Il voto alle donne e la costruzione della Repubblica

di Giuliana Bertagnoni

 Questo testo è stato presentato all’incontro pubblico Il voto alle donne e la costruzione della Repubblica, svoltosi presso il Comune di Cesena il 12 marzo 2016, che aveva fra i relatori la Vicepresidente del Senato della Repubblica Valeria Fedeli e la Senatrice Mara Valdinosi. 

Il 2016, anno del settantesimo anniversario delle elezioni in cui le donne votarono per la prima volta in Italia, rappresenta un’occasione di dialogo e confronto storiografico per celebrare questo evento, che è di estrema attualità considerando come il rapporto fra donne e politica si sia evoluto e sia ancora oggi problematico.

Vent’anni fa la storica Anna Rossi Doria (1998, 40) affermava:

Celebrare il cinquantesimo del voto alle donne non può e non deve significare commemorare trionfalmente un percorso evolutivo lineare arrivato al suo compimento, o una lotta conclusa del cui esito vittorioso ci si rallegra. Al contrario, le difficoltà attuali del rapporto tra donne e politica e in particolare la debolezza e la scarsa autorevolezza femminili nella sfera della politica istituzionale ci inducono a riflettere sul momento iniziale, quello della conquista dei diritti politici, soprattutto dal punto di vista delle ambiguità e delle contraddizioni che fino da allora si manifestarono.

Ricordava poi come il decreto che sancì la conquista del voto femminile, siglato il 1° febbraio 1945 in un’Italia ancora divisa dalla guerra, fosse stato accolto dai contemporanei, e anche dalle donne, con tiepido entusiasmo. Nelle zone dell’Italia liberata i giornali ne diedero una notizia distratta, quasi fosse la diretta conseguenza del ritorno alla democrazia. Si trattava in realtà di una indifferenza apparente, chiamata ad esorcizzare le paure che questo voto suscitava, in primo luogo nei rinascenti partiti, fortemente convinti della necessità del voto femminile, ma timorosi che le donne non fossero autonome da influenze maschili di ogni origine e per altri stereotipi culturali di lunga durata. Queste resistenza sono dimostrati dal fatto che il decreto del 1° febbraio non includeva l’eleggibilità delle donne, per cui fu necessaria una legge del 10 marzo 1946 per istituire l’elettorato femminile passivo.

Il voto era tuttavia il punto di arrivo di un percorso dell’emancipazionismo femminile italiano iniziato nel cosiddetto “lungo Ottocento”, incardinato su un elemento fondamentale di cui troppo spesso si omette la rilevanza e che sarà utile richiamare per proseguire nel nostro ragionamento: dopo l’Unità d’Italia, il Codice di procedura civile Pisanelli, che modellò la struttura sociale data dalla classe politica liberale allo Stato postunitario, sancì la subordinazione della moglie al marito, tramite l’istituto dell’autorizzazione maritale, per cui le donne non potevano disporre dei propri beni. Questo, che rendeva impossibile considerare le donne dei soggetti politici autonomi e le collegava inscindibilmente al loro ruolo di mogli e madri nella famiglia, con influenze culturali di lungo periodo, è un elemento cardine della storia del movimento delle donne fra Ottocento e Novecento (e non solo italiano).

Nella relazione senatoriale al codice Pisanelli, il diritto di voto alle donne venne respinto con la motivazione che, se la donna sposata avesse votato, il capofamiglia avrebbe votato due volte perché le donne dovevano obbedienza al marito, oppure, nel caso avessero votato diversamente, si sarebbe insinuato il conflitto e rischiato di spezzare l’unità della famiglia. Non esisteva dunque il concetto di autonomia femminile, ma la legge vincolava strettamente le donne agli uomini, anche in caso di nubilato, che le rendeva potenzialmente maritabili e comunque dipendenti dal padre (Saraceno 1998).

A causa dell’estensione delle leggi del Regno di Sardegna a tutto il territorio italiano, venne tolto il diritto di voto amministrativo anche alle donne lombarde e venete che lo avevano ottenuto sulla base del censo negli ultimi decenni dell’amministrazione austriaca, le quali si opposero con una petizione che rimase inascoltata, mentre il Paese si attestava al livello più basso nel riconoscimento dei diritti civili alle sue cittadine. Così la legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865 Per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia recitava: “Non sono né elettori, né eleggibili gli analfabeti […]; le donne, gl’interdetti, o provvisti di consulente giudiziario; coloro che sono in istato di fallimento dichiarato […]; quelli che furono condannati a pene criminali […]; i condannati a pene correzionali od a particolari interdizioni, mentre le scontano; finalmente i condannati per furto, frode o attentato ai costumi” (citato da Musiani 2016, 25). Come si vede, le donne erano sullo stesso piano delle categorie maschili poste ai margini della società civile.

