Fare e leggere la storia. La riviste di storia contemporanea in Italia. Cinque domande a: Francesco Mineccia – Direttore di “Ricerche Storiche”

Domande

Le domande

  1. Quando nasce la rivista? In quale clima politico e culturale si inserisce? Quali indirizzi storiografici intende accostare e con quali avere, invece, un rapporto più marcatamente dialettico?

  2. Che tipo di “gruppo” raccoglie nella redazione e tra i collaboratori? Quali ne sono le caratteristiche formative, generazionali, e come risponde agli interessi storiografici espressi dalla rivista?

  3. Se volessimo tratteggiare in uno spazio breve una sorta di “storia della rivista”, quali elementi indicherebbe per caratterizzarne l’evoluzione, quali i problemi affrontati, e quali gli esiti più rilevanti delle scelte editoriali fatte?

  4. Cosa significa fare oggi una “rivista di storia”? Quali problemi gli storici si trovano ad affrontare nel nuovo scenario disegnato dalla trasformazione non solo della scienza storica, ma più in generale dei mezzi e dei metodi attraverso i quali procede oggi la ricostruzione storica?

  5. Come Direttore di una rivista di storia ritiene che sia condivisibile il segnale d’allarme da più parti lanciato a proposito di una “crisi della scienza storica” ed addirittura di una “inutilità del mestiere di storico”? Quale rapporto ritiene che possa esistere oggi tra la storia concepita e fatta a livello scientifico e la divulgazione che ormai sempre più si affida a mezzi e soggetti che rischiano di eroderne la legittimazione?

1.«Ricerche Storiche» nasce nel 1971 a Piombino, quindi in un contesto decentrato rispetto ai grandi centri accademici e di ricerca nazionali e universitari. Debbo chiarire subito però che questa, che oggi potrebbe apparire una caratteristica in qualche modo particolare, originale o addirittura anomala, all’epoca non era assolutamente tale. Agli inizi degli anni ’70, la storiografia italiana cercava di rinnovarsi, in parte sotto la forte spinta politica del ’68, in parte seguendo l’altrettanto forte messaggio che veniva da alcune correnti storiografiche straniere, in particolare dalla scuola francese delle «Annales», in direzione di un allargamento del territorio della storia. Vi era quindi una tendenza ad una storia dal basso, e nello stesso tempo ad una storia allargata ad altri ambiti disciplinari. Questa duplice tendenza trovava una conciliazione nella dimensione della storia locale, poi declinata in maniera originale in Italia anche come microstoria. Questo fenomeno non coinvolse solo “Ricerche Storiche” ma fu abbastanza comune all’epoca. Si potrebbero fare i nomi di diverse altre riviste nate in quel periodo, alcune delle quali poi arrivate ad affermarsi a livello nazionale, come ad esempio «Movimento operaio e socialista in Liguria” o «Quaderni Storici delle Marche». La prima, divenuta in seguito «Movimento operaio e socialista», e poi «XX secolo», dette un contributo importante, e riconosciuto come di prim’ordine a livello scientifico e accademico, al progetto di una revisione “dal basso” della storiografia italiana; la seconda poi divenuta «Quaderni Storici», dette un apporto determinante alla introduzione in Italia di alcuni paradigmi provenienti dalle storiografie straniere e alla elaborazione degli studi di microstoria. In tale contesto, va sottolineato come la condivisione di questi nuovi filoni di ricerca da parte di una rivista come la nostra si sia manifestata in modalità originali per il fatto di essere nata in una città fabbrica come Piombino, quindi al centro di quello che era storicamente il maggiore centro minerario-siderurgico italiano.

Un orientamento questo ben illustrato fin dai primi numeri monografici di «R.S.» in cui furono raccolti gli atti di due convegni internazionali promossi e pubblicati sulla rivista (1/1975 e 1/1978), il primo sul sindacalismo rivoluzionario e il secondo sulla siderurgia italiana, che costituirono punti importanti di svolta su due aspetti che fino allora erano stati quasi del tutto trascurati a livello storiografico. Con la storia del sindacalismo rivoluzionario si voleva recuperare una tradizione politica e sindacale che era caratteristica di alcune grandi concentrazioni industriali e che soprattutto era legata alla dimensione dell’intervento pubblico in economia. Da qui anche l’interesse per la storia della siderurgia intesa come una sezione importante della storia economica italiana e anche, appunto, della storia dell’intervento pubblico in campo economico. Si trattava come si vede di temi che anche se svolti a livello scientifico alto e con partecipazioni internazionali qualificatissime, avevano una origine militante e strettamente legata al territorio. Con gli anni successivi, proprio i cambiamenti nell’ambiente di origine determinarono una svolta importante: centrali, infatti, ancor prima dell’attuale crisi della siderurgia, divennero i problemi dell’impatto ambientale e poi del recupero di quei grandi insediamenti industriali che andavano via via – almeno in parte – dismessi.

