Impresa solidale e relazioni industriali: alcune riflessioni sul nodo degli anni Settanta

di Giuliana Bertagnoni

Il perimetro della ricerca

Queste riflessioni si basano sulle ricerche di storia d’impresa realizzate negli ultimi anni presso una serie di cooperative ancora attive e presso l’associazionismo di rappresentanza. Si tratta degli studi condotti fra il 2003 e il 2010 presso due consorzi: quello del latte Granarolo (nato come consorzio, evoluto oggi in una Spa a di proprietà cooperativa) e il Consorzio nazionale servizi; due cooperative di servizi: la Cooperativa albergo mensa spettacolo e turismo (Camst) e la Cooperativa trasporti alimentari (Cta); un’Associazione di rappresentanza: l’attuale Legacoopservizi. Le ricerche, oltre a basarsi sui verbali e su una mole cospicua di materiale documentale, hanno portato alla produzione di circa un centinaio di interviste che hanno permesso a chi scrive e a Patrizia Battilani la costruzione di un data base (sulla presentazione del data base cfr. Battilani 2009). Tale strumento, nel quale sono confluiti anche i risultati di lavori condotti sulla cooperazione di consumo e sul Conad, propone i profili formativi e professionali dei dirigenti di circa una decina di grandi cooperative e rende possibile ricostruire il percorso di acquisizione di nuove competenze manageriali da parte delle realtà di maggiore successo, dal 1945 al 2000, con i seguenti limiti: la rappresentanza territoriale è sbilanciata sulla realtà emiliano-romagnola, anche per l’elevata concentrazione di grandi cooperative in tale regione; inoltre, quasi tutte le realtà analizzate aderiscano alla stessa centrale cooperativa, Legacoop.

Su queste fonti, utilizzate in alcuni volumi realizzati intorno ai case studies più significativi (Battilani 2001; Zamagni 2002; Zamagni, Battilani, Casali 2004; Bertagnoni 2004; 2005; Battilani, Bertagnoni 2007; Battilani, Bertagnoni, Vignini 2008; Bertagnoni, Menzani 2010), si fondano anche le considerazioni che seguono, con i due limiti di cui sopra. Il primo è che minoritaria – ma non assente – è la prospettiva nazionale: si tenga però presente che la ricerca fuori dall’Emilia condotta da chi scrive (in particolare a Roma, nel Veneto e in Piemonte) ha confermato l’egemonia reale esercitata dalla cooperazione emiliano romagnola sulla cooperazione nazionale. Più grave il secondo limite, relativo alla scarsa presenza di cooperative di matrice cattolica (malgrado non siano mancati alcuni approfondimenti, specie sulla rappresentanza cooperativa e sindacale “bianca”), che necessiterebbero di ulteriori studi e approfondimenti.

L’articolo intende riprendere la periodizzazione proposta dagli storici economici, che individuano nell’arco temporale 1950-1970 una fase di stagnazione della cooperazione – dopo l’entusiasmo dell’immediato dopoguerra che portò alla creazione di migliaia di sodalizi improvvisati da parte di una popolazione stremata dalla guerra e dalla disoccupazione – e nel periodo successivo il reale sviluppo. L’intento è quello di ampliare lo sguardo, alla luce dell’analisi dei risultati economici e aziendali che individuano negli anni Settanta un punto di snodo, al contesto delle relazioni industriali nel quale la cooperazione ha operato, riprendendo alcuni spunti emersi nel corso di quella stagione di studi e tentando, senza nessuna pretesa di esaustività, un’operazione di sintesi di alcuni risultati, ma soprattutto ripercorrendo le domande rimaste aperte e bisognose di ulteriori approfondimenti.

Uno sguardo di lungo periodo

È opinione storica diffusa (Zangheri, Galasso, Castronovo 1987; Granata 2005; 2002; Menzani, 2007) che, nel secondo dopoguerra, il sistema di relazioni esterne nel quale la cooperazione di area Lega operò sia stata di ostacolo alla performance delle imprese, piegate alle esigenze politiche dei partiti di sinistra. In questa prospettiva il modello imprenditoriale che la cooperazione stava faticosamente costruendo in quegli anni viene semplicisticamente liquidato come “collaterale” al Pci (sui partiti di massa cfr. Ventrone 1996) e le strategie di promozione elaborate dalle aziende vengono frettolosamente collocate sotto la voce “cinghie di trasmissione” del Partito comunista.

Al contrario, la nuova stagione di studi condotta all’interno delle imprese, cui si faceva riferimento in apertura, ha messo in luce come il “collateralismo” sia un fenomeno molto più complesso e articolato che, in estrema sintesi, ha permesso alle società cooperative di crescere anche sul piano competitivo, innescando processi di innovazione e di modernizzazione.

Per comprendere appieno il sistema di relazioni extraeconomiche che ha dato linfa alla cooperazione va ampliata la prospettiva sul lungo periodo e data più rilevanza al sistema italiano di relazioni industriali.

All’origine del movimento dei lavoratori, nella fase in cui la “questione operaia” stava esplodendo in tutta la sua crudezza, rivelandosi una delle più acute contraddizioni aperte dalla rivoluzione industriale, la cooperazione era una risposta alla necessità degli operai di attività e guadagno a migliori condizioni rispetto al lavoro salariato1 e le prime forme organizzative nascevano anche dall’esigenza di svolgere una funzione di collocamento della manodopera.

In tale contesto, gli organismi cooperativi si sono sviluppati da una parte nell’alveo culturale del solidarismo cattolico e del paternalismo liberale che auspicavano la soluzione del conflitto sociale attraverso la logica corporativa della collaborazione interclassista; dall’altra nell’alveo delle organizzazioni sindacali (con elementi di sovrapposizione di strutture e funzioni che, come diremo, si sono protratti ben oltre il secondo dopoguerra) e del nascente partito socialista. Questo, che all’inizio del Novecento cominciava il radicamento territoriale e la pratica amministrativa nei comuni di alcune aree del Centro-Nord del Paese, stabilì subito con la cooperazione un legame sinergico; tanto che in sede storiografica (D’Attorre 1986; 1998) è stato ricostruito come l’emancipazione dei ceti popolari nelle aree del riformismo socialista si sia saldamente ancorata al sistema comune-lega-cooperativa, che sgretolava i secolari vincoli di subalternità al padrone, o ad altre figure simboliche della gerarchia sociale (il parroco, il medico o il farmacista, ecc), per la soddisfazione di ogni genere di bisogno.

Nel ventennio fascista il movimento cooperativo fu inserito nelle strutture dello Stato corporativo, perdendo, in seguito a una serie di provvedimenti legislativi, l’autonomia istituzionale (Fornasari, Zamagni 1997). Per questo, la letteratura tende generalmente a dividere la cronologia della cooperazione nell’epopea delle origini e nella rinascita del secondo dopoguerra, con la riacquistata libertà di azione. Solo negli ultimi anni si è cominciato a studiare l’evoluzione che questa forma di impresa ha subito sotto il regime (Menzani 2009), ma la ricerca non è ancora arrivata ad esaminare le storie delle aziende attraverso la documentazione dell’epoca, scarsa ma esistente, in modo da articolare più compiutamente l’analisi. Molto importante è, per esempio, la ricerca sul ceto dirigente (soci fondatori e manager di cooperative, ma anche del sindacato, dal momento che spesso erano coincidenti). Abbiamo ricostruito che un fondatore della Cooperativa fra il personale d’alberghi, ristoranti e caffè – nata a Bologna nel 1910 – era padre di un socio fondatore di Camst, costituita a Bologna nel 1945. Cosa hanno fatto personaggi come questo nel fascismo? Hanno continuato il mestiere di camerieri? Compaiono nella compagine sociale di qualche cooperativa o dei sindacati, considerando che il sindacato dei camerieri era stato molto combattivo nel biennio rosso, portando avanti vertenze importanti come l’abolizione della mancia? E questo è un primo punto importante sul quale sarebbe utile approfondire gli studi.

