di Angelo Varni
L’Istituto per i Beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna (Ibc), sul tema specifico dei musei, del loro ruolo, della loro presenza nella società del futuro ha la buona sorte di potersi avvalere dello sguardo lungo gettatovi dalle riflessioni consegnate da uno dei padri fondatori, Andrea Emiliani, in quell’aureo e solo in parte ascoltato libretto scritto in occasione della nascita dell’Istituto medesimo, dal titolo sinteticamente evocativo, Una politica per i beni culturali. Laddove individuava come conclusa l’epoca di una certa tipologia di museo conservativo – di deposito, come lo definiva – nell’arco di tempo tra passaggio di Napoleone e soppressioni ecclesiastiche del decennio sessanta dell’800.
Certo non ne negava la fondamentale funzione svolta di salvaguardia, unita ad una capacità di preservazione, di luminosità, di studio e utilizzazione sociale. Ma, proiettandosi in un futuro che pensava imminente, ne amplificava la logica attraverso una sua immersione ambientale e territoriale, che andava oltre l’accentrarsi in un sol luogo degli oggetti di culto estetico, per disporli – diceva – “in un’ampia rete di relazioni e di segni”. Spiegando che in tal modo non era il museo ad essere posto in discussione, bensì quella sua specifica modalità propria di una contingenza temporale, a favore – affermava – di una sorta di conoscenza “circolare”, a “rete” – una parola magica per l’oggi, quasi consegnata ad un futuro che Emiliani teorizzava in un auspicio di rinnovamento tecnologico e metodologico di tono profetico –, dove non avvenisse che “privati dei loro significati storici, gli antichi oggetti d’uso, i secolari agglomerati urbani, le opere più sostanziali dell’uomo che hanno condizionato la natura fino a mutare profondamente paesi, climi, corsi d’acqua, vengano destinati alla distruzione e alla dispersione se non siano ricollocati in una loro mappa storico-antropologico”.
C’è in queste considerazioni ben di più che un pensiero specificatamente museale, nell’ansia si superare le separatezze tra luoghi espositivi di cose culturali chiusi nella loro tradizionale autoreferenzialità tipologica, estetica, categoriale. C’è, a mio modo di vedere, l’esigenza di far intendere che i musei esistono in un determinato luogo perché ne rappresentano la storia civile, artistica, religiosa, istituzionale. Di renderli, ancora, permeabili ad un rapporto con i toni e gli assetti della società che li ha costruiti e quindi con l’insieme di quella dimensione culturale, di quella “rete”, appunto, di presenze che ne danno il senso, ne spiegano le relazioni, ne delineano la storia che parli agli uomini, di là dalle suggestioni degli sguardi ammirati per il singolo oggetto artistico, il curioso manufatto, il prodotto della scienza, del raffinato artigianato o di una modalità perduta di vita collettiva.
Con questo l’Ibc non intende naturalmente disconoscere il costante, puntuale lavoro di accreditamento qualitativo svolto in questi decenni per preservare e valorizzare contenuto e contenitore di questi luoghi museali, al fine proprio di farne comprendere meglio al visitatore il senso di una presenza culturale mai fine a se stessa, in grado di trasmettere la propria storia complessiva, la propria realtà di esistenza attiva in un determinato ambiente sociale. Senso, dunque, presenza storica, relazione sociale, ho detto.
Ma questo è stato e dovrà continuare ad essere frutto di analisi e di ricerca degli operatori specializzati; non certo di improvvisati manager di un’illusoria ed improbabile “economia della cultura”, alla ricerca di oggetti per un nuovo culto laico da offrire all’adorazione senza luogo e senza tempo di un pubblico estraneo a qualsiasi considerazione, appunto, di senso, di presenza storica, di relazione sociale. Un pubblico che, con la sua massiccia partecipazione, dovrebbe garantire il valore economico – divenuto l’unico interessante – di tali oggetti, trasformati – secondo la dissacrante constatazione di Jean Clair – in “reliquie” di una civiltà passata da comprendere per incanto attraverso l’occhiata distratta di un assembramento uniformante, con la stessa inesistente adesione con cui si guarda uno spettacolo televisivo, si sfoglia una rivista patinata, o si scorrono in un succedersi di click le informazioni delle home page scorrenti in Internet.
Terribile la descrizione che ne fa sempre Jean Clair, quando constata l’accalcarsi di questa folla non più unita “da una fede comune, religiosa, sociale o politica che sia” che trova nel culto dell’arte la sua “ultima fede collettiva”. Una folla che percorre in gruppo le sale, “fotografandosi a vicenda come per soffocare, con l’uniformità del comportamento e l’identità delle azioni, il sospetto da cui a volte [è] sfiorata: che neanche lì ci si possa aspettare qualcosa”.
