” sul ritorno di Crispi al potere: l’uno accanto all’altro, campeggiavano in prima pagina l’editoriale di Torelli e il resoconto delle impressioni romane da parte di Comandini, in uno sforzo di dare un’impressione di omogeneità tra direttore e principale commentatore. Il senso dei due interventi era infatti lo stesso, sebbene nello stile Torelli si lasciasse andare molto di più a toni critici. Nonostante ritenesse Crispi “avido di gloria, amico del fasto, innamorato delle cose spettacolose, disprezzatore d’ogni calcolo aritmetico” e ricordasse che “dal primo giorno che entrò nel Ministero Depretis, pronosticammo male di lui, ed i fatti confermarono le nostre previsioni”, il direttore del “Corriere” era disposto a concedergli fiducia. I motivi stavano “nell’animo risoluto” del Crispi, nella sua conoscenza della Sicilia, nel prestigio che manteneva in larga parte dell’opinione pubblica e nella sua dichiarata volontà di unire il maggior numero di forze politiche per fronteggiare la grave situazione che il paese stava vivendo (“Corriere della Sera”, 14-15 dicembre 1893).

Crispi in effetti aveva invocato una “tregua di Dio” tra le forze politiche e contattato diversi esponenti a lui ostili, specie dell’Estrema sinistra, per garantirsi la loro neutralità o addirittura il loro appoggio: con Napoleone Colajanni, il deputato siciliano di idee repubblicane, si spinse fino a chiedergli di recarsi nell’isola a predicare la calma, ottenendone un iniziale appoggio. Contemporaneamente preparava lo stato d’assedio, una misura drastica che conferiva pieni poteri all’esercito, e che fu promulgata nei primi giorni del nuovo anno.

Alfredo Comandini in Sicilia

Il “Corriere della Sera”, dopo la fiducia accordata al presidente del Consiglio, non si pronunciò sui casi siciliani fino agli ultimi giorni del mese, quando un paio di interventi da parte dei collaboratori più prestigiosi mostrarono come il fenomeno dei Fasci e tutta la situazione nell’isola fosse di assai difficile comprensione: il 28 dicembre, Giacomo Raimondi, principale penna economico-finanziaria del quotidiano e uomo da sempre propenso a una politica sociale attiva da parte del Governo, che alleviasse i mali delle masse popolari italiane, scriveva apertamente che le cause reali delle manifestazioni erano un “mistero”. Non solo: ricordando che i siciliani erano noti per la loro turbolenza caratteriale fin dal tempo dell’antica Roma, arrivava ad adombrare che “il quesito di Sicilia non sia soltanto economico e sociale, ma sia anche e soprattutto etnico” (“Corriere della Sera”, 28-29 dicembre 1893). Due giorni dopo, Romualdo Bonfadini, altro collaboratore di vaglia, tentò un approccio più adeguato indicando nella politica dello Stato unitario, che aveva rovesciato sui Comuni la responsabilità di assolvere a troppi servizi, dalle scuole alle strade, le radici delle attuali agitazioni, che non a caso si rivolgevano in primo luogo contro i municipi. Erano interventi che indicavano una difficoltà che era comune a tanta parte dell’opinione pubblica italiana, incapace di capire cosa realmente stesse accadendo in Sicilia, e offuscata dei fantasmi di una cospirazione straniera che fomentava la rivolta socialista. Torelli avvertiva le difficoltà, e la frustrazione cresceva quando leggeva fogli concorrenti, come l’odiato “Secolo”, che fornivano ai lettori “proprie corrispondenze” dalla Sicilia. Da qui la decisione di inviare Alfredo Comandini nell’isola, per avere reportage di prima mano.

Mentre quest’ultimo partiva alla volta di Palermo dove avrebbe trovato una città vivace per i tanti ufficiali presenti che ne animavano la vita sociale, Torelli pubblicava un editoriale in cui, pur ammettendo le pessime condizioni sociali in Sicilia, sostanzialmente sosteneva la necessità dello stato d’assedio per riportare l’ordine e finiva per giustificare la repressione violenta:

Quando vediamo che laggiù l’opera che va mano mano compiendosi, è opera di distruzione selvaggia, la ragione ci dice che l’intervento della forza, e le repressioni sono opere di salvezza degli italiani, e non di inasprimento, e noi dobbiamo quindi, in nome dell’umanità, in nome della civiltà, in nome della patria, approvare il Governo (“Corriere della Sera”, 5-6 gennaio 1894).