Da ciò la rilevanza di costruire un data base del ceto dirigente, ampliandone i confini cronologici, anche per osservare continuità e rotture nella storia di lunga durata. Nel caso dell’impresa pubblica, per esempio, la prospettiva di lungo periodo ha messo in evidenza come i tratti identitari nazionali (dati da particolari rapporti industriali, una peculiare cultura, ecc.) abbiano influito sulla continuità (dagli anni Venti alla fine degli anni Settanta) che caratterizza la storia di questi enti fra fascismo e dopoguerra. Si ritiene infatti che la loro parabola sia stata favorita dalla “cultura corporatista”, “che costituisce parte integrante dell’identità storica italiana” (Salvati 2005, 66). Tale cultura, originata dalla duplice tradizione, cattolica e socialista, di mobilitazione sociale di inizio Novecento; proseguita nel fascismo, che imita e sfrutta ideologicamente entrambe le culture nel tentativo di catturare le masse già organizzate (Salvati 2005; D’Attorre 1986); acquista nuovo slancio nel secondo dopoguerra, con il cosiddetto neocorporativismo. Ciò avviene sia per ragioni funzionali: oltre a un ciclo economico europeo imperniato sulla grande industria, anche la necessità di un ruolo di mediazione degli organismi pubblici fra capitale e lavoro, “con la necessaria appendice della concertazione”; sia per la duratura convergenza della Dc (in virtù delle proprie radici nel cattolicesimo sociale) e della sinistra (in virtù della componente solidaristica/dirigista del movimento operaio) nella difesa dello strumento economico pubblico; convergenza avvallata dalle culture diffuse, che ritenevano l’ente pubblico un contenitore “neutro”, reso finalmente democratico dall’ingresso dei partiti di massa, un modo anzi “più democratico” di modernizzare il Paese e di dirigere l’economia industriale (Salvati 2005, 71). Circostanze che – sottolineano gli studiosi – contribuiscono a spiegare le ragioni del ruolo strategico assegnato agli enti pubblici nel miracolo economico italiano.

Anche la cooperazione, come l’ente economico di Stato, è un organismo che propone nuovi paradigmi di relazioni industriali all’interno di modelli democratici di impresa; ed è l’emanazione della cultura del cattolicesimo sociale e della sinistra solidaristica. Ma la sua affermazione sul mercato nella seconda metà del Novecento è successiva a quella dell’ente pubblico, prendendo linfa dal decentramento amministrativo laddove gli organismi economici statali l’aveva preso dall’accentramento.

Il progetto emancipativo

Nel secondo dopoguerra la cooperazione, dopo un momento di “euforia” iniziale con la creazione di migliaia di sodalizi, ebbe una fase stagnante che durò per tutti gli anni del boom economico.

La nascita di molti sodalizi cooperativi nella seconda metà degli anni Quaranta fu promossa dall’iniziativa spontanea della società civile che, nelle aree del Paese di radicamento storico della cooperazione, cercava di combattere la disoccupazione con uno strumento tradizionalmente utilizzato per dare risposta ai problemi occupazionali delle comunità locali. In queste esperienze autogestite, in cui i dirigenti erano diretta espressione dei lavoratori, senza precise competenze imprenditoriali (poi acquisite lentamente sul campo), la matrice sindacale era evidente.

Per il sindacato il dopoguerra fu caratterizzato da un sistema di relazioni industriali centralizzato e a predominanza politica. Il mercato del lavoro, dominato da alti tassi di disoccupazione, non favoriva il consolidamento sindacale nei luoghi di lavoro, dove il padronato aveva ampia libertà d’azione. La debolezza sindacale si registrava nella costante contrazione degli iscritti e nello scarso riconoscimento sociale, che obbligavano a mantenere stretto il legame di dipendenza dai partiti, i quali facevano da cerniera nei rapporti con lo Stato (Accornero 1992).

La Cgil era rinata nel 1944 su basi unitarie2, rappresentando al suo interno, fino alla scissione del 1948, tutte le forze politiche3. Grazie a questo tentativo collaborativo (fino al 1947 i diversi partiti condivisero anche le responsabilità di governo), il sindacato continuò a svolgere per qualche anno la sua funzione storica di gestione del collocamento della manodopera, fino alla legge Fanfani del stesso 19484. L’associazionismo di rappresentanza cooperativo, al contrario, si era ricostituito attorno ai due schieramenti politici: Confcooperative raggruppava la cooperazione cattolica, la Lega delle cooperative quella repubblicana e socialcomunista5. Nei fatti, però, la ricerca ha evidenziato che il ruolo di rappresentanza delle Centrali cooperative fu subito chiaro solo alla Lega delle cooperative nelle aree del suo storico radicamento (ci riferiamo, in particolare, all’Emilia-Romagna), poiché i sindacati furono promotori di molte cooperative mantenendo al loro interno anche la sede sindacale settoriale, in una coincidenza di organizzazioni e funzioni difficilmente districabile. Questo processo, non così evidente nelle regioni in cui la cooperazione aveva una storia di lungo periodo e un’identità ben definita, emerge con chiarezza appena ci si allontana da quell’area territoriale. Inoltre, negli anni Cinquanta, data la debolezza sindacale e la vischiosità della situazione successiva al triennio di unità sindacale, la Cisl cercava di attrarre le cooperative nel proprio alveo, anche perché i dirigenti cooperativi spesso erano anche dirigenti del sindacato della categoria in cui operava l’impresa. Per cui capitava che sindacalisti della Cgil decidessero di aderire alla Cisl, trascinandosi dietro la cooperativa (è il caso, per esempio, del consorzio nazionale di servizi Ciclat, con sede a Bologna, che nacque come emanazione della Cgil, per poi essere attratta dalla Cisl nel 1956, e rimanere diretta emanazione della Cisl fino agli anni Ottanta). In ambito cattolico, in particolare, il sindacato esercitò una vera e propria “concorrenza” alla Confcooperative in merito alla rappresentanza cooperativa, assumendo direttamente questo ruolo attraverso la Coldiretti in ambito agricolo, oppure attraverso le Acli o la Cisl direttamente. E capire se questo processo abbia avuto delle implicazioni sui processi decisionali, oltre che sulla mentalità di chi lavorava nella cooperazione, è un altro tema utile da approfondire, sul quale torneremo nelle conclusioni .

Allo stato attuale degli studi possiamo solo affermare, sulla base del nostro campione, che nell’alveo della sinistra si configurò molto presto, proprio in quel nodo degli anni Settanta, un distacco netto fra cooperazione e sindacato, in seguito alla necessità di una ridefinizione generale dei ruoli che interessò sia la rappresentanza cooperativa sia sindacale.

Allo storico bisogno di difesa e collocamento del lavoratore, che legava cooperazione e sindacato, un’altra esigenza spingeva la politica e i partiti di massa a collegarsi strettamente alle imprese solidali (superata l’iniziale diffidenza del partito comunista per il quale la cooperazione aveva storicamente impersonato il riformismo): il bisogno di formare alla democrazia le masse sulle quali il fascismo aveva esercitato una sollecitazione passiva (Colarizi 1991).

Infatti, nel contesto del dopoguerra, il progetto emancipativo della cooperazione non consisteva solo nel migliorare le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori, ma, come giustamente ha ricordato recentemente Maurizio Degl’Innocenti (2012, 20) “non si è mai abbastanza riflettuto sul fatto che l’origine della democrazia in Europa si intrecciò con le vicende dell’associazionismo su basi volontarie, di natura mutualistica e cooperativa, al cui interno già a metà dell’800 il voto a testa era pratica diffusa al di là di ogni differenza di razza e religione, di condizione sociale e di genere […]. E neppure sull’importanza che, in virtù della sua natura mutualistica, esso introdusse il principio della interconnessione tra diritti e doveri, premessa al senso di responsabilità che è alla base della società civile. Nell’associazionismo mutualistico c’era la solidarietà reciproca, simmetrica tra i soci […], in connessione a principi della porta aperta e della diffusione della cultura cooperativa. […] La matrice era il mettersi insieme, premessa e condizione dell’autoemancipazione. E, ciò che conta, questo lo si faceva di fronte al bisogno, alla difficoltà percepita così acutamente da non essere affrontata a livello individuale”. La tradizione cooperativa, dunque, si prestava con particolare efficacia a svolgere il doppio ruolo di educare alla democrazia le masse popolari e favorirne l’inclusione in posizioni di potere economico e sociale.

Sul piano politico, questo fa parte del processo descritto dai politologi quando rilevano che, malgrado l’evidenza, in sede storica ampiamente riconosciuta (Sivini 1971; Trigilia 1981), della frattura centro/periferia nel processo di State building, le “subculture politiche territoriali” – o “culture politiche locali” (Almagisti 2008), se si preferisce – hanno contribuito all’integrazione delle società locali nel sistema politico nazionale e all’avvicinamento alle regole e ai valori della democrazia moderna (Ridolfi 1999). Ma ha una rilevanza forte anche sul piano economico, riuscendo a combinare la logica di aiuto e protezione del lavoro con le strategia di sviluppo del mercato (Almagisti 2008, 117), mostrando alcuni tratti di estrema originalità.

Come dicevamo, la ricerca dal basso confluita nel data base ha permesso di ricostruire che il motivo del ritardo con cui la cooperazione decollò è imputabile alla lentezza dell’accumulazione sia di capitale finanziario, sia di capitale umano e capacità manageriali (Battilani 2009), e come il “collateralismo” abbia favorito tale accumulazione. Capiamo meglio il senso di questa affermazione.

