Guido Melis: Dizionario del liberalismo italiano, tomo II, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, pp. 1183.

di Guido Melis

E’ vero quanto scrivevano i curatori di quest’opera nel primo tomo, pubblicato nel 2011: “mentre esistono dizionari su quasi tutti i movimenti politici, non esiste un’opera generale che riguardi il liberalismo”.

Il dato negativo, inconfutabile di per sé se si guarda al passato, è però ora in larga misura corretto dall’edizione, in due successivi tomi (del 2011 il primo, del 2015 il secondo), di questo denso Dizionario del liberalismo italiano (edizioni Rubbettino).

Opera corposissima (1064 pagine il primo tomo, 1183 il secondo), promossa e diretta da un qualificato gruppo di curatori (Giampietro Berti, Dino Cofrancesco, Luigi Compagna, Raimondo Cubeddu, Elio d’Auria, Eugenio Di Rienzo, Francesco Forte, Tommaso Edoardo Frosini, Fabio Grassi Orsini, Giovanni Orsina e Roberto Pertici), guidata e condotta in porto con mano salda da Gerardo Nicolosi e dai suoi collaboratori. Un contributo fondamentale alla storiografia italiana della politica.

Parlerò qui specialmente del secondo volume, che è quello appena uscito; ma sarà necessario richiamare qua  e là sullo sfondo anche il primo, perché ne costituisce la logica premessa. In quello (il tomo del 2011) le voci erano organizzate per grandi materie: per esempio, “Agricoltura”, “Amministrazione”, “Capitalismo”, tutti i partiti succedutisi nella storia dell’Italia unita, i vari concetti fondamentali della teoria liberale come, ad esempio, i lemmi “Liberismo” o “Libertà”.

In questo secondo tomo, invece, sono sistematicamente raccolte le biografie individuali dei liberali italiani. Per l’esattezza 404 voci biografiche, su personalità vissute tra l’Ottocento e l’epoca attuale, ognuna corredata di un’ampia e in genere puntuale bibliografia. Una galleria straordinaria di personalità di primo piano ma anche di “gregari” (seppure illustri), di leaders politici, di grandi e piccoli intellettuali, giornalisti nazionali e di provincia, animatori appassionati di circoli e riviste spesso minoritarie, economisti, accademici in genere, professionisti delle cosiddette professioni liberali (vera fucina di futuri politici). Tutti maschi. Due sole le donne biografate: Cristina Trivulzio di Belgiojoso, celebre protagonista del Risorgimento (autrice della voce Fiorenza Taricone) e Antonietta De Pace (una “scoperta” di Maria Sofia Corciulo).

Immagino che il primo problema affrontato dai redattori sia stato quello di decidere quali nomi includere. La cultura liberale, infatti, ha subìto in Italia una sorte singolare: pur ricchissima di fermenti, solo in parte è confluita in forme organizzative specifiche (come è avvenuto invece in altri Paesi europei), raramente si è identificata con un partito specificamente liberale (del resto sorto molto tardi, come testimoniano le voci del primo tomo scritte da Fabio Grassi, Gerardo Nicolosi, Giovanni Orsina e Franco Chiarenza). Per larga parte però, questa cultura genericamente liberale, ha permeato di sé vasti settori della intellettualità italiana in diverse epoche storiche, animando riviste di fondamentale rilevanza (basti pensare al “Mondo” di Mario Pannunzio in quest’ultimo dopoguerra, biografato qui da Antonio Cardini), confluendo (anche se solo parzialmente) nella multiforme esperienza dei radicali (da Ernesto Rossi a Marco Pannella, anche qui non solo nel Partito omonimo), nutrendo tramite il filtro prestigioso del Partito d’Azione settori politici poi confluiti nel piccolo Partito Repubblicano di Ugo La Malfa  o nello stesso Partito Socialista (per lo meno in alcune sue componenti). Per non dire di tutta la multiforme galassia del liberalismo nazionale che domina la scena politico-parlamentare tra il 1861 e l’avvento al potere del fascismo: con personalità di spicco quali i leaders della Destra storica (qui sono tutti biografati, ovviamente), quelli della Sinistra depretisina, i due fondamentali protagonisti del passaggio tra i due secoli: Crispi e Giolitti (complementari e al tempo stesso opposti); e ancora, Salandra e Cocco Ortu, e Nitti col suo accentuato riformismo sociale; e Vittorio Emanuele Orlando, Giovanni Amendola e Luigi Einaudi.

C’era un rischio, dunque: o tutti liberali o nessuno o quasi liberale.

I curatori hanno, mi pare, optato sia pure con misura per la prima alternativa. A scorrere la serie dei biografati nel Dizionario si resta talvolta sorpresi per la larghezza dei criteri di scelta. Ma anche colpiti da un dato obiettivo: la diffusione “pluralistica” del liberalismo italiano, nelle sue tante varianti, più o meno radicali, più o meno attente al fenomeno sociale. Come se da un’unica fonte scaturissero rivoli infiniti, destinati a irrigare territori anche molto distanti da quello della sorgente originaria.

