Fonti per lo studio del rapporto tra clero e brigantaggio meridionale postunitario (1860-1870). Le province di Napoli, Terra di Lavoro, Abruzzo Ulteriore I, Abruzzo Ulteriore II, Abruzzo Citeriore, Molise, Principato Ultra, Principato Citra e Basilicata.

Francesca Romano

Uno studio che affronti il rapporto tra il clero e il brigantaggio meridionale postunitario nelle principali zone regnicole continentali, richiede la consultazione di una vasta gamma di fonti e di una diversificata tipologia di archivi.

Per inquadrare correttamente il fenomeno, occorre innanzitutto differenziare il “brigantaggio”, termine del quale una consolidata storiografia si serve per indicare quelli che potrebbero essere definiti i moti postunitari, dal “banditismo” comune, una delle piaghe tradizionali dello Stato moderno. Se il banditismo comune è un fenomeno collocabile cronologicamente sia prima, sia dopo l’unità e non è riferibile alle sole ex zone regnicole, il brigantaggio meridionale postunitario è qualcosa di molto più complesso che non può più essere spiegato, come per anni la storiografia tradizionale ha ipotizzato, come una mera prosecuzione del brigantaggio preunitario, più forte al Sud rispetto alle altre parti d’Italia, interpretazione che nutriva e si nutriva a sua volta del cosiddetto “pregiudizio antimeridionale”, oggetto di recenti studi (De Francesco 2012). D’altra parte il termine “brigantaggio”, dal francese brigandage, era un neologismo apparso per la prima volta nel XV secolo e attestato come neologismo in italiano solo nel 1829. Sebbene semanticamente porti in sé un nucleo di significato diverso da quello di banditismo, in quanto presuppone l’esistenza di un gruppo di fuori legge che delinque per motivi politici e sociali e sebbene “briganti” fossero chiamati dai francesi i componenti dell’armata guidata dal Cardinale Ruffo nel 1799 e i loro oppositori nelle province meridionali nel 1809, il termine era utilizzato in maniera ambigua anche per indicare comuni malfattori.

Il brigantaggio postunitario sarà qui indagato partendo dalla verifica dell’ipotesi legittimista, che legherebbe la reazione armata meridionale non tanto ai naturali moti seguiti alla frattura e alla trasformazione politico-sociale del nuovo Stato né tanto meno ad una prosecuzione del banditismo comune pre-unitario ma all’opposizione politica e religiosa di una gran parte della popolazione regnicola all’indomani dell’annessione allo Stato unitario e contro di esso e le sue istituzioni.

Volendo verificare la portata di quest’ipotesi, si partirà proprio da una considerazione sul fenomeno del banditismo comune e nel suo coinvolgimento nei turbini della rivoluzione unitaria. In un contesto in cui la legislazione straordinaria aveva preso il posto della legislazione ordinaria, prima con la Luogotenenza (1860-1861), poi con lo stato d’assedio (1862), poi con la legge Pica (1863-1865), risulta difficile immaginare che un gran numero di malfattori di mestiere avesse avuto la possibilità e lo spazio per mantenersi del tutto neutro, per cui, per forza di cose, i banditi dovettero scegliere di combattere con una delle parti in conflitto. D’altra parte risulta poco credibile che dei delinquenti comuni, per sole motivazioni criminali, siano stati in grado di portare avanti per un tempo relativamente lungo una guerriglia contro lo Stato unitario e le sue istituzioni, impedendo di fatto l’esercizio della normale vita amministrativa ed economica nelle province meridionali. Non è detto poi, che i banditi in questione abbiano automaticamente scelto di schierarsi dalla parte dei “briganti”. Al fine di verificare una volta per tutta quest’ipotesi, occorre avere un quadro completo del banditismo regnicolo preunitario, comparato a quello delle altre zone d’Italia e d’Europa nella prima metà del XIX secolo. L’analisi non potrà limitarsi ai soli dati criminali ma si estenderà allo studio delle condizioni politiche, sociali ed economiche dei diversi Stati italiani, rapportate comparativamente a quelle europee della prima metà del XIX secolo, con particolare riferimento al periodo immediatamente precedente al decennio oggetto di studio 1860/1870.

Il tipo di fonte più adatto per analizzare questo contesto, è senza dubbio la bibliografia coeva sugli Stati preunitari, che per quanto riguarda il Regno delle Due Sicilie può contare numerose ristampe d’epoca recente portate avanti da diverse case editrici locali quali: Società Editrice napoletana (Galanti 1982; Settembrini 1983), Controcorrente (Farnerari 1999; Elias De Tejada 1999; Minutolo Principe di Canosa 2000) o la Longanesi (Palmieri di Micciché 1987).