Il nostro campione – nel quale, lo ricordiamo, la presenza Legacoop è maggioritaria – evidenzia come, negli anni Cinquanta e Sessanta, i gruppi dirigenti, provenienti dai ceti meno abbienti e poco scolarizzati, assolutamente digiuni di qualsiasi nozione di comunicazione commerciale, si formarono nelle scuole di partito e facendo militanza nelle diverse organizzazioni istituzionali e sociali a queste legate (oltre alle amministrazioni locali, al sindacato e alla cooperazione, anche tutte le strutture cosiddette di massa che si occupavano di assistenza, sport, attività ludiche/ricreative, gender equality, e così via)6. E da questa esperienza impararono i linguaggi della propaganda politica (strumenti, simboli, relazioni con il territorio, i temi del conflitto generato dalla Guerra fredda) che utilizzarono per la promozione dei prodotti cooperativi, tanto che la logica politica dell’agitazione-propaganda e quella commerciale della pubblicità-promozione, per tutto il periodo in esame, restarono fondamentalmente inseparabili nella mentalità di chi lavorava nella cooperazione (Di Marco, Ortoleva 2004).

Bisogna chiarire, però, che non si trattava di un legame utilitaristico: in comunità locali in cui la mobilità sociale era stata storicamente bloccata da rigide barriere di ceto, si sperava che la cooperazione consentisse veramente l’inserimento nei processi decisionali (politici ed economici) dei ceti subalterni.

Perciò all’interno delle imprese, tutti i lavoratori cooperativi, anche se non erano soci7, contribuirono all’accumulazione di capitale mettendo al servizio dell’impresa molte ore di lavoro volontario, nella convinzione di operare un cambiamento sociale. Per quanto i salari non fossero gerarchizzati (come i funzionari di partito e sindacato, i dirigenti prendevano quanto un operaio specializzato), tuttavia, l’allettamento del denaro guadagnato nel privato non riusciva a sottrarre alla cooperazione i quadri migliori; anzi, la monetizzazione offendeva la natura “militante” dell’azione professionale. Il lavoro svolto in cooperativa viene descritto dai testimoni come “un credo”, il gruppo dei colleghi un “grande collettivo di gente che si metteva a disposizione in qualsiasi momento”; e così via; mentre all’interno delle aziende fino al 1972 l’ufficio addetto alle pubbliche relazioni, ricerche, programmazione spesso si chiamava “Servizio acquisti, stampa e propaganda”, che era un’espressione mutuata direttamente dall’“Organizzazione stampa e propaganda” del partito comunista.

Parimenti, il piccolo produttore agricolo (molto spesso mezzadro come nel caso del latte Granarolo), il cameriere (come nel caso di Camst), l’addetto alle manutenzioni (come nel caso della Cooperativa per manovalanze ferroviarie, l’attuale Manutencoop), e via dicendo, si prestava bene a simboleggiare la lotta del piccolo produttore/lavoratore contro il grande industriale e a rappresentare il conflitto che la cooperazione realmente impersonava: cioè la debolezza dell’umile contro l’arroganza del potere, del lavoro contro il capitale, che l’immaginario collettivo in aree grandemente politicizzate come il bolognese giudicava ancora più temibile in quegli anni in cui la parola d’ordine era la “lotta ai monopoli”.

Questo consentiva di creare intorno al progetto cooperativo un’ampia solidarietà che univa città e campagna, il ceto operaio/contadino e quello medio, in linea con la politica delle alleanze portata avanti dalla sinistra che, nel contesto della Guerra fredda, aveva necessità di non restare politicamente isolata e di catalizzare un ampio consenso. Si badi bene che il conflitto politico fra governo democristiano e forze socialcomuniste fu parte integrante di questo processo, dal momento che, negli anni Cinquanta, accanto agli attacchi rivolti dallo Stato alla sinistra, che sconvolsero le amministrazioni locali, con la pretestuosa destituzione di molti sindaci; le fabbriche, con l’emarginazione dei militanti sindacali in reparti controllati; le campagne, con la sottrazione alla Cgil del collocamento; anche la cooperazione (per esempio Manutencoop e Camst) era sistematicamente boicottata. Infatti, le imprese aderenti alla Lega delle cooperative e mutue negli anni Cinquanta subirono commissariamenti ingiustificati, discriminazioni negli appalti statali (Bertagnoni 2007; 2005; Arbizzani 1991) e nell’accesso ai fondi pubblici e a ogni forma di contributo che veniva distribuito a sostegno delle imprese8.

Dunque, il radicamento territoriale e il sostegno dei consumatori era fondamentale a queste aziende per sopravvivere in un mercato che in alcuni settori era molto competitivo. E non potendo puntare sulla politica dei prezzi, per creare massa critica intorno al prodotto cooperativo – che veniva percepito come qualitativamente migliore anche (o soprattutto) per il contenuto emancipativo che rappresentava (con netta identificazione fra qualità del prodotto e bontà del progetto) – vennero utilizzati i canali del consenso politico: le riunioni di caseggiato, di quartiere, le assemblee pubbliche erano occasioni continue di promozione, in alcune realtà i consumatori venivano mobilitati anche con i megafoni e caricati sui pullman in tutta la provincia per effettuare la visita allo stabilimento, si organizzavano sagre popolari con forti analogie con le feste dell’Unità (per esempio la Festa del latte Granarolo), e via dicendo.

In questo contesto, anche all’esterno dell’azienda il progetto emancipativo sostenuto dalla cooperazione acquistava una capacità promozionale autonoma, di cui si fecero interpreti, con iniziative completamente autonome, non solo i lavoratori coinvolti nel ciclo di vita del prodotto (i camionisti addetti alla distribuzione – formalmente semplici fornitori di servizio esterni all’impresa – erano apostrofati i “partigiani dell’azienda”, per le strategie pubblicitarie messe in atto sul territorio, in modo assolutamente autonomo, ma di grande impatto scenico e presa sui consumatori), bensì i consumatori stessi, con una pratica, quella del passaparola, tornata oggi in voga. Anche questo era un processo connesso alla militanza politica, tenendo conto che, nella tradizione socialista e comunista (ma anche al sindacalismo di matrice cattolica), il militante si faceva interprete delle direttive del partito o dell’organizzazione sindacale e usava propri mezzi per diffonderne i messaggi, dal volantino al megafono o all’altoparlante.

Un modo originale di “fare marketing con la simpatia della gente”, come sottolineano nelle interviste, consapevolmente, i dirigenti dell’epoca. Una sorta di “via italiana” alla comunicazione e alla promozione, un’attività prodotta “dal basso”, slegata dalla scienza del marketing di tradizione manageriale, che tendiamo generalmente ad associare all’“americanizzazione” (Di Marco, Ortoleva 2004). Un modello in cui la politica prestava i suoi strumenti all’impresa, piuttosto che l’impresa alla politica, come siamo abituati a vedere oggi.

Questo paradigma ha conseguenze vincenti sulla capacità competitiva delle imprese e sul successo del “marchio”, poiché consente un abbattimento di quelli che gli economisti chiamano “costi di transazione”, cioè tutte le voci legate all’organizzazione dell’attività che sono molto minori in aziende fortemente mission oriented, vale a dire che traggono forza dalla motivazione degli agenti e valutano il successo al di là del reddito monetario. (Zamagni 2005, 53). E il processo non è imposto dall’alto, ma fa parte di un modo di “sentire” l’impresa comune ai soggetti coinvolti, risolvendo un altro problema rilevante dell’organizzazione aziendale, quello della “coerenza psicologica” tra norme sociali e stili di lavoro da un lato e comandi e regole formali dall’altro (Zamagni 2005, 49).

Se l’impresa utilizza le strutture della politica per fare promozione, se i suoi prodotti li acquista un pubblico fortemente fidelizzato, se i suoi fornitori non vengono scelti ma sono “naturalmente” vicini all’azienda, se il suo personale è disposto a impegnarsi molto oltre i suoi doveri contrattuali e se tutti questi stakeholder sono così fortemente motivati da dare il meglio di sé e lavorare incessantemente per il successo dell’impresa, mettendo spontaneamente a disposizione competenze e capacità creative con un’iniziativa che avanza all’unisono senza necessità di alcun controllo, si può dire che, negli anni dell’accumulazione di capitali e delle competenze manageriali, il “collateralismo” ha fortemente abbattuto i costi di transazione della cooperazione.

