Il “modello emiliano” nella storia d’Italia Bologna, 28 ottobre 2011

di Federico Chiaricati

A quasi un anno di distanza dal convegno Bologna futuro. Socialità, sviluppo uguaglianza: il “modello emiliano” alla sfida del XXI secolo (i cui atti usciranno per la casa editrice Clueb nel marzo 2012, a cura di Carlo De Maria), il 28 ottobre 2011 si è svolto a palazzo Malvezzi, sede della Provincia di Bologna, un seminario intitolato Il “modello emiliano” nella storia d’Italia. Tra culture politiche e pratiche amministrative, 1889-2011. Rispetto all’impostazione classica degli studi sul “modello emiliano” questo seminario (promosso dall’Associazione di ricerca storica Clionet, in collaborazione con l’Istituto provinciale per la storia della Resistenza e la Fondazione Gramsci Emilia-Romagna) ha presentato due novità. La prima è l’impegno a riflettere su un arco cronologico lungo, dall’Ottocento a oggi, mentre solitamente la letteratura sul “modello emiliano” tocca un periodo di poco più di vent’anni, cioè quello che va dal dopoguerra, e più precisamente dalla seconda metà degli anni Cinquanta, fino alla fine degli anni Settanta, quando ne inizia la crisi. La seconda novità, legata evidentemente alla prima, è la presenza quasi esclusiva degli storici; dal momento che, come ha rilevato Carlo De Maria nella relazione introduttiva (La sinistra e il “modello emiliano”: da Andrea Costa a Renato Zangheri), la categoria del “modello emiliano” è normalmente oggetto dell’analisi economica e sociologica. Alla base del seminario c’è dunque l’intenzione di avviare una riflessione storiografica, che porti anche a travalicare i confini geografici fissati dagli studi economici sul “modello” (tutti concentrati sulle province di Bologna, Modena e Reggio Emilia), per allargarsi all’intera regione emiliano-romagnola.

La scelta di tenere insieme Ottocento e Novecento vede la propria giustificazione nel ruolo che ebbe, dopo il movimento risorgimentale, il fenomeno del municipalismo popolare, che nei decenni a cavallo del 1900 riuscì a dare, tramite la raccolta e la valorizzazione di nuove forze ed energie popolari, maggiore vitalità a istituzioni nate con l’Unità su una ristretta base censitaria. Il cosiddetto “modello emiliano” affonda in quel contesto le sue radici più profonde e vede nel movimento socialista e in quello repubblicano degli attori di primo piano. Successivamente alla riforma elettorale amministrativa del 1889, i “laboratori” socialisti di Imola e Reggio Emilia (ma non bisogna trascurare il ruolo dei comuni radical-repubblicani romagnoli) diedero prova di una grande creatività istituzionale, abbracciando i campi della politica e dell’amministrazione, dell’economia e della cultura. Grazie all’integrazione fra tessuto associativo e istituzioni municipali si ottennero forme avanzate di welfare locale.

Una vitalità della quale De Maria, guardando a ritroso, trova riscontro fin dai moti risorgimentali del biennio 1831-32, caratterizzati sia nei ducati padani sia nelle legazioni pontificie da forti spinte cittadine e municipali, e poi nei decenni successivi con il rapido sviluppo delle casse di risparmio, a garantire un certo dinamismo sul piano finanziario e del credito. Dopo l’Unità, come si diceva in precedenza, il nascente movimento socialista venne fortemente caratterizzato dalla “svolta” operata da Andrea Costa, che rompeva con la logica bakuniana (radicalmente estranea alla vita politico-amministrativa) e si caratterizzava invece per la volontà di promuovere le autonomie sociali e territoriali. Le Camere del Lavoro si diffusero capillarmente in tutta la regione e lo stesso Costa partecipò nel 1901 a Bologna alla nascita della Federterra, che non fu solo un organismo di difesa e organizzazione delle masse bracciantili, ma anche una sorta di scuola, di laboratorio per lo sviluppo di quelle piccole imprenditorialità che avrebbero caratterizzato il volto economico-sociale dell’Emilia-Romagna. Non a caso furono proprio le sedi delle CdL e delle leghe bracciantili, insieme alla sedi dei giornali e dei partiti di opposizione, a essere colpite per prime dalle violenze e dalle devastazioni fasciste, che mirarono a distruggere e cancellare il tessuto associativo della classe operaia e agricola della regione.