Elena Musiani, in un saggio introduttivo al catalogo di una mostra promossa dall’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna per celebrare questo settantesimo, ricorda le figure di primo piano dell’emancipazionsimo femminile italiano di questi anni, a partire da Ada Maria Mozzoni, che nel 1877 promosse la prima petizione indirizzata al Parlamento italiano, affinché le donne fossero considerate come “cittadine, contribuenti e capaci, epperò non passibili, davanti al diritto di voto, che di quelle limitazioni che sono o saranno sancite per gli altri elettori”, chiedendo “il voto politico senza del quale i nostri interessi non sono tutelati ed i nostri bisogni rimangono ignoti” (citato da Musiani 2016, 26).

Attiva nella difesa dei diritti alle donne fu anche Gualberta Alaide Beccari, fervente radicale e mazziniana, che fondò nel 1868 il quindicinale “La Donna”, che aderì alla Lega delle Democrazia, il cui programma includeva il suffragio universale e il voto femminile.

Nel 1880 cominciò il dibattito parlamentare per il suffragio universale, ma il voto femminile rimase ai margini, perché si dubitava dell’indipendenza delle donne, influenzate da padri, mariti, fratelli, parroci, e via dicendo. L’on Zanardelli concludeva il dibattito sostenendo che la donna italiana aveva “la missione di stare a casa e lavorare la lana”.

In questo clima la Mozzoni fondò, nel 1881, la Lega promotrice degli interessi femminili, che riuniva maestre, giornaliste, scrittrici e le prime dirigenti operaie. “La donna vuol votare perché conscia del proprio diritto lo rivendica […] perché il passato ed il presente le hanno insegnato con assidua lezione che l’assente non è, e non può essere che dimenticato e sacrificato” (citato da Musiani 2016, 27). Si badi che la presenza delle donne nella società era diventata negli anni capillare, per cui l’affermazione della Mozzoni lamentava l’assenza di visibilità politica delle donne a fronte di una presenza sempre più significativa, che marcava uno scarto fra l’esserci e il valere.

Il dibattito parlamentare continuò. Nel 1884, in merito a un progetto Depretis, si proponeva il voto amministrativo delle donne sulla base del censo e della capacità giuridica, ma una relazione del 1887 a un progetto di Crispi di riforma elettorale della legge provinciale e comunale chiariva i termini della questione, per cui non si negava il diritto delle donne al voto, ma l’opportunità del suo esercizio poiché i “costumi della famiglia e l’educazione della donna presso di noi non ci autorizzano a concedere il diritto di suffragio, onde una tale riforma non troverebbe favorevole gran parte dell’opinione pubblica” (citato da Musiani 2016, 27). Fu una delle ultime discussioni sul voto amministrativo perché l’avvento dei partiti di massa, gli scioperi e la repressione spostarono su un altro fronte il dibattito.

Continuò invece il movimento suffragista. Nel 1899 nasceva a Milano l’Unione femminile (poi nazionale), che difendeva maternità, lavoro e diritto di voto, mentre il nuovo secolo si apriva con una petizione presentata da Anna Maria Mozzoni – con un grande sostegno anche di donne impegnate in altre battaglie culturali come Maria Montessori – che sosteneva il diritto di voto perché “siamo cittadine, perché paghiamo tasse e imposte, perché siamo produttrici di ricchezza, perché paghiamo l’imposta del sangue nei dolori della maternità, perché infine portiamo il contributo dell’opera e del denaro al funzionamento dello Stato” (citato da Musiani 2016, 28). Nonostante il rifiuto del Parlamento, la petizione riattivò il dibattito sul suffragio femminile, tanto che il voto alle donne fu messo fra gli obiettivi, per esempio, del Movimento democratico cristiano nel 1907.

Tra il 1906 e il 1911 Il movimento suffragista crebbe, con iniziative da Napoli a Torino (dove nacque il primo Comitato pro-voto), anche grazie all’esordio di nuove organizzazioni (come, nel 1903, il Consiglio Nazionale delle donne italiane, una federazione di associazioni femminili sul modello americano). Ciononostante, la legge del 1912 che concedeva il diritto di voto ai cittadini maschi che avessero più di 21 anni alfabeti o che avessero prestato servizio militare, e a tutti quelli che avessero compiuto 30 anni, escludeva ancora una volta le donne.

Nei partiti, le diverse posizioni sulla guerra di Libia assunte dopo il 1911 ebbe ripercussioni negative anche sul movimento femminile, che risentiva delle divisioni fra la componente cattolica, laica e liberale.