Il nodo degli anni Settanta

L’istituzione della Regione, nel 1970, impresse alla storia del nostro Paese un cambiamento radicale. Fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta il progetto che aveva accomunato le forze politiche alla guida del Paese (Dc, Pci e Psi) era la crescita e la modernizzazione attraverso l’industrializzazione. In un contesto in cui lo Stato era ancora fortemente centralizzato, uno degli strumenti nazionali della transizione dall’età agricola a quella industriale era stato il grande ente pubblico, che era diventato il promotore della distribuzione di risorse e di lavoro. Questa sorta di “burocrazia parallela”, preposta anche alla gestione del welfare, era controllata dai partiti (la Dc vi svolgeva il ruolo principe, ma il meccanismo era incrementato e fortemente voluto anche dal Pci), che la gestivano attraverso i consigli di amministrazione, ed era un importante collettore di consenso con il voto elettorale.

Con il decentramento amministrativo, l’immissione del denaro pubblico acquistò un’articolazione territoriale. Questo cambiamento aumentò grandemente la rilevanza delle amministrazioni locali, che presidiavano la gestione dei fondi pubblici, e fece crescere il peso dell’opinione pubblica locale. Parallelamente, verso la fine degli anni Settanta, gli enti pubblici persero la loro importanza strategica.

Cercando di leggere gli effetti di questa svolta nel nostro campione di imprese, salta agli occhi la nascita, nel 1972, del Consorzio emiliano-romagnolo produttori latte, con sede a Bologna, meglio noto come Granarolo-Felsinea. Si trattava di una cooperativa di area Legacoop, territorialmente molto radicata e cresciuta grazie a una forte identificazione con la sinistra politica, che, perseguendo l’obiettivo della crescita dimensionale per competere nel mercato, decise la fusione con una cooperativa cattolica, creata dall’Ente delta padano in fase di dismissione (che era un ente pubblico che passò le sue funzioni alla Regione), e gestita dalla Coldiretti. Per la centralità della politica nella storia di entrambe le imprese, contrapposte nelle piazze e sul mercato negli anni della Guerra fredda, la fusione fu possibile solo grazie alla leadership dei due presidenti, che gestirono le fasi progettuali in modo quasi clandestino all’interno dei rispettivi schieramenti e convinsero la base sociale, sconvolta dall’idea, della necessità dell’operazione.

In un certo senso, la nascita di questo consorzio precorreva i tempi del compromesso storico agli occhi di tutti gli osservatori dell’epoca (lo stesso Pertini, in visita allo stabilimento qualche anno dopo in veste di capo dello Stato, parlò di “unità nazionale”). In realtà a livello cittadino si respirava da qualche tempo un clima di distensione, favorito dalla linea di compromesso intrapresa dal sindaco Guido Fanti. Fanti, che aveva sostituito Dozza nel 1966, era il rappresentante di una nuova guardia di dirigenti comunisti che, dopo il 1956, a seguito del XX Congresso del Pcus (che denunciò i crimini di Stalin) e dei fatti di Ungheria, intraprese una battaglia per il rinnovamento del partito (Bertagnoni 2005, 206 ss). In quegli anni di grande sviluppo metropolitano e di necessità di pianificazione urbanistica e dei servizi, l’amministrazione cittadina aveva mostrato grande apertura al mondo cattolico, con la consegna della cittadinanza onoraria al cardinal Lercaro e la collaborazione in consiglio con il capogruppo della minoranza, Fernando Felicori (ex presidente dell’Ente delta padano, poi direttore generale della Finanziaria fiere). Lo stesso Fanti passò poi alla guida della Regione appena insediata, trasferendo su più ampia scala questo nuovo corso. In particolare, ci preme sottolineare come, in questo quadro, il Consorzio cooperativo Granarolo-Felsinea (che aderiva alle due centrali cooperative) divenne un laboratorio di sperimentazione politica, offrendo ai protagonisti politici degli opposti schieramenti (democristiani e socialcomunisti), grazie alle numerose iniziative organizzate, un territorio neutro e non sospetto per incontri informali sui nodi della città, un dialogo che sarebbe stato impensabile nelle sedi abituali della politica. L’impressione è veramente che i riflettori si accendano sulla realtà locale, la quale acquisisce una rilevanza nazionale, e che la cooperazione sia chiamata a svolgere un ruolo di portata molto più ampia.

In questo nuovo contesto, le cooperative presenti nel nostro campione svolgevano due funzioni, entrambe favorite, seppure con notevoli contraddizioni, da uno specifico paradigma di relazioni industriali. Il primo è quello storico di difesa del lavoratore colpito dalle trasformazioni economiche in atto, prendendo in carico alcune funzioni di welfare e svolgendo un ruolo di ammortizzatore sociale. Per esempio, quando le campagne cominciarono ad essere abbandonate e i poderi più periferici, isolati fra le colline e poco produttivi, attraversarono grosse difficoltà, i soci con aziende agricole più fiorenti li sostennero attraverso il principio solidaristico ed egualitario che i prodotti dovevano essere pagati tutti allo stesso prezzo, indipendentemente dalla qualità, dai costi di raccolta in capo alla cooperativa, e via dicendo. Il secondo ruolo svolto dalle imprese cooperative del nostro campione, come approfondiremo più avanti, è quello di presentarsi all’ente locale come “ente di fiducia dello Stato”, rispolverando un concetto presente fin dai primi passi del movimento cooperativo.

L’istituzione delle Regioni fa parte di un cambiamento degli scenari più generale. Elemento centrale e dinamico dei mutamenti, per certi versi radicali, che interessarono l’Italia fu l’avvicendamento generazionale all’insegna della discontinuità, sancita dai movimenti giovanili del ’68.

Più in generale, i partiti, che avevano svolto un ruolo di modernizzazione importante per il Paese, entrarono in una lunga fase di crisi, perdendo la capacità di rappresentare le nuove e molteplici istanze cresciute fra la propria base elettorale (Lupo 2004; Lanaro 1992; Scoppola 1997). In particolare, il Pci, che nel dopoguerra era riuscito a riassorbire al suo interno il movimento partigiano e a marginalizzare le istanze più estreme, nella stagione dei movimenti non ebbe la capacità di svolgere lo stesso ruolo.

Parallelamente, si modificò profondamente il loro rapporto sia con il sindacato, sia con la cooperazione.

La debolezza del sindacato, che aveva caratterizzato gli anni Cinquanta, si capovolse fra il 1968 e il 1972, grazie a una forte spinta dal basso collegata alla mobilitazione studentesca e all’iniziativa operaia, che non solo cambiò profondamente le relazioni industriali, ma determinò anche la stagione più attiva del riformismo governativo nella storia della Repubblica (Accornero 1992, 130 ss.; Turone 1992). Il sindacato, infatti, inserì nella sua piattaforma programmatica le riforme sociali (l’elemento scatenante fu la vicenda delle pensioni9), collegandole ai contratti per garantire e consolidare le conquiste dei lavoratori, e gestendole come vertenze vere e proprie, in merito alle quali lo Stato aprì tavoli di trattativa negoziale. Questo impegnò il sindacato verso una prospettiva più ampia, connessa alla conquista di una nuova politica sociale di riforme strutturali democratiche, rivendicando la partecipazione dei lavoratori alla cosa pubblica, allo sviluppo economico e sociale. Si cominciò così a sentire l’esigenza di autonomia dai partiti, in una prospettiva di equidistanza dal governo e dal padronato e, coerentemente al nuovo ruolo politico, la decisione di rendere incompatibili le cariche politiche e quelle sindacali determinò l’uscita dell’intera leadership Cgil-Cisl-Uil dal parlamento e la ripresa del dialogo fra cattolici e marxisti, che avrebbe portato, nel 1972, alla nascita di una federazione unitaria (preludio della unificazione vera e propria, che però non si sarebbe mai realizzata).

Questo comportò una serie di riforme organizzative interne, con differenze fra Cgil, dove la struttura confederale aveva più peso, e nella Cisl e Uil, in cui contavano di più i settori, di cui si fecero interpreti i rappresentanti di una nuova generazione di sindacalisti, portatori di una diversa cultura. Il sindacalista tradizionale, quello del compromesso nel contesto delle vecchie relazioni industriali in cui il lavoro era controparte contrattualmente debole o debolissima, era una figura superata rispetto alle leve della nuova militanza, formatisi nelle lotte operaie di massa. Ora il sindacalista era il delegato dei “gruppi operai omogenei” che aveva dato vita ai Consigli di fabbrica (al posto delle vecchie commissioni interne), le nuove strutture di base “dell’organizzazione sindacale, per radicarla unitariamente sul luogo di lavoro e per rifondarla dal basso” (Accornero 1992, 70).

