di Daniele D’Alterio
Abstract
Il saggio analizza il peso e l’influenza del modello laburista britannico nell’ambito del percorso politico di Enrico Leone, quindi del gruppo sindacalista rivoluzionario italiano attivo prevalentemente a Roma e guidato proprio da Leone fra il 1904 e il 1907. Emergono a tal proposito sia le forti connessioni del sindacalismo “puro” teorizzato dall’intellettuale napoletano con il tradeunionismo nel suo complesso, quindi con il new unionism e le ragioni fondamentali della nascita del Labour Party; sia il tentativo di Leone e del suo gruppo sindacalista di “importare” in qualche modo il modello laburista, trasformandolo perciò in un elemento di dialogo e di intesa permanente con le componenti riformiste delle organizzazioni sindacali italiane. In questo quadro, il saggio integra la riflessione sul “laburismo” di Leone con una più ampia analisi comparativa concernente la storia del sindacato in Italia e in Gran Bretagna, essenzialmente nel periodo 1889-1918. Questo saggio, infine, completa il mio percorso di ricerca sul “laburismo” e sul “riformismo” di Enrico Leone, racchiuso in gran parte nel mio ultimo libro La capitale dell’azione diretta, Trento, Tangram Edizioni Scientifiche, 2011.
Abstract english
L’azione diretta romana e l’influenza del tradeunionismo
La figura di Enrico Leone, seppur centrale nell’ambito del sindacalismo rivoluzionario italiano, fino ad oggi ha beneficiato di studi – fra l’altro mai troppo numerosi – inerenti il suo ruolo di “teorico”, quindi essenzialmente di economista impegnato in una difficile opera di parallela “revisione” del marxismo e delle dottrine liberiste (Gianinazzi 1989, Andreatta 1999, Bassani 2005). Assai meno egli è stato inquadrato a dovere in quanto leader d’una specifica frazione sindacalrivoluzionaria, attiva nella capitale in una fase breve – 1904-1907 – ma intensa della storia del movimento operaio italiano, oltre che decisiva per le sorti della stessa Confederazione generale del lavoro (Cgdl).
In ragione di ciò gli anni “romani” d’Enrico Leone (sui quali cfr. D’Alterio 2011) così come le vicende del gruppo sindacalista da lui guidato, quindi la specificità del progetto politico-sindacale elaborato dall’intellettuale partenopeo, non sempre sono stati elementi di un’analisi soddisfacente, di studi cioè in grado di coglierne l’originalità sia rispetto al gruppo milanese guidato da Arturo Labriola e raccolto attorno al periodico Avanguardia socialista, sia al sindacalismo rivoluzionario affermatosi a partire dallo sciopero generale parmense del 1908 e poi confluito nell’Unione sindacale italiana (Usi).
Accanto ad un’eccessiva valutazione del Leone “intellettuale” – ed eccessiva perché a sé stante, sovente scissa da una dimensione concretamente politico-sindacale, pur rilevante – egli pertanto assai di rado è stato messo in relazione esplicita con il percorso d’un gruppo radicato nell’ambiente proletario romano e capace di dar vita a un’opzione strategica di carattere nazionale.
In questo nostro contributo, tuttavia, non ci occupiamo direttamente di questi aspetti della revisione storiografica inerente Enrico Leone, bensì di alcune questioni strettamente collegate, prima fra tutte l’affinità tra le concezioni espresse dal gruppo sindacalista capitolino di cui Leone fu leader indiscusso e alcuni passaggi della storia del movimento operaio inglese; quindi da un lato fra l’idea, peculiarmente leoniana, d’un “sindacato integrale” capace di sostituire il Partito socialista italiano (Psi) assorbendone le principali funzioni, e dall’altro determinati momenti, realtà e figure del laburismo britannico; infine tra l’afflato “unitario” nei riguardi del sindacalismo riformista, così tipico dell’impostazione leoniano-romana, e percorsi similari ma caratteristici del tradeunionismo.
Donde nascevano tali analogie? Come spiegarle? E ancora: alla luce di quanto affermato, appare possibile legare il senso dell’esperienza sindacalrivoluzionaria italiana, o di suoi fondamentali spezzoni, pressoché esclusivamente alle vicende dell’azione diretta “continentale”, specie francese, quindi a Sorel, alla Confederation générale du travail (Cgt)? Non occorre altresì allargare il campo del confronto ad altre “storie operaie”, al contempo problematizzando la riflessione inerente il sindacalismo rivoluzionario nostrano?
Premettiamo che queste nostre sollecitazioni sono fondamentalmente una riflessione condotta sui risultati della storiografia che si è occupata del movimento operaio britannico, ai quali abbiamo affiancato in maniera critica il senso e lo scopo del progetto politico-sindacale leoniano1; che, inoltre, abbiamo lasciato sullo sfondo, anche per motivi di spazio, le questioni riguardanti stricte la composizione della classe operaia, italiana e inglese (rinviamo in merito a Saba 1978, Ortaggi 1994, Hobsbawm 2001, D’Alterio 2011), quindi gli aspetti inerenti i modelli organizzativi, la sopravvivenza o meno del craft unionism, del lavoro artigianale, o ancora il maggiore o minore successo del cosiddetto “modello industrialista”.
Tali argomenti avrebbero infatti richiesto un volume maggiore di pagine, quindi una dimensione d’analisi che esula dagli scopi del presente studio. Ricordiamo infine che il nostro esame si concentra prevalentemente sulla fase 1889-1918, che riteniamo la più caratteristica per quel che concerne il confronto tra “sindacalismo” italiano e britannico.
Del resto dobbiamo considerare che il gruppo romano, specie nei suoi anni più fulgidi, non s’ispirò soltanto a modelli di sindacato tradizionalmente e geograficamente molto vicini come la Francia o la Germania: il mondo anglosassone infatti, in particolare la Gran Bretagna, costituì un valido supporto all’ipotesi leoniana2. Possiamo anzi dire che l’esempio laburista in più d’un caso rafforzò l’idea, peculiarmente leoniana, d’un “sindacato integrale” in grado di realizzare un’effettiva unità strategica con le componenti moderate delle organizzazioni operaie, quindi di dar vita a un grande organismo proletario, unitario e nazionale, capace di proiettarsi direttamente sulla scena politico-parlamentare.
Ciò che più conta sottolineare, d’altronde, è che i riferimenti al tradeunionismo servirono all’intellettuale partenopeo per accreditare la bontà d’un progetto che, in Italia, contemplava l’accordo fra sindacalismo riformista e rivoluzionario, ma soprattutto la creazione d’una Confederazione del lavoro idonea ad assorbire progressivamente le attribuzioni e i compiti del Psi. Il “laburismo”, pertanto, risultò utile al gruppo romano per avvalorare l’ipotesi d’un sindacato capace d’essere soggetto politico a tutto tondo, sostituendosi ai partiti socialisti o radicaldemocratici ma, si badi bene, assorbendone appunto le principali funzioni – elettorale inclusa – non negandole. Per questi motivi il tradeunionismo fu per Leone ben più d’una suggestione: senz’altro un motivo grazie al quale differenziarsi dall’avanguardismo labriolano, spostando viepiù il baricentro della riflessione sindacalrivoluzionaria dal “partito” al “sindacato”; in egual modo, tuttavia, esso fu un importante sostegno contro quelle tendenze che, non solo in Italia, erano portate a fare dell’autonomia operaia e del proletariato organizzato universi chiusi a qualsiasi esito politico.