Anche ciò che Comandini scrisse nei primissimi articoli da Palermo era pienamente in linea con la posizione ufficiale del quotidiano milanese: attenzione per le misere condizioni sociali dei lavoratori siciliani, compassione per le loro pene, ma sostegno al governo nella suprema certezza che il bene principale fosse quello di stroncare ogni potenziale evento rivoluzionario che mettesse in pericolo la pace sociale o, addirittura, la costruzione nazionale. Così, nella corrispondenza che raccontava il suo arrivo a Palermo via mare, da Napoli, in una fredda giornata invernale, Comandini ricordava sì che il malcontento in Sicilia era poderoso per la forte tassazione sulle farine, ma faceva proprie le illazioni sui presunti contatti, mai dimostrati, tra socialisti isolani e rivoluzionari francesi. Ben presto, tuttavia, non appena ebbe modo di ambientarsi e raccogliere personalmente le notizie, si rese conto di quanto la realtà fosse differente rispetto a ciò che veniva raccontato sul continente.

Innanzitutto, lo stato d’assedio impediva ai cronisti di muoversi e comunicare in libertà: la censura, scriveva ingenuamente per telegrafo alla redazione milanese, era “affidata come pare a persone che non sanno comprendere esigenze dei propri doveri con necessità del pubblico servizio per stampa del continente”4. Questa e altre critiche costarono immediatamente all’inviato del “Corriere” un richiamo da parte delle autorità militari, impegnate a riportare sotto controllo la situazione con ogni mezzo e poco inclini a qualsiasi tipo di voce discordante. Comandini però non si rassegnò e cominciò a raccogliere informazioni al di là di quelle fornite ufficialmente, che diventarono materiale per una serie di articoli che fecero clamore e modificarono l’atteggiamento complessivo del quotidiano milanese nei confronti dell’agitazione sociale e dell’azione governativa in Sicilia.

L’11 gennaio il “Corriere”pubblicò un pezzo del suo inviato di rara efficacia. In primo luogo il cosiddetto moto rivoluzionario, che secondo molti esponenti della stampa e della politica nazionale era stato a lungo preparato dai socialisti in combutta con compagni stranieri, era in realtà un movimento spontaneo, che nasceva dalle drammatiche condizioni di vita di gran parte della popolazione e dalla ribellione allo strapotere di coloro che erano i veri padroni della Sicilia: le clientele.

In questi comuni siciliani le clientele locali sono capaci di ogni peggior cosa. Tre, quattro famiglie per comune, legate fra di loro da vincoli di parentela e da interessi, dispongono di tutto ciò che riguarda le altre migliaia di cittadini. Chi è della clientela, chi è del partito è uomo, chi non è della clientela, chi non è del partito, è cosa.

Gli esempi di come questi gruppi spadroneggiassero, ognuno nel proprio paese, erano numerosi:

In un comune il pretore fu fatto destituire perché, recatosi a Palermo, si seppe che ivi aveva fatto visita ad un avvocato ed alla signora di questi, viventi parte dell’anno in quel comune, ma non appartenenti alla clientela dominante. In un altro comune i consiglieri comunali – una ventina, tutti della stessa clientela – dovendo deliberare una tassa per costituire, col ricavo, un corpo di 21 guardie campestri, si guardarono in faccia, calcolarono l’entità dei possedimenti propri o dei loro aderenti, poi stabilirono la vera tassa progressiva… a rovescio; cioè chi possedesse 6 e più salme di terreno non pagasse nulla; chi possedesse meno di sei salme, pagasse 8 lire per ogni salma coltivata a maggese, e 15 lire per ogni salma a coltura intensa.

Naturalmente le guardie campestri da nominare erano scelte tra i più fedeli, determinando un risultato finale, fatto di arbitrio e malversazioni sulle categorie sociali più deboli, che ricordava le descrizioni manzoniane della Lombardia del ’600:

I feudatari comunali qui sono dei Don Rodrigo, e le guardie campestri sono, per lo più, i loro bravi; anzi, non sono volute e nominate da altro scopo. In un comune a pochi chilometri da Palermo vi è la consuetudine che, finita la raccolta delle olive, i poveri sono ammessi dai proprietari a raccattare dal suolo le olive rimaste casualmente per terra; e questo per certi poverelli, la cui miseria è inenarrabile, è un beneficio annuo tenue, ma sentito, sul quale fanno assegnamento. Ma, se c’è il permesso del padrone, non c’è quello della guardia campestre, la quale, ai poverelli, quando escono dal fondo col piccolo involto di olive raccattate per terra, contesta la contravvenzione e sequestra le olive.