De Maria ha proseguito insistendo sul fatto che anche lo studio della storia dell’Italia repubblicana non possa prescindere – nonostante la pesante eredità del fascismo in termini di accentramento statale e di bardature burocratiche – dall’analisi della dimensione territoriale e dall’approfondimento delle specificità che hanno caratterizzato il civismo repubblicano nel secondo dopoguerra. L’Emilia-Romagna vede la presenza fondamentale del Partito comunista: un partito che però si rivela molto meno monolitico di quanto non ci si possa aspettare e che anzi risulta nei fatti propenso all’integrazione con altre realtà e tradizioni politiche locali. In particolare, il comunismo emiliano-romagnolo fa propria l’eredità del socialismo gradualista e autonomista di inizio secolo e si confronta da vicino con istanze del cattolicesimo sociale. Si pensi ai grandi dibattiti sui temi della partecipazione civica e la realizzazione all’inizio degli anni Sessanta dei quartieri, secondo modalità e impostazioni che se non erano proprio quelle del Libro bianco, si collocavano nel solco aperto nel 1956 dal programma elettorale dossettiano. Si superava lo scontro frontale tra cattolici e comunisti e si avviava una nuova stagione politica. Intorno alle strutture assembleari di zona si articolarono suggestive riflessioni, ricche di sensibilità verso le istanze della democrazia diretta e ancorate all’idea del comune come cellula base della vita democratica del paese. Una delle voci più autorevoli fu quella del sindaco di Bologna, Renato Zangheri, che intervenne più volte sul tema del decentramento comunale. Secondo le sue parole, i Consigli di quartiere potevano rappresentare “uno strumento dell’intervento popolare nelle scelte politico-amministrative del comune e nella loro attuazione” e avrebbero permesso di trasformare davvero “la sostanza del potere”, dissolvendo l’“aura” della rappresentanza, “per fare di essa una realtà criticabile e controllabile”.

Per altri versi, lo stesso De Maria osserva come i dirigenti comunisti, anche quelli emiliano-romagnoli, prendessero solitamente le distanze dalla formula “modello emiliano” (disconoscendo l’esistenza stessa di un “modello”) e preferissero invece usare la definizione di “Regione Rossa” o “Emilia Rossa”, limitandosi dunque a richiamare la forte affermazione politica del mondo social-comunista in regione. Evidentemente, l’espressione “modello emiliano” aggiungeva molto altro, richiamando una prassi di sviluppo e di integrazione sociale che riconosceva specifici caratteri territoriali e autonomi. E questo poteva creare problemi a un partito, quello comunista, che si voleva fortemente accentrato e ideologicamente compatto.

Si è parlato in precedenza dell’apporto del cattolicesimo sociale, e proprio su questo tema Mirco Carrattieri (“Il pungolo”. Il cattolicesimo sociale in Emilia-Romagna dal 1891 al 1991) ha fornito importanti osservazioni, analizzando il ruolo che i cattolici, nel periodo compreso tra la Rerum Novarum e la Centesimus Annus, hanno avuto nelle vicende italiane e più in particolare emiliano-romagnole. L’analisi tracciata da Carrattieri si basa su un’idea larga di cattolicesimo sociale, che comprende il movimento e le opere sociali cattoliche. La periodizzazione che viene utilizzata è in qualche modo parallela a quella adottata da De Maria per il campo socialista. Carrattieri parte dallo sviluppo dell’associazionismo cattolico postunitario, facendo particolare riferimento a due generazioni di attivisti e teorici che caratterizzano, a Bologna e in Emilia-Romagna, i primi passi del movimento cattolico: Giuseppe Toniolo, principale teorico del cattolicesimo sociale, esponente della prima generazione, e Romolo Murri che rappresenta invece la seconda generazione. Proprio a Bologna, Toniolo pose la questione relativa alla necessità di una struttura, di una istituzione nazionale, che potesse coordinare e organizzare il movimento sociale cattolico; venne fondata, per questo, l’Unione cattolica di studi sociali, dalla cui esperienza nacque la “Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie”.