Anche grazie alla conoscenza e alla rielaborazione dell’esempio laburista, infatti, Leone fu in grado di non cedere mai nel nostro paese a tentazioni di tipo anarcosindacalista o corporativo, ma soprattutto, in ambito europeo, di volgersi criticamente in direzione soreliana e cégétiste: contestando con forza la visione soreliana della lotta di classe, della politica e del sindacato; e parimenti instaurando un arduo dialogo con la Cgt e i suoi maggiori leader, che non a caso il gruppo capitolino cercò invano di convincere della validità di un’opzione in grado d’impegnare senza remore, così come stavano facendo negli stessi anni le Trade Unions, l’organizzazione sindacale sul terreno politico-parlamentare3.
In quest’ottica un altro aspetto importante è costituito dal successo del modello laburista non solo fra le componenti rivoluzionarie del proletariato e del sindacato italiani, bensì fra le sue ali riformiste, in primis alcuni dirigenti – ad esempio Angiolo Cabrini – che nel primo Novecento in più di un’occasione e perlomeno sino alla fondazione della Cgdl si mostrarono contigui all’azione diretta romana (D’Alterio 2011), sovente non ostili ad essa, quando non esplicitamente interessati a un disegno che, come quello leoniano, voleva del resto conferire al “sindacato” un potere notevole sul Psi e sul Gruppo parlamentare socialista (Gps).
Ebbene, è molto interessante sottolineare il carattere di questi continui richiami all’esempio inglese da parte d’una figura carismatica come Cabrini4, proprio perché il leader sindacalriformista magnificava nelle Trade unions o nel nascente Labour party (Lp) quegli aspetti e quelle qualità che avevano egualmente attratto i sindacalisti rivoluzionari capitolini: la capacità di realizzare una concreta unità operaia, il “primato” delle organizzazioni proletarie sul partito, naturalmente un gradualismo e un tendenziale moderatismo nel confronto con la borghesia – ma anche queste erano manifestazioni, espressioni istituzionali del sindacato tutt’altro che disprezzate dall’intellettuale partenopeo – fino al “pragmatismo” dimostrato dai laburisti, ovvero la capacità di non impegnare oltremodo i lavoratori in inutili logomachie o in “ideologici” scontri di tendenze.
Si trattava, nel complesso, d’una sensibilità non molto differente da quella leoniana ed è utile ricordare che questa comune ricettività a proposito del fenomeno laburista, fu nel nostro paese uno dei motivi dell’affinità tra sindacalismo riformista e rivoluzionario, quindi della contiguità, proprio a Roma e nella sua Camera del lavoro (Cdl), tra personaggi come Ernesto Verzi, Cleobulo Rossi ed appunto Angiolo Cabrini da un lato, ed Enrico Leone, Romolo Sabatini, Michele Bianchi dall’altro. Di più: potremmo anche dire che Leone e i suoi furono spinti ad approfondire la conoscenza della realtà britannica proprio sull’onda degli scritti e delle corrispondenze dalla Gran Bretagna di Cabrini, il quale d’altronde fin dal 1903 aveva cominciato a traghettare in Italia le “novità” inglesi, quindi a descrivere minuziosamente quel processo che Oltremanica stava portando una serie di organizzazioni proletarie a trasformarsi in soggetto politico.
È così che, tra le ragioni della convergenza fra sindacalismo riformista e rivoluzionario – perno del discorso leoniano – ci sembra di poter annoverare non solo un motivo specificamente italiano come la comune ascendenza operaista, quindi la sostanziale rivalutazione dell’esperienza del Partito operaio italiano (Poi) che nel tardo Ottocento aveva preceduto il Psi, bensì anche una sollecitazione esogena come il modello laburista.
Il new unionism, il tramonto del liberal-labourism e la fondazione del Labour Party
Le Trade unions, come del resto in Italia le Federazioni di mestiere (Fdm) e in genere le componenti operaie più moderate, costituivano l’istituto per antonomasia di quella che un tempo è stata definita labour aristocracy, cioè di categorie più forti e protette, costantemente a metà strada fra vecchi “mestieri” di stampo artigianale e nuove “qualifiche” di tipo marcatamente industriale. Nell’epoca d’una profonda trasformazione delle figure operaie in Gran Bretagna come in Italia, sebbene in contesti capitalistici dissimili, l’intera classe – dai più “disorganizzati” o “dequalificati” fino alla cosiddetta labour aristocracy – fece ricorso non solo all’ “azione diretta” in senso stretto, bensì agì sempre più su un piano contemporaneamente politico e sindacale. Al di là degli accenti più o meno moderati o radicali, il dato sul quale riflettere è che la classe nella sua totalità – quindi il “sindacato” che ne era diretta espressione – sembrò naturalmente portata a rompere i vecchi recinti che la confinavano in un mero ambito “economico”; indi ad essere parte attiva d’un processo che vide l’organismo sindacale invadere spazi direttamente “politici”, tradizionale monopolio dei partiti o dei gruppi parlamentari.
In questo processo di ibridazione e graduale evoluzione, il discorso leoniano è perciò molto affine allo spirito, diremmo all’indole del tradeunionismo (in merito, oltre a D’Alterio 2006 e 2011, anche lo stimolante accenno nella prefazione di F. Livorsi a Bassani 2005, XXIV): se non in maniera letterale – sarebbe ovviamente inutile e fuorviante ricercare una perfetta identità fra sindacalismo “puro” teorizzato da Leone e tradeunionismo, anche per i differenti sviluppi del sindacalismo italiano rispetto alla realtà inglese, dovuti al diverso grado di sviluppo industriale e ai suoi riflessi sul mercato del lavoro – certo nel senso complessivo e nella profonda innovazione rappresentati dal new unionism e dal suo progressivo trasformarsi in Lp. Naturalmente in Gran Bretagna questo processo culminò appunto nella nascita d’un “partito” espressione delle organizzazioni dei lavoratori; in Italia – e, in maniera curiosa ma indicativa, proprio negli stessi anni in cui si formava il Lp: 1905-1906 – invece l’ipotesi leoniana non seppe attrarre in modo organico, strategico, il sindacalismo riformista e le Fdm.
Essa quindi non riuscì a rendere stabile in chiave “politica” l’unità proletaria soprattutto fra il 1905 e il 1906, dapprima a Genova in occasione del Congresso della resistenza, poi durante l’agitazione dei ferrovieri e infine attraverso l’esperienza de Il Sindacato Operaio, culminata nel mancato rilancio dell’iniziativa “rivoluzionaria” e nella fondazione della Cgdl. In Italia, pertanto, questo fallimento impedirà al sindacato d’assumere una piena, completa fisionomia politico-parlamentare. Ma non solo: il tracollo di Leone e di tutta la prima azione diretta, determinerà la lacerazione dell’unità proletaria e il relegamento del sindacato – Cgdl, ma non in misura minore Usi – in un sfera “economica” sempre più a sé stante, lontana da quella “politica” o apertamente avversa ad essa, al di là d’una prevalenza d’accenti “riformisti” o “rivoluzionari”.
Si badi bene: l’idea d’un “sindacato” che direttamente si proiettava sulla scena politico-parlamentare in quanto soggetto economico, era un’idea che Leone aveva “ereditato” da Marx, e proprio dal Marx “inglese”, della I Internazionale e dell’esaltazione della working class britannica come soggetto rivoluzionario. La particolare “sensibilità tradeunionista” mostrata da Leone, pertanto, era al contempo “sensibilità marxista”, e proprio per le origini del pensiero marxiano alle quali del resto tutto il primo sindacalismo rivoluzionario italiano voleva riallacciarsi (Livorsi in Bassani 2005, XXII ss.).