In questo contesto, a brillare per la sua assenza sembrava essere lo Stato. Eppure, secondo Comandini e i suoi interlocutori siciliani, non era proprio così. Le istituzioni erano presenti, solo che, come in altre regioni del Sud, si erano disinteressate della condizione dei propri cittadini per prediligere l’appoggio dei notabili locali e dei loro clienti, ai quali in cambio lasciavano mano libera per signoreggiare, nei termini che abbiamo visto, sul resto della popolazione.

L’inviato del “Corriere” indicava nel precedente governo di Giolitti, con il quale, da direttore, era stato anche benevolo, il responsabile principale di questa politica deleteria, mirante solo a rafforzare il governo facendo presa sulle camarille regionali, senza preoccuparsi dello sviluppo del territorio. La situazione non era nuova: l’inchiesta sulla Sicilia di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, nel 1876, aveva già messo in luce gli intrecci tra élites municipali e governo ma, a detta dell’inviato del “Corriere”, la situazione da allora era persino peggiorata e lo “spirito di sopraffazione” si era rafforzato, trovando nel deputato di riferimento “l’intermediario di ogni interesse tra le clientele dominanti, delle quali egli ha bisogno, ed il governo, il quale ha bisogno di lui”. Raccogliendo diversi pareri di ospiti siciliani, Comandini scriveva infatti che

il sistema governativo imposto a prefetti e sottoprefetti dal Giolitti aveva per fine di appoggiarsi su chicchessia pur di tirar fuori nelle elezioni politiche elementi che fossero poi, nella Camera, strumenti ciechi, devoti, incapaci di ribellarsi alla volontà ministeriale (“Corriere della Sera”, 11-12 gennaio 1894).

Ciò dava adito, sempre secondo le voci raccolte, a una sequela di abusi che Comandini giudicava indegna di un paese civile quale voleva essere l’Italia unita: le forze di pubblica sicurezza appoggiavano apertamente e senza pudore le fazioni di paese che facevano capo al deputato ministeriale, mentre gli altri erano destinati a soccombere sotto il peso di intimidazioni che andavano dal ritiro del porto d’armi, al piantonamento delle case degli oppositori da parte delle forze di polizia, e anche alle malversazioni elettorali, con verbali sottratti al controllo delle forze politiche avversarie, asportati dal seggio e riportati il giorno dopo debitamente “corretti”. In certi casi persino la nascita e lo sviluppo dei Fasci siciliani era stata favorita dai rappresentanti del governo, qualora fosse stato ritenuto vantaggioso per danneggiare la fazione politica avversa. Quello che emergeva era, insomma, un quadro assai desolante. Le perversioni nel rapporto centro-periferia, imperniato sul notabile locale che fungeva da cinghia di trasmissione tra il governo e il territorio locale, nel Sud, e specie in Sicilia, raggiungeva livelli di perversione che la cronaca di Comandini forse esagerava, senza andare però troppo lontano dalla realtà.

D’altro canto, l’analisi dell’inviato del “Corriere” smontava le convinzioni precedenti, che lo stesso quotidiano aveva condiviso, sul dilagante e preordinato moto socialista. Le cause erano invece ben differenti, ed era merito di Comandini di svelarle a una buona fetta dell’opinione pubblica nazionale, anche nei giorni seguenti. Non a caso Torelli lodava privatamente le sue corrispondenze giudicandole “eccellenti” ma, instancabile e insoddisfatto come sempre, lo spronava a continuare a scrivere prima del previsto ritorno a Roma, per ribattere a una concorrenza molto agguerrita. L’11 gennaio, mentre pubblicava la sua corrispondenza, gli scriveva:

Caro Comandini, ho ricevuto ieri la vostra lunga lettera relativa al servizio di Sicilia. Siamo stati durante due giorni, i due giorni più critici, scarsissimi di notizie in confronto del “Secolo” e sopra tutto della Tribuna. Il “Secolo”si è aiutato appunto colla Tribuna, di cui gli veniva il sunto da Roma. Ma noi durante l’assenza del Raimondi [corrispondente dalla capitale] siamo stati serviti pessimamente. Voi che sapete quanto sia importante per un giornale far buona figura nei momenti critici, potete immaginarvi il mio dispetto5.