Successivamente, durante il regime fascista, il movimento cattolico si sarebbe spaccato e una importante componente del cattolicesimo sociale avrebbe preso parte all’antifascismo e alla Resistenza. Da questa esperienza di opposizione discese anche il forte attivismo del secondo dopoguerra nell’ambito sociale e lavorativo (in particolare, dopo la scissione sindacale). Proseguendo, Carrattieri ricorda il movimento conciliare e quello dei “cristiani per il socialismo” di inizio anni Settanta. Infine, per quanto riguarda gli ultimi trent’anni, l’autore osserva come non esistano analisi adeguate sul cattolicesimo sociale, che tuttavia sembra entrare in crisi quasi contemporaneamente al “modello emiliano”. Ecco quindi il cuore dell’intervento di Carrattieri, e cioè lo scarso interesse che si riscontra nella letteratura in materia per un approfondimento sui rapporti tra “modello emiliano” e movimento cattolico. Questa analisi può essere condotta su due grandi capitoli cronologici, che corrispondono anche a diversi momenti della storia del socialismo. Il primo capitolo, quello tra Otto e Novecento, si può dividere in due fasi: la prima, di sostanziale indifferenza e non contatto tra i due mondi (socialista e cattolico); la seconda, invece, si caratterizza per i primi contradditori in un’ottica di opposizione, ma anche di reciproco riconoscimento: l’esempio più celebre è costituito dal confronto tra Murri e Prampolini. Anche il secondo capitolo, che comprende un arco di tempo che va dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta, vede due fasi: la prima caratterizzata dalle figure di Dozza e Dossetti, con il Libro bianco del 1956; la seconda dal dialogo, durante la prima giunta regionale, tra Gorrieri e Fanti. Carrattieri si chiede dunque dove, e come, la cultura cattolica abbia assolto alla funzione di “pungolo”, in tema di istanze sociali, politiche e amministrative, nei confronti delle amministrazioni social-comuniste e individua nell’istituzione dei consigli di quartiere e nella sensibilità per l’investimento sociale (la pratica del deficit spending) due possibili risposte. Concludendo, l’autore rileva come l’incontro tra le due culture a livello nazionale sia stato in qualche modo anticipato a livello regionale. Questo dimostra come sia sempre più importante insistere su studi che riescano ad analizzare il comportamento e la natura dei partiti a livello regionale e provinciale (e non solo i loro atteggiamenti a livello nazionale e internazionale).

La relazione successiva, di Alberto Ferraboschi (Comunità locali e protagonismo istituzionale. Pratiche della trasformazione sociale e territoriale nell’Emilia otto-novecentesca, 1889-1989), si è concentrata sull’amministrazione territoriale e sull’evoluzione del problema politico locale riguardo alle forme del welfare e della cittadinanza sociale, con particolare attenzione al caso di Reggio Emilia. Ciò che si può subito osservare è una forte coesione tra la città e la campagna. Anzi, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, permane un alto tasso di ruralità che rende la città quasi un’appendice della campagna. A Reggio Emilia la situazione è paradigmatica, a testimonianza della originale e persistente impronta rurale del socialismo italiano. Nonostante il cuore cittadino sia ancora il centro dei notabili, il contado pesa notevolmente sull’amministrazione cittadina: si pensi alla creazione delle prime cooperative nel circondario o all’affermazione sulla scena politica locale dei socialisti che avevano il loro insediamento elettorale al di fuori del nucleo urbano.

L’autore prosegue dividendo l’arco cronologico considerato dal convegno in quattro fasi. La prima, che è caratterizzata dalle amministrazioni socialiste, comprende un arco di tempo che va dal 1889 al 1921, quando si assiste al tentativo di integrare il centro cittadino con la periferia rurale attraverso la municipalizzazione del servizio farmaceutico (portando, dunque, le farmacie anche in periferia). La seconda fase corrisponde con il ventennio fascista, nell’ambito del quale Ferraboschi si sofferma particolarmente sul 1936, anno che vede (con l’applicazione del nuovo piano regolatore) il tentativo fascista di rompere col passato, cioè con la volontà di integrazione tra città e campagna. Il regime, infatti, persegue una politica di progressiva smunicipalizzazione, in modo da spezzare quella tradizione che aveva portato ad alti livelli di welfare locale nell’area reggiana. Successivamente, nella prima fase del periodo repubblicano (gli anni compresi tra il 1946 e il 1970), si assiste al recupero del rapporto centro-periferia interrotto dal ventennio dittatoriale. Questa stagione testimonia un forte sviluppo dei servizi per l’educazione e, più in generale, l’articolarsi di un dibattito sulla programmazione e sullo sviluppo socio-economico a livello territoriale. Si incrementa un processo basato su pratiche di cooperazione istituzionale e concertazione sociale, che ottiene risultati importanti per quanto riguarda, ad esempio, la scuola dell’infanzia. Il 1970 segna l’inizio della seconda fase repubblicana, segnata dalla istituzione delle regioni a statuto ordinario. Per questi anni, Ferraboschi si concentra sulla trasformazione della gestione dell’assistenza psichiatrica che, con la nascita delle regioni, può dotarsi di numerosi servizi gestiti e programmati a livello comunale e provinciale. Il percorso di Ferraboschi si interrompe in corrispondenza di una nuova cesura, quella del 1989-90, con la caduta del Muro di Berlino (e le sue complesse conseguenze a livello nazionale e locale) e con la legge 142/90 che riforma il vecchio ordinamento delle autonomie locali.