Approfondire il fenomeno del brigantaggio significa, d’altra parte, approfondire il processo che portò all’unità nazionale e quindi i rapporti tra gli Stati preunitari e tra questi e l’Europa.

Al fine, quindi, d’inquadrare i diversi Stati preunitari nel contesto diplomatico internazionale, imprescindibile è la consultazione della pubblicazione relativamente recente (1964-1997), dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea nel volume: Fonti per la Storia d’Italia, che raccoglie i documenti inerenti le relazioni diplomatiche tra il Regno delle Due Sicilie, Il Regno di Sardegna, lo Stato della Chiesa e le principali potenze europee : Austria, Francia, Prussia e Gran Bretagna.

Una volta ricostruita una panoramica del contesto storico immediatamente precedente allo svolgersi del fenomeno del brigantaggio, per avere un quadro più chiaro di ciò che significò la reazione 1860-1870, si analizzerà la reazione di una certa parte della popolazione agli eventi rivoluzionari che caratterizzarono la vita degli Stati preunitari. Al fine di verificare la portata della componente legittimista-clericale della reazione del 1860-1870 e per individuare eventuali analogie e differenze nella reazione dei sudditi ad altri eventi rivoluzionari, si ritiene necessario far partire l’analisi comparativa dal 1799, mettendolo in relazione con le reazioni del 1809, del 1821 e del 1848. La comparazione non sarà solo di ordine cronologico ma anche spaziale: le rivoluzioni ottocentesche regnicole preunitarie, saranno messe in relazione con le rivoluzioni che, quasi simultaneamente, prendevano corpo nel resto della penisola italiana e in altri Stati europei.

Per l’analisi di questa tematica, ancora una volta sarà utile far riferimento alla bibliografia edita coeva da integrare con le più recenti pubblicazioni bibliografiche sull’argomento.

Solo dopo aver costruito un quadro omogeneo che descriva in maniera comparativa, sia dal punto di vista cronologico sia geografico, la situazione preunitaria e le rivoluzioni che precedettero il decennio 1860/ 1870, si procederà all’analisi dell’argomento centrale della tesi, volto ad indagare il complesso fenomeno del brigantaggio e il ruolo del clero nel contesto della più vasta tematica dell’unità nazionale.

Se da un lato, per inquadrare la “reazione” del clero è imprescindibile aver chiara l’origine della “rivolta” armata meridionale, dall’altra, indagare il ruolo del clero ci permetterà di comprendere meglio la natura stessa della reazione. Inquadrare il brigantaggio nella prospettiva legittimista, quella che ipotizziamo più condivisa dalla Chiesa, significa interpretare la reazione armata non solo come una guerra per la riconquista del Regno delle Due Sicilie, ma come una guerra che, difendendo uno dei Regni assolutistici d’Europa, difendeva quel mondo d’Ancien Régime che legava trono e altare, di cui il movimento legittimista internazionale si faceva portavoce e che, per forza di cose, legava Francesco II di Borbone alla corte di Roma e viceversa. Se a muovere le fasce più colte del legittimismo doveva essere la consapevolezza di appartenere ad una patria non solo materiale, ma soprattutto ideale all’interno della più grande patria del legittimismo europeo, per i popolani la lotta armata doveva essere piuttosto mossa dal sentimento di grande attaccamento e fedeltà alla monarchia borbonica che Ferdinando II era riuscito a conquistarsi nei suoi quasi trent’anni di regno e nel forte senso di rivalsa contro un esercito considerato invasore e contro un sovrano considerato usurpatore.

È altresì importante ricordare che il mondo d’ancien regime, proprio perché fondato su valori diversi, era anche un mondo anti-liberale. Le truppe piemontesi non portarono solo lo sconvolgimento delle leggi giuridiche, religiose e ideali ma portarono con sé un nuovo modo di concepire la società e l’economia. Alla reazione della componente politico-legittimista degli intellettuali borbonici e del popolo, si lega quindi la reazione alimentata dalla questione demaniale sorta, o meglio aggravata, all’indomani dello sbarco di Garibaldi. Per comprendere la questione demaniale non si può prescindere dalla lettura di Galiani (1750; 1770; 1818), sulla base delle cui teorie si fondava l’economia e la società concepita dalla monarchia borbonica, tradizionalmente alleata del popolo piuttosto che delle classi notarili e baronali a cui, di contro, conveniva l’alleanza con il nuovo ordine. Ad un primissimo entusiasmo della popolazione verso il condottiero, che promise di concedere gratuitamente ai contadini la proprietà dei piccoli appezzamenti di terra che possedevano come fossero i propri, salvo il divieto di venderli o di lasciarli in eredità, subentrò la delusione nel momento in cui, da Bronte in poi, ci si rese conto che i terreni non furono paternalisticamente donati a chi li coltivava, (cosa che avrebbe d’altra parte sfasciato l’equilibrio del sistema impedendo la continua redistribuzione che avveniva nel regime borbonico), ma furono piuttosto liberisticamente venduti all’asta e comprati da chi disponeva della moneta necessaria all’acquisto, ovvero la classe dei notabili locali. Nel momento in cui i contadini vennero privati delle terre, la questione politica si intrecciò a quella demaniale e il passaggio fu quasi immediato. All’indomani della fine della repressione della reazione armata con speranze restauratrici nelle ex zone regnicole, la questione demaniale si trasformò nella questione meridionale, accompagnata da centinaia di migliaia di partenze verso le Americhe.