Non vi era bisogno di sprone: affascinato dalla complessità della realtà isolana e dal successo che le sue parole avevano sul disvelamento delle reali cause del moto, Comandini stava già preparando nuove lettere, nelle quali accentuava la critica per la gestione del problema dei Fasci siciliani e, indirettamente, della questione meridionale dopo l’Unità. La corrispondenza seguente fu pubblicata il 13 gennaio, sempre in prima pagina, in piena evidenza. Comandini vi affrontava il problema dei protagonisti della vita in Sicilia, per capire quale ruolo giocasse ciascuno di loro in quel complesso frangente. Non poteva mancare una riflessione sulla mafia. Chiedendosi quale peso quest’ultima avesse nell’agitazione, le sue parole non lasciavano adito a incertezze:

La mafia è una lega diretta alla tutela delle persone e degli interessi all’infuori delle leggi e mercé il valore personale e la influenza individuale degli adepti, e però la mafia non ha visto e non poteva vedere di buon occhio un movimento che poteva riuscire a novità perniciose per essa. La mafia ha fatto e fa da corrente conservatrice, in questi casi; sa che coi villani, coi non abbienti, con gli incitatori delle folle incoscienti e con gli apostoli del socialismo ha poco da guadagnare, ed anzi, con costoro gl’interessi suoi andrebbero, sia pure temporaneamente, di mezzo (“Corriere della Sera”, 13-14 gennaio 1894).

I motivi dell’agitazione andavano piuttosto cercati nella struttura sociale, politica ed economica che si era creata nell’isola. Tornava il concetto di clientela contro cui Comandini si era scagliato negli articoli precedenti, ma veniva ora a identificarsi nei “borgesi”, cioè nella classe dei possidenti terrieri, spesso assenteisti, che non faceva parte della vecchia nobiltà isolana. Mentre quest’ultima veniva, con eccessiva leggerezza, assolta da ogni critica, i “borgesi” erano additati come coloro che

hanno tutti o quasi i monopoli. Dall’epoca della ripartizione dei beni ecclesiastici hanno ricostruito i latifondi. Molti di essi, largamente arricchiti, si sono allontanati dalle campagne, o, meglio, dalle città, dirò così, rurali, e sono venuti ad abitare nella capitale dell’isola, lasciando al contatto dei villani i così detti gabellotti, intermediari duri e generalmente esosi.

Dopo aver ironizzato sull’ipotesi che ai Fasci fossero giunte armi dalla Francia, una mossa del tutto inutile in una terra dove quasi tutti ne possedevano almeno una, Comandini affrontò gli altri grandi protagonisti dell’agitazione, i socialisti. La corrispondenza apparsa il 16 gennaio, mentre nel Paese l’allarme per la tenuta delle istituzioni liberali aveva un’ulteriore impennata a causa delle nuove agitazioni scoppiate in Lunigiana, fu dedicata all’analisi del movimento socialista in Sicilia. Due erano i filoni principali di genesi del socialismo, secondo Comandini. Il primo affrontato con tutta l’ironia di cui era capace, era quello della cosiddetta “jeunesse dorée”, cioè dei rampolli di buona famiglia che, per ottenere una laurea, bene agognato più per esibirlo in società che per trovare un buon lavoro, era entrata in contatto nelle aule universitarie di Palermo, Napoli o Roma con docenti dalla parola affascinante e imbevuta di teorie marxiste, al punto che “la falange dei socialisti pensanti e studiosi, pieni di gioventù, di salute, di propositi generosi ed arditi è stata presto formata” (Corriere della Sera, 16-17 gennaio 1894). In mezzo a questi giovani del ceto medio-alto, giudicati con sussiego, erano stati reclutati molti presidenti dei Fasci. Altri venivano dal secondo filone del socialismo siciliano, quello formato da coloro che Comandini chiamava “uomini esclusivamente di azione”, come il De Felice Giuffrida, “che alla propaganda scientifica dei dottori hanno aggiunto lo spirito proprio di organizzazione”. Ne era scaturita la rete dei Fasci e le agitazioni che scuotevano gran parte dell’isola. Gli stessi socialisti, descritti come apprendisti stregoni dal liberale moderato Comandini, si erano precipitati a temperare gli animi e contenere le proteste, temendo i suoi sviluppi e chiedendosi quanto la protesta fosse realmente dovuta allo sviluppo di una reale coscienza socialista.