La relazione di Matteo Troilo (Il welfare state in Emilia-Romagna. Un modello di sviluppo per i servizi locali tra Ottocento e Novecento) ha riflettuto sul rapporto tra “modello emiliano” e stato sociale. Il termine welfare state nasce in Gran Bretagna nel secondo dopoguerra e si può definire come un sistema in cui lo Stato e gli enti locali proteggono la salute e il benessere dei cittadini, creando delle istituzioni che siano capaci, nel caso specifico britannico, di aiutare la popolazione a risollevarsi dopo le distruzioni e i danni del secondo conflitto mondiale. In Italia, negli stessi anni, vengono seguite due strade: una che vede la centralizzazione di alcuni servizi, come la previdenza, l’altra che invece lascia ampi poteri agli enti locali, in particolare nel campo dell’assistenza agli anziani e all’infanzia. Come risultato, dove interviene direttamente lo Stato, i divari presenti antecedentemente alla Seconda guerra mondiale vengono appianati, mentre nei servizi gestiti a livello locale aumentano le disparità territoriali.

Tradizionalmente la Regione Emilia-Romagna è quella che spende di più per il welfare state, rispetto alle altre regioni a statuto ordinario. Nel caso emiliano, Troilo individua alcuni fattori che possono aver avuto un peso nell’evoluzione dello stato sociale, tra cui l’industrializzazione e la crescita più generale dell’economia. Lo sviluppo industriale ha creato la domanda per i servizi sociali (non è un caso che, storicamente, le prime forme di welfare state siano state le assicurazioni per gli infortuni degli operai) e ha fornito la possibilità agli enti pubblici di ottenere entrate monetarie in grado di finanziare i servizi alla persona. Una capacità di finanziamento ulteriormente aumentata dallo sviluppo degli altri settori produttivi.

Ma insieme alla sfera economica, bisogna considerare anche l’elemento politico-sociale, cioè da una parte una conflittualità sindacale che “dal basso” ha guidato le amministrazioni verso forme avanzate di welfare e, dall’altra, l’impostazione ideologica degli amministratori stessi, che hanno contribuito alla costruzione di un sistema di assistenza sociale preso come modello non solo in Italia ma anche all’estero. Troilo si è soffermato, infine, sull’urbanizzazione e la struttura demografica, notando come nel caso dell’Emilia-Romagna si abbia la presenza di numerosi e importanti centri cittadini (anche non capoluoghi di provincia), ma non di metropoli. Di conseguenza non c’è nessun centro urbano che condizioni fortemente (o soffochi) gli altri, ma un effettivo pluralismo che ha consentito di mantenere a lungo legami solidi con la realtà rurale dei circondari. Avviandosi alla conclusione, Troilo ha voluto procedere a ritroso, sostenendo che il caso emiliano-romagnolo conobbe un welfare state precedente a quello novecentesco: esso affonda le proprie radici nell’età moderna e negli enti assistenziali (in particolare i Monti di pietà) che cercavano di risolvere il problema del credito per le classi meno abbienti. Più che di “modello”, quindi, secondo Troilo, sarebbe più giusto parlare di “struttura emiliana”, che nasce ben prima delle esperienze amministrative locali della sinistra, pur avendo poi da esse ricevuto un contributo decisivo.