Il brigantaggio politico-legittimista è presumibilmente sopravvissuto fino a quando l’esistenza dello Stato italiano, con tutto ciò che stava comportando, era a rischio, ovvero fino al 1866, quando, alla fine della terza guerra d’indipendenza, l’Austria, nella quale si sperava in un intervento risolutore che avesse spazzato via i piemontesi dal meridione, riconobbe l’Italia quale Stato sovrano. La rivolta del “sette e mezzo” in Sicilia, sedata dai cannoni inglesi, ultimo localistico slancio per guadagnare l’indipendenza dal nuovo ordine costituito, sebbene fosse alimentata dall’intreccio di particolari fattori soprattutto locali con le vicende nazionali e internazionali, potrebbe in larga scala essere stata mossa da sentimenti simili, forse, a quelli che comportarono una ripresa della recrudescenza del brigantaggio nelle zone regnicole continentali, soprattutto lungo la frontiera pontificia, durante la terza guerra d’indipendenza.

Non a caso, all’indomani della guerra contro l’Austria lo stesso Francesco II, in esilio a Roma, rinunciò agli strumenti diplomatici per la riconquista del Regno.

In questo complesso e variegato campo di ipotesi, ci si aprirà alla consultazione di un’altrettanta variegata gamma di fonti che non si limiterà alla semplice trattattistica coeva. I documenti prodotti dagli enti pubblici saranno indispensabili al fine di analizzare le strategie amministrative, legislative, economiche, diplomatiche e militari messe in atto dallo Stato italiano nei suoi primi anni di vita per contrastare il brigantaggio, quelli prodotti dagli enti ecclesiastici saranno utili per studiare l’atteggiamento del clero, quelli prodotti dagli enti militari serviranno ad approfondire come avvenne dal punto di vista strategico-tattico la lotta al brigantaggio mentre l’analisi della memorialistica privata ci permetterà di esaminare la posizione dei principali protagonisti delle vicende. La consultazione degli archivi provinciali e comunali che conservano documentazione non proveniente dagli archivi di Stato ma da fondi privati di famiglie e di enti pubblici, la cui individuazione è resa possibile grazie al sistema informatico SIUSA, sarà di supporto alla ricerca archivistica sulla base degli archivi di Stato e degli archivi diocesani, andando a colmare eventuali lacune documentarie.

Per un quadro sulla fine politico-militare degli Stati preunitari e la nascita del Regno d’Italia, oltre alla consultazione dei principali giornali locali dell’epoca come il “Corriere del Mezzogiorno”, la “Gazzetta di Gaeta”, il “Corriere di Sicilia”, è interessante prendere in considerazione le memorie di importanti personaggi politici dell’epoca come Liborio Romano per una visione, nello specifico, del periodo della Luogotenenza nelle provincie meridionali, nonché Gli scritti del Conte di Cavour, in particolare la raccolta tematica La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia, l’Antologia degli scritti di Giuseppe Mazzini, l’Epistolario di Giuseppe Garibaldi edite dall’istituto per la Storia del Risorgimento in varie ristampe e Le lettere di Vittorio Emanuele II, edite dalla deputazione subalpina di storia patria nel 1962.

Per quanto riguarda le vicende diplomatiche dell’Italia liberale, il ministero degli Esteri ha avuto cura di ultimare nel 1963, la pubblicazione della prima serie dei documenti diplomatici italiani dal 1861 al 1870 che costituiscono un’importante fonte per collocare politicamente il neo Regno italiano nel contesto della politica del concerto europeo.

Spostandoci sul versante delle fonti prodotte dall’attività dei ministeri pubblici, facilmente reperibili negli archivi e nelle biblioteche di Stato sono la Collezione delle leggi e decreti del Regno d’Italia, le Discussioni parlamentari della Camera e del Senato e gli Atti parlamentari.