Ebbene, secondo Comandini, questa coscienza era assai limitata. Solo in alcuni paesi del palermitano, come Piana dei Greci e, con minor intensità, Corleone e Partinico, si avvertiva la presenza di un dibattito che coinvolgeva uomini e donne, iscritti al Fascio, che ragionavano di collettivismo e maggiore giustizia sociale, ma altrove, come nel trapanese, dove si erano verificati gli incidenti più gravi, a predominare era a suo dire la ribellione violenta ed esasperata dei poveri alla prepotenza dei ricchi. Si tornava quindi alla spiegazione già data, allo spadroneggiare delle clientele, alle violenze e alle angherie che la popolazione doveva subire senza che uno Stato complice dei notabili si mostrasse, se non per dare ragione al potente di turno: “È lo scapolare del contadino contro il cappeddu, il cappello del borghese, ma quanta arroganza, generalmente, sotto questo cappello, e quanta sofferenza sotto questo scapolare!”, scriveva l’inviato del “Corriere”. Ma se il movimento dei Fasci doveva la sua forza solo in parte alla diffusione del socialismo tra le masse, Comandini profetizzava che la sua forza avrebbe portato “la coscienza socialista più in là di quanto sia arrivata fino ad ora”, ed era colpa di Crispi non essersene reso conto e aver organizzato una risposta che si fermava in superficie, agendo solo sul piano del ristabilimento dell’ordine pubblico.

L’inviato del “Corriere” rimase in Sicilia per un altro paio di settimane, durante le quali ebbe modo di rendersi conto della situazione in alcuni dei paesi che erano stati protagonisti dei moti, e nella stessa Palermo. Nel capoluogo le differenze tra quartieri ricchi e poveri erano a suo dire insostenibili: i quartieri abitati dai ceti agiati si erano ampliati mentre il preteso “risanamento” che, come a Napoli, avrebbe dovuto scongiurare l’esplodere di epidemia di colera simili a quella di nove anni prima, era rimasto sulla carta. Alla scoperta dei quartieri popolari del centro storico, Comandini annotava:

Sono entrato in molti miseri abituri; ho visto famiglie di cinque, di sette persone ammonticchiate in una sola stanzetta buia, umida, nera, non avente altra apertura che la porta dalla quale tutto entra e tutto esce, il fumo e la luce, gli alimenti… e gli escrementi. Misere abitazioni, tutte al pianterreno, al livello del piano stradale, sfornite, le più, di pavimento in mattoni, prive d’acque, basse, ed i cui abitanti, il giorno, per avere un poco d’aria, se non un poco di sole, sono costretti a vivere sulla soglia, seduti fuori, in straducole strette, con pessima fognatura, in mezzo alle quali un rigagnolo scuro, melmoso, quando piove, porta via, e quando non piove… aspetta di essere ingrossato dall’acqua che verrà, quando Dio vorrà mandarla (“Corriere della Sera”, 26-27 gennaio 1894).

Se Palermo ero lo specchio delle contraddizioni che laceravano la Sicilia poiché, accanto alle miserie appena descritte, raffinati palazzi ed eleganti passeggiate venivano costruite per i ceti benestanti che sempre più numerosi si trasferivano nel capoluogo, nelle zone dell’interno predominava la povertà. Mosso dalla curiosità tipica dell’inviato che non poteva accontentarsi delle spiegazioni e delle confidenze raccolte in città, Comandini effettuò con alcuni colleghi delle incursioni nell’entroterra, da dove trasse impressioni molto forti che ne ispirarono nuovi articoli. Da Partinico, da Corleone, dai paesi del trapanese, dove forte era stato lo scossone dei tumulti contadini, l’impressione ricevuta era sempre la stessa. Il movimento dei Fasci e le recenti agitazioni era state causate da tre motivazioni principali, applicabili ovunque: “L’esorbitanza delle tasse locali; gli abusi e le ingiustizie nelle riscossioni; la prevalenza delle clientele municipali” (“Corriere della Sera”, 31 gennaio-1° febbraio 1894). Soppressi i Fasci che avevano intercettato il malessere dilagante delle popolazioni rurali, erano rimaste le cause che l’avevano suscitato: la miseria diffusa e la palese ingiustizia sociale. Per esempio, il sistema fiscale era palesemente squilibrato a favore degli abbienti, i “borgesi” che dominavano con la complicità delle guardie:

Il contadino, oramai, ha capito che 17 lire all’anno per il suo unico mulo sono troppe, e che il proprietario che ha quattro cavalli deve, logicamente, pagare 20 e non 17, e pagare per quattro e non per uno. Il contadino ha capito, del pari, che davanti al casotto del dazio il pezzo di pane deve essere esente dal tributo, o, per lo meno, come deve pagare il pezzo di pane che passa tenuto sotto l’ascella del lavoratore che torna dal campo lontano, così deve pagare anche il capretto ucciso fuori e che entra in paese dentro la carrozza del proprietario.

Era la miseria a creare il più grave disagio, a fomentare la ribellione e preparare il terreno per l’avanzata socialista. In tale senso, la visita a Piana dei Greci – dove era stato fondato il Fascio rivelatosi più attivo – fu estremamente istruttiva e fornì la corrispondenza più sentita di tutto il reportage siciliano per il “Corriere”. Accompagnato da due colleghi, Comandini poté incontrare a Piana la Sicilia vera, contadina e disperata, che aveva aderito in massa ai Fasci, per ragioni non difficili da comprendere:

Noi altri […] siamo stati circondati, nel caffè di Piana, da una folla di contadini che facevano pietà e paura. Abbiamo udito dire da cento voci unitamente: “moriamo di fame”. Abbiamo trovato degli uomini di 37, di 40, 45 anni con l’aspetto di vecchi macilenti, cadenti; abbiamo visto dei contadini additati dai compagni come privi di alimento da tre, da quattro giorni […]. Non so nascondere la profonda impressione che mi ha fatto lo spettacolo di Piana de’Greci. In mezzo a quella folla di contadini poveri, laceri, macilenti – puliti tuttavia – tremanti per la fame e per l’ira, ho provato un dolore forte, intimo, profondo, che io non credevo possibile nella vita. […] Mi sono frugato in tasca; ho rotto con le unghie la carta di due o tre rotoletti di monete di rame, avuti come resto a Palermo, ed ho tirato lentamente il braccio, col pugno pieno di soldi. Ne sarebbero toccati uno o due a testa, a quei cento derelitti che ci attorniavano. Un professore socialista di Piana, che era con noi venuto da Palermo, mi ha fermato il braccio e mi ha dissuaso. “Sarebbe pericoloso!” mi ha detto. E, in fatto, sarebbe stato pericoloso. […] Quassù a Piana non ci siamo sentiti dire né: “bacio le mani!” – né: “vostra eccellenza ci benedica!”. Questi poveri affamati ci hanno stretto la mano; e con degli occhi vivacissimi, acuti, penetranti, ci guardavano in faccia, non come temuti tassatori – quali fummo creduti a Partinico – ma come a persone che potranno fare il loro bene. Poveretti! […] Nella loro speranza, nella loro passione, nel loro odio contro i proprietari duri e contro gli usurai sfruttatori, trovano un alimento interno, che supplisce in modo fatale alla mancanza del pane e all’insufficienza del finocchio selvatico. […] Sono diffidenti, gelosi, cupi. Il Fascio è sciolto di diritto, ma vive nella profondità del loro rancore. Contro di essi c’è un proverbio, ed essi lo sanno, che dice:  Se incontri un greco, ed un lupo Lascia il lupo, e spara al greco!

Questa corrispondenza, di cui si sono riportati solo alcuni brani, fu senza dubbio la più efficace di Comandini. Torelli, che se ne rese conto immediatamente, ne corredò la pubblicazione con una breve nota che informava i lettori di aver già incaricato Comandini di distribuire 200 lire per i poveri di Piana, “come primo soccorso”, soldi che furono effettivamente e velocemente consegnati prima ancora che l’inviato del “Corriere”riprendesse il piroscafo per tornare sul continente6. Nel frattempo, il lavoro di Comandini, come quello degli altri inviati, animava i giornali del continente e scuoteva l’opinione pubblica nazionale, alla quale diveniva chiaro che la ventilata cospirazione socialista era in realtà ben altra cosa e le agitazioni traevano piuttosto origine e forza da un assetto economico e sociale ingiusto, che il connubio tra notabilati locali e governo centrale aveva aggravato. Se ne erano accorti in primo luogo i colleghi di Comandini, a Milano.