Con il dock’s strike di Londra del 1889 nasce il new unionism, il cui iter sembra d’altronde molto vicino a quello del sindacalismo leoniano: a proposito della volontà di tenere tendenzialmente non separate istanze verticistiche, gradualiste e moderate ad altre più coerentemente autonomiste, radicali, tanto quanto il tentativo di non compromettere l’unità sindacale – che era appunto anche fra “qualifiche” alte e basse, fra aree sviluppate e non, ecc. – al fine di farla maturare in chiave “politica”. Per Leone come per i new unionists James Keir Hardie, Ben Tillett o Tom Mann, il “sindacato” andava tenuto unito in tutte le sue molteplici componenti appunto perché soggetto politico, perché “sindacato integrale”, perché Labour party. In Gran Bretagna il new unionism ottenne questo risultato, pur fra contraddizioni ed esiti problematici, non univoci; ma l’ottenne. In Italia Leone e il gruppo romano da un lato, le Fdm e gran parte del sindacalismo riformista dall’altro, no.
In tal senso si può registrare un’altra indicativa somiglianza, quella fra il dock’s strike londinese del 1889 e lo sciopero generale romano del 1903 (su quest’episodio D’Alterio 2004 e Carusi 2006): entrambi gli episodi, infatti, sebbene in epoche e paesi diversi, videro su scala cittadina – le due capitali fra l’altro, Londra e Roma – l’esplosione d’una serie di lotte avviate autonomamente da più categorie, capaci di trovare piattaforme rivendicative unificanti, quindi di saldare fra loro le istanze di lavoratori qualificati e dequalificati, “organizzati” e “disorganizzati”. Una seconda similitudine è senz’altro l’unità tendenziale, raggiunta durante le agitazioni, fra tradeunionisti radicali e moderati, quindi in Italia fra sindacalisti riformisti e rivoluzionari: a Londra Tom Mann era a fianco di leader come Ben Tillett, mentre a Roma Giuseppe Parpagnoli e Romolo Sabatini finirono per condividere l’incombenza dell’astensione generalizzata dal lavoro con personaggi come Ernesto Verzi, Cleobulo Rossi e Luigi Colli. Il dato più rilevante, d’altronde, è che tale unità operaia determinata da episodi imponenti d’azione diretta, pose in entrambi i casi seppur in maniera grezza, il problema d’un necessario sbocco politico delle lotte, quindi la costituzione d’un soggetto originalmente politico-sindacale.
Non è perciò casuale che, tanto il dock’s strike quanto lo sciopero capitolino, siano stati all’origine di due “movimenti” precisi del proletariato e del sindacato, britannico come italiano: in Gran Bretagna l’episodio del 1889 azionò un meccanismo che determinò la nascita del new unionism, poi dell’Indipendent labour party (Ilp) e infine dello stesso Lp; nel nostro paese le vicende del 1903 furono l’incipit della successiva affermazione, fra il 1904 e il 1907, d’un gruppo sindacalrivoluzionario guidato da Enrico Leone ed avente proprio nel movimento operaio dell’Urbe una base d’appoggio e un centro direttivo per un’opzione strategica in realtà di carattere nazionale. Un “gruppo”, quello leoniano-romano, che in maniera molto indicativa e “laburista”, farà dell’unità proletaria con le componenti moderate del sindacato, naturalmente in chiave politica, un autentico cavallo di battaglia, senza contare il parziale assorbimento fra le sue file di leader sindacalriformisti come Angiolo Cabrini e i succitati Verzi, Rossi e Colli, attratti del resto proprio da questo tipo di prospettiva.
Bisogna considerare che in Gran Bretagna fu l’offensiva padronale – e statale: Taff Vale Sentence – a determinare il “salto di qualità” laburista delle Trade Unions, quindi il passaggio del sindacato da un piano meramente “economico” ad uno più direttamente “politico”. Fu pertanto una serie d’eventi in rapida successione – oltre alla Taff Vale Sentence, la morte di Gladstone nel 1898, fino al progressivo annullamento dei Trade Unions Acts ottocenteschi – che in certo modo infuse il “coraggio” necessario, soprattutto all’Ilp, per passare da un piano “sindacale” ad uno sempre più “politico”.
A tal proposito un confronto fra Italia e Gran Bretagna ci sembra utile. Anche nel nostro paese, infatti, la prima età giolittiana, e soprattutto la cruciale fase 1905-1906 (in merito Candeloro 1974, Aquarone 1988, Gaeta 1996, Gentile 1997), vide un inasprimento dei governi e dei ceti dominanti nei confronti degli “eccessi” proletari: il divieto di sciopero nei pubblici servizi comminato ai ferrovieri nel 1905 da Giolitti, indi reiterato da Fortis; la natura, profondamente antioperaia in realtà, del ministero Sonnino nel 1906; nel complesso un robusto e “trasversale” giro di vite alle “libertà” sindacali successivo allo sciopero generale nazionale del 1904. Tuttavia, mentre nel Regno Unito tale “schiaffo” produsse il Labour representation committee (Lrc) e poi il Lp, consacrando quindi – certo con tutti i suoi limiti – l’ipotesi d’un sindacato che fa politica, in Italia accadde l’esatto contrario.
Fra il 1905 e il 1906 il Segretariato della resistenza entrò in una crisi irreversibile, l’unità operaia si sfasciò nonostante gli sforzi dei leoniani, i ferrovieri vennero sconfitti pesantemente né servì a rilanciare l’iniziativa “laburista” lo sciopero generale antisonniniano – pur vittorioso – del 1906, mentre in questo stesso anno la nascita della Cgdl consacrava l’assetto tradizionale nel rapporto fra “classe” e “politica”, cioè fra un sindacato che, occupandosi fondamentalmente di questioni “economiche”, delegava a uno o più partiti l’azione “politica” propriamente intesa.
Un altro aspetto di grande interesse che emerge dal confronto fra new unionism e sindacalismo italiano – non solo “rivoluzionario” e non solo leoniano – è l’affinità tra alcune formazioni politiche e alcuni leader inglesi da un lato – l’Ilp, personalità come J. Keir Hardie e Tom Mann ad esempio – e quelli che in un certo senso e per un certo periodo possono essere considerati quasi i loro omologhi italiani – il “gruppo” capitolino senza dubbio, ma non in misura minore personaggi moderati come Cabrini, Verzi e Cleobulo Rossi. Tale affinità concerneva principalmente l’idea, espressa con diversi toni e diversa consapevolezza nell’uno e nell’altro caso ma in maniera nettissima, della necessità d’un soggetto tendenzialmente politico perché sindacale, capace di assimilare le funzioni – elettorali incluse – tradizionale monopolio dei partiti, che così venivano sostituiti da un organismo nuovo, “operaio” ma non più esclusivamente “sindacale”, nel loro ruolo di mediatori fra Stato e proletariato.