Verso la fine del decennio, la crescita di fasce di lavoratori che venivano sistematicamente escluse dai benefici di cui godevano gli operai dell’industria provocarono l’incrinarsi della solidarietà nei confronti della classe operaia, che era stata uno degli assi portanti dei movimenti degli anni Sessanta. In questo quadro, si ritiene che il movimento del ’77 decretasse la fine della centralità della classe operaia (Crainz 2009; sul movimento del ’77 cfr. anche De Bernardi, Romitelli, Cretella 2009). Si ritiene che la svolta dell’Eur del 1978 (l’approvazione sindacale della linea di moderazione salariale nei rinnovi contrattuali per favorire un rilancio degli investimenti contro la disoccupazione, che era tornata massiccia a seguito della crisi economica) sia stata una risposta a questa nuova emergenza (Turone 1992, 502 ss). Infatti, poiché la forza dei sindacati sta nella loro capacità di rappresentare gli interessi più generali, agendo anche per conto di gruppi sociali diversi dalla loro base, e, anzi, proprio nell’ideologia di forza di classe e non dei soli iscritti sta la loro capacità mobilitante, la creazione di vaste fasce di lavoratori precari non tutelati costituiva una seria minaccia al potere politico dei sindacati stessi, tanto da spingerli a una moderazione nelle richieste che riguardavano i lavoratori “garantiti” e a favorire l’occupazione o altri benefici per aree più deboli (Regini 1981, 54).

Il distacco dei sindacati dai partiti e la ridefinizione della propria identità, anche nel timore di una erosione dei consensi, contribuì al disimpegno del sindacato dalla cooperazione, malgrado permanesse un rapporto di filiazione difficile da recidere.

La cooperazione non rimase immune da questo quadro di cambiamenti generali. In primo luogo, la politica continuò a esercitare sul movimento cooperativo una funzione di collante, dalla quale traeva l’orientamento e l’indirizzo strategico, nonché una precisa capacità di governance. Tuttavia, nel quadro di una sostanziale continuità di fondo, si era lontani dallo spontaneismo che avevano caratterizzato le origini postbelliche. Da una parte le Centrali cooperative, ma in particolar modo la Lega diventò un luogo di sintesi dei risultati imprenditoriali delle cooperative, un centro di elaborazione strategica e di diramazione e controllo degli indirizzi delle associate, in una dialettica politica ormai pienamente democratica. Dall’altra la cooperazione aveva esaurito il ruolo di democratizzazione e modernizzazione del paese, avendo contribuito a determinare i meccanismi di inclusione delle masse popolari nei processi decisionali generali e a favorire il protagonismo di ceti prima ai margini della cultura civica. Alla guida delle cooperative ai padri autodidatti si sostituirono i figli diplomati e laureati, in maggior parte ancora provenienti dal ceto popolare ma pronti a realizzare l’agognata ascesa sociale.

La nuova generazione di manager, più competente e formata, si rivolse con più decisione al mercato, mirando alla crescita dimensionale e all’acquisizione di competenze specifiche (efficienza, razionalizzazione, riqualificazione, diversificazione, controllo di gestione, direzione finanziaria, informatizzazione, quadri specializzati, e così via), puntando a un nuovo paradigma che valorizzasse il socio come imprenditore (la debolezza del prestito sociale e della capitalizzazione nelle imprese cooperative era ritenuto indice di questo scarso coinvolgimento del socio come imprenditore), piuttosto che come lavoratore subalterno e bisognoso di tutele. La cultura economica portata avanti da questa nuova coorte appena entrata nella cooperazione era in conflitto con alcuni valori identitari. In particolare fu necessario mediare sul principio dell’uguaglianza per introdurre meccanismi meritocratici nella divisione del lavoro e nella sua retribuzione, e superare la visione operaista per dare spazio nella direzione aziendale ai tecnici e ai manager.

Ci preme sottolineare che l’egualitarismo e la reciprocità fra i soci erano le fondamenta su cui si reggeva questo sistema, coerentemente al celebre motto marxista “da ognuno secondo le sue possibilità, ad ognuno secondo i suoi bisogni” (il principio, rivisitato in chiave cristiana, valeva anche per la cooperazione cattolica), e sancito dal principio “una testa un voto” per cui i soci contavano tutti nella stessa misura indipendentemente da altre considerazioni (capitale versato, produttività, ecc.). E così era: ognuno lavorava quanto e come era in grado di fare, dando per scontato che tutti facessero del loro meglio, ma poi ci si divideva paritariamente il frutto del lavoro collettivo, perché tutti avevano contribuito, al massimo delle proprie specificità e competenze, a realizzarlo. Da qui la difficoltà a introdurre il principio meritocratico. Per esempio, la Cta, una cooperativa di trasporti alimentari a proprietà divisa nata ad Anzola Emilia nel 1972, operava un sistema di doppia tariffazione, una esterna, contrattata con il cliente, e una interna, costruita dai soci, uguale per tutti a seconda dei giorni lavorati e del tipo di automezzo, non in rapporto alle ore e al percorso, che veniva attribuito dal “collocatore” sulla base di un principio di rotazione fra i soci (Battilani, Bertagnoni, Vignini 2008). L’introduzione del principio della meritocrazia nelle tariffe, e tutte le altre trasformazioni – rese necessarie dall’evoluzione del mercato e dal bisogno di incrementare la produttività dei camion – che intaccavano il principio dell’uguaglianza fra i soci (come il passaggio delle società dei soci da monoveicolare a pluriveicolare), incontrò resistenze fortissime.

Lo svecchiamento della cultura cooperativa non incontrò solo opposizioni interne, ma fu fortemente contrastato anche dal sindacato, che preferiva pensare al socio come lavoratore piuttosto che come imprenditore.

Calandoci nel dibattito sindacale ricostruito per contestualizzare i percorsi del nostro campione, analizziamo il caso emiliano-romagnolo dove il dibattito fu serrato. Qui la Cgil, che aveva elaborato la prospettiva di un proprio ruolo politico nella strategia delle riforme, considerava la cooperazione alleata nei suoi obiettivi strutturali, immaginandola al suo fianco per interloquire con l’ente pubblico sulle politiche di pianificazione, sulla gestione della programmazione e sulla riorganizzazione dei servizi. In sostanza il rapporto fra cooperazione e sindacato doveva fondarsi sulla condivisione della strategia delle riforme di struttura. Su questi obiettivi di massima, i documenti ufficiali prodotti da Legacoop convergevano (Bertagnoni, Menzani 2010, 130 ss). Per esempio, i dirigenti dell’associazione di rappresentanza delle cooperative dei servizi sollecitavano le proprie associate a proporsi all’ente locale come partner per studiare l’organizzazione dei servizi in coerenza con la ridistribuzione della spesa pubblica, in una logica di riqualificazione che avrebbe rafforzato anche l’ente locale. Ritenevano, inoltre, che fosse necessario per l’ente locale dotarsi di una politica di piano, mantenendo la programmazione e il controllo dei servizi, ma cedendo ad altri la funzione imprenditoriale in settori non chiave (ma sull’esternalizzazione, come diremo, c’erano forti divergenze con il sindacato), in modo da aumentare la produttività, promuovere il concetto di rete e aumentare il coinvolgimento dei cittadini, soprattutto le donne. La funzione della cooperazione, specie nel nuovo quadro del decentramento statale determinato dalla legge 382 e dal decreto 61610, poteva proprio essere quella di favorire l’autogestione dei cittadini per il miglioramento dei servizi pubblici ed essere, al tempo stesso, uno strumento direttamente economico e imprenditoriale. Poiché i servizi erano un settore in cui si concentrava più lavoro nero, la cooperazione poteva svolgere anche un ruolo di moralizzazione e di riaggregazione di un tessuto sociale disgregato, trasformando le donne e i giovani da subordinati a protagonisti, permettendo inoltre l’accesso femminile al mercato del lavoro grazie al ruolo “conciliativo” dei servizi. Tuttavia si insisteva anche sulla necessità di monitorare la tenuta economica e imprenditoriale di questo tessuto cooperativo, uscendo dalla logica del protezionismo assistenziale per misurarsi con il mercato sul terreno dell’efficienza11.

Malgrado l’apparente convergenza sulle dichiarazioni di principio, passando al comportamento concreto delle aziende cooperative si apriva un solco di contraddizioni profondo. E il motivo era piuttosto semplice: la Cgil pensava alla cooperazione come uno strumento di tutti i lavoratori, non solo dei soci, per cui, nel momento in cui, con la strategia delle riforme di struttura, l’obiettivo fu quello di difendere e rendere protagonista il lavoratore non solo sul luogo di lavoro ma nella società più in generale (da qui le rivendicazioni su casa, sanità, urbanistica, trasporti, scuola, ecc.), la cooperazione era chiamata a interessarsi del lavoratore tout court. Questo significava, in concreto, per il sindacato essere ben presente, in quanto rappresentante dell’interesse unitario del lavoratore (senza distinzione fra socio e non socio), nelle aziende cooperative per svolgere non solo una funzione di controllo contrattuale, sulle assunzioni di dipendenti nel rispetto del principio della “porta aperta”, sui provvedimenti disciplinari, vigilando sull’adeguatezza delle retribuzioni dei soci, sulla loro partecipazione alla gestione dell’impresa, ecc., ma anche per avere un ruolo sui piani poliennali di sviluppo e sui bilanci annuali.