Sull’atteggiamento delle sinistre, poiché responsabili della cesura del movimento delle donne del secondo dopoguerra con la tradizione femminista di età liberale, è opportuno soffermarsi. Il partito socialista assunse una posizione ambigua, polemizzando verso il femminismo tacciato di ideologia borghese. Emblematica è la polemica di Filippo Turati, che denunciò “la ancor così pigra coscienza politica e di classe delle masse popolari femminili”, suscitando la reazione della compagna Anna Kuliscioff.

La contraddizione, rilevata in sede storica, sta proprio nel subordinare il diritto di voto delle donne all’ottenimento del diritto di voto della classe operaia, in una sorta di gerarchia dei diritti nella quale alla donna viene sempre chiesto di lottare per gli altri, mai per se stesse, come se la lotta per i propri diritti fosse una manifestazione di egoismo e tradisse la presunta vocazione femminile che per natura deve essere altruista (Saraceno 1998). Inoltre, la centralità della famiglia ha sempre legato strettamente il piano delle relazioni famigliari con la lotta per i diritti politici e il diritto al lavoro delle donne, complicando la scala delle priorità, perché solo per loro la rivendicazione di questi diritti ha dovuto tenere conto delle conseguenze che il loro esercizio avrebbe comportato per altri soggetti (mariti e figli).

Infine, emerge l’ambivalenza presente in ogni movimento emancipazionista femminile quando si confronta con la politica maschile (Bertagnoni 1999): era giusto chiedere il diritto di voto in quanto cittadine a tutti gli effetti, quindi come individue, oppure per la posizione che si aveva nella famiglia, così cruciale per l’educazione e la responsabilità verso le nuove generazioni, educando i futuri cittadini? È questo un altro nodo dell’accesso femminile alla dimensione pubblica: la donna acquista un ruolo per il suo registro del materno, cioè per le proprie capacità di cura ed educazione ritenute naturali, estese all’intera società, oppure per un diritto che è uguale per tutti gli individui, maschi e femmine? I diritti politici devono essere rivendicati in nome del principio di uguaglianza oppure rivendicando una differenza?

Riprendendo il filo della nostra storia, la prima guerra mondiale sospese il dibattito, ma non le sollecitazioni alle donne, che si trovarono improvvisamente investite di responsabilità sociali tipicamente maschili, sostituendo gli uomini partiti per il fronte nelle famiglie, nel lavoro dei campi e nelle fabbriche. Si trattò di un momento molto importante per la storia sociale del nostro Paese. Non che le donne fossero del tutto nuove a questo tipo di esperienza lavorativa (Ropa, Venturoli 2010), ma adesso il loro numero era aumentato considerevolmente, erano richieste in settori professionali del tutto inediti come la metallurgia, la meccanica, i trasporti e con mansioni di tipo amministrativo, erano obbligate a compiere gli stessi lavori dei colleghi maschi, anche quelli più pesanti. Nei campi era necessario spostare i covoni di fieno o i sacchi di grano, accudire il bestiame e utilizzare tutte le macchine agricole. Allo stesso modo all’interno delle fabbriche dovevano essere sollevati pesi non indifferenti e compiuti gesti ripetitivi e meccanici. Le donne presero il posto dei propri mariti (o figli) anche in quelle faccende quotidiane tipicamente maschili come le questioni burocratiche, gli acquisti o le vendite di prodotti agricoli e i problemi di natura legale.

A questa sorta di “emancipazione” lavorativa non corrispose però una maggiore libertà a livello personale: nonostante l’assenza dei soggetti maschili in età arruolabile, spesso nelle case rimanevano gli anziani i quali, come da tradizione, continuavano ad esercitare il loro ruolo autoritario all’interno della famiglia, tanto che con il ritorno alla normalità questo straordinario attivismo femminile fu riassorbito dalla quotidianità familiare senza un riconoscimento politico. Tuttavia un cambiamento importante lo produsse: nel 1919 la legge Sacchi intitolata Disposizioni sulla capacità giuridica della donna aboliva l’autorizzazione maritale e ammetteva le donne “a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impegni pubblici”, con l’esclusione della magistratura, delle carriere militari e di quelle direttive nello Stato. Sempre nel 1919 iniziò l’iter per la legge Martini-Gasparotto che recitava: “Le leggi vigenti sull’elettorato politico e amministrativo e le disposizioni dei relativi regolamenti sono estese a tutti i cittadini di ambo i sessi, aventi i requisiti indicati dalla legge” (citato da Musiani 2016), ma le Camere vennero sciolte per la crisi di Fiume e l’iter giuridico si bloccò. Seguirono anni di crisi e l’avvento del fascismo.