Ciò che più conta sottolineare in questa sede pertanto, è che, soprattutto nella fase 1889-1918, il laburismo va senz’altro considerato come attitudine a una piena “autonomia politica” delle Trade unions, in molte circostanze largamente inespressa, quindi non come un’acquisizione stabile. Nondimeno ciò che appare altrettanto indubbio è che, nel quadro d’una dialettica come in Italia espressione d’un perenne confronto, anche aspro, fra “base” più radicale e “vertici” moderati, tra “riformisti” e “rivoluzionari”, il laburismo inglese a differenza del caso nostrano contemplò il mantenimento, e non la lacerazione, dell’unità sindacale: un risultato tanto più significativo poiché, per quanto tendenziale e contraddittorio, proiettò tale “unità” in un ambito esplicitamente politico-parlamentare – il Lp appunto – ovvero l’esatto contrario di ciò che avvenne in Italia, dove nello stesso 1906 prendeva vita una Cgdl che, de facto, avrebbe continuato a delegare l’azione politica al Psi e in genere a partiti che, anche in un futuro molto lontano, si sarebbero accreditati quali principali “rappresentanti” della classe operaia organizzata.
Alcune linee di frattura che, in Gran Bretagna, interessarono perlomeno fino al 1918 il “riformismo operaio” dell’Ilp – e poi del Lrc-Lp – da un lato e il “riformismo intellettuale”, venato di radicaldemocrazia, tipico della Fabian society (Fs) dall’altro, ricordano per molti aspetti quella potenziale rottura o comunque il forte dissenso che anche in Italia ebbero modo di manifestarsi nell’ambito del socialismo riformista. Questo infatti, specie in età giolittiana, fu percorso dai dissidi tra moderatismo turatiano e sindacalismo riformista, il secondo, come abbiamo già accennato, in più d’un caso “vicino” all’azione diretta – dallo sciopero generale romano del 1903 al Congresso della resistenza del 1905, dall’agitazione dei ferrovieri in questo stesso anno allo sciopero generale antisonniniano del 1906, dalla paradigmatica esperienza leoniano-capitolina de Il Sindacato Operaio a quella di molte giunte esecutive di Cdl e Fdm italiane nel corso del primo Novecento – e in disaccordo con la leadership del Psi o con lo stesso Gps.
Tale “copione” venne recitato anche in Gran Bretagna, sicuramente dalla Fs e dai loro ideatori, i coniugi Webb, portati naturalmente fin dall’Ottocento ad interpretare il fenomeno tradeunionista come atto a democratizzare – nonché a “potenziare” – lo Stato e le istituzioni liberali, non a costituire per questi e per il sistema capitalistico una compiuta alternativa. La Fs puntava, se vogliamo, a modernizzare il vecchio unionismo lib-lab, ma non a sovvertirlo, sostituendolo con un altro modello politico-sindacale più nettamente “autonomo”. Non a caso gli Webb guardarono con fastidio al new unionism e alle figure di organizzatori sindacali – e poi politici – che esso portò sugli scudi, giacchè furono sempre scettici circa la capacità del sindacato a trasformarsi in soggetto politico-parlamentare. Il “sindacato”, infatti, per i fabiani non costituiva un polo alternativo allo “Stato” e al “capitalismo”, ma un elemento di integrazione del proletariato nel primo e nel secondo, quindi nella “nazione”.
Questa posizione ci sembra perciò simile a quella di molto socialismo turatiano ma ben diversa da quella dell’Ilp e, dunque, della maggior parte delle forze che diedero vita al Lrc-Lp, rispetto al quale d’altronde la Fs rimase marginale fino al 1918. La Fs, tuttavia, nel complesso ebbe un carattere più aperto e meno dottrinario di tanto socialriformismo italiano, soprattutto in relazione ai movimenti spontanei della classe operaia, all’azione diretta e in genere al fermento “rivoluzionario” che, ad esempio negli anni Dieci, attraversò le Trade unions: anche questo è infatti un tratto caratteristico non solo del fabianesimo, ma del laburismo come cultura politica.
In virtù di ciò cerchiamo di ragionare sul carattere “autonomo” del processo new unionism-Lrc-Lp, autonomo soprattutto rispetto al modello lib-lab e quindi in buona sostanza all’assetto tradizionale del sistema politico britannico. Una formazione in particolare – l’Ilp, nato nel 1893 e preceduto dal Partito laburista scozzese nel 1888 e dall’Unione laburista di Bradford nel 1890 – sembra il vero propulsore nell’iter che condusse alla nascita del Lrc e poi del Lp. Innanzi tutto l’Ilp, per molti versi non dissimile dallo stesso Poi (sul quale Meriggi 1985, Angelini 1987, Briguglio 1992), fu una formazione schiettamente sindacale, che nacque nonostante l’esplicita contrarietà sia della “marxista” e partitocentrica Socialist democratic federation (Sdf), sia della “riformista” Fs.
La maggioranza dei delegati al congresso costitutivo dell’Ilp era di fede socialista: pur tuttavia non accettò i diktat né della Sdf né della Fs. Il significato più profondo di questo laburismo “originario” è pertanto il rifiuto del “ruolo guida” dei partiti – socialisti e non – sul sindacato. Praticamente negli stessi anni in cui in Italia il Poi si andava dissolvendo a beneficio del nascente Psi, l’Ilp non solo si “ribellava” agli omologhi inglesi del gruppo turatiano, capace di egemonizzare il processo costitutivo del Psi; faceva qualcosa di più, reclamando progressivamente una piena “maturità” del sindacato, quindi la reale “autonomia” d’un soggetto che si voleva direttamente impegnato in ambito politico-parlamentare. D’altronde l’ “autonomia” invocata dall’Ilp non valeva solo nei confronti delle formazioni socialiste come la Sdf o radicaldemocratiche come la Fs, ma anche nei riguardi del modello lib-lab allora dominante, sì che perfino il liberalismo gladstoniano venne investito dall’onda d’urto del nascente laburismo. È altrettanto importante segnalare che l’Ilp adottò un “programma massimo” di tipo socialista, che non differiva molto da quello della Sdf: la vera differenza era nell’atteggiamento verso le Trade unions.
Ciò detto, sembra molto evidente la somiglianza tra una formazione come l’Ilp e le idee espresse dal gruppo leoniano-romano ai primi del Novecento: tale “somiglianza” è inoltre tanto più forte, quanto più l’Ilp può essere considerato finanche una sorta di “modello indiretto” per Leone e i suoi seguaci, exemplum cioé d’organizzazione legata a doppio filo a una realtà sindacale, della quale interpretava e traduceva le volontà politiche. Qualcosa insomma che il gruppo romano – pensiamo soprattutto all’esperienza de Il Sindacato Operaio – provò concretamente a mettere in pratica un decennio dopo nel contesto italiano, certo con molta minor fortuna ma secondo linee guida non poi così dissimili. Queste infatti prevedevano la realizzazione di un’unità strategica fra sindacalismo “rivoluzionario” e “riformista”, quindi la nascita d’un soggetto politico perché sindacale nazionale, unitario, ampiamente rappresentativo e in grado di svincolarsi dalla “tutela” del Psi, sebbene mai incline a negare il valore contingente di funzioni abitualmente partitiche, fossero esse graduali, moderate od elettorali.
D’altronde proprio queste caratteristiche – ricerca costante di un’unità proletaria in chiave antipartitica ma non apolitica; volontà di assorbire, innovandole, le mansioni svolte dal Psi e non solo di contrapporsi ad esse, cui aggiungiamo l’imperativo di legarsi al movimento della classe operaia, ai suoi bisogni concreti – ci sembrano comuni al gruppo leoniano e all’Ilp, per certi aspetti quasi sovrapponibili le une alle altre5. L’Ilp del resto si accreditò subito come “braccio politico” delle Trade unions e amplificatore delle lotte new unionists, sì che fino al 1906 il laburismo appare unito in tutte le sue anime e sfumature, “riformiste” e “rivoluzionarie”.