Come si capirà, questa impostazione, assolutamente condivisibile e condivisa in sede politica sul piano dei principi, apriva dei conflitti insanabili nella vita concreta di quelle cooperative che cominciavano a porsi il problema di competere coi privati sul mercato, cercavano di valorizzare la funzione del socio come imprenditore ed erano naturalmente insofferenti a ingerenze che spostassero l’ordine gerarchico di questa priorità. Fra queste c’erano quelle aziende strutturate, che stavano compiendo il salto della crescita dimensionale per rafforzare la propria stabilità d’impresa.

Assegnare alla cooperazione un ruolo strategico nella politica delle riforme di struttura aveva anche, soprattutto per i servizi, un’altra diretta conseguenza. Infatti, spostando lo sguardo sulla congiuntura economica, un’altra fondamentale trasformazione dominava lo scenario del periodo: l’emergere del settore dei servizi. In particolare, nel corso degli anni Settanta andò affermandosi una tendenza che avrebbe cambiato radicalmente il quadro economico generale: l’outsourcing. L’outsourcing, o esternalizzazione, consiste nell’affidare a società esterne i servizi e le funzioni estranei al core business dell’impresa, una propensione che ha determinato l’emergere di un nuovo paradigma organizzativo in seno all’industria, all’agroalimentare, alla distribuzione e alla pubblica amministrazione, e che è stata la maggiore responsabile della grande crescita del settore dei servizi negli ultimi trent’anni (Battilani, Bertagnoni 2007). Il ricorso all’outsourcing è stato stimolato da diverse ragioni: la maggiore qualità fornita da chi possiede competenze specialistiche; la possibilità di ridurre i costi affidando un servizio a soggetti in grado di fare economie di scala; il bisogno di aumentare la flessibilità del lavoro aggirando lo Statuto dei lavoratori (approvato il 20 maggio 1970 dalla legge 300), che non si applica in realtà produttive al di sotto dei 15 dipendenti.

Contro l’esternalizzazione, che si era rapidamente affermata nel privato e nel pubblico e che dava la possibilità di ridurre i costi, passare da costi fissi a costi variabili e aumentare la flessibilità del lavoro, scaricando all’esterno le rigidità poste a tutela del lavoro dalla durissima conflittualità sindacale del tempo, il sindacato scese subito sul piede di guerra, malgrado l’impossibilità di contrastarne l’inarrestabile processo.

Per questo il giovane settore dei servizi è centrale per osservare il ridisegnarsi delle relazioni industriali nella cooperazione. Proprio in questo comparto, infatti, che registrò subito una crescita precipitosa, la Cgil aveva svolto un ruolo da protagonista: era stata l’artefice della nascita di moltissimi sodalizi e per una lunga fase la struttura di categoria aveva mantenuto nelle imprese la propria base organizzativa; inoltre fu proprio il sindacato a registrare il bisogno di un’associazione di rappresentanza nella cooperazione dei servizi di area Lega e a farsi promotore della sua nascita, nel 1975, rimanendo ai vertici della struttura fino al 1979. Il disimpegno della Cgil dalla rappresentanza cooperativa nei servizi fu un’evoluzione interna molto conflittuale e sofferta che comportò lo scioglimento del sindacato di categoria, parallelamente alla riorganizzazione sindacale generale che stava creando grandi categorie macrosettoriali, ma sotto il controllo preponderante dell’organismo confederale.

A livello nazionale, la Cgil prese subito posizione sugli appalti di servizi, combattendoli decisamente, considerandoli una “artificiosa scissione del processo produttivo aziendale”12, che comportava la “polverizzazione della organizzazione del lavoro nelle fabbriche e nelle aziende in genere, private e pubbliche”13. La riduzione degli organici diminuiva la capacità di pressione dei lavoratori e l’aumento produttivo coincideva con un taglio ai salari e un incremento del precariato. In questa battaglia senza quartiere, in quei casi eccezionali in cui l’appalto era tollerato dal sindacato, la cooperazione era riconosciuta come l’organismo più consono alla sua presa in carico. Veniva così recuperato un obiettivo storicamente presente nell’elaborazione sindacale: la cooperazione come ente di fiducia dello Stato.

I motivi venivano esposti in un nuovo Documento sugli appalti elaborato dalle tre organizzazioni sindacali di categoria alla fine del 1975. Qui si spiegava che sussiste una netta distinzione fra l’appalto assunto da imprese private ed il lavoro assegnato agli organismi associativi del facchinaggio, del trasporto e delle pulizie. Infatti, mentre le imprese, spinte dalla logica del profitto, esercitavano nell’appalto il massimo sfruttamento della mano d’opera, gli organismi cooperativi e di fatto rappresentavano un esempio di autogestione del servizio da parte dei lavoratori associati. “Inoltre, […] l’attività di tali organismi è disciplinata da specifiche disposizioni legislative, che oltre a stabilire un rigoroso controllo per l’esercizio della attività stessa, determinano tariffe obbligatorie (che sono emanazione di organi amministrativi dello stato nei quali la rappresentanza del lavoratore autonomo è parte integrante e determinante), prevedono un particolare assetto previdenziale, stabiliscono idonee garanzie atte ad evitare che tali lavoratori diventino oggetto di sfruttamento padronale”14.

L’individuazione della cooperazione come referente naturale per la conduzione degli appalti – che il sindacato accettava in circostanze particolari – portò, nell’estate del 1976, all’ipotesi di un protocollo di intesa fra cooperazione, sindacati ed enti locali e pubblici del territorio bolognese, che recepiva il principio della cooperazione come azienda di fiducia dell’ente locale e quindi ipotizzava l’affidamento diretto del lavoro. Si affermava infatti “che la linea di superamento degli appalti deve avvenire e con assunzioni dirette del personale strettamente necessario, sia con il trasferimento di gestioni di servizi direttamente alla cooperazione ottenendo così, inoltre, una qualificazione tanto del ruolo degli Enti stessi, quanto della stessa Cooperazione”15. Più in generale, il documento assegnava una funzione ben precisa alla cooperazione: “la Cooperazione, in una visione pluralistica della economia del paese deve diventarne una componente essenziale, oltre a quella pubblica e a quella privata”, anticipando la parola d’ordine “terzo settore”16 che la Lega avrebbe lanciato due anni dopo.

Nelle realtà locali non è detto che questo si traducesse sempre in un vantaggio, dipendeva piuttosto dalla capacità di pressione – sull’ente pubblico, ma anche sulla cooperazione – che il sindacato esercitava a seconda dei rapporti di forza territoriali. Per esempio, con una Accordo per il superamento dell’appalto delle pulizie negli istituti scolastici di competenza provinciale, risalente al 1° luglio 1977((Archivio della Camera del lavoro di Bologna, fondo Ccdl Bo, b. 7.8, f. Documenti sugli appalti 1971-1977.)), le cooperative Manutencoop e L’Operosa recedevano da un appalto della Provincia (i servizi di pulizia e refezione negli ospedali e nelle scuole erano fra quelle attività per cui il sindacato non ammetteva l’appalto perché ritenuti un “importante servizio sociale”), che riassumeva il servizio internamente. Sappiamo che tentativi di questo genere furono fatti anche in altri casi: per esempio, nel 1975 il sindacato del commercio pose in una piattaforma di sue rivendicazioni nei confronti di Coop Italia, il Consorzio nazionale della cooperazione di consumo, addirittura lo scioglimento della Cta di Anzola Emilia (Bo) – che gestiva la distribuzione per la cooperazione di consumo – e il trasferimento della gestione in proprio del trasporto (Battilani, Bertagnoni, Vignini 2008).

Conclusioni

Concludendo, negli anni Cinquanta e Sessanta le maggiori realtà economiche cooperative conquistarono il mercato e crebbero proprio grazie alla capacità del “marchio” di evocare un progetto di emancipazione sociale, o addirittura, nei momenti più aspri del conflitto politico, hanno rappresentato idealmente una barriera alle tentazioni reazionarie e autoritarie stimolate dalla cappa della Guerra fredda. In quella fase storica, mentre la Lega determinava processi di inclusione sociale dei ceti popolari e di modernizzazione democratica, dando risposta alla richiesta di mutamento degli equilibri sociali da parte di categorie professionali deboli (braccianti, edili, operai), il collateralismo aiutava l’abbattimento dei costi di transazione delle imprese e contribuiva al successo del modello cooperativo.