Nel suo intervento Tito Menzani (Libera impresa in libero Stato. Lo sviluppo del movimento cooperativo in Emilia-Romagna, 1889-1992) si è chiesto se il movimento cooperativo, che ha in Emilia-Romagna uno dei suoi fulcri nazionali e internazionali, sia un elemento pienamente riconducibile al “modello emiliano”, oppure no. Menzani si basa su una periodizzazione che considera sei grandi fasi nella storia della cooperazione. La prima, che corrisponde al secondo Ottocento, viene definita fase pionieristica, quasi idealista, dove non mancano però, verso la fine del secolo, delle applicazioni più concrete. La seconda fase, che abbraccia gli anni che vanno dall’inizio del Novecento fino allo scoppio della Grande guerra, è quella degli anni d’oro della cooperazione, durante la quale lo Stato liberale prova a includere le culture politiche socialista e cattolica (le più impegnate nel movimento cooperativo), fino allora tenute ai margini della vita politica nazionale. Cresce, in quegli anni, l’intervento economico da parte dello Stato e si articola una azione legislativa che dà spazio alle esperienze impegnate a coniugare attività imprenditoriale e promozione sociale.

L’avvento del fascismo apre un periodo controverso per la cooperazione. Mentre in un primo momento lo squadrismo attacca frontalmente le cooperative, in quanto espressione di un modello economico e sociale democratico, successivamente il regime di Mussolini è portato a misurarsi con una realtà ancora profondamente radicata nel territorio, in particolare in Emilia-Romagna. Tenta, dunque, di appropriarsi delle cooperative, inserendo ai loro vertici persone fidate (e affini ideologicamente al fascismo) in modo da snaturare l’anima del movimento. Parallelamente il regime mira a sproletarizzare l’apparato cooperativo, puntando su un capitale umano dotato di spiccate capacità tecniche. Si assiste, pertanto, a un consolidamento dell’intera struttura: durante il ventennio, le cooperative crescono, sia dal punto di vista del numero dei soci che degli addetti, e vengono istituiti i primi consorzi nazionali per il consumo.

La quarta fase, molto breve, si sviluppa tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’inizio degli anni Cinquanta, agli albori del boom economico. Questo è un periodo di particolare fioritura del movimento cooperativo, la cui originaria struttura democratica viene vista come ideologicamente affine al nuovo volto della società repubblicana. La quinta fase, che corrisponde agli anni del miracolo economico, mostra paradossalmente una sofferenza del movimento cooperativo. Se, infatti, da un lato si assiste a una grande crescita dell’economia nazionale, dall’altra la cooperazione patisce una stagnazione dovuta, secondo Menzani, all’interpretazione eccessivamente ideologica delle proprie funzioni (in particolare, in Emilia-Romagna, pesa il legame con il Pci, che spesso porta a scelte sbagliate da punto di vista imprenditoriale). L’ultima fase, che parte dagli anni Settanta e arriva fino ad oggi, vede una nuova fioritura, un nuovo boom del movimento cooperativo. Questo si realizza principalmente su tre direttrici: le fusioni tra aziende cooperative; il rafforzamento dei networks cooperativi; infine, l’ingresso in nuovi settori (si pensi ai servizi alla persona e alle aziende).

A questo punto è possibile evidenziare quella che Menzani definisce una sostanziale asimmetria tra “modello emiliano” e movimento cooperativo: gli anni d’oro del “modello emiliano” sono quelli del miracolo economico, che vedono invece la stagnazione del movimento cooperativo. Una seconda sottolineatura riguarda i segmenti merceologici sui quali il movimento cooperativo ha storicamente agito: agricoltura, distribuzione commerciale, trasporto, produzione, credito e nuovi servizi (dall’assistenza agli anziani ai servizi educativi fino alla vigilanza), mentre il settore storicamente debole, tranne poche eccezioni, è quello industriale: a livello manifatturiero, cioè, il movimento cooperativo è debole o assente, dunque in qualche modo scollegato con il “modello emiliano”, che vede invece nei distretti industriali una delle sue peculiarità.