Per avere un’idea precisa della collocazione del materiale in gran parte inedito conservato negli archivi, uno strumento preziosissimo fornito agli studiosi dal ministero dei Beni culturali e ambientali, è la Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato. I tre volumi, stampati tra il 1999 e il 2001, catalogano tutta la documentazione riferita al brigantaggio contenuta negli Archivi di Stato delle diverse province meridionali d’Italia, inserite in ordine alfabetico.

Nell’Archivio centrale dello Stato sono quindi conservate le Relazioni inedite dei verbali delle sedute della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Fondo Crispi, il Fondo Bianchi su Bettino Ricasoli, le inchieste parlamentari ma non i lavori, editi ed inediti, in preparazione alla pubblicazione delle varie inchieste, conservati invece nella Biblioteca della Camera e del Senato.

Del lavoro parlamentare dietro le quinte, è interessante la serie di studi in preparazione all’inchiesta Massari sulla base dei cui esiti fu varata la Legge Pica, in vigore dal 1863, subito dopo la cessazione dello Stato d’assedio, fino al dicembre del 1865.

I fondi più importanti sono contenuti tra l’Archivio centrale dello Stato, che ha acquisito nel tempo tutta la documentazione conservata a Torino e il Grande archivio di Napoli. L’archivio di Napoli in particolar modo, conservando la documentazione prodotta dai ministeri durante la Luogotenenza e dalla Gran Corte di Cassazione, per tutto il periodo che interessa, fornisce notizie riguardanti tutte le zone regnicole continentali. Lo stesso può dirsi per i fondi prodotti dai diversi ministeri dello Stato conservati nell’Archivio centrale dello Stato anche per il periodo successivo alla Luogotenenza. Così è ad esempio per il fondo del ministero di Grazia e Giustizia, che sovrintendeva all’organizzazione dei servizi della giustizia e del culto, le cui carte per tutto il 1861 si trovano a Napoli mentre quelle successive a tale data sono conservate nell’Archivio centrale di Roma.

Il fondo del ministero dell’Interno, che contiene importanti documenti che indagano lo “spirito pubblico” nei confronti del nuovo Stato all’indomani dell’impresa garibaldina e, soprattutto nei primissimi anni, le segnalazioni e il resoconto degli scontri e dell’avvenuta o mancata cattura di individui appartenenti a bande armate, comitive reazionarie e/o di “briganti”, è smistato tra l’Archivio centrale dello Stato, che contiene i fascicoli relativi al Gabinetto e alle nomine per il riconoscimento del valore militare e il Grande archivio di Napoli, che contiene i fascicoli riguardanti la Polizia generale e l’Alta Polizia. Il fondo Alta Polizia raccoglie documentazione molto simile a quella della Polizia Generale, sempre per gli anni 1860-1861, con l’aggiunta delle richieste di sussidio da parte delle persone danneggiate dalle azioni brigantesche, richieste che arrivavano al ministero dell’Interno fino a quando fu creata la Commissione Centrale per l’amministrazione e distribuzione del fondo della sottoscrizione nazionale a favore dei danneggiati dal brigantaggio. Qui anche, come altrove, sorge il problema dell’ambiguità del termine “brigantaggio”, la soluzione della quale è importante per comprendere se le famiglie che avevano diritto al risarcimento e alla protezione da parte dello Stato fossero vittime del banditismo comune o se invece si trattasse, tutte o in parte, delle persone che ideologicamente si ponevano sul versante politico e sociale opposto a quello dei “briganti”, ovvero i liberali filo Savoia.

L’altro grande bacino che raccoglie notizie di altissimo interesse nell’Archivio di Napoli, è il Fondo Gran Corte di Cassazione che raccoglie le decisioni penali relative, come già accennato, a tutte le zone continentali dell’Italia meridionale.

Resistenza a guardie nazionali, parole di disprezzo contro la sacra persona del Re, discorsi a fatti pubblici volti a suscitare malcontento, istigazione alla distruzione degli stemmi reali e distruzione degli stessi, incitamento diretto e attentati finalizzati a cambiare la forma di governo, voci allarmanti per spargere il malcontento, istigazione alla guerra civile, disarmo della Guardia Nazionale, uccisione di garibaldini, aiuto fornito a bande armate: questi sono i principali capi d’imputazione che troviamo tra i titoli delle sentenze della Corte di Cassazione di Napoli.