Mussolini inserì il suffragio femminile con le seguenti limitazioni: il voto era concesso alle elettrici che ne avessero fatto richiesta e solo per le elezioni amministrative, dovevano avere più di 25 anni, essere provviste di licenza elementare, esercitare la patria potestà e pagare oltre un limite stabilito di tasse, oppure essere decorate al valore militare o civile, o madri e vedove di guerra. La legge fu pubblicata il 9 dicembre del 1925, ma nel settembre del 1926 le elezioni vennero abolite con l’introduzione del regime podestarile. Più in generale, con il fascismo assunse enorme centralità la valorizzazione della donna come madre e fulcro della famiglia, ritenuto il ruolo materno delle donne non più come un fatto privato, ma come un dovere di riproduzione biologia della popolazione, per cui era considerato un obbligo verso lo Stato (Saraceno 1998). Si moltiplicarono così i divieti per le donne sposate di lavorare nel pubblico impiego, o di fare carriera (per esempio alle insegnanti venne proibita la possibilità di diventare presidi), i licenziamenti per cause di matrimonio o figli, mentre si rafforzarono i premi di natalità e altre forme di incoraggiamento alle carriere maschili.

Il fascismo consegna l’immagine di una donna le cui responsabilità e comportamento sono importanti non solo per la famiglia, ma per la società in generale. In questo contesto non stare alle regole del gioco rappresentava un pericolo sovversivo per tutta la società.

Dell’emancipazionismo dell’età liberale il fascismo riuscì a costruire un’immagine antiquata e antimoderna, ridicolizzandolo. Questo, insieme al giudizio della sinistra che lo aveva denigrato come ideologia borghese, con un giudizio poi ripreso dalla Terza internazionale, fecero cadere in oblio il movimento ottocentesco, tanto che le donne politicizzate nel periodo della guerra ‘40-45 e del dopoguerra non ebbero alcun legame con l’emancipazionismo, e spesso non ne conoscevano neppure l’esistenza.

Furono comunque molte le donne che nella Seconda guerra mondiale fecero la scelta resistenziale, sia in armi, sia civile, assumendo nuova collocazione e rilevanza. Infatti, con la cosiddetta “guerra in casa” determinata dall’occupazione tedesca, si ruppe il legame che tradizionalmente collegava gli uomini alla guerra e alla difesa armata della patria e le donne alla pace e alla cura del focolare domestico.

Le donne, dopo l’8 settembre, diedero il primo aiuto agli uomini sbandati, in fuga perché rimasti senza ordini militari, nella fase della dissoluzione dell’esercito, quando fu reso pubblico dell’Armistizio, con la conseguente fuga del re e del governo da Roma. Poi furono protagoniste delle proteste per la carenza di generi alimentari, degli scioperi rivendicativi e politici nelle maggiori fabbriche, delle manifestazioni di piazza contro la condanna a morte dei renitenti alla leva arrestati in seguito alla mancata presentazione al richiamo alle armi operato dalla Repubblica di Salò. Questo genere di azioni erano coordinate dai Gruppi di difesa delle donne (Gdd), nati alla fine del 1943 con compiti operativi negli scioperi contro i nazifascisti, creando una rete di assistenza solidale alle famiglie dei deportati, degli incarcerati e dei caduti, propagandando la Resistenza sia attraverso la pubblicazione di giornali sia contribuendovi attivamente nella vita quotidiana come nelle fabbriche (per il sabotaggio della produzione di guerra), nelle scuole, nelle campagne per boicottare la consegna di viveri all’ammasso.

Le donne furono inoltre il collegamento fra collina, pianura e città, avendo la possibilità di muoversi più agevolmente degli uomini, furono l’anima della rete di case e terreni messi a disposizione del movimento partigiano per le azioni e per nascondere persone e materiali. Tenendo presente che in queste forme di resistenza cosiddetta “civile” si trattava di tenere testa ai massimi esponenti delle autorità civili e militari fasciste e tedesche, legittimati dai loro superiori a reagire con una risposta militare immediata anche senza motivo, si può ben capire come questa presenza abbia avuto una valenza logistica militare di fondamentale importanza per il successo del movimento resistenziale, che ha poi significato per l’Italia essere considerata cobelligerante dagli Alleati, e mantenere una dignità e un’autonomia politica nel dopoguerra. Un’azione pagata con il sangue versato nelle centinaia di stragi civili operate tra l’8 settembre ‘43 e il 25 aprile 1945 in tutta Italia, in cui le donne, comprensibilmente, furono colpite in gran numero.