Guido Calogero, dunque, ma anche Giovanni Ansaldo (che, uomo di Galeazzo Ciano, diresse durante il regime “Il Telegrafo” di Livorno); Tullio Ascarelli, Guido Astuti, Giovanni Cassandro, quanto dire il cuore di una certa cultura giuridica italiana del dopoguerra; o, per tornare al Risorgimento, Terenzio Mamiani, Pasquale Stanislao Mancini, Carlo Cattaneo ma anche il suo avversario di sempre, Giuseppe Mazzini; e, con Mazzini, Cavour (ma non c’è una voce Garibaldi); e poi naturalmente Salvemini, De Caprariis, e prima di lui Giustino Fortunato e Gobetti (ma tra i grandi meridionalisti gobettiani manca, e sorprende, l’azionista Guido Dorso); i due Rosselli; Norberto Bobbio; un intellettuale fuori dalle righe come Ennio Flaiano; Sonnino e Franchetti (conservatori); Jacini; Jemolo (liberale, sì, ma anche cattolico); Alberto De Stefani (che per essere liberista, lo fu, ma liberale è un altro paio di maniche); naturalmente Luigi Luzzatti, i due Malagodi, ma tra i risorgimentali figura anche Giuseppe Manno, che proprio liberale non fu mai, uomo anzi per tanti aspetti di antico regime, come è costretto ad ammettere onestamente il suo biografo Salvatore Mura. E ancora Giuseppe Maranini, Nicola Matteucci (forse nel primo tomo, avrebbe meritato una voce il gruppo composito del Mulino, che fu insieme liberale e cattolico, seppure  in modo speciale, e che concorse a introdurre in Italia la sociologia e la politologia di marca anglosassone), e anche Raffaele Mattioli (e qui siamo di nuovo in terra di confine) e Guido Carli ed altri eminenti personalità della finanza e dell’economia. Qualche perplessità suscitano figure come quella di Giuseppe Medici (ministro democristiano oltre che grande esperto di scienze agrarie), e di Cesare Merzagora (uomo di finanza ma anche politico Dc), e specialmente Pella, mentre Prezzolini è stato personalità composita, che nel Dizionario non stride ma forse ci sta stretto; ovviamente Gaetano Mosca, e Nathan (gran maestro della massoneria, il “partito della borghesia” come la chiamò Gramsci nel celebre discorso del 1924 alla Camera), e Omodeo, e poi Chabod.

Anche Ezio Vanoni liberale, però? Anche Gioacchino Volpe? Mi rendo conto che il “gioco della torre” è stucchevole ed anche poco produttivo, specie dinanzi ad un lavoro tanto ben ideato, congegnato e messo in  pagina con tanta perizia anche editoriale. E tuttavia qualche perplessità al lettore resta. Giustificabile tenendo presenti le ricorrenti debolezze e le parallele virtù della tradizione liberale italiana. Piuttosto che esprimersi in proprio, attraverso forme organizzate magari attive anche sul terreno elettorale, piuttosto che parlare i linguaggi della politica, l’ideologia liberale in Italia si è trasfusa in una molteplicità di esperienze diverse, ha bagnato (come fanno certi fiumi carsici) molti territori anche tra di loro lontani, ha pervaso di sé molte culture. Deriva da ciò un dato generale di debolezza (il liberalismo è cultura di minoranza e di minoranze, stretto com’è nel secondo dopoguerra tra le due grandi sub-culture cattolica-democristiana e marxista-comunista). Ma anche ne discende un discordante segnale di vitalità. Se esistono delle élites, nella storia dell’Italia unita (ed anche sul processo nostro di formazione delle élites nazionali molto si potrebbe discutere), queste vanno individuate, più che nel tessuto sociale del Paese, nella frastagliata geografia delle classi dirigenti: un certo modello di imprenditoria colta (mancano del tutto gli Agnelli, però); una certa banca (anche la grande banca mista, come dimostrano i casi di Mattioli e di Menichella, qui biografati; escluso Enrico Cuccia, invece, ed è forse una lacuna; escluso Alberto Beneduce, che di Menichella fu il mentore, di Cuccia il suocero, di Mattioli uno dei principali estimatori e supporter); un certo mondo dell’editoria (qui però sono assenti i Giulio Einaudi, e si potrebbe e capire, ma anche i Bompiani, e persino i Rizzoli e i Mondadori); un certo tipo di giornalismo di idee. La magistratura è quasi invisibile.

Nella storia d’Italia – si desume dall’opera – corre una sorta di filo rosso liberale. Minoritario in politica, ma ben presente nella formazione e nella cultura dei gruppi dirigenti (basti dire l’enorme peso esercitato da Croce, ben oltre la ristretta schiera dei liberali dichiarati e ben al di là della sua stessa epoca storica).

Ciò spiega due paradossi: quello dell’Italia del fascismo, proseguito e accentuatosi in quella democratica del dopoguerra. Alludo al fenomeno, storiograficamente interessantissimo, che chiamerei della “doppia leadership”. Nel fascismo la leadership fascista, con tutti i suoi fasti, la sua pervasiva vocazione totalitaria, il suo popolo in divisa, l’esibizione muscolare dei discorsi dal balcone, le sue sfilate in armi, il suo linguaggio da caserma; ma anche quell’altra leadership, nascosta e costantemente tenuta sotto traccia, espressa nelle scelte economico-finanziarie ed imprenditoriali affidate non a caso al brain trust di Alberto Beneduce

E penso anche all’altro caso di “doppia leadership”, quella del dopoguerra repubblicano: all’Italia divisa tra la nuova classe politica democristiana, imbevuta spesso di clericalismo, e un gruppo di testa della finanza pubblica, della liberalizzazione, dell’intervento straordinario, della prima industrializzazione a prevalente matrice liberale.

Un Paese curioso l’Italia: con chiassose maggioranze massicce schierate in piazza e nelle urne e silenziose élites ristrette ma tuttavia decisive, arroccate saldamente nelle stanze segrete del potere. Fatto un calcolo approssimativo su questi 404 nomi si scoprirà che i liberali, decisamente sconfitti nella nuova società di massa del dopoguerra, ne hanno tuttavia disegnato con assoluta e felice precisione, in anni difficili e per qualche tratto eroici, le future linee dello sviluppo.