Negli anni Settanta furono conservati forti elementi di continuità, come il rapporto stretto con la politica, offrendosi ai partiti come laboratorio di distensione per elaborare strategie di governo e sviluppo della città, oppure continuando a esercitare la funzione di ammortizzazione sociale rispetto ai cambiamenti strutturali dell’economia. Il decentramento amministrativo, poi, che favorì le realtà che avevano un forte radicamento territoriale, permise alla cooperazione, che poteva vantare una vocazione solidaristica sostenuta dal riconoscimento sindacale, di presentarsi all’ente locale come “ente di fiducia”.

Lentamente, ma con decisione, le imprese cominciarono a orientarsi al mercato, elaborando nella Lega strategie volte alla grande dimensione, all’accentramento, all’ambito territoriale allargato, alla verticalizzazione, alla managerialità, alla competitività, e così via. Questo comportò che, malgrado il perdurare di rapporti stretti della Cgil con le cooperative dei comparti a lei tradizionalmente più vicini, con le imprese più mature della ristorazione e delle pulizie i rapporti si fecero decisamente conflittuali, “considerandosi reciprocamente controparti, non più compagni che lavoravano per uno stesso disegno”(testimonianza di Paolo Genco, attuale presidente Camst, in Bertagnoni, Menzani 2010, 358n).

Dunque, cooperazione e sindacato furono costretti a perimetrare le rispettive identità, competenze e ambiti di rappresentanza. Fu un processo complesso e sofferto, che all’interno delle aziende aprì insanabili conflitti; soprattutto nel settore dei servizi, in cui cominciava a crescere il lavoro precario.

Spingendo lo sguardo negli anni successivi, alcune fonti lasciano intuire, però (e qui la ricerca andrebbe veramente approfondita), che tutto ciò riguardasse soprattutto la sinistra. Infatti, l’indagine sulla rappresentanza cooperativa nel settore dei servizi ha fatto emergere che in ambito cattolico l’organizzazione fosse molto più complessa e articolata che nella sinistra, dove sostanzialmente, dagli anni Ottanta in avanti il sindacato, che aveva esercitato un ruolo decisivo per lo sviluppo cooperativo del settore, abbandonò l’idea della gestione, dedicandosi alla rappresentanza dei soli lavoratori e non delle loro imprese autogestite, cedendo la rappresentanza cooperativa alla Lega. La Cisl, che nella riforma organizzativa aveva dato vita ad aggregazioni settoriali più ampie, meno controllate dal centro, rafforzò anche l’iniziativa in ambito cooperativo e non procedette a un definitivo disimpegno a favore di Confcooperative fino agli anni Novanta. Emblematica è la parabola del Cenasca (Mainardi, Ozella 2009; Bertagnoni, Menzani 2010, 341 ss)). Il Centro nazionale per lo sviluppo della cooperazione agricola, costituito dalla Cisl nel 1962 per promuovere la cooperazione agricola, si articolò negli anni Ottanta per settori (agricoltura e ambiente rurale, trasporti e servizi all’impresa, consumo, produzione e lavoro, solidarietà) e per territori (nazionale e regionale), rimanendo gli organi di presidenza di stretta emanazione del Consiglio generale della Cisl. Nel 1990 il Cenasca si costituì in associazione con il nome di Centro nazionale della cooperazione e autogestione, svolgendo le funzioni di costituire, organizzare, assistere e coordinare le cooperative di ogni ordine e grado e le forme di lavoro associato in tutti i settori di attività; in particolare, promuoveva l’educazione cooperativa e la formazione professionale specifica ed i sempre più forti rapporti di solidarietà tra gli associati. La Cisl scelse di privilegiare il rapporto di collaborazione con Confcooperative solo nel 1992, bloccando il Cenasca che era sul punto di chiedere il riconoscimento governativo come Centrale cooperativa, avendo raggiunto le condizioni richieste dalla legge.

Una spinta dei sindacati minori (comprendendo anche la Uil, le cui articolazioni settoriali svolsero una funzione strategica nei confronti delle cooperative di area Agci17 fino ai giorni nostri) al mantenimento di un ruolo nella cooperazione può avere diverse spiegazioni: il desiderio di non perdere iscritti, data l’emorragia costante di adesioni; il fatto che la cooperazione fosse una fonte di potere e di entrate cospicue, attraverso l’affidamento di servizi di consulenza per la gestione; infine non è da sottovalutare il fattore organizzativo che caratterizzava i due sindacati, per i cattolici più incentrato sulle categorie, che consentivano più autonomia rispetto alla confederazione.

Ma influisce soprattutto una cultura dell’impresa diversa, più disponibile a dialogare con logiche di mercato e meno schierata sul fronte della lotta di classe. Infatti la centrale cattolica era nata per soddisfare un bisogno di miglioramento sociale del ceto medio (soprattutto piccoli proprietari e artigiani), per cui assunse nel tempo una funzione di sostegno alla piccola proprietà e alla piccola impresa, piuttosto che concentrarsi sull’espansione e il consolidamento di questa. Il rapporto fra Confcooperative e sindacato cattolico poteva essere conflittuale per la concorrenza ad associare cooperative, ma non aveva una valenza ideologica.

Per il ruolo determinante storicamente assunto dal sindacato nella cooperazione, specie in alcuni settori, credo sarebbe veramente importante indagare se questa presenza abbia avuto un’influenza sulla cultura d’impresa delle diverse centrali cooperative negli ultimi quarant’anni e sull’elaborazione dei diversi modelli di crescita sul mercato.

Per citare questo testo attenersi alle seguenti indicazioni: Giuliana Bertagnoni, Impresa solidale e relazioni industriali: alcune riflessioni sul nodo degli anni Settanta, in “Storia e Futuro”, Rubriche: Laboratorio, n. 30, novembre 2012.

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1999 (cur.)      La fondazione della repubblica. Modelli e immaginario repubblicani in Emilia e Romagna negli anni della Costituente, Milano, Angeli.

2005                Fortune e sfortune del corporativismo nell’Italia del Novecento, in Varni.

 

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1981                Il movimento cooperativo in Italia. Storia e problemi, Torino, Einaudi, 1981.

 

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1991                La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia italiana (1945-1990), Bologna, Il Mulino.

1997                La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico, 1945-1996, Bologna, Il Mulino.

 

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1971                Sociologia dei partiti politici, Bologna, Il Mulino.

 

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1981                Sviluppo economico e trasformazioni socio-politiche dei sistemi territoriali a economia diffusa. Le subculture politiche territoriali, in Quaderni della Fondazione Feltrinelli, 16.

 

Turone S.

1992                Storia del sindacato in Italia: dal 1943 al crollo del comunismo, Roma-Bari, Laterza.

 

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1990 (cur.)      Emilia-Romagna terra di cooperazione, Bologna, Eta.

2005 (cur.)      Mosaico Italia. Frammenti della complessa integrazione nazionale, Bologna, Bononia University Press.

 

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1996                La cittadinanza repubblicana. Forma-partito e identità nazionale alle origini della democrazia italiana (1943-1948), Bologna, Il Mulino.

 

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2005                Per una teoria economico-civile dell’impresa cooperativa, in Mazzoli, Zamagni

2006                Promozione cooperativa e civilizzazione del mercato, in Bulgarelli, Viviani.

 

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2002                Camst: ristorazione e socialità, Bologna, Il Mulino.

 

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2004                La cooperazione di consumo in Italia. Centocinquant’anni della Coop consumatori: dal primo spaccio a leader della moderna distribuzione, Bologna, Il Mulino.

 

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2006                Oltre il secolo. Le trasformazioni del sistema cooperativo Legacoop alla fine del secondo millennio, Bologna, Il Mulino.

 

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1986                Bologna, Roma-Bari, Laterza.

 

Zangheri R., Galasso G., Castronovo V.

1987                Storia del movimento cooperativo in Italia. La Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue (1886-1986), Torino, Einaudi.