Anche i membri del clero erano spesso vittime di alcune imputazioni. I sacerdoti erano incolpati, nella maggior parte dei casi, di essere responsabili di voci sediziose in chiesa e di rifiutarsi di inserire le preghiere per il sovrano il Venerdì Santo. I vescovi meridionali erano tutti, tradizionalmente, legati alla monarchia borbonica e per questo, in una percentuale superiore ai due terzi, abbandonarono la propria diocesi in seguito alla proclamazione del Regno d’Italia. Di quelli che restarono, si rilevano tra le carte della Corte di Cassazione imputazioni relative ad incitamenti più o meno diretti a cambiare la forma di governo da parte del vescovo di Squillace, di Nardò, di Mileto.

Accanto ai reati a chiaro sfondo politico, si profilano anche reati comuni quali: grassazioni, omicidi, sequestri di persona. Dal 1863 in poi, non a caso in concomitanza dell’emanazione della Legge Pica, che limitava la trattazione di reati di brigantaggio solo ai tribunali militari, non si sente più parlare di reazionari né di bande armate tra le carte degli organi preposti allo svolgimento della giustizia ordinaria. Il termine quasi esclusivamente utilizzato è quello di “malfattori”. Dall’esame delle carte processuali sarà interessante verificare la portata dei reati dei malfattori, il cui termine sembra in alcuni casi mascherare reati di brigantaggio politico strappati alla ferocia dei tribunali militari.

I documenti del tribunale penale di Napoli e della Gran Corte Criminale (corte d’appello di Napoli), raccolgono invece processi e sentenze riferiti a fatti e persone localizzabili geograficamente all’area di Napoli, circondario e provincia. I reati vanno dalla sfera eminentemente politica: diserzione, favoreggiamento, aggressione alla Guardia Nazionale, manutengolismo e reati di brigantaggio (datati prima dell’entrata in vigore della Legge Pica); alla sfera ascrivibile alla criminalità comune: estorsioni, sequestri di persona, omicidi, grassazioni, sebbene solo la lettura delle sentenze potrà con più precisione definire la natura delle imputazioni.

Un’eccezione, che scavalca la normale gerarchia dei tribunali, la troviamo nel fondo del tribunale penale di Napoli, dov’è collocato il fascicolo Processi Politici, una raccolta che va dal 1828 al 1901, ma che contiene in gran parte, processi concentrati tra il 1860 e il 1890, nel numero di 600 provenienti da diversi tribunali quali: la Gran Corte Militare, il Tribunale di Napoli, i Giudicati Regi, le Corti di Assise e le Corti di Appello.

Sempre nel fondo del tribunale di Napoli, troviamo dei fascicoli riguardanti i tribunali militari territoriali di Napoli e Salerno, che raccolgono le accuse di diserzione e abuso di potere da parte dei militari ai danni di briganti o presunti tali. Tali accuse sono non a caso o precedenti o successive agli anni 1863-1865, anni in cui vigeva la legge Pica e sono seguite dalle rispettive sentenze dettate dalle due Commissioni di inchiesta presso il tribunale militare permanente in Napoli e Salerno, sentenze che si risolvevano tutte con un “Non luogo a procedere” contro i militari accusati di aver ucciso briganti o presunti tali senza processo.

Lo studio delle carte di questi apparati per la giurisdizione militare in un periodo antecedente o successivo alla legislazione straordinaria dipendente dalla legge Pica, può aiutarci a comprendere meglio i motivi che portarono all’emanazione della legge stessa e il confronto tra le due procedure può forse essere illuminante per comprendere i metodi militari e burocratici utilizzati al fine di reprimere il brigantaggio. La documentazione prodotta dai Tribunali militari straordinari, istituiti, quindi, nella maggior parte, all’indomani della Legge Pica, è collocata nell’Archivio centrale dello Stato di Roma. La circolare del ministero della Guerra del 21 agosto 1863, in esecuzione della Legge Pica del 15 agosto del 1863, riguardante le Norme per l’eseguimento della legge sulla repressione del brigantaggio nelle Provincie Napolitane, decretava infatti la creazione dei nuovi tribunali militari di: Potenza, Foggia, Avellino, Caserta, Campobasso, Gaeta, L’Aquila e Cosenza. Questi si sommavano a quelli già esistenti di Bari, Catanzaro, Chieti e Salerno che, alla loro ordinaria competenza, aggiungevano quella sui reati di brigantaggio. Anche per questo tipo di documentazione, il ministero per i Beni culturali ambientali ha fornito alla comunità degli studiosi una guida per le Fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate nell’Archivio Centrale dello Stato. I Tribunali militari straordinari, pubblicato nel 1998 a cura di Loretta De Felice. Con questa pur consistente documentazione, si esaurisce l’aiuto fornito ai fini della ricerca dall’Archivio centrale dello Stato.