2.L’attuale Comitato direttivo della rivista è composto da una trentina di membri. Si tratta di un gruppo estremamente composito dal punto di vista generazionale che esprime molteplici interessi e tendenze storiografiche portate avanti nei centri di ricerca accademici italiani ed europei. Considerando gli oltre 40 anni di attività, accanto agli studiosi formatisi nella temperie culturale delle origini e ancora molto attivi nella redazione, via via si sono aggiunti nuovi ricercatori affermatisi nel corso degli anni ’80 e infine una generazione ancora più giovane formatasi a cavallo della fine degli anni ‘90. La matrice comune dei membri della redazione e della rete dei collaboratori è comunque una formazione di tipo universitario e post-universitario (soprattutto nelle università toscane alle origini, ma presto con un allargamento nazionale e internazionale, dovuto in parte anche al rapporto molto stretto con una serie di ricercatori provenienti dall’Istituto Universitario Europeo), cercando di mantenere, tuttavia, una spiccata attitudine alla ricerca scientifica come garanzia – a torto o a ragione – di “freschezza” e di continuo rinnovamento nelle metodologie e negli interessi storiografici. In effetti «R.S.» presenta una fisionomia ben precisa, difficilmente equivocabile. Fin dai primi numeri essa ha portato all’attenzione degli studiosi i risultati di ricerche e studi di prima mano, i cui autori erano (e sono ancora) quasi sempre giovani ricercatori, ai quali la rivista offriva la possibilità di pubblicare ricerche di ampio respiro, con saggi di dimensioni molto più ampie che non nelle altre riviste consimili. Ma ha saputo anche avvalersi della collaborazione feconda e attiva di illustri studiosi, italiani e stranieri, molti dei quali membri del Comitato dei consulenti scientifici della testata stessa.

Queste caratteristiche di fondo si è cercato di mantenere pur nelle ovvie differenze generazionali dei collaboratori e, dunque, nei naturali mutamenti degli organici redazionali, così come nei rapidi cambiamenti che hanno investito il quadro editoriale complessivo, che ha visto dapprima una crisi delle riviste di settore (fine anni ’90) e poi il passaggio – non del tutto indolore – all’era del digitale e alla massiva diffusione del web.

La costante attenzione dedicata ad un ampio ventaglio di temi e di interessi di ricerca – come segnalato al punto precedente– è stata ampliata nel tempo dai numerosi contributi di studiosi rappresentativi delle principali correnti storiografiche nazionali ed europee (francese e anglosassone in particolare). Inoltre, il lungo periodo di attività ha fatto sì che gli interessi storiografici della rivista abbiano recepito, in qualche misura, le trasformazioni in atto nella cultura e nella pratica storiografica, legandosi peraltro alle significative trasformazioni strutturali e culturali che andavano caratterizzando il sistema universitario italiano ed europeo.

3.La rivista, come detto sopra, nasce all’inizio degli anni Settanta con un forte radicamento territoriale che determinò le prime tematiche affrontate. Tuttavia questo radicamento non voleva affatto dire, fin dall’inizio, chiusura in ambiti territoriali delimitati. Una delle sue caratteristiche più rilevanti è stata fin dall’inizio la forte apertura internazionale. Grazie all’apporto offerto continuativamente da numerosi docenti e ricercatori dell’European University Institute, molti dei quali hanno fatto e fanno parte degli organi direttivi della rivista, «R.S.» ha potuto ospitare una serie molto ampia di saggi ed uscire con alcuni numeri monografici che facevano riferimento e diffondevano presso gli studiosi italiani filoni di ricerca, tendenze interpretative e sviluppi del dibattito storiografico a livello internazionale, soprattutto nell’ambito della storia moderna e contemporanea. Oltre che con gli studiosi dell’EUI, che hanno introdotto tematiche nuove per i tempi, come ad esempio la storia dello sport, «R.S.» ha intrattenuto ed esteso nel corso del tempo i rapporti con diversi gruppi di ricerca operanti a livello internazionale. Limitandoci in questo caso alla parte contemporanea, la rivista è stata, ad esempio, un interlocutore privilegiato dell’Historial de la Grande Guerre di Peronne-Somme, pubblicando, oltre alla normale programmazione, due numeri speciali frutto di tale collaborazione, con l’intervento dei maggiori specialisti europei dell’argomento. Un alto grado di internazionalizzazione è poi sempre stato presente anche in uno dei filoni caratterizzanti della rivista, cioè quello dell’archeologia industriale, grazie ai rapporti organici con l’Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale – AIPAI (il direttore di «Ricerche storiche» recentemente scomparso, Ivan Tognarini, fu uno dei fondatori dell’Associazione), con la rete delle associazioni europee del settore e con The International Committee for the Conservation of the Industrial Heritage – TICCIH, l’organismo di settore più importante a livello mondiale.