D’altra parte, però, bisogna evidenziare, nella storia complessiva del movimento cooperativo, una comunità di scopi con le amministrazioni locali e le altre istituzioni democratiche (ad esempio i sindacati). La cooperazione, cioè, contiene al proprio interno quella sinergia tra azione imprenditoriale e azione sociale che costituisce un elemento essenziale del “modello emiliano”. Basti pensare che le tre culture politiche di riferimento del movimento cooperativo (socialista, cattolica e repubblicana), riunite in altrettante centrali cooperative: Legacoop (tendenza socialista), Confcooperative (cattolica) e Agci (repubblicana), sono tutte fortemente presenti in Emilia-Romagna, con il primato naturalmente di Legacoop. Infine, l’ultima riflessione di Menzani riguarda le differenze che esistono tra l’azienda cooperativa e l’impresa di capitale: la cooperativa è un’impresa democratica, dove vige il principio di “una testa un voto”; inoltre la redistribuzione di reddito non si basa sulla quantità di capitale depositata nell’azienda, ma dal lavoro effettivamente svolto per la cooperativa. Può accadere, dunque, che un socio percepisca un ristorno maggiore se ha contribuito con il proprio lavoro in maniera più incisiva rispetto a un altro che pure ha investito di più. Qui si riconoscono i medesimi output del “modello”. Le conclusioni di Menzani, quindi, si possono sintetizzare con la considerazione che il movimento cooperativo ha effettivamente avuto un ruolo importante e di sostegno del “modello”, ma possiede anche delle peculiarità che prescindono dal modello stesso.

Dopo questo primo blocco di interventi, Maurizio Ridolfi ha tracciato una prima serie di considerazioni che iniziano con un plauso all’iniziativa, coordinata da Carlo De Maria e animata da una nuova generazione di storici (di 35-40 anni) che cercano di analizzare il “modello emiliano” imboccando nuove strade e ripensando le impostazioni metodologiche (e anche ideologiche) adottate in passato. In particolare, Ridolfi concorda su una impostazione di ricerca attenta non solo alla vita pubblica ma anche alla sfera privata, alle passioni e alle emozioni, alle vicende biografiche di amministratori e personalità che hanno caratterizzato i movimenti popolari degli ultimi centocinquanta anni di storia italiana. Oltre a ribadire la necessità di distinguere tra mito e pratiche reali, riconoscendo che probabilmente il “modello” soffre di un eccessivo discorso pubblico e di una insistita retorica, Ridolfi sottolinea anche come il nesso, apparentemente chiaro e acquisito, che legherebbe il concetto di “modello emiliano” a quello di “Emilia Rossa”, non sia in realtà corretto. Per riuscire a capire la specificità del “modello” in Emilia e anche in Romagna non basta analizzarne la componente politica egemonica (rappresentata solitamente dalla cultura social-comunista) ma bisogna anche studiare le caratteristiche delle culture di opposizione che hanno comunque, anche se in casi isolati, amministrato piccole aree regionali, come la cultura cattolica, quella liberal-progressista o repubblicana. Il “modello emiliano”, quindi, per Ridolfi, è un mix tra il municipalismo popolare (nelle sue plurali declinazioni) e un tessuto associativo assai consistente (al cui interno è presente la cooperazione, che ne è però solo un aspetto). A sostenere il “modello” è stato, in definitiva, uno spiccato senso civico e del “bene comune”, derivante da un tasso di associazionismo molto più alto che in altre parti d’Italia.

Il secondo blocco di interventi, concentrato esclusivamente sul periodo repubblicano, si apre con il contributo di Marzia Maccaferri (Il “modello emiliano” alla prova dei fatti? Discorso pubblico, cultura urbanistica, programmazione territoriale nell’Emilia-Romagna del secondo Novecento), che tematizza l’esperienza di Osvaldo Piacentini e Giuseppe Campos Venuti. La relatrice si interroga sulle modalità secondo le quali il discorso pubblico sull’urbanistica e il nesso fra territorio, spazio e cittadinanza siano stati elementi del “modello emiliano”. La prima importante considerazione da fare è che nell’urbanistica, a differenza di altri ambiti, le differenze ideologiche (in particolare tra cultura social-comunista e cattolica) non ci sono; in questo senso l’urbanistica è un luogo di sintesi esemplare. Infatti, grazie alle figure di Osvaldo Piacentini (cattolico e amico di Dossetti) e Giuseppe Campos Venuti (comunista), la gestione del territorio emiliano-romagnolo conobbe il superamento delle divisioni ideologiche del momento, grazie anche al fatto che sia Piacentini sia Campos Venuti (a lungo compagni di lavoro) sono urbanisti riformisti. Maccaferri riconosce, schematicamente, quattro fasi principali dell’urbanistica riformista, che coprono un arco di tempo che va dai primi anni Cinquanta fino agli anni Novanta. La prima fase può essere definita come fase epica o della “fantasia al potere”: non essendoci una legge urbanistica né una norma sui Prg a livello nazionale, le amministrazioni e agli architetti si mossero con piena libertà. Il Libro bianco di Dossetti (1956) rappresenta, soprattutto per quanto riguarda il tema del decentramento amministrativo, il punto più alto e, nello stesso tempo, il punto di chiusura di questa stagione. La seconda fase vede il discorso urbanistico concentrarsi sul nesso tra democrazia e territorio, e sarà questo un doppio binario sul quale si lavorerà fino al 1978. L’elemento più interessante è da rilevarsi nella scoperta del valore del verde pubblico, che può forse ricondursi al pensiero religioso di Piacentini, ma anche all’attenzione di Campos Venuti (e di Piacentini stesso) per la città-giardino inglese e per l’urbanistica britannica in generale. Le ultime due fasi, tra loro concatenate, sono caratterizzate dal tentativo e dal fallimento della pianificazione regionale: tra il 1970 e il 1978 sfuma progressivamente la pregnanza dell’urbanistica nel discorso pubblico.