Nell’Archivio di Napoli, escludendo la documentazione della Gran Corte di Cassazione, il fascicolo processi politici tra le carte del tribunale penale e quella della Commissione per i danneggiati dal brigantaggio, si ha una documentazione strettamente locale e sostanzialmente molto simile rispetto a quella degli altri archivi di Stato meridionali, riguardante il lavoro svolto da Questura, Prefettura e tribunali ordinari. Gli archivi di Stato presi in considerazione sono quelli di Frosinone, Latina, Caserta e Napoli, per la regione di Terra di Lavoro, Avellino e Benevento per il Principato Ultra, Salerno per il Principato Citra, Teramo e L’Aquila per l’Abruzzo Ultra primo e secondo, Chieti per l’Abruzzo Citra, Pescara per le preture di Loreto, Catignano, Caramanico, Manoppello e Pianella, Campobasso e Isernia per il Contado di Molise, Potenza e Matera per la Basilicata.

Le carte delle Questure meridionali abbracciano una documentazione che va principalmente dal periodo immediatamente precedente all’entrata in vigore della Legge Pica 1862-1863, fino alla metà degli anni ’70 per quanto riguarda il nostro argomento. Dal 1866 in poi la maggior parte della documentazione che riguarda il brigantaggio si sposta nelle Prefetture.

Se la Polizia e la Questura avevano compiti principalmente repressivi, la Prefettura si occupava della tutela dei cittadini, della diffusione di informazioni, della censura, spesso preventiva delle testate giornalistiche e di una certa coordinazione del territorio. Dal 1866, quando fu introdotto il domicilio coatto al posto delle fucilazioni sommarie, dei processi militari e dei lavori forzati, questo nuovo tipo di documentazione iniziò ad aggiungersi alla tradizionale documentazione delle Prefetture. Prima del 1866 la documentazione delle Prefetture, inerente in qualche modo il tema del brigantaggio, si concentra nel 1862, quando, con la proclamazione dello Stato d’assedio, al prefetto toccò, come era toccato al ministro dell’Interno l’anno precedente, fare indagini sullo spirito pubblico, in seguito alle restrizioni introdotte, controllando le cosiddette “mene borboniche”, il malcontento politico, i tentativi insurrezionali. D’altro canto la prefettura provvedeva alle gratificazioni e ai premi per coloro che contribuivano alla repressione.

Un’altra data che vide le prefetture coinvolte in compiti inerenti il brigantaggio, fu quella del 1863, che attribuì a tali organi governativi la funzione di diffusione e conoscenza della Legge Pica e di emanazione delle relative circolari.

Per quanto riguarda gli organi giudiziari, i processi per brigantaggio sono contenuti nei fondi dei tribunali di ogni capoluogo di provincia, con le diverse sottosezioni relative alle circoscrizioni più piccole.

Interessante, ai fini della comprensione del fenomeno, è integrare l’analisi della documentazione reperita negli archivi pubblici, con il fondo Brigantaggio conservato nell’Archivio storico dell’Ufficio di Stato Maggiore dell’Esercito a Roma, sia perché contiene parte della documentazione conservata negli Archivi di Stato, è il caso di alcune carte riguardanti i tribunali militari straordinari, sia perché è qui conservato un tipo di documentazione specifica non reperibile altrove che ci permette di osservare il fenomeno con gli occhi di chi era preposto alla sua distruzione. Il patrimonio documentario del fondo è molto vasto, si tratta di più di 250 000 carte catalogate seguendo differenti criteri: per reparto e zona oppure per materia. A un recente lavoro di ricognizione è seguita la pubblicazione, nel 2004, della Guida al fondo brigantaggio.