  1. Le società di mutuo soccorso – che si svilupparono nel decennio pre-unitario ad opera dei lavoratori urbani specializzati, i quali, in seguito alla soppressione delle corporazioni di arti e mestieri, cercavano strumenti di autodifesa e nuove forme di solidarietà e identità sociale e professionale – sono le prime associazioni ad articolazione nazionale, di natura interclassista, in cui è presente anche la classe operaia. Queste, oltre alla difesa e all’assistenza degli associati, avevano l’obiettivo del collocamento. In particolare con la crisi del 1889-1890 e l’innalzarsi degli indici di disoccupazione, dalle società di mutuo soccorso si staccarono delle sezioni indipendenti (società di miglioramento o di resistenza, che poi si organizzarono per articolazione professionale in Leghe), che rivendicarono anche la necessità di lottare contro il padronato e di consolidare la solidarietà di classe, nei cui Statuti c’era anche l’istituzione di un proprio ufficio di collocamento e la promozione di cooperative per i soci disoccupati. Nel giro di qualche anno, tali organizzazioni confluirono nelle Camere del lavoro (Cdl), nate anch’esse sull’onda della crisi di fine Ottocento per favorire il collocamento dei disoccupati e che svolgevano parimenti una importante funzione di studio statistico sulle condizioni operaie e di arbitrato nei conflitti fra l’offerta e la domanda di lavoro. Anche negli statuti delle Cdl, fra i mezzi indicati per “patrocinare gli interessi dei lavoratori in tutte le contingenze della vita”, c’erano l’aiuto allo “sviluppo del sistema cooperativo, di consumo, di produzione, di credito, ed invigilando perché i pubblici lavori siano affidati alle Società operaie cooperative” (Merli 1976, 665-666). []
  2. La Cgil era rinata nel giugno del 1944 su basi unitarie e, pur avendo una maggioranza di iscritti comunisti, negli organi dirigenti ognuna delle tre componenti maggioritarie (riferite a Dc, Psi, Pci) aveva un’identica rappresentanza. Per ricostruire il quadro politico e sociale nel quale si inserisce la questione sindacale alla fine della guerra cfr. Ginsborg 1989. []
  3. Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, che sancirono la sconfitta delle sinistre riunite nel Fronte democratico, nei luoghi di lavoro il livello della conflittualità si inasprì e affiorarono profondi contrasti fra Cgil e Acli, l’Associazione dei lavoratori cattolici che, coadiuvata dalla Dc, sabotava gli scioperi fornendo manodopera “crumira” ai proprietari. In questo contesto politico tumultuoso, l’attentato a Togliatti del 14 luglio e lo sciopero generale, di natura politica, che ne seguì, provocando gravi disordini per l’azione spontanea della base, diedero l’alibi ai cattolici della fuoriuscita dalla Cgil e della costituzione della Libera Cgil (Lcgil), che nel 1950 prese il nome di Confederazione italiana sindacati dei lavoratori. Per approfondimenti sulla nascita della Cisl cfr. Forbice 1990; Saba, Bianchi 1990. []
  4. Solo con l’inasprirsi della Guerra fredda, che accelerò le divisioni fra le sinistre e i cattolici e produsse la scissione sindacale del 1948, la legge Fanfani (approvata dal parlamento in aprile 1948, ma rivista e aggiornata fino all’accordo con la Cgil dell’anno dopo) tolse il collocamento dalle mani del sindacato e lo affidò agli Uffici del lavoro statali, segnando una grave sconfitta per tutto il movimento operaio e dando nuova asprezza a uno scontro sociale già tragicamente funestato dalla violenza degli strascichi della “guerra civile” da poco conclusa. []
  5. Nata ufficialmente nel 1893 e sciolta dal governo fascista nel 1925, la Lega delle cooperative e mutue (in questo saggio usiamo indistintamente la dizione di Lega delle cooperative e Legacoop, che è il nome attuale della Centrale).si ricostituì nel maggio del 1945 per iniziativa di un apposito comitato composto dai rappresentanti di tutti i partiti del Cln, ad eccezione della Democrazia cristiana, la quale diede vita alla Confederazione cooperativa italiana (Confcooperative), in linea di continuità con l’organizzazione cattolica del 1919, che propugnava un interclassismo che ben si prestava ad aggregare una vasta gamma di gruppi sociali. []
  6. La ricostruzione dei profili dei dirigenti d’impresa cooperativa ha dimostrato che l’amministrazione locale era il trait d’union fra cooperazione e politica e che questo legame è continuato fino a tempi a noi vicini. Questo ha permesso di costruire analogie fra l’azione amministrativa del Partito comunista nella provincia bolognese – la cui strategia elettorale all’inizio degli anni Cinquanta era già perfettamente articolata sul trinomio programma (nato dalla consultazione della base e personalizzato sulle esigenze di ogni piccolo comune), comunicazione (chiara, diretta, semplice, ponendosi dal punto di vista dei ceti popolari), controinformazione (basata su esempi concreti per smontare la propaganda anticomunista) (Bertagnoni 2007) – e la gestione dell’impresa cooperativa. La mission dell’amministrazione comunale e della cooperazione era l’individuazione dei bisogni materiali e concreti della popolazione (che andava sollecitata alla partecipazione attraverso l’organizzazione di “cellule” diffuse capillarmente nei luoghi di residenza e di lavoro), e la loro soluzione. []
  7. Solo nelle società di lavoro (Costruzioni, Pulizie, Ristorazione, Sociali, Lavoro agricolo, Pesca) la figura dei soci e dei dipendenti è spesso sovrapponibile, nelle società di utenza (Consumo, Abitanti) e di supporto (Conferimento prodotti agricoli, Allevamento, Trasporto, Dettaglianti, Credito) c’è una netta distinzione. []
  8. In particolare, nella fase più conflittuale della Guerra fredda, tutta la cooperazione di area Lega fu accomunata dal medesimo destino di attacchi pretestuosi da parte del governo, soprattutto fra chi lavorava con enti statali o sperava di ottenere finanziamenti concessi a sostegno dello sviluppo delle attività d’impresa. Le mobilitazioni collettive messe in piedi per reagire a questi attacchi (per esempio fu il caso di Camst e Manutencoop, per citare due casi di imprese ancora oggi operative e prospere) furono durevoli ed efficaci, sostenute anche da prestigiosi personaggi che intervenivano in difesa di un’idea universale di democrazia (per esempio, Valter Bigiavi, preside della facoltà di economia di Bologna, personaggio di grande notorietà e prestigio, considerato da tutti super partes, assunse la presidenza del collegio di difesa della cooperazione in queste cause). []
  9. Fino alla seconda metà degli anni Settanta il sistema pensionistico italiano si era sviluppato estendendo la copertura minima a diverse categorie di non salariati e aumentando le prestazioni per i lavoratori dipendenti. Il sindacato – che mirava alla riforma generale del sistema, ma non era stato in grado di mettere in campo iniziative efficaci – negli anni 1968-69, cambiati i rapporti di forza, aprì invece una “vertenza” che la letteratura considera il successo più pieno sul terreno delle riforme sociali. Nella primavera del 1969 venne raggiunto un accordo tra governo e sindacati (poi trasformato nella legge n. 153 del 30 aprile 1969) che produsse un modello previdenziale ancorato al criterio retribuito (cioè rapportato alle retribuzioni, anziché contributivo, cioè calcolato sui contributi versati) e vincolato a un adeguamento automatico al costo della vita. Per approfondimenti cfr. Regini 1981, 124 ss. []
  10. 17 La legge 22 luglio 1975, n. 382, delegò il governo per un nuovo e più organico trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni; il d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616, sancì la sua attuazione. []
  11. Ancs, Primo congresso nazionale. Roma, 17-20 gennaio 1979. Atti e documenti, Roma, editrice cooperative, s.d. []
  12. Convegno Nazionale Cgil-Cisl-Uil. Sugli appalti. Documento unitario Fifta-Fiftat-Uiltatep, in “Il Progresso”, VII, 4, ottobre-dicembre 1971. []
  13. Le Segreterie nazionali Fifta-Cgil-Filtat-Cisl-Uiltatep-Uil, Documento sugli appalti, 11 novembre 1975, in “Il Progresso”, XI, 3, luglio-novembre, 1975. []
  14. Ibidem. []
  15. Cfr. Archivio della Camera del lavoro di Bologna, fondo Ccdl Bo, b. 7.8, f. Documenti sui rapporti tra sindacato e cooperazione 1965-1979, Bozza di protocollo di intesa fra cooperazione – sindacati – enti locali e pubblici, agosto 1976. Per una trattazione più approfondita cfr. Bertagnoni, Menzani 2010, 135 ss. []
  16. Con questa parola d’ordine lanciata dalla Lega nel 1978, al 30° Congresso, “s’intendeva porre la questione della presenza di un nuovo soggetto, accanto a quello pubblico e privato, come elemento originale di intervento e, insieme, di pluralismo nei processi di sviluppo e nella struttura economica e imprenditoriale del paese” (Zangheri, Galasso, Castronovo, 1987, 820). []
  17. L’Associazione generale delle cooperative italiana è stata riconosciuta nel 1961, nata per iniziativa di una componente repubblicana e socialdemocratica uscita dalla Lega quando la direzione passò ai socialcomunisti, nel 1952. []