Come Leone avrebbe predicato soprattutto nel 1904-1906, l’Ilp e buona parte delle Trade unions avevano infatti capito più di dieci anni prima che, innanzi tutto, era importante preservare l’unità operaia non per amor di quiete, bensì per un motivo fondamentale: spenderla in un ambito direttamente politico-parlamentare. Non a caso alle elezioni del 1895 l’Ilp venne guidato dal “riformista” Hardie e dal “rivoluzionario” Mann – che fu anche segretario del partito per molti anni – senza contare che il legame fortissimo Ilp-Trade unions non venne reciso, ma anzi si rafforzò fra gli anni Novanta e il primo quinquennio del Novecento. Lo scontro fra “vecchio unionismo” di tipo lib-lab e “nuovo unionismo” incarnato dall’Ilp, in questo torno di tempo fu infatti duro, aspro ed anche indicativo alla luce di quanto abbiamo sostenuto.
In questo senso occorre inoltre soffermarsi sugli esiti complessivi e più generali d’un processo che, iniziato nel 1889 con il cosiddetto new unionism, produsse successivamente il Lrc e infine nel 1906 lo stesso Lp. Ebbene tale “movimento” del proletariato britannico e delle Trade unions, culminato nell’importante affermazione elettorale laburista del 1906, generò alfine un primo ministro – Lloyd George – nonché un indirizzo governativo – new liberalism – schiettamente liberali, caratterizzati dall’affermazione di riforme sociali particolarmente avanzate (Favretto 2004) e, se vogliamo ancora una volta istituire un paragone, ben più coraggiose di quelle coeve realizzate dal cosiddetto “lungo ministero” Giolitti. In tal modo il tradizionale sistema bipartitico inglese, e in particolare il Partito liberale, cercavano di disinnescare la “minaccia” rappresentata da un sindacato ormai autonomamente presente in parlamento. L’indirizzo liberaldemocratico degli anni 1906-1910, pertanto, fu il frutto più maturo di un’azione sindacale schiettamente politica.
Va quindi sottolineato che la risposta arditamente riformatrice dei ministeri liberali garantì nel complesso la prevalenza nelle Trade unions e nel Lrc-Lp delle componenti moderate; che, tuttavia, il laburismo non tradì le ragioni più profonde della sua esistenza: l’unità tendenziale della classe operaia, ma soprattutto il passaggio stabile del sindacato in un ambito politico-parlamentare autonomo e ben definito. Non a caso il Lp non smobilitò affatto in seguito alle riforme patrocinate da Lloyd George, né tornò sui suoi passi rispolverando il moribondo modello lib-lab. Sul lungo periodo, anzi, il Lp avrebbe finito per sostituire proprio gli whigs nel consolidato bipartitismo inglese.
In quest’ottica la lettura di Grendi, e con lui di altri storici italiani e britannici (ad esempio Biagini 1992a e 1992b, Hobsbawm 2001), appare troppo “continuista”, portata cioè a sottolineare eccessivamente gli elementi di continuità – quindi la sostanziale assenza di novità, d’una qualche cesura fra prima e dopo la nascita del Lp – fra liberal-labourism e Lrc-Lp. Ci sembra quindi impossibile leggere come una “insufficienza”, o magari “immaturità” politica di quest’ultimo il fatto che il governo e il Partito liberale abbiano intrapreso dal 1906 un’ampia stagione di riforme: tale stagione, infatti, non fu il frutto d’una mancanza d’autonomia del Lp, d’una sua inveterata “subalternità” all’immutabile sistema politico-culturale britannico, bensì il frutto di un’innovazione di tale sistema; certo non d’una sua “rivoluzione”, ma sicuramente d’una sua profonda mutazione.
La fase 1910-1918, il british syndicalism e la “fluidità” del laburismo
A partire dal 1910 e perlomeno fino al 1914 vi è una ripresa dello scontro sociale e degli scioperi. Il new liberalism entra progressivamente in crisi, tanto quanto l’ “accordo” di non belligeranza fra Lloyd George e Lp. Sul versante sia borghese sia operaio, infatti, l’assetto che si era rivelato soddisfacente nella fase 1906-1910 non risponde più alle esigenze d’una borghesia aggressiva, incline a un conservatorismo dai tratti reazionari ed antioperai, ma non in misura minore ai bisogni d’un proletariato in corso di rapida trasformazione, e che grazie a un’industrializzazione incipiente sta perdendo i residui tratti del craft unionism per diventare una classe operaia di tipo compiutamente “industriale”. Ora è interessante notare come anche in questi anni oggettivamente difficili per lo stesso Lp – sono gli anni del cosiddetto industrial unrest, del syndicalism, della Triple alliance – il laburismo riesca comunque a non essere travolto, bensì a consolidare complessivamente il proprio ruolo e la sua stessa autonomia politica.
È così che, per quanto moderato possa essere ritenuto il gruppo dirigente laburista, questo non pensò mai di recidere il legame fra “classe” e “politica” che aveva costruito nel periodo precedente: anche negli anni peggiori, esso quindi non vide diminuire la sua forza elettorale e parlamentare, né assistette al dissolvimento di quell’organismo costruito nella fase 1889-1906. Il Lp in sostanza non rinunciò alle ragioni della propria esistenza, ma anzi si rafforzò a discapito dei liberali. Stesso iter in occasione della prima guerra mondiale, che non devastò il Lp né lo indebolì; e ciò nonostante la radicalizzazione della base tradeunionista ad opera principalmente del movimento degli shop stewards.
Emerge anzi un tratto, diremmo di “riformismo forte” – non ideologico, o dottrinario e quindi debole nei confronti dell’autonomia operaia e della stessa azione diretta – caratteristico della soluzione laburista affermatasi in Gran Bretagna, tipico cioè del rapporto peculiare fra “sindacato” e “politica” garantito dal Lp. Proprio questa dimensione, infatti, consentì a un sindacato divenuto ormai Labour party di non chiudersi ermeticamente durante la radicalizzazione dello scontro sociale, né di venire travolto da esso o dai coevi “contrattacchi” padronali. La duplicità del laburismo anzi, mantenendo l’unità operaia in chiave apertamente politica, garantì al sindacato d’assorbire le spinte più sovversive traducendole in iniziative “riformiste” e parlamentari. In tal modo non vi fu mai rescissione traumatica del legame fra “riformisti” e “rivoluzionari” o, su un piano strettamente organizzativo, fra “qualifiche” alte e basse: i due piani, sebbene in maniera dialettica, continuarono a comunicare, ad interagire e quest’esito fu assicurato dall’attitudine politica delle Trade unions, un’attitudine mai sconfessata.
Anche questo processo è in linea col progetto leoniano-romano di “sindacato integrale”, quindi del perseguimento di un’unità operaia – sindacalisti “rivoluzionari” e “riformisti”, o sindacalismo “senza aggettivi” – che si accompagna alla realizzazione d’una “politica proletaria”: un discorso questo che non espungeva il gradualismo e lo stesso “riformismo”, ma nemmeno la capacità di dialogare con la controparte, fosse il governo o i ceti borghesi, o di comprendere gli stessi impulsi più radicali della classe al fine di “costituzionalizzarli”, una capacità questa che il “sindacato integrale” doveva mantenere per Leone. Ora va da sé che tale “schema” non si realizzò sempre e comunque in Gran Bretagna, poiché per il Lp ci furono naturalmente fasi più o meno difficili e contraddittorie; rimase però come “tendenza”, garantendo un “riformismo forte”, e forte non solo perché in grado d’ottenere molto in termini di riforme, di welfare appunto, ma anche e soprattutto perché in grado d’assorbire, per quanto parzialmente, le spinte politico-sindacali più estreme, traducendole in linfa vitale per il partito laburista. In egual misura l’affermazione costante, pur in presenza di momenti critici per il Lp, del principio – anche leoniano – in base al quale il sindacato doveva rimanere al contempo “unito” e “politico”, consentì al laburismo, soprattutto nelle fasi durissime dell’industrial unrest e poi della prima guerra mondiale – con annessa rivoluzione russa – di resistere sia alle spinte più illiberali provenienti dalle sue stesse file, sia tuttavia ai tentativi reazionari di parte borghese.