Conclusioni

Il segnale di un netto cambiamento nella percezione del problema siciliano la diede proprio Giacomo Raimondi, l’editorialista del “Corriere” che a fine dicembre si era distinto per la sua incapacità nel comprendere i motivi del movimento dei Fasci e che, nemmeno un mese dopo, cambiò totalmente registro, dedicando alla Sicilia un fondo ben più analitico e lontano dagli stereotipi regionalisti sull’animo delle genti meridionali. L’analisi di Raimondi comparsa il 20 gennaio si dedicava infatti al tipo di rapporto che intercorreva tra possidenti e braccianti nell’isola, dominato dall’assenteismo dei primi, sempre più propensi a utilizzare la rendita dei propri terreni per trasferirsi e vivere agiatamente a Palermo. Il venire meno del vincolo morale tra proprietari e lavoratori, il non riconoscersi e legittimarsi più reciprocamente, andava di pari passo con la crescita della figura del gabellotto, che deprimeva ancora di più quella del coltivatore. Queste condizioni, assieme al prevalere della coltura estensiva, rendevano la Sicilia simile all’Irlanda, con la differenza che, mentre il governo di Gladstone da anni aveva promulgato una riforma audace che mirava a rendere più produttiva e ricca l’agricoltura irlandese, quella preparata dal ministro Sonnino era fin troppo prudente, mostrando una “timidezza […] la quale non lo salverà egualmente dalle accuse di violentare la proprietà e la libertà dei contratti” (“Corrieredella Sera”, 20-21 gennaio 1894).

Era il segnale di una svolta del quotidiano milanese nei confronti del governo. La timida apertura di credito di qualche settimana prima stava rapidamente svanendo per lasciare spazio solo alle critiche. Il giorno successivo un editoriale di Bonfadini attribuiva all’intera epoca dei governi di Sinistra storica buona parte dei mali del Sud (“Corriere della Sera”, 21-22 gennaio 1894) poi, con la pubblicazione a fine gennaio delle ultime lettere siciliane di Comandini, gli attacchi si concentrarono su Crispi, che da parte sua continuò a sostenere la tesi del complotto del socialismo internazionale in Sicilia. Il 27 gennaio Raimondi chiedeva riforme per il Sud, e non solo repressione, il 3 febbraio un fondo senza firma e quindi attribuibile al direttore giudicava l’intervento del governo in Sicilia e poi in Lunigiana dapprima “fiacco”, poi “eccessivo”.

Con il fondo del 7 febbraio, con cui il “Corriere” criticava Crispi e il suo eccessivo autoritarismo, si consumava il definitivo distacco tra Torelli e Crispi. La Sicilia ormai passava in secondo piano: vi era ancora il tempo per Comandini, tornato a Roma, di rispondere sul giornale al collega deputato siciliano Saporito (“Corriere della Sera”, 20-21 febbraio 1894), che si era sentito colpito da alcune sue corrispondenze, e ancora nei mesi seguenti il tema delle condizioni dell’isola sarebbe tornato saltuariamente sulle pagine del quotidiano milanese (cfr. per esempio “Corriere della Sera”, 26-27 luglio 1894). Era però iniziato, oramai, un braccio di ferro più ampio, tra il governo e il “Corriere della Sera”, che si sarebbe fatto sempre più aspro nei due anni seguenti, fino alla dimissioni dello statista siciliano dopo la sconfitta di Adua. È evidente che il ruolo del “Corriere” non avrebbe potuto essere determinante nel far cadere il governo, tuttavia è noto (Fonzi 1972) che attorno al quotidiano di Torelli si coagularono le forze di chi, specie al Nord, riteneva la politica di Crispi, autoritaria in Italia e aggressiva all’estero, dannosa per gli interessi del paese e delle sue classi sociali più dinamiche, prima di tutto la borghesia lombarda che si identificava nel giornale. La formazione di uno “Stato di Milano”, ostile alla politica governativa, ebbe nel “Corriere” il suo punto di aggregazione. L’apertura di Torelli a fine dicembre 1893 nei confronti del governo fu quindi l’ultima fragile tregua fra i due contendenti prima di un’ostilità che divenne conclamata.