Il ruolo della donna nella Resistenza è stata sottoposta in sede storica a varie letture, che si ricollegano alla contraddizione fra l’esserci e il valere cui abbiamo accennato prima a proposito delle battaglie della Mozzoni.

Anna Bravo (1991a) ha evidenziato come l’appello che la società lancia alle donne nei momenti di sconvolgimenti profondi, come le guerre, ancora una volta fa leva sul sacrificio di sé per la salvezza collettiva in nome della maternità come valore sociale e riconduce l’azione femminile all’interno del naturale orizzonte di valori istintuali che non può tradursi nel riconoscimento di una pratica politica. Al contrario, questo contesto ridurrebbe la donna a una maternità potente ed arcaica, ancorandola al passato, anziché stimolare una tendenza egualitaria e una spinta emancipativa.

Al contrario, altre storiche (Gagliani, Guerra, Mariani, Tarozzi 2000) hanno ritenuto che la scelta resistenziale abbia rappresentato un desiderio di contrapposizione ai modelli femminili proposti dal fascismo e una ricerca di libertà personale sollecitata dalla società di massa e in parte soddisfatta dalla difesa armata e paritaria della patria, simbolo nella tradizione politica occidentale dell’accesso alla cittadinanza.

Se ci soffermiamo brevemente sulla realtà regionale emiliano-romagnola, capiamo bene come a livello territoriale la Resistenza rappresenti per le donne una forte accelerazione del processo di emancipazione. Non a caso il ruolo delle donne nella Resistenza è stato nella nostra regione rivendicato in maniera più estesa dalle donne, come si evince dalla richiesta di ottenere il riconoscimento ufficiale conferito al movimento partigiano. Nel forlivese, per esempio, questa richiesta fu oltre l’11% del totale, un dato che è meno della metà nelle altre realtà regionali (Bertagnoni 2000). È opinione storica diffusa che la maggior parte delle donne non chiese un attestato di partecipazione alla Resistenza perché considerò il proprio operato come un naturale segno di solidarietà femminile che un’onoreficenza avrebbe svilito. Al contrario, la presa di posizione delle donne emiliano-romagnole denota la consapevolezza di un ruolo, la presa di coscienza della propria rilevanza politica, che fu il motore di partecipazione alla costruzione di un nuovo modello politico e sociale.

Adele Pesce (1990), nel primo rapporto della Commissione per la realizzazione della parità fra uomo e donna della Regione Emilia-Romagna, rilevava lo stretto legame esistente fra la costruzione di uno stato sociale e il particolare modello di emancipazione femminile che era nato nella Resistenza. Questo, fondato non solo sulla partecipazione stabile delle donne al lavoro produttivo retribuito, ma soprattutto su una loro assunzione di responsabilità rispetto al funzionamento del modello sociale complessivo, si basava su un protagonismo femminile in campo educativo, assistenziale e ricreativo messo a punto nella Ricostruzione, che inaugurava e consolidava una pratica di “buon governo” della città attraverso l’individuazione e la risoluzione dei bisogni sociali più urgenti. In questo senso le donne furono i soggetti centrali dello sviluppo e della storia di questa regione, e l’elemento chiave del successo del modello emiliano.

Il doppio registro (sociale e politico: le donne sono sempre più presenti nella società ma non valgono sul piano politico) di accesso delle donne alla cittadinanza trova qui una sintesi, anche perché è coerente con il modello di democrazia che si stava costruendo. Infatti la Repubblica era un ordinamento nuovo per gli italiani (Salvati 1999) e i due principali partiti di massa, la Democrazia cristiana (Dc) e il Partito comunista italiano (Pci), nell’emergenza della guerra e della ricostruzione che avevano sollecitato la partecipazione pubblica e la solidarietà sociale, costruirono la propria identità e la propria base di consenso sul modello della “democrazia partecipata” (incentrato sulle garanzie e protezioni sociali), piuttosto che di “democrazia rappresentativa” (incentrato sull’individuo-cittadino come cardine dei diritti). Le reti sociali, dell’associazionismo e del cooperativismo, divennero i protagonisti del consolidamento della democrazia regionale e del sistema di welfare. Questo modello di democrazia partecipata deve molto al ruolo delle donne, possiamo forse dire che ha una forte impronta femminile. Rimase però lento il processo di costruzione della rappresentanza politica delle donne, con un problema sempre più evidente fra l’esserci (cioè essere presente in tutti i settori della società, a partire dal lavoro), e il valere (avere una piena rappresentanza politica, avere uguale trattamento salariale e nella famiglia).