L’attenzione al patrimonio industriale, alle eredità, materiale e immateriale, della civiltà industriale, al tema della conservazione e recupero dei reperti, spesso di grande impatto a livello ambientale e urbano, è stato dunque nei decenni un elemento costante dell’esperienza di «R.S.».

Anche l’ultimo numero, dedicato alle esposizioni universali nel XIX e XX secolo in Europa, uscito in concomitanza con l’Expo Milano 2015, raccoglie da una parte la lunga tradizione di studio del patrimonio, della civiltà e della cultura industriale, ma dall’altra la riconsidera da un punto di vista molto aperto ad orientamenti di storia culturale e a tematiche come quella della globalizzazione e degli antecedenti storici dei moderni “visual and virtual worlds”. Non ci dilunghiamo oltre su questa esemplificazione perché la produzione scientifica della rivista è facilmente visibile attraverso la rete.

4.Cercare di rispondere oggi alla prima parte di questa domanda – anche a nome di una redazione, come la nostra, che è caratterizzata da un profilo e da un tipo di intervento più mirato alla presentazione di risultati della ricerca che alla discussione metodologica – significa prendere in esame non tanto le grandi questioni teoriche che pure sono state poste anche recentemente nel dibattito internazionale, ma alcuni crinali operativi e organizzativi molto interni alla specifica funzione delle riviste di storia nel contesto culturale, ma anche accademico in cui operano.

Per riferirci a questo dibattito internazionale, potremmo partire da un’opera come The History Manifesto di Armitage e Guldi, che ha recentemente proposto all’attenzione della comunità degli storici (anche se a volte in modo provocatorio e un po’ sensazionalistico) tutta una serie di questioni, che investono il significato attuale del mestiere di storico, entro i nuovi scenari che si sono creati anche per la “scienza storica” dal processo più generale di specializzazione e di parcellizzazione delle conoscenze.

La principale questione sollevata da The History Manifesto, cioè la denuncia dell’imperante short termism, a favore di una dimensione diacronica lunga, sarebbe per la verità perfettamente congrua per una rivista come la nostra che è nata in un’epoca e in un contesto in cui era abbastanza naturale trattare insieme tutto l’arco cronologico che va dalla storia medievale alla contemporanea, ed è una delle poche che mantengono ancora questa impostazione. Però in realtà il tema investe un po’ tutto il campo d’azione dello storico, e non specificamente lo strumento “rivista di storia”. Per cui potremo dire magari qualcosa su tali questioni rispondendo alla domanda successiva; ma nel quotidiano lavoro culturale di una rivista di storia vorrei evidenziare come si presentino una quantità di altri problemi, forse meno rilevanti, ma molto pressanti per la vita stessa di una rivista.

Il primo di questi problemi, che abbiamo riscontrato nella vita di R.S., in relazione ai nuovi scenari complessi di trasformazione della “scienza storica”, così come vengono evocati nella domanda, è relativo alla prima e principale funzionalità operativa di una rivista “scientifica”, cioè alla sua funzione di validazione disciplinare.

Non si vuole naturalmente svalutare il fatto che la finalità, il significato ultimo e la sostanza stessa della rivista sta nel lavoro culturale che attraverso di essa si opera; ma nella dimensione concreta della organizzazione del lavoro storico, nella operatività effettiva degli storici impegnati nella redazione, l’orizzonte è quello della disciplina, e la pubblicazione in una rivista affermata equivaleva, ed equivale, ad una attestazione di scientificità spendibile sul piano accademico. A sua volta, la rivista acquisisce legittimazione in quanto ospita articoli di autori riconosciuti sul piano scientifico ed accademico. Questo gioco, molto fine e complesso se visto nelle sue pieghe intime, tende ad apparire agli studiosi del tutto naturale ed evidente, nel senso che appare connaturato alla funzione stessa della rivista. Negli ultimi anni però sono cambiate notevolmente le regole del gioco.