Rilevante è il carteggio tra il VI dipartimento militare con sede a Napoli, cui era affidata la pacificazione del meridione e il ministero della guerra e dell’Interno con sede a Torino prima e a Firenze poi, documentazione che può porsi pienamente nell’ottica di un confronto e integrazione con quella del ministero degli Interni e degli organi da lui dipendenti, conservata all’Archivio centrale dello Stato. Oltre a questo tipo di documentazione ai vertici, dalle relazioni degli ufficiali è possibile comprendere l’utilità materiale della rete borbonica dei telegrafi, presenti in ogni capoluogo di provincia, utilizzata per la trasmissione degli ordini e la capacità dei briganti di costruirsi pallottole con il piombo nonché la presenza di polverifici clandestini nascosti nei boschi, notizie non altrimenti reperibili. Altra documentazione specifica, riguarda la disposizione delle truppe, le strategie tattiche di cui si avvalevano i diversi generali e ufficiali, le difficoltà per il controllo del territorio e per la comunicazione con la popolazione che parlava un dialetto completamente diverso da quello dei soldati, le difficoltà legate al delicato momento che stava vivendo l’esercito, in piena ristrutturazione e integrazione a causa dell’arrivo delle nuove leve provenienti dalle zone del lombardo veneto e dell’Italia centrale, da poco annesse. Oltre a ciò, troviamo informazioni riguardanti i problemi legati alla guerriglia in territori sconosciuti, data la mancanze di cartine geografiche e topografiche, alle dure marce in territori scoscesi con vestiario e vettovaglie pesanti e inadeguate o insufficienti. Si può intuire, in maniera indiretta, il rapporto tra soldati e popolazione nei momenti di stasi, i casi di abuso di potere che determinava facili fucilazioni e torture e, nell’ambito della lotta contro i briganti, le rappresaglie e l’insofferenza di alcuni sottufficiali nell’eseguire ordini troppo cruenti. È possibile altresì indagare gli attriti che sorgevano tra l’esercito e le prefetture che svolgevano insieme la funzione di sorveglianza e indagine e, ancor di più con la Guardia Nazionale reclutata tra la popolazione del luogo, verso cui si nutriva una certa diffidenza. La Guardia Nazionale, reclutata tra civili che continuavano a svolgere il loro lavoro e non inquadrata militarmente come l’esercito sabaudo, era infatti sottoposta alla pressione dell’esercito ma anche a quella dei briganti e la loro motivazione variava a seconda della maggiore o minore convinzione politica della popolazione nella lotta al brigantaggio. Gli attriti dell’esercito erano forti anche con la magistratura ordinaria, composta anch’essa, non a caso, da giudici e magistrati meridionali ex borbonici verso i cui atteggiamenti garantisti si nutriva molta diffidenza. Al pregiudizio verso i magistrati meridionali, si aggiungeva il pregiudizio verso gli ex soldati borbonici che ora militavano tra le fila dell’esercito piemontese o degli ex garibaldini. È possibile inoltre indagare l’evoluzione del rapporto tra le truppe sabaude e le truppe francesi collocate sulla frontiera pontificia e che, a seconda del generale che le comandava, erano più o meno favorevoli alla collaborazione per la cattura dei briganti che sconfinavano nello Stato della Chiesa, bendisposto verso i reazionari borbonici almeno fino alla permanenza della Corte di Francesco II a Roma.

Una volta esaminato il fenomeno del brigantaggio sulla base delle fonti prodotte dagli enti pubblici e militari, al fine di individuare la posizione del clero in rapporto a tale fenomeno, che pure in parte emerge dall’esame delle fonti appena prese in considerazione, indispensabile risulta essere l’analisi delle fonti prodotte dagli archivi ecclesiastici. Si indagherà, nello specifico, l’atteggiamento dei vescovi meridionali e del basso clero delle diocesi in relazione all’ambito della reazione armata meridionale al processo unitario. L’obiettivo è quello di verificare se e in che misura ed eventualmente, tramite quali strumenti ed azioni questi soggetti abbiano appoggiato o favorito il brigantaggio nei diversi territori.

Si partirà con l’indagare la posizione ufficiale dei vescovi meridionali analizzando la raccolta degli Atti collettivi dei vescovi italiani preceduti da quelli di Pio IX contro le leggi e i fatti della rivoluzione. Tale lettura può essere integrata con l’esame della bibliografia coeva firmata da liberali e legittimisti che ci dipingono le figure dei vescovi e degli arcivescovi principali, come ad esempio quelle dell’arcivescovo di Napoli Sisto Riario Sforza, dell’arcivescovo di Gaeta Cammarota e del vescovo di Acerra monsignor Romano. Fonti edite di grande aiuto per l’argomento, sono inoltre le sparute pubblicazioni delle lettere pastorali dei singoli vescovi.