Per Maccaferri, in fase di consuntivo, cosa collega l’urbanistica riformista con il “modello emiliano”? Per rispondere compiutamente, oltre agli elementi già ricordati, bisogna ancora sottolineare l’impegno a realizzare infrastrutture a sostegno dei servizi sociali. Ciò che sicuramente non ha funzionato, invece, è stata la questione della motorizzazione: con la vittoria del trasporto su gomma. Anche in Emilia-Romagna, cioè, l’automobile diviene il simbolo della mobilità della società dei consumi, intasando e soffocando i centri urbani.

L’intervento di Sante Cruciani (Il “modello emiliano” da Bologna al Parlamento europeo, 1946-1989) ha portato il discorso sul campo prettamente politico, in particolare sul nesso tra Partito comunista e “modello emiliano”. L’immagine dell’“Emilia rossa” è strettamente legata a quella del sindaco Dozza: simbolo del buon governo, della partecipazione democratica, del dialogo col mondo cattolico e del confronto anche con gli interessi imprenditoriali per una migliore programmazione economica. Dozza rappresenta, quindi, il primo sindaco comunista in grado di testimoniare la via italiana al socialismo. Si tratta per il Pci di una importante risorsa comunicativa, che conserverà il proprio valore anche negli anni successivi, quelli del sindaco Fanti (1964-70), e poi ancora per buona parte degli anni Settanta. Con la nascita delle Regioni, a Fanti, diventato presidente dell’Emilia-Romagna, subentra Renato Zangheri. Insieme, i due esponenti del Pci diventano gli ambasciatori in Europa della via italiana al socialismo. La particolarità emiliano-romagnola, infatti, attira la curiosità di molti analisti europei e americani. Nel 1972 la Regione invita i giornalisti italiani ed esteri a una visita, da cui sarebbe stato tratto il filmato Un viaggio in Emilia-Romagna (che ora si può trovare sul sito http://www.cinemadipropaganda.it/). Si trattò di una importante operazione di propaganda politica, utile a portare alla ribalta europea il caso emiliano, cioè un territorio inserito nell’economia di mercato ma gradualmente avviato verso la socializzazione: il vero laboratorio del socialismo italiano ed europeo. Sia ricordato, per inciso, che sono quelli gli anni in cui convergono le posizioni tra i partiti comunisti italiano, francese e spagnolo, con l’obiettivo di creare l’intesa eurocomunista. L’ultima fase considerata da Cruciani, quella che vede come sindaco di Bologna Renzo Imbeni, copre il decennio 1983-93 e vede lo scioglimento del Pci. Un periodo che si caratterizza per la spinta molto forte e decisa di Imbeni alla politica europeista, prima come rappresentate comunista, poi come membro del Pds. Da qui, la convinzione espressa da Cruciani che l’eredità politica del “modello emiliano” dovrebbe condurre, oggi, a una discussione più attenta sulla sinistra italiana ed europea.