Ricorda ancora il nostro museografo francese di superiore esperienza maturata nelle principali istituzioni espositive – ripercorrendo le parole scritte dal fondatore del parigino museo delle Arti e Tradizioni popolari – che il successo di un museo sta solo nella capacità di insegnare qualcosa ai visitatori. Non si valuta dai numeri dei biglietti staccati o degli oggetti esposti, ma dal come i visitatori hanno potuto trarre beneficio dall’ambientazione delle cose nel loro contesto umano. Altrimenti – conclude con un’immagine ad effetto – non è un museo, ma un “mattatoio culturale”.
È, dunque, ferma convinzione dell’Ibc mantenersi ben dentro queste linee operative, che stanno inscritte nello stesso statuto fondativo. Pensando, con Marc Fumaroli, che il museo sia “prima di tutto e soprattutto un focolare della conoscenza, nel suo duplice impulso di memoria e di invenzione, e uno strumento di istruzione”. Che sia quell’istituzione in grado di conservare le bellezze e le testimonianze del passato, non come un muto lapidario, bensì per riuscire a farle parlare all’uomo del tempo presente.
Del resto, ci è stato insegnato, fin dall’inizio l’uso stesso, cinquecentesco soprattutto, del concetto di museo, ci riporta ad una situazione di distacco dal fluire dalla quotidianità per un appartarsi nello studio e nella meditazione a contatto, appunto, con le muse, ma per approfondire attraverso gli oggetti contemplati la comprensione dell’uomo, della sua arte, del suo rapporto con la natura, anch’essa da analizzare in tutte le sue manifestazioni. “Macchina per la conoscenza” è stato detto; una conoscenza che, dopo le rivoluzioni democratiche, si è inteso far fluire verso il grande pubblico, ma senza che questo attenuasse quell’atmosfera di sacralità “laica” insita nel concetto stesso del museo.
Un compito non facile, indubbiamente; suscettibile di restare paralizzato tra ripetizione di consunti modelli di chiusure in una fissità antiquaria, e fughe in avanti verso una miracolistica devozione nei confronti dell’utilizzo delle nuove tecnologie, oppure un’interpretazione dei luoghi museali quali spazi destinati ad un nuovo superficiale loisir verniciato di aspirazioni culturali.
Si tratta, cioè, di trovare un equilibrio tra una diffusione di conoscenza che intercetti l’attuale livello di spettacolarizzazione, superando le barriere specialistiche ma senza sminuirne la funzione di cattedrali dell’arte e della scienza; bensì facendo entrare la “gente” in tali cattedrali perché vi leggano la loro storia. In modo non dissimile da come venivano lette le storie dipinte nelle cattedrali del sacro, quali naturali espressioni dei sentimenti religiosi del territorio. Per di più molte delle situazioni esposte hanno provenienze esterne rispetto al luogo e quindi diviene indispensabile spiegarne le origini e i transiti consentendo un dialogo con altre culture ed altri mondi, in particolare adatto al coinvolgimento dei “nuovi” cittadini.
Ma per giungere a questo, occorre con tutta evidenza mantenere inalterato l’approfondimento conoscitivo in merito al succedersi degli eventi che hanno portato un oggetto, e non altri, a meritarsi l’esposizione, a subire quel distacco dal suo luogo e dal suo tempo d’origine, che, non spiegata nel suo svolgersi concreto, lo fa divenire – come è stato scritto – “parodia di se stesso”, di là dall’eventuale diletto estetico che è in grado di procurare al visitatore. Tanto più vero un simile obbiettivo di fronte al diffondersi di un collezionismo museale allargato a tutta la produzione dell’attività umana, anche a quella estranea alla tradizione classica od accademica. Con un intrecciarsi sempre più ricco di significati evocativi del compito – diciamo così – sociale dell’oggetto, tutti da chiarire al visitatore, altrimenti più che mai disperso in un succedersi di reperti, diversi da quanto esposto sugli scaffali dei grandi magazzini solo perché raccolti all’interno della solennità sacrale, appunto, di un museo; ma senza che il percorrerne le sale segni una traccia di reale crescita della formazione di una consapevole comprensione di ciò che dovrebbe trasmettersi alle coscienze da quanto visto. Sia, perciò, qualcosa di più dell’illusione di aver partecipato ad un’immersione nel mondo della cultura, di cui si conserva con orgogliosa superficialità una doverosa traccia nelle foto impresse nei telefonini.
Nessuna rincorsa, dunque, all’evento maestoso ma effimero, destinato a ricadere su stesso dopo esser riuscito magari a smuovere folle di curiosi sollecitati dal richiamo pubblicitario di un “dover esserci”. Ma quanto utile ad una continuità di vera azione culturale, di approfondimento conoscitivo, di reale valorizzazione del patrimonio? Non dissimile, in questo, dalla frenesia presenzialista dei festival e dalla loro illusoria capacità di trasmettere per incanto conoscenza sui temi più svariati.