Alla costruzione del legame donne/politica si dedicò l’Udi (Unione donne italiane), che nacque ufficialmente a Roma nel settembre del 1944 e si proponeva di riunire le donne che avevano partecipato ai Gdd e ai gruppi antifascisti legati alle sinistre. Nell’ottobre dello stesso anno nasceva anche il Cif (Centro italiano femminile), che riuniva le donne legate all’Azione cattolica e alla rete delle parrocchie. Nel novembre del 1944 l’Udi, con il comitato femminile della Dc, con l’Alleanza pro suffragio, con il gruppo femminile del Pri e le donne della Filds (Federazione italiana laureate diplomate di istituti superiori) lanciarono un appello dal titolo Le donne italiane hanno diritto al voto:

Le donne italiane non sono “mature”. Sono state mature per affrontare bombardamenti, sfollamenti improvvisi con mezzi di fortuna, per organizzare da sole con le loro forze la vita di famiglie numerose restate prive di ogni appoggio maschile. Mature per assolvere ogni compito di lavoro in sostituzione degli uomini assenti, mature per dirigere un negozio, un’azienda, per fare le postine o le tranviere, per risolvere con tutte le risorse dell’ingegno e dell’affetto i quotidiani problemi dell’alimentazione famigliare. […] Ma non sono mature, sembra, per ricostruire insieme agli uomini, che esse hanno salvato e difeso, l’Italia finalmente nostra di domani! (citato da Musiani 2016, 32).

Dopo il decreto del 1° febbraio 1945, finita la guerra, queste organizzazioni furono fortemente impegnate nella campagna elettorale. Tra marzo e aprile 1946, nella prima tornata delle elezioni amministrative, poco meno di 8.500.000 donne andarono a votare (erano circa l’82% delle aventi diritto). Il 2 giugno votarono il 90% delle donne italiane. Le elette alla Costituente furono 21 (9 Pci, 9 Dc, 2 Psi e 1 Uq). Nilde Iotti, che era una di queste elette, ricorda:

Mia madre ricordava come un grande momento quando c’era stata l’estensione del voto a tutti gli uomini, a tutti i cittadini italiani di sesso maschile, […] lei diceva: “finalmente mio padre e i miei fratelli andavano a votare, […] ma io me ne sono dovuta stare a casa”. Aveva questo senso già di un’ingiustizia che era stata fatta allora. […] Quindi questa cosa qui mia madre ce l’aveva molto presente, la raccontava sempre. Tant’è che quando si arrivò al voto del 2 giugno lei mi obbligò… Io ero stanchissima dalla campagna elettorale, mi obbligò ad alzarmi alle sei, perché lei alle sette era davanti al seggio ad aspettare che aprissero il seggio perché diceva: “Io non so se a mezzogiorno sono viva e voglio votare!” (citato da Zappaterra 1999, 348).

Per rafforzare l’azione delle organizzazioni femminili, i partiti si diedero una organizzazione separata, creata con lo scopo di favorire l’avvicinamento delle donne alla politica, intimidite dalla presenza maschile, ma anche di rassicurare e vincere la resistenza degli uomini alla militanza nel partito delle “loro” donne, che riportava alla ribalta la distanza incolmabile ancora esistente fra i due sessi, che la partecipazione “paritaria” alla resistenza aveva per un attimo annullato, ma che ora, con il ritorno alla normalità, riesplodeva con tutte le sue contraddizioni.

Raccontano le donne che hanno vissuto quella fase storica: “siccome le donne non si azzardano, sono da poco entrate nella vita politica, sono timide, non possiamo metterle nelle cellule miste perché le donne non parleranno mai, bisogna metterle insieme nelle cellule femminili” (Vittorina Dalmonte, citata da Bertagnoni 2004, 44).

L’iniziale titubanza delle donne a militare nella struttura femminile del partito temeva la svalutazione maschile della propria azione politica e il pericolo di essere marginalizzate e relegate dai compagni a ruoli secondari. Racconta Maria Bassi:

Io sono andata via dal partito […] perché allora […] il lavoro femminile non era considerato granché. […] C’erano le commissioni femminili […] questi gruppi formati dalle donne che oggi hanno una maggiore autonomia di quella che non avevamo noi, perché noi eravamo proprio ingabbiate lì, perché non è che la libertà brillasse. […] Era proprio un costume, una formazione culturale, diciamo così, e allora c’era una svalutazione, la Commissione femminile era un po’ una commissione di secondo grado rispetto alle altre, importanti: l’organizzazione, la stampa e la propaganda, eccetera (citato da Bertagnoni 2004, 44).