L’ultima relazione è stata tenuta Thomas Casadei (Il “modello emiliano” alla sfida del XXI secolo. Trasformazioni sociali, istituzioni e forme di civismo), che ha tracciato una impegnativa riflessione sulla contemporaneità. Il ventunesimo secolo vede il superamento del “grande soggetto egemone”, cioè il Partito comunista italiano, e il declino della struttura classica del “modello”. Casadei osserva, citando un testo di Marzio Barbagli e Asher Colombo (Partecipazione civica, società e cultura in Emilia-Romagna, pubblicato nel 2004 dalla Regione Emilia-Romagna), come già all’inizio degli anni Duemila, pur permanendo alcuni aspetti positivi del “modello”, quali la coesione sociale, l’incremento dell’occupazione femminile e la qualità dei servizi, iniziano a configurarsi delle incrinature e delle criticità nel suo impianto. Il relatore insiste soprattutto sul consumo di suolo, che porta l’Emilia-Romagna ad essere una delle regioni in Italia e in Europa a consumare più suolo (dimenticandosi, evidentemente, della lezione di Campos Venuti e di Piacentini). Vi è poi la percezione di insicurezza, l’incremento della microcriminalità nelle città capoluogo di provincia, e non solo. Senza dimenticare, naturalmente, questioni strutturali come la crisi dei distretti industriali: il comparto motoristico, quello della ceramica, ma anche il settore turistico, che ha bisogno di ripensarsi continuamente. Per ultimo, ma non in ordine di importanza, viene il problema delle infiltrazioni delle cosche malavitose, da quelle legate a “cosa nostra”, alla camorra o alla ’ndrangheta. Ce n’è a sufficienza per chiedersi se il modello stesso sia terminato. La soluzione che Casadei propone è quella di sganciarsi dalla modellistica, mantenendo però gli assunti fondamentali, cioè l’universalismo e la coesione sociale, cogliendo contemporaneamente anche le nuove istanze di una società civile emiliano-romagnola profondamente cambiata negli ultimi venti anni1. Nuove istanze che Casadei individua nel privato sociale, nella cultura ambientalista e nella partecipazione attiva del cittadino elettore.

Le conclusioni, affidate a Patrizia Dogliani, hanno visto una riflessione complessiva sulle questioni sollevate dai vari relatori. Innanzitutto, da quanto attestano i lavori del seminario, Dogliani osserva come sembri entrare in crisi un concetto monolitico di “modello emiliano”. Esso si divide in realtà in diversi modelli, ognuno dei quali porta la propria specificità territoriale (storica, sociologica, economica, antropologia e così via). Anche l’elemento cronologico dovrebbe essere rivisto, mettendo in discussione quel blocco, 1956-1977, che sembrava ormai consolidato. In particolare, Dogliani sostiene che forse sarebbe meglio ridiscutere il termine ad quem, il 1977, rimarcando piuttosto l’importanza della nascita delle Regioni (1970), come motivo di cambiamento del Partito comunista e della sua condotta politica. Lo stesso rapporto città-campagna andrebbe riconsiderato, alla luce di un “modello” plurale che può essere, di volta in volta, urbano, contadino o una via di mezzo. Infine, pensando al futuro, e trovandosi davanti alle nuove sfide, Dogliani auspica un rinnovamento dei linguaggi politici, in modo da accogliere sempre di più le spinte sui diritti civili, sull’ambiente e su un diverso e nuovo welfare.

Secondo chi scrive, sarebbe fondamentale anche analizzare le forme di accoglienza per i popoli migranti, forse la vera e propria sfida che il XXI secolo porta alla struttura stessa del “modello”2.

  1. Lo attestano il successo di partiti territoriali come la Lega Nord o di movimenti di opinione come il Movimento 5 Stelle. Sulla scia della relazione di Casadei, vale la pena osservare che, nonostante le dichiarazioni di Massimo D’Alema, che nel 1996 parlò di “una costola della sinistra”, l’affermazione della Lega Nord è il sintomo di un fallimento di strategia del “modello emiliano” e della sinistra emiliano-romagnola, che non ha saputo capire come il movimento di Bossi, pur agendo su un livello territoriale, quindi molto simile a quello del “modello”, abbia un approccio essenzialmente esclusivo; mentre storicamente, e per sua natura, la fortuna del “modello” è dovuta all’approccio inclusivo. Sulla natura di esclusione (e quindi sostanzialmente xenofoba) della Lega e gli errori di valutazione della sinistra, si veda il saggio scritto da Martina Avanza, La Lega Nord, una xenofobia “bonaria”?, in A. Mammone, G.A. Veltri e N. Tranfaglia, Un paese normale?, Milano, Dalai, 2011, pp. 255-277. []
  2. Si veda, in particolare, un recente studio a cura di Barbara Sorgoni, intitolato Etnografia dell’accoglienza. Rifugiati e richiedenti asilo a Ravenna, Ravenna, Cisu, 2011. []