Dopo un periodo in cui anche la nostra rivista aveva subito una forte crisi, poiché la bilancia delle valutazioni accademiche si spostava nettamente, nei settori umanistici, verso le monografie; e per altre ragioni, fra cui la fortissima evoluzione del settore tipografico/editoriale (periodo in cui non poche testate autorevoli e pressappoco coeve alla nostra hanno dovuto cessare le pubblicazioni), negli ultimi anni i nuovi modi di valutazione, che in parte riprendono schemi mutuati dalle discipline non umanistiche, hanno riportato in prima linea le riviste nella loro funzione di validazione sul piano scientifico accademico.

Ad esempio, per R.S. il fatto di aver ottenuto il riconoscimento in “classe A” per la parte di storia contemporanea, ha conferito una validazione forte alla rivista stessa, ma ha anche evidenziato una serie di problemi che corrispondono direttamente alle questioni sollevate dalla domanda.

Si pensi ad esempio a quello che è il principale strumento operativo di validazione degli articoli, e della rivista stessa, secondo le nuove regole, cioè il referaggio a doppio cieco. In linea teorica questo meccanismo (ripreso di peso, in questa forma così rigida, dalle discipline scientifiche) presuppone una comunità scientifica molto ampia e omogenea, e tende a elevare la funzione di validazione delle riviste, ma a rendere quasi inutili (anzi per certi versi incompatibili) i corpi redazionali così come erano costituiti nelle riviste di storia tradizionali. «R.S.» ad esempio non era stata né una rivista espressione di una “scuola” universitaria, e neppure di un gruppo di studiosi caratterizzati da una opzione culturale-scientifica (a volte, in senso alto, “politica”) troppo rigida. Come diverse altre riviste nate nella stessa epoca, intendeva aggregare studi e ricerche attorno ai temi che abbiamo enumerato sopra, vale a dire con un orientamento di massima ben riconoscibile, ma con una certa flessibilità, e quindi con una certa apertura e capacità di adattamento e di risposta evolutiva. Espressione di questo equilibrio erano i numeri monografici, che esprimevano sia una capacità progettuale della redazione, sia un certo grado di apertura a forze nuove, che poi magari potevano essere integrate successivamente negli organi redazionali.

Il sistema del referaggio, scrupolosamente seguito da «R.S.», tenderebbe a mettere un po’ in crisi questo modello, ma la redazione sta spendendo tutte le sue energie per mantenere questo stile di lavoro (che alterna numeri monografici diretta espressione della progettualità degli organi direttivi, numeri o parti monografiche proposte dall’esterno, numeri miscellanei espressione dell’offerta di studiosi di varia provenienza) ritenuto essenziale per l’identità stessa della rivista.

5.Rispondo qui anche ad alcuni interrogativi posti nella precedente domanda in quanto i due contenuti mi appaiono in parte assimilabili. Più che una “crisi della scienza storica” parlerei di una crisi degli storici o meglio del problema di quella che è stata definita in termini di “incomunicabilità” tra storici accademici e grande pubblico. È noto che da alcuni autori (si vedano ad esempio alcune considerazioni espresse di recente da Sergio Luzzatto) si è visto il problema soprattutto in termini di “riluttanza degli storici professionisti a raggiungere il general reader”, mentre in altri paesi la distanza e la incomunicabilità sono assai minori. Si tratta di osservazioni senz’altro condivisibili, ma che riguardano solo in parte lo specifico strumento “rivista”. Le riviste di storia specializzate, anche quelle unanimemente riconosciute come migliori e più influenti nel dibattito storiografico, vendono quantità di copie bassissime, con l’unica attenuante, per così dire, che vendono ormai soprattutto a biblioteche e quindi possono teoricamente contare su un fattore di moltiplicazione dei lettori potenziali. In ogni caso, non si può imputare alle riviste il mancato impatto sul grande pubblico, o giudicarle sulla base di questo metro.

La domanda tuttavia a mio parere non è affatto fuori luogo, ma è anzi straordinariamente pregnante. Infatti è intervenuta in questi ultimi anni la “grande trasformazione” digitale, che obbliga tutti, anche le riviste più tradizionali, a ripensarsi. Anche «R.S.» ha subito fortemente questo impatto. Come cerca di affrontarlo? Da una parte, il ripensamento interno è stato forte, ed ha condotto addirittura al cambiamento di editore, proprio perché il livello pur ineccepibile di qualità editoriale tradizionale non è stato ritenuto sufficiente a controbilanciare la possibilità di una migliore operatività sul piano digitale. D’altra parte, nonostante esistano diversi esempi ormai di riviste solo digitali, «R.S.» almeno per ora non intende fare questa scelta. Il tema è complesso e non lo possiamo sviluppare qui, ma investe molti aspetti diversi, da quelli legali a quelli tecnici, dal rapporto con gli studiosi a quello con i valutatori.