Maria Bassi, sindacalista ravennate, e Vittorina Dal Monte, funzionaria del Pci bolognese, hanno un’esperienza di vita molto diversa, probabilmente anche per caratteristiche caratteriali, tuttavia concordano nel ricordare l’eccezionalità della presenza pubblica femminile e la fatica delle donne per interpretare un ruolo che rompeva decisamente con l’immagine sociale incentrata sulla stereotipo della moglie e madre umile e dimessa. Racconta Bassi:

Per essere pari a un uomo devi essere una spanna superiore. Allora ce la fai. Diversamente […] [no]. E allora la compagna capace ci stava dentro, la compagna meno capace, ma neanche per colpa sua, o per intelligenza sua, perché donna, […] allora aveva un po’ di problemi. Io non ho avuto quasi mai dei problemi, proprio per questa ragione, perché quando c’era da fare una riunione ero in grado di farla come un uomo, un comizio anche meglio, e quindi… Nel ‘59-60 sono ritornata al sindacato, io sapevo di dover andare al sindacato […]. È venuta giù la Marcellino a propormi di andare alla Commissione femminile nazionale di partito. E io gli ho detto: “Ascolta, Nella, io per andare alla Camera del lavoro di Ravenna non ho bisogno di passare per Roma, e non sono d’accordo che chi cambia lavoro debba sempre solo salire i gradini in alto. Uno deve fare quello che pensa che sia in grado di fare”. […] Mi piaceva il rapporto diretto con la gente […] e il lavoro sindacale era quello che ci voleva per me, per come sono io, in mezzo alla gente che lavora, in mezzo agli operai […] non ho problemi, non ne ho avuti mai. […] La prima reazione dei sindacalisti braccianti, che andavo a dirigere il sindacato dei braccianti che era il più grosso, aveva 21.000 iscritti, è stata questa: “Beh! […] avevano solo una donna da mandarci?” (citato da Bertagnoni 2004, 49).

Le fa eco Dalmonte:

Mi dicono che devo andare ad Anzola a fare l’8 marzo. Allora io prendo la corriera […], poi arrivo sulla via Emilia, ad Anzola scendo. Mi avevano detto dove era la sezione, io vado alla sezione e per andare alla sezione io sono passata davanti a una piazza dove c’era un sacco di gente, un palco là, una fanfara, delle bandiere, eccetera. Io son passata e ho detto: “Veh! C’è un comizio”, poi sono andata dritta in sezione. In sezione non c’era nessuno. Allora c’era una signora lì vicino e […] [chiedo]. “Ma i ié toti in piazza, sgnora, al vada a vedere in piazza, i ié tot là”. Io mi ero detta: “adesso vado a vedere se trovo qualcuno, se no torno a Bologna”. Come arrivo in piazza chiedo lì a una compagna: “Come? Non fate l’8 marzo?”. […] “Ma se è mezz’ora che ti aspettiamo qua, la gente non vedi che è qua che ti aspetta?”. Giuro che se io avessi capito prima che quel comizio era per l’8 marzo io, quella volta, non sono una vigliacca Elda, non lo sono, ma quella volta sarei scappata. […] Non l’ho capito perché era talmente lontana da me l’idea che in quella piazza le fanfare, le bandiere rosse potessero essere l’8 marzo che io non mi sono neanche sognata. […] Quel che ho detto non lo so […]. So solo che andai a Bologna così amareggiata che dicevo: “Non conviene mica al partito mandarmi a fare queste cose, non conviene mica”. I compagni furon contenti, poveretti, perché allora era abbastanza che tu fossi una donna, perché eravamo una novità così grande, già una donna, su un podio a fare un comizio […]. Cose mai viste! […] Ma io ero amareggiata. […] Io non ricordavo quello che avevo detto, mezz’ora dopo non lo ricordavo, sai quando fai queste cose che ti sembra di sognare […]. Avevo fatto delle altre cose nelle aie dei contadini sul camion del grano, ma non lo avevo mai fatto su una piazza così, con tanto di microfono! Era il microfono la bestia nera, perché sull’aia di un contadino mi sentivano anche senza microfono, ma il microfono!!!” (citato da Bertagnoni 2004, 45).

L’abbandono da parte delle funzionarie delle Commissioni femminili rappresentò per le donne la difficile conquista di uno spazio di azione politica strappato alla competizione maschile:

Poi i nostri compagni hanno cominciato, nella misura in cui noi siamo cresciute, […] a sentirci delle concorrenti; prima un gran paternalismo, poverine, eravamo vezzeggiate da tutti, il consenso delle donne, sai, era una cosa… Invece dopo noi siamo cresciute ed abbiamo cominciato a diventare delle concorrenti. […] [perché come donne] fino allora eravamo state solamente nella Commissione femminile, […] oppure impiegate. […] Le cose cambiarono quando si decise razionalmente di fare l’esperienza delle compagne nelle commissioni di lavoro (Dalmonte, citato da Bertagnoni 2004, 49).