Le corrispondenze di Comandini, pur con alcuni difetti di approfondimento analitico, inevitabili a causa del loro carattere di reportages, avevano contribuito a svelare ai lettori, specie del Nord, le vere condizioni di un’isola martoriata dalla crisi economica e da rapporti di lavori arcaici. Il giornale era stato ripagato con un notevole balzo in avanti di vendite: in poco più di un mese, tra gli ultimi giorni del 1893 e i primi di febbraio del 1894, il “Corriere” passò da una tiratura dichiarata di 73000 copie a una di 78000. Paradossalmente, proprio Comandini, i cui articoli avevano contribuito a quel successo e a convincere Torelli dell’inadeguatezza del governo nell’affrontare i problemi del Sud, fu uno dei primi ‘caduti’ nella lotta senza quartiere che il “Corriere” avrebbe di lì condotto contro Crispi. Pochi mesi dopo, infatti, il corrispondente avrebbe lasciato definitivamente il giornale, vittima della polarizzazione delle posizioni che ormai impediva atteggiamenti ambigui o intermedi. Il direttore lo congedò con una lettera che era espressione del suo sempre più convinto “anticrispismo”, ma che intendeva anche fornire un’orgogliosa lezione di deontologia giornalistica, in nome di quei principi di coerenza e indipendenza di cui Torelli aveva fatto la propria bandiera fin dal primo numero del “Corriere”:

Caro Comandini,

non ho potuto stampare il vostro articolo sulla seduta [parlamentare] di sabato, perché esso mi avrebbe portato di lancio nel campo crispino. Ora il “Corriere” non può essere crispino. Il “Corriere” ha sostenuto le economie militari e ha combattuto i provvedimenti finanziari, specialmente in quanto riguarda la riduzione della rendita. Se il Ministero entrasse nell’ordine d’idee del “Corriere” su questi due punti, un cambiamento d’atteggiamento su questi due punti da parte nostra sarebbe legittimo; ma allo stato attuale delle cose riuscirebbe inesplicabile ed ingiustificabile pel pubblico. La continuità e coerenza dell’indirizzo è indispensabile in un giornale indipendente, che tiene d’occhio le idee ed i principî e non le combinazioni d’opportunità che qualche volta s’impongono ai deputati. Né m’importa se l’Opposizione sia nella Camera fiacca e discorde; né m’importa che si creino coalizioni che vengono variamente giudicate: è più una questione di programma non d’uomini: il programma del Crispi, lo abbiamo detto esplicitamente e ripetutamente, non può essere approvato da noi: dunque non possiamo stare con Crispi. Sento dire che, prima della vostra partenza, avete detto in redazione che passavate a Crispi. Mi spiace che non me ne abbiate parlato, perché avremmo insieme chiarito le idee. Credetemi.

Aff.mo Torelli7

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  1. Cfr. “Corriere della Sera”, 11-12 dicembre 1889, p. 1; si tratta di una sorta di “autocertificazione” da parte del quotidiano, che dichiarava in prima pagina la quota via via raggiunta. []
  2. Biblioteca Malatestiana di Cesena, Fondo A. Comandini, b. XLI, E. Torelli Viollier ad A. Comandini, 4 ottobre 1892.  []
  3. Biblioteca Malatestiana di Cesena, Fondo A. Comandini, b. XLI, E. Torelli Viollier ad A. Comandini, 9 dicembre 1893. []
  4. Biblioteca Malatestiana di Cesena, Fondo A. Comandini, b. XLI, minuta di telegramma, A. Comandini alla redazione del “Corriere della Sera”, 6 gennaio 1894. []
  5. Biblioteca Malatestiana di Cesena, Fondo A. Comandini, b. XLI, E. Torelli Viollier ad A. Comandini, 11 gennaio 1894. []
  6. Biblioteca Malatestiana di Cesena, Fondo A. Comandini, b. XLI, b. XLI, “I fasci in Sicilia”, Eugenio De Bella (pretore di Piana dei Greci) ad A. Comandini, 25 gennaio 1894. []
  7. Biblioteca Malatestiana di Cesena, Fondo A. Comandini, b. XLI, E. Torelli Viollier ad A. Comandini, 3 giugno 1894. []