Tuttavia, va anche detto che neppure una rivista digitale e del tutto “open” porterebbe a incidere sui problemi posti dalla domanda; mentre invece «R.S.» ha in passato tentato di operare con molto impegno in questa dimensione, e intende farlo anche in futuro.

Il tema del rapporto fra dimensione scientifica e dimensione divulgativa va infatti profondamente rivisto nell’epoca attuale, anche, ma non solo in virtù della “rivoluzione” digitale. Il rapporto fra cultura “alta” e cultura diffusa non si modifica solo per l’evidente tendenza della rete a bypassare i mediatori culturali tradizionali (ponendo una enorme quantità di “fonti” a disposizione di ogni utilizzatore, senza soglie di livello), ma anche in virtù di processi più ampi e complessi di trasformazione culturale. Nel caso di «R.S.» questo processo ha caratterizzato la rivista fin dall’inizio. In un primo momento, «R.S.» si mosse sulla base della considerazione che l’università in quel momento (anni ’70) stava producendo una quantità di ricerche di buono o ottimo livello, da parte di giovani che si rivolgevano alla storia contemporanea per interessi di tipo politico culturale molto forte, e che passando attraverso le forche caudine delle tesi di laurea di vecchio tipo, realizzavano prodotti finiti scientificamente, a volte validissimi. Su questa base la rivista promosse alcune azioni, fra cui la pubblicazione dei titoli di tutte le tesi in storia delle università toscane, in alcuni casi come presupposto e incentivo per una pubblicazione sotto forma di articoli o volumi che rispondevano a una possibile domanda degli enti locali o di altri committenti interessati, accompagnata da una opera di contatto e sensibilizzazione estesa verso il mondo della scuola media superiore, vista sia come il possibile sbocco lavorativo di molti laureati, sia come luogo chiave di mediazione culturale, perfettamente omogeneo al radicamento originario della rivista (il presidente dell’associazione culturale proprietaria della testata era all’epoca un professore di liceo che era stato maestro di alcuni dei redattori e del fondatore della rivista).

Successivamente, per vari anni, questo tentativo di intervento in un settore che sarebbe improprio definire come semplicemente divulgativo, ma che affrontava dal punto di vista di una rivista specializzata il tema della diffusione della cultura storica, fu affrontato da «R.S.» in una prolungata stagione di attività per forme di coordinamento e di collaborazione fra le società storiche toscane in vista di un loro rinnovamento. Anche se in forme molto diverse caso per caso, ci pareva evidente che si stesse formando nel corso degli ultimi decenni un tessuto territoriale molto forte di presenze culturali (le stesse società tradizionali aggiornate, ma anche e soprattutto centri, musei, biblioteche, istituti culturali nuovi o rinnovati) che era molto interessante per «R.S.» proprio per la radice fortemente ancorata al territorio che era tipica delle sue origini.

La rivista si è, dunque, interessata a lungo del terreno che sta fra la divulgazione e la elaborazione culturale decentrata, affidata a centri di ricerca locali, musei, archivi e associazioni distribuite sul territorio. Per quanto i risultati effettivi di questo sforzo possano apparire scarsi nella effettiva produzione di articoli della rivista (ma molto di più ad esempio nelle collane editoriali che ad esse fanno riferimento), in realtà questa è una dimensione profondamente radicata nel DNA della rivista, e spiega alcuni dei principali orientamenti attuali, fra cui il fatto che ha cercato – in modo credo abbastanza pionieristico – di promuovere in Italia un interesse per la “Public History”, in particolare attraverso gli interventi di Serge Noiret, nostro collega alla direzione della rivista ed attualmente Presidente della Federazione Internazionale di Public History.

Per questa stessa via «Ricerche storiche» si è interessata al tema del rapporto fra storia e mass media. Questa riflessione negli ultimi anni si è si è consolidata con la pubblicazione di un numero speciale su Media e Storia (2-3/2009) e di vari articoli sul tema del rapporto fra ricerca storica e “consumo” culturale da parte di pubblici variamente ampi e differenziati, in un contesto in cui le nuove tecnologie comunicative stanno cambiando profondamente il panorama dell’informazione scientifica. In queste sedi abbiamo anche cercato a nostro modo di rispondere alla domanda che qui viene posta, e che effettivamente anche noi riteniamo centrale per il nostro stesso “mestiere” di storici.