Se è dunque vero che le esposizioni presenti nei musei hanno ai nostri occhi il compito di far da tramite tra quanto il visitatore osserva di concreto e il mondo di riferimenti invisibili da esso evocati, fatti di richiami alla storia, alla tradizione, all’arte, alle vicende identificative, in definitiva, di un’epoca, di un mondo, di una comunità, diviene indispensabile che il museo sappia di tempo in tempo produrre una cultura evocativa di sé adeguata al mutarsi della dimensione culturale in cui è immerso. Offrendo, secondo i compiti tradizionali assolti dai museologi, una sapiente collocazione degli oggetti secondo percorsi di contestualizzazione interpretativa, sì da farne comprendere e da divulgarne la funzione rappresentativa del mondo dal quale proviene e da renderlo in tal modo leggibile a chi, attraverso di esso, può e deve ritrovare il senso e i tramiti della società del suo oggi comunque collegata a quell’ieri.
Da sempre, dunque, il museo, inteso nella sua funzione fondamentale e durante il suo percorso secolare, deve rispondere ad un bisogno di conoscenza, all’inizio riservata ad una cerchia ristretta di “collezionisti”, di “artisti”, di “scienziati”, e poi, a confronto con le istanze della “democrazia”, divulgata ai cittadini tutti. Una funzione assolta solo e sempre attraverso ricerche e documentazioni in grado di spiegare l’oggetto esposto, di farlo partecipe di un percorso conoscitivo esemplificativo di una realtà più generale, artistica, sociale, naturalistica, tecnica che fosse. Una funzione che richiede competenze scientifiche, non meno che sensibilità verso l’organizzazione delle modalità espositive: né rincorse allo stupefacente fine a se stesso, né limitazione ad una semplice attività di illustrazione didattica, dunque; con sempre una sorvegliata attenzione ad una ricerca interpretativa mai di parte, preconcetta, fuorviante, ispirata, invece, ad un senso di superiore moralità che sola possa garantire una corretta lettura dei significati mostrati da quello specifico museo.
Se tutto questo è vero, forse la sfida cui l’Ibc si deve apprestare diviene quella di favorire simili compiti di illustrazione, collocazione e divulgazione scientifica, ponendosi a confronto con le nuove tecnologie. Cercando, cioè, di capire se queste davvero sono e saranno in grado di meglio consentire, con le loro amplificazioni di tempo e di luogo, con la capillarità del loro diffondersi, con la loro facilità di aggregare dati, nozioni, immagini, suoni, richiami delocalizzati nello spazio e intrecciati nelle diverse realtà, di aiutare gli operatori museali a svolgere al meglio il loro immutabile lavoro di produzione di senso.
Non si tratta, cioè, ormai di inseguire gli esiti, per tanti aspetti stupefacenti, delle ricostruzioni virtuali del passato scomparso, che magari può continuare ad attrarre come gioco didattico od una sorta di “porta di ingresso “, di “biglietto da visita” per stimolare i moderni visitatori. Né di indulgere ad un nuovismo tecnologico con la giustificazione di riuscire ad interessare in tal modo il mondo giovanile. E neppure di limitarsi ad un utilizzo strumentale di una tecnologia capace di assemblare serie digitalizzate di oggetti e di dati. Tutto ciò mi appare, per quanto io sia un antiquato osservatore dell’odierno reale, obsoleto, quasi scontato agli occhi delle generazioni cresciute all’ombra del computer. Persino le invenzioni dei musei della scienza, tipo la parigina Villette, appaiono superate agli occhi di chi se le ritrova più o meno puntualmente nel proprio smartphone e restano relegate ad attività orientative per la didattica degli alunni più piccini.
Credo, invece, sia indispensabile misurarsi con i processi di analisi del reale affidati ad una tecnologia in continua evoluzione, ma che ha abbandonato il gusto per gli effetti del meraviglioso e dello stupefacente, dedicandosi invece alla ricerca dei mezzi più funzionali a realizzare al meglio gli obbiettivi di sempre della scienza, facilitando – come detto – i percorsi spazio-temporali, l’esame delle fonti, la comparazione interdisciplinare e così via. Tutto quanto, vale a dire, rappresentava e rappresenta il cammino verso una trattazione storico-scientifica di quanto esposto in un museo e dei legami di questi oggetti con quanto possa contribuire alla loro contestualizzazione, di là dalle tradizionali divisioni fra settori disciplinari e categorie espositive, andando sempre più facilmente verso quel concetto “a rete” significante un’intera dimensione sociale, che – come detto in apertura – il nostro Emiliani preconizzava quarant’anni fa.