Anche in tal caso, perciò, crediamo di poter trarre un bilancio in attivo per il laburismo – e, se vogliamo, per il progetto leoniano – e fortemente in passivo per il sindacalismo italiano, tanto “riformista” quanto “rivoluzionario”. Il “confederalismo”, infatti, riuscì con la fondazione della Cgdl a lacerare l’unità proletaria ma anche a non impegnare mai in maniera coerente e consapevole quest’istituto su un piano politico-parlamentare. La Cgdl fu così complessivamente sorda, impermeabile, se non ostile, a tutti i “movimenti” più radicali della classe – da quelli degli anni Dieci fino al Biennio rosso – col risultato di rendere se stessa e il proletariato deboli dinanzi al fascismo (all’uopo Furiozzi 1997 e Cordova 2005). Stesso passivo lo registra tuttavia il sindacalismo corridoniano-deambrisiano e in genere le correnti più nettamente soreliane dell’azione diretta italiana, poi confluite nell’Usi (vedi Osti Guerrazzi 1996 e 2000, Antonioli 1990a e 1990b, D’Alterio 2011, Serventi Longhi 2011): anch’esse furono alfine incapaci di canalizzare positivamente le ondate operaie “estreme”, di coniugare il piano agitatorio a un discorso politico convincente, d’ampio respiro, rivelandosi quindi inabili ad egemonizzare in maniera durevole la classe operaia, finendo così per mostrarsi volubili dinanzi al sindacalismo corporativo, nel quale infatti si identificheranno in buona parte.
In quest’ottica ci sembra utile qualche riflessione sul british syndicalism, cioè sul fenomeno più propriamente sindacalrivoluzionario inglese, caratteristico degli anni Dieci. Innanzi tutto è importante sottolineare che il syndicalism restò fondamentalmente “interno” alla dinamica tradeunionista-laburista: soprattutto perché, per quanto in maniera parziale, il Lp aveva già risolto il nodo d’un coinvolgimento diretto del sindacato su un piano politico. Il “gran passo” insomma era stato già compiuto nel 1905-1906, ponendo di fronte allo Stato e ai partiti “borghesi” un soggetto sindacale che era diventato Labour party. Negli anni successivi, pertanto, si trattò di capire quanto questo nuovo soggetto fosse pienamente alternativo allo Stato e al sistema capitalistico, o quanto, appunto, disposto solo a fronteggiarli al fine d’ottenere delle “riforme”. Ciò detto, tuttavia, è vero che tale problema – il grado d’alterità del sindacato rispetto allo Stato e alla borghesia – era in ultima istanza un “problema” pur sempre politico, o meglio d’un sindacato che in quanto soggetto economico si confrontava in maniera “rivoluzionaria” o “riformista” coi pubblici poteri e col padronato.
Va da sé quindi che molti syndicalists – pensiamo ad esempio alla parabola di Tom Mann e della sua Industrial syndicalist educational league (Isel) – non possano essere banalmente considerati “antilaburisti” o “antitradeunionisti”, dacché il loro intento era radicalizzare sempre più le Trade unions fino a trasformarle in soggetti rivoluzionari, cioè fino al punto di giungere alle conclusioni più estreme derivanti però dalla stessa esistenza delle Trade unions e in buona misura dello stesso Lp: dall’essere cioè il laburismo una concezione implicante un sindacato che diviene soggetto politico autonomo. Ogni sorta di syndicalism o d’ “industrialismo”, infatti, per non trasformarsi in mero corporativismo, aveva bisogno d’affrontare il “nodo politico”, magari evolvendo verso forme affini al soviettismo: ebbene tale nodo il new unionism aveva cominciato ad affrontarlo nel 1889 e lo aveva risolto, per quanto parzialmente, con la nascita del Lp nel 1906. Per queste ragioni il british syndicalism non fu mai – se non in piccoli e poco influenti gruppi – dual unionism, non sentendo mai il bisogno di fondare qualcosa di simile all’Usi o agli Industrial workers of the world (Iww). Il suo scopo principale, certo non sempre in modo sufficientemente consapevole e lineare, non fu quello di “opporsi” alle Trade unions e allo stesso Lp, bensì continuare a muoversi all’interno di queste realtà, al fine di trasformarle, radicalizzarle, diventando così forza politicamente egemone.
In questo senso anche la figura di Tom Mann (cfr. Tsuzuki 1991 e White 1991) – davvero emblematica e ancora una volta simile per più d’un verso a quella d’Enrico Leone – parla chiaro: fino al 1910 egli è infatti “rivoluzionario” ma non “antiparlamentare”, e non a caso fu uno dei perni non moderati del processo costitutivo del Lrc-Lp. Mann insomma dagli scioperi new unionists della fine degli anni Ottanta, passando per la costituzione dell’Ilp, fino alla nascita del Lrc-Lp, in tutti questi episodi rappresentò l’ala “laburista rivoluzionaria”, che accettava l’unità sindacale in chiave direttamente politico-parlamentare, purché il laburismo si definisse progressivamente come quello che Leone chiamava appunto “sindacato integrale”, quindi quale passaggio obbligato atto a far maturare l’autonomia operaia sino all’acquisizione d’una netta coscienza assieme anticapitalistica ed antistatale6.
Mann – da Edoardo Grendi ritenuto l’esponente più significativo di quella che egli stesso definisce “linea possibilistica” del british syndicalism – quindi fu accanto ai quadri sindacali riformisti nella costruzione del Lp. Anche quando, negli anni Dieci, egli sotto il duplice influsso degli Iww e della Cgt – ma un ruolo importante nella sua formazione lo aveva avuto anche il tradeunionismo australiano – darà vita all’Isel, pur tuttavia continuerà a sostenere che “il parlamentarismo non doveva essere del tutto abbandonato, ma subordinato all’azione economica, ovvero ‘il miglior club inglese’ [vale a dire il parlamento] doveva essere trasformato nella migliore piattaforma per l’azione rivoluzionaria. Dietro all’uomo politico laburista doveva star sempre il sindacalista rivoluzionario a dettare il suo atteggiamento alla Camera dei Comuni” (Beer 1964, 328).
Una posizione insomma più leoniana che soreliana o anarcosindacalista; una posizione inoltre che conferma il carattere endogeno rispetto al laburismo di molto syndicalism. Il tentativo, della Isel ma in ultima analisi della stessa Triple alliance, era del resto “leoniano” nella misura in cui intendeva correggere e in prospettiva sostituire la leadership moderata delle Trade unions e dello stesso Lp, che andavano modificate a beneficio di un’organizzazione di tipo più schiettamente industrialista sul piano sindacale, e più coerentemente anticapitalista-antistatale sul piano politico. Questa prospettiva nondimeno, seppur sconfitta, non rinnegava affatto il senso più profondo – ossia la politicizzazione esplicita, potenzialmente integrale dei sindacati britannici – della svolta new unionist. Caso mai Mann e i syndicalists più “possibilisti” intendevano portare a compimento questo processo, rendendo il laburismo stabilmente “rivoluzionario” – e quindi davvero “politico” – non già rinnegarlo a beneficio d’una visione di stampo anarcosindacalista.