Per queste donne, inoltre, l’impegno politico pregiudica la possibilità di conciliare una famiglia, non solo perché la vita pubblica costringe fuori casa, ma soprattutto per la difficoltà da parte maschile ad accettare una nuova immagine femminile, all’insegna dell’autonomia e dell’indipendenza.

Un compagno non voleva che fossi andata alla scuola di partito, perché si rendeva conto che io a casa non sarei tornata più. […] E allora lì la scelta era o andare o non andare. Rinunciare per sposarmi o tirare dritto. Ma ti rendi conto di cosa significava questo nel ’47, ’48? Quando non potevi fumare una sigaretta in pubblico perché eri una persona poco seria? Pensare che un uomo accettasse che una donna andasse in giro per il mondo, sempre, giovane, di notte, e fosse più via che a casa, era una cosa impensabile! Cioè tu ti sposavi, ti fidanzavi solo se eri disposta a fare la casalinga. A rinunciare a tutto. Io a questo ho detto di no. […] Dopo di ché c’è stato qualche problemino, a dirla proprio come stan le cose: tu facevi la funzionaria e rinunciavi alla tua vita privata, o non se ne faceva niente. Perché allora, andare due volte di seguito a prendere il caffè con un compagno significava che era il tuo amante. Per i compagni, per la gente, per il partito prima di tutto. Perché noi siamo indietro di 50 anni, da questo punto di vista, al Pci, siamo più arretrati dei democristiani da un certo punto di vista, ma sicuro. […] Allora o facevi la scelta di fare la funzionari irreprensibile, […] oppure niente. […] E quindi la vita delle donne funzionarie ha voluto significare, prima di tutto, per poterlo fare, rinunciare alla vita privata completamente, anche quella di andare a prendere un caffè tre volte (Bassi, citato da Bertagnoni 2004, 50).

Le stesse valutazioni sono espresse da Vittorina Dalmonte:

Ho fatto la mia scelta. All’inizio probabilmente anche molto inconsapevolmente […]. Avevo tutti i miei filarini intorno, ho suscitato anche certe passioncelle, […] ma io dritto, cara, dritto, non guardavo né da una parte né da un’altra, […] ero ben determinata a farmi rispettare, cara mia, non ti credere, perché mi rendevo conto che se no non ce la facevi. […] Ma una cosa poi che mi ha disgustata per certi versi erano i nostri compagni, cari compagni, che erano dei maschietti come tutti gli altri. […] Chiedere una sera di uscire insieme, di andare a letto insieme era all’ordine del giorno, ma quando si trattava di sposarne una alla larga, hai capito, non ti guardavano più in faccia, cara mia! Questa era una cosa che a me faceva molta rabbia, andavano a cercare la brava casalinga, quella che si occupava della famiglia, eccetera, che accomodava i calzini, un tipo così. Dio ce ne guardi! E io se ti faccio vedere l’elenco della mia Commissione femminile nel ’49, […] la maggioranza non si sono sposate (citato da Bertagnoni 2004, 50).

Concludendo, la difficoltà con la quale in Italia si affermò la cultura di genere e la lentezza con cui le donne ottennero il riconoscimento dei proprio diritti sono simboleggiate dalla nota spaccatura dell’assemblea costituente sulla questione dell’opportunità o meno di fare dell’indissolubilità del matrimonio un principio costituzionale. Chiara Saraceno (1998) sottolinea come anche l’enunciazione del principio dell’uguaglianza tra uomini e donne nella famiglia, “con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” (art. 29), abbia un’ambiguità originata dall’asimmetria dei ruoli; così come l’articolo 37, che tratta del diritto al lavoro delle donne e alla parità di salario, dispone la tutela della maternità come se la paternità non esistesse e sugli uomini non gravasse la responsabilità della famiglia. A svecchiare questo approccio culturale, comune a tutti i padri (e le madri?) costituenti, fu la presenza femminile nelle reti sociali, di cui si è detto, e l’iniziativa di massa nata dal basso e mobilitatasi nel corso degli anni per l’ottenimento di basilari conquiste democratiche, come la parità di trattamento salariale, l’accesso a tutte le carriere, la legislazione sull’aborto, un nuovo diritto di famiglia, e via dicendo, che determinò un cambiamento lentamente recepito anche sul piano politico.

Bibliografia

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