Una difficoltà pratica che s’incontra nel momento in cui si svolgono ricerche di tipo comparativo tra fonti pubbliche ed ecclesiastiche, è che non sempre il materiale reperito dai due diversi enti è quantitativamente e qualitativamente omogeneo. Se per quanto riguarda la pubblicazione delle fonti contenute negli archivi di Stato possiamo far affidamento su volumi interamente e sistematicamente pubblicati come La raccolta delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia o le Discussioni della Camera e del Senato o gli Atti parlamentari o i già accennati Documenti diplomatici, per quanto riguarda il materiale degli archivi ecclesiastici, in particolare degli archivi diocesani, non abbiamo lavori completi, ma sparute pubblicazioni di parti archivistiche, ora riferite a un’epoca, ora ad un’altra, cui si aggiunge anche la dispersione di tipo spaziale, con pubblicazioni ora riferite ad una diocesi, ora ad un’altra. Non potendo far affidamento, in ambito ecclesiastico, su una sistematica pubblicazione del principale materiale oggetto di studio, il materiale edito reperibile si limita a pubblicazioni occasionali legate ad eventi circostanziali o fortuiti e non può affatto considerarsi omogenea. Di qui la necessità di andare alla ricerca di materiale inedito e spesso difficilmente accessibile dal punto di vista sia materiale sia burocratico. L’ultimo tentativo per mantenersi nel campo delle fonti edite, è la consultazione delle biblioteche diocesane attigue agli archivi che frequentemente contengono dei lavori svolti da studiosi locali, spesso ecclesiastici, preposti al compito di riordinare l’archivio e che, per questo, hanno avuto contatto diretto con i documenti in questione. Il prodotto, tuttavia, consiste in delle pubblicazioni metodologicamente e qualitativamente differenti a seconda della preparazione e della logica utilizzata dal singolo studioso.

Per queste motivazioni non disponiamo, ad esempio, di alcuna raccolta di fonti edita sulle lettere pastorali dei vescovi italiani o meridionali che possa darci degli indizi precisi sulla situazione nelle diverse diocesi. La posizione ufficiale della Chiesa e la portata di alcuni eventi a livello locale possono comunque emergere dagli articoli delle principali riviste cattoliche del tempo quali “La scienza e la fede”, la “Civiltà cattolica” ma anche “l’Armonia delle religioni colla civiltà” conservate nelle principali biblioteche italiane.

Per questi motivi la consultazione degli archivi diocesani sarà indispensabile. Gli archivi da prendersi in considerazione sono: per il Lazio quelli di Frosinone, Montecassino, Sora e Gaeta, che coprono parte della zona corrispondente all’antica provincia borbonica di Terra di Lavoro; per la Campania : Napoli, Pozzuoli, Acerra, Aversa, Pompei, Sorrento, Capua, Sessa Aurunca, Caserta, Nola, Teano, Caiazzo, Benevento, Cerreto Sannita, Avellino, Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi, Montevergine, Salerno, Amalfi, Nocera, Teggiano, Vallo della Lucania che corrispondono alle antiche province borboniche di Napoli, Terra di Lavoro, Principato Ulteriore e Principato Citeriore; per l’Abruzzo: l’Aquila, Avezzano, Sulmona, Chieti, Lanciano, Pescara e Teramo che corrispondono alle antiche regioni borboniche di Abruzzo Ulteriore, secondo Abruzzo Ulteriore e Abruzzo Citeriore; per il Molise: Campobasso, Isernia, Termoli e Trivento che corrispondono all’antica provincia di Molise; Potenza, Matera, Acerenza, Melfi, Tricarico, Tursi per la Basilicata.

Come base per orientarci, disponiamo di una Guida agli archivi diocesani d’Italia, a cura dell’Associazione Archivistica Ecclesiastica, pubblicata nel 1998, che brevemente descrive gli indici presenti in ciascun archivio diocesano permettendo si avere un’idea chiara del materiale da consultare. La consultazione dell’Archivio Segreto Vaticano in particolare della documentazione prodotta dalla Congregazione Concistoriale per ciò che concerne le “visite ad limina”, è invece utile per avere un quadro d’insieme delle diocesi meridionali in epoca immediatamente pre e post unitaria. Sempre all’Archivio vaticano, è utile inoltre la consultazione dei documenti prodotti dalla Segreteria di Stato raccolti nelle Rubricelle e divisi per anni e per argomento, importantissimi per avere un’idea chiara della percezione degli eventi che si stavano verificando nel vicino Regno e nei possedimenti pontifici che contemporaneamente andavano annettendosi al nuovo Stato liberale.

Bibliografia

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2012                La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, Feltrinelli.

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1982                Giornale di viaggio in Calabria 1792, Napoli,Società Editrice Napoletana.

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1750                Della Moneta, Napoli.

1770                Dialogues sur le commerce des bleds, Londra,

1818                Correspondance inédite de M. l’abbé Ferdinand Galliani, conseiller du Roi de Naples, avec Mme d’Épinay, le Baron d’Holbach, le Baron Grimm et autres personnages célèbres du XVIII siécle. Paris-Strasbourg-Londres, Treuttel et Würtz.

Minutolo Principe di Canosa A.C.

2000                Sulla corruzione del secolo circa la mutazione dei vocaboli e delle idee, Morcone (BN), Controcorrente.

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1987                Costumi della corte e dei popoli delle Due Sicilie, Milano, Longanesi.

Settembrini L. in Pessina A. (cur.)

1983                Lettere edite e inedite: 1860-1876, Società editrice napoletana.