Queste considerazioni ci portano a riflettere ancora una volta sul modello politico-sindacale laburista, in particolare su una caratteristica peculiare, ovverosia quella che definiremmo la sua fluidità: cioé la capacità, alla quale abbiamo già accennato, di ammortizzare e in parte riassorbire urti e scosse provenienti dalla “base” proletaria, anche molto forti. Tale “fluidità” – che appare un tratto diametralmente opposto a quelli tipici del movimento sindacale italiano, specie la Cgdl – era del resto la vera saldezza del Lp, anche nel rapporto con lo Stato e coi governi tanto tories quanto whigs. Fu proprio questa “fluidità” e parimenti questa “forza” a consentire al Lp d’essere un robusto argine sia per i gruppi più sovversivi della classe operaia, sia però per i tentativi più coerentemente reazionari, di stampo nazionalista e monarchico, che fino agli anni Venti interesseranno anche il Regno Unito. In Gran Bretagna tutte queste spinte, rivoluzionarie od eversive ma entrambe antidemocratiche, si scontreranno non con un movimento operaio come in Italia diviso e perciò debole, bensì con un laburismo appunto “fluido” ma “forte”.
Ciò appare vero a maggior ragione se prendiamo in esame la vicenda del cosiddetto guild socialism, o “socialismo ghildista”, un movimento di natura corporativa successivo all’industrial unrest e perlopiù un tentativo, di parte laburista ultramoderata, atto ad integrare in chiave economicistica alcuni elementi – fra cui il concetto di “autonomia sindacale” – tipici dello stesso syndicalism. Qualcosa insomma di molto simile al sindacalismo corporativo e poi fascista nostrano (in merito Cordova 1974 e 2005, Parlato 2000), specie nella vocazione, propria anche del guild socialism, a chiudere le organizzazioni dei lavoratori in una dimensione ultraeconomica, produttivista e comunitaria, capace di eliminare fra Stato e sindacato qualsiasi diaframma politico-partitico. Venivano così messe in relazione diretta fra loro una società – e non più una specifica classe – di “produttori” divisa in corporazioni o “unioni industriali” dedite esclusivamente alle attività produttive, con uno Stato – e non più un complesso di partiti – che deteneva il monopolio delle attività politiche. Tale Stato nondimeno, privato ormai del ruolo di “mediazione” assicuratogli dai partiti e dallo stesso parlamento, veniva ridotto al potere esecutivo, all’attività di governo in senso stretto, che in un simile contesto non poteva non colorarsi di sfumature autoritarie. Il ghildismo, d’altronde, prevedeva un possesso dei mezzi di produzione da parte di siffatto Stato corporativo, cui faceva da pendant il “controllo del lavoro” da parte delle unioni industriali.
Mentre in Italia tali fermenti economicistico-corporativi avrebbero finito per costituire il “puntello sindacale” del regime mussoliniano, capace inoltre in ragione di ciò d’attrarre nella sua orbita spezzoni consistenti di sindacalismo sia “rivoluzionario” sia “riformista” o “confederale”, in Gran Bretagna un Lp fluido ma forte avrebbe ridotto al minimo l’incidenza del guild socialism, sostanzialmente impedendone la tracimazione in senso antisocialista, quindi il suo rafforzamento.
Sono quindi evidenti i limiti oggettivi del british syndicalism e, con esso, del sindacalismo rivoluzionario italiano, specie leoniano, nonostante la loro pressoché identica peculiarità. Sebbene in grado d’annoverare variabili importanti – qualitativamente e quantitativamente – rispetto al modello soreliano, anarcosindacalista, comunque apolitico ed antiparlamentare, il sindacalismo leoniano tanto quanto quello “permeativo” e “possibilista” di Tom Mann finirono per non centrare il loro obiettivo principale: conferire alla classe operaia organizzata, quindi al sindacato, una linea politica e una “coscienza” compiutamente anticapitalistiche, antistatali.
Certo, Mann e il syndicalism a differenza di Leone si muovevano in un contesto che, come abbiamo detto, era già a metà dell’opera avendo accettato da molto tempo il principio in base al quale il sindacato può trasformarsi in soggetto politico-parlamentare autonomo. Nondimeno l’industrial unrest, l’Isel e la Triple alliance non riuscirono, se non in maniera episodica e mai durevole, a conferire alle Trade unions una tale sensibilità né a modificare la struttura organizzativa dei sindacati inglesi in senso più schiettamente industrialista.
Questo complessivo fallimento del syndicalism, al contrario, ruppe un’altra “continuità” nella storia del movimento operaio inglese, quella col new unionism affermatosi nella fase precedente, del quale in certa misura costituiva il “completamento”. L’arresto d’una prospettiva che vedeva i sindacati trasformarsi in soggetti politici autonomi e, quindi, sempre più rivoluzionari perché sempre più compiutamente alternativi al capitalismo e alle istituzioni liberali, provocò così una rupture nella stessa vicenda del Lp, il quale non a caso “dall’inizio dell’autunno del 1917 [procedette] a una profonda riorganizzazione interna che lo avrebbe trasformato nel giro di pochi mesi da quella pura e semplice appendice parlamentare dei sindacati che era stato fino ad allora, in un moderno partito politico di massa, dotato di una sua struttura autonoma e di autonomi canali di reclutamento” (Marrocu 1992, 179).
Con il 1918, con la sconfitta del syndicalism – specie di quello “possibilista” – e con la “riforma antisindacale” del Lp, si chiudeva pertanto nel Regno Unito una fase iniziata nel 1889 e che aveva visto la dimensione “operaia” e quella “politica” fondersi in maniera tendenzialmente completa. Il fallimento di questo processo, infatti, determinò l’inizio d’una vicenda sostanzialmente diversa per il laburismo e per la stessa azione diretta, da allora sì elementi sempre più disgiunti e contrapposti: il primo, divenendo “partito”, attutendo – ma mai negando – la sua impronta “sindacale” e subendo l’influenza viepiù decisiva della Fs; la seconda perdendo i suoi toni “permeativi” ma anche qualsiasi intelligenza politica e qualsiasi profondo legame con le organizzazioni dei lavoratori, scivolando così dagli anni Venti in un inconsistente estremismo di tipo perlopiù filosovietico. In Italia questa deriva, e in buona misura questo impoverimento del discorso sindacalrivoluzionario, sono abbondantemente antecedenti se consideriamo che il progetto leoniano era entrato irrimediabilmente in crisi nel 1907, là dove gli sforzi “possibilisti” dell’azione diretta nostrana, soprattutto “romani” e tendenti a non rompere l’unità proletaria, si erano infranti con la nascita della Cgdl.
Potremmo perciò dire che i limiti del british syndicalism e del discorso leoniano sono i loro stessi pregi: la tendenza a coniugare un anticapitalismo e un antistatalismo rivoluzionari con istanze moderate, gradualiste, finanche “riformiste”, quindi a non disgiungere l’ “azione diretta” dall’ “azione politica”. Ebbene tutto ciò finì per rivelarsi un compito immane, estremamente problematico. Non a caso il syndicalism, con tutta la sua sensibilità “possibilista” e quindi la consapevolezza dell’importanza di non recidere il legame storico col new unionism bensì di innovarlo, si limitò tuttavia ad affiancare le une alle altre aspirazioni diverse che pure, non fondendosi in maniera organica, finirono per diventare divergenti.
Proprio il tentativo più serio, concretamente e coerentemente “rivoluzionario” in ambito syndicalist, quello di Tom Mann, dell’Isel e della stessa Triple alliance, fu infatti unificare i molti “movimenti” – scioperi, singole vertenze, ecc. – degli anni Dieci al fine di porre la totalità del “sindacato”, inteso come autonomia della classe, contro lo “Stato” e la “borghesia”: un progetto “politico” insomma, non “corporativo”, simil-leoniano nella misura in cui poneva implicitamente il problema della direzione strategica di questa operazione; di tipo leoniano anche perché tale “direzione”, in ultima analisi politica, Mann tendeva a identificarla nello stesso sindacato che, sebbene più nettamente industrialista rispetto al modello elaborato qualche anno prima dall’intellettuale partenopeo, appariva comunque non molto dissimile dal “sindacato integrale”, anche nel prefigurato rapporto con le componenti moderate e con gli stessi vertici delle organizzazioni dei lavoratori.
Ebbene tale sforzo, occorre ricordarlo, si concluse con un fallimento completo, una sconfitta nettissima reiterata durante la prima guerra mondiale dalla débacle del movimento degli shop stewards, anch’esso tendente a ridefinire forma e funzioni delle Trade unions in un senso affine a quello del “sindacato integrale”, quindi di un’azione diretta e di un’autonomia operaia che, in quanto tali, dovevano avere compiti squisitamente politici nell’attimo in cui si volgevano coscientemente in direzione anticapitalista ed antistatale.
Biografia
Daniele D’Alterio. Nato a Roma nel 1974. Dottore di ricerca in Storia contemporanea nel 2006, Università di Roma “La Sapienza”, è autore di saggi e monografie sulla storia del movimento operaio, in particolare sul sindacalismo rivoluzionario. Ha collaborato tra il 2004 e il 2010 al Dizionario Biografico degli Italiani dell’Istituto della Enciclopedia Italiana G. Treccani. Fa parte della redazione di Libri e riviste d’Italia, periodico d’informazione libraria e cultura editoriale del Centro per il Libro e la Lettura. E’ uno dei curatori del volume di discorsi parlamentari I Fulci (1883-1971). Discorsi parlamentari di Ludovico, Nicolò, Luigi e Sebastiano Fulci, edito nel 2012 dalla Camera dei Deputati.
Biography
Daniele D’Alterio was born in Rome in 1974. He got his PhD in Contemporary History in 2006 at the University of Rome “La Sapienza”; he authored many essays and monographs on the history of the Labour Movement, in particular the revolutionary unionism. Between 2004 and 2010 he worked at the Biographical Dictionary of Italians, published by the Institute of Italian Encyclopaedia G. Treccani. He is editor of Libri e Riviste d’Italia, journal of the Italian Centre for the Book and Reading. He is co-editor of the volume of parliamentary speeches I Fulci (1883-1971). Discorsi parlamentari di Ludovico, Nicolò, Luigi e Sebastiano Fulci, published in 2012 by the Chamber of Deputies.
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- In tal senso abbiamo fatto riferimento innanzi tutto a E. Leone, Il sindacalismo, Milano-Palermo-Napoli, Sandron 1907; quindi a Id., Politica proletaria; Id., L’esperimento del socialismo sindacalista nel Mantovano; Id., Le otto ore di lavoro; Ruber [E. Leone], “Maifest”; P. Mantica, Per intenderci (Di alcuni atteggiamenti pratici del Sindacalismo italiano) ed E. Leone, Per un convegno sindacalista in Italia, tutti ne “Il Divenire sociale”, 16 gen., 1 mar., 1 e 16 mag. 1905. Si veda inoltre Il Sindacato, Incominciando il cammino; P. De Divitiis, Per la parola “antistatale”; E. Leone, La nuova politica proletaria; P. De Divitiis, Il contenuto economico del sindacalismo, e M.B. [Michele Bianchi], La conferenza di Enrico Leone sul sindacalismo, ne “Il Sindacato Operaio” del 30 lug., 6 ago., 1 e 8 ott. 1905. Da segnalare per quanto concerne l’esposizione del “sistema” leoniano, anche G. Marangoni, La discussione sindacalista a Milano. La prima conferenza di Enrico Leone; Id., La discussione sindacalista a Milano. La seconda conferenza di Enrico Leone e Id., La discussione sindacalista a Milano. L’ultima conferenza di Enrico Leone, nell’ “Avanti!” del 9, 10 e 12 dic. 1905. [↩]
- Al riguardo, ed anche per le considerazioni da noi svolte in seguito, si veda essenzialmente, oltre ad E. Leone, Il sindacalismo, cit., passim, anche Il Comitato per la rappresentanza operaia e il sindacalismo inglese, ne Le pubblicazioni sociali e sindacaliste; F. Kipling, La vittoria operaia in Inghilterra; Lo stato presente delle Trade Unions in Inghilterra; P. Orano, Il Congresso delle Trade Unions; tutti ne “Il Divenire sociale”, 1 apr. 1905, 16 feb. 1906, 16 gen. e 10 set. 1907. Vedi inoltre A. Fontana, Discutendo di azione diretta, “Il Sindacato Operaio”, 8 gen. 1906. Espliciti riferimenti al tradeunionismo, infine, sono presenti anche in A. De Ambris, Pratica sindacalista. Lo sciopero; Id., Pratica sindacalista. L’ostruzionismo; Id., Pratica sindacalista. Il “lock out” o serrata; Id., Pratica sindacalista. “Go canny!…” I e II; Id., Pratica sindacalista. Il boicottaggio, sempre ne “Il Sindacato Operaio”, rispettivamente del 15, 22 ott., 5, 12, 26 nov. e 24 dic. 1905. [↩]
- Il caso tradeunionista venne infatti polemicamente ricordato a Sorel in E. Leone, L’azione elettorale e il sindacalismo, quindi in una Nota del Divenire a E. Pouget, La Confederazione Generale del Lavoro di Francia, entrambi ne “Il Divenire sociale” del 16 gen. 1906. [↩]
- In merito si veda soprattutto A. Cabrini, La resistenza nell’Europa giovane, Imola 1905; nonché Id., Le Camere del Lavoro inglesi (Appunti di un organizzatore); Id., L’organizzazione trade-unionista (Appunti di un organizzatore); Id., La Confederazione delle trade-unions (Appunti di un organizzatore); Id., Tradeunionismo e azione parlamentare (Appunti di un organizzatore) e Id., I socialisti in Inghilterra (Appunti di un organizzatore), tutti nell’ “Avanti!” rispettivamente del 26, 28 lug., 3, 8 e 19 ago. 1903. [↩]
- Su tutti questi temi vedi ad esempio J. Keir Hardie, Il programma del Partito del Lavoro, “Rivista popolare”, 31 gen. 1906; nonché E. Leone, Partito e organizzazioni economiche. Relazione al Congresso nazionale socialista, “Il Divenire sociale”, 16 set. 1906. [↩]
- Sulle affinità col sindacalismo leoniano, vedi ad esempio Nuovo trionfo operaio. Intervista con Tom Mann, “Avanti!”, 8 ago. 1904. [↩]