di Marilisa Mainardi
Dall’archeologia industriale allo studio del patrimonio industriale
La Rivoluzione industriale ha cambiato profondamente il modo di vivere degli uomini: ne ha mutata la concezione del tempo, ha creato il salario e il tempo libero e una serie di oggetti che prima di essa non sarebbero stati neppure immaginabili.
Pertanto non stupisce che gli studiosi, negli anni, abbiano rivolto sempre maggiore attenzione allo studio dei fenomeni riguardanti l’industrializzazione e che, al volgere della metà del Novecento, abbiano preso in considerazione anche i resti lasciati da essa. Questa particolare branca di studi viene chiamata archeologia industriale o studio del patrimonio industriale.
L’archeologia industriale e la storia del patrimonio industriale hanno avuto una complessa evoluzione così come accade per ogni ambito disciplinare oggetto di studi e ricerche.
La Gran Bretagna fu il primo Paese a recepire il ruolo fondativo dell’industrializzazione nella propria storia nazionale e a sentire l’esigenza di approfondirne lo studio. Non a caso Angelo Nesti (2003) individua nell’abbattimento della storica stazione londinese di Euston e nelle forti proteste popolari che ne seguirono il termine a quo dell’avvio della disciplina. È a partire proprio da questo evento che, dal 1962, ebbe inizio il dibattito che portò alcuni intellettuali e studiosi inglesi, provenienti da diversi ambiti disciplinari, ad occuparsi delle vicende legate alle nuove esigenze di smantellamento degli impianti produttivi e a conferir loro un valore tale da farli diventare oggetti da tutelare.
Nei due decenni successivi anche le altre nazioni, specie quelle europee ma anche gli Stati Uniti, iniziarono ad interessarsi a queste discipline che, naturalmente, hanno avuto sviluppi differenti a seconda delle accezioni ritenute più vicine al proprio comune sentire.
“L’archeologia industriale studia ciò che resta del lavoro dell’uomo” (Covino 1981, 248). Questa frase è senza dubbio vera ma deve esprimere una qualche limitazione e dunque entrambi i termini della locuzione meritano un’analisi. Che cosa si intende con l’aggettivo industriale?
In alcuni casi al termine industria si associano tutte le attività legate agli oggetti realizzati dall’uomo nel corso della sua presenza sulla Terra, accezione piuttosto ampia considerando che comprende sia i primi utensili preistorici sia i software dell’era digitale. Una così vasta periodizzazione interesserebbe dunque un gran numero di discipline che si potrebbero definire “già create” dagli uomini e, pertanto, risulterebbe poco utile.
Un’altra accezione, anch’essa piuttosto estesa, riguarda quelle particolari creazioni umane che hanno –in vari modi – i connotati che oggi si conferiscono agli oggetti industriali, come i mulini idraulici, ma anche gli acquedotti romani, dunque opere di ingegneria umana in genere.
Una terza accezione fa invece riferimento a tempi molto recenti e ridotti, i secoli XVIII-XIX-XX, nei quali le Rivoluzioni Industriali hanno modificato radicalmente i modi di vivere delle persone, ne hanno condizionato i rapporti, i desideri e il paesaggio. È dunque questa ultima periodizzazione che meglio esprime il senso moderno di industria, ove il cambiamento a livello sociale, la quantità di macchinari e prodotti disponibili e molti altri aspetti sono stati maggiormente recepiti e capaci di cambiare la collettività. A questo si aggiunge una considerazione di carattere pratico che riguarda il gran numero e la tipologia di fonti e materiali di cui lo studioso può entrare in possesso, che meglio coincide con il carattere multidisciplinare di questi studi.
La parola archeologia ha invece aperto un ulteriore dibattito che si è definito soltanto negli anni ’80 e va tuttora sviluppandosi. Il primo approccio alla materia è stato volto all’osservazione, allo studio e al recupero degli impianti produttivi, trascurando spesso – e il più delle volte volontariamente – gli oggetti materiali e immateriali, legati al sito.
Una prima interpretazione dell’oggetto di studio dell’archeologia industriale viene data da E.R.R. Green nel suo volume The Industrial Archaeology of County Down del 1963, dunque dagli esordi della disciplina. Green sottolinea che la Gran Bretagna avrebbe dovuto interessarsi della catalogazione dei resti della prima industrializzazione – quindi del XVIII e XIX secolo – e che il metodo di lavoro avrebbe dovuto essere quello che viene utilizzato dall’archeologia “classica”, con scavi e un attento studio degli edifici. I risultati prodotti dalla catalogazione sarebbero stati poi materia di studio degli storici della tecnologia o degli storici economici in quanto ritenuti maggiormente attinenti a queste materie (Tognarini, Nesti 2003).
La stessa attenzione agli edifici si riscontra in Michael Rix che ritiene la catalogazione il lavoro principale e che gli studi abbiano come oggetto l’analisi dei luoghi della prima industrializzazione, con particolare premura proprio verso gli impianti produttivi, cui viene conferito lo status di monumenti veri e propri (Tognarini, Nesti 2003).
Kenneth Hudson scrive un’efficace definizione che sarebbe divenuta solida base di partenza per molti degli studi successivi: “L’archeologia industriale si occupa della scoperta, della catalogazione e dello studio dei resti fisici delle industrie e dei mezzi di comunicazione del passato” (Hudson 1981, 2).
In queste poche parole lo studioso è capace di descrivere quello che viene indicato tutt’oggi come il metodo dell’archeologia industriale. Le ricerche più recenti partono infatti dall’individuazione del reperto che viene dunque catalogato e studiato in base a quanto rinvenuto non solo al suo esterno, ma anche al suo interno.
La definizione di Hudson, così come quelle di Rix e Green, mette in luce l’interesse verso gli oggetti materiali, sottolineando l’importanza dello studio degli edifici; queste tuttavia non sono sufficienti perché non in grado di descrivere la materia così come oggi viene intesa. Occuparsi di patrimonio industriale significa, infatti, ricostruire storie attraverso l’osservazione di documenti di svariata natura che partono dall’edificio e proseguono attraverso le fonti scritte (documenti d’archivio, lettere personali, diari di maestranze e imprenditori, articoli di giornale, cataloghi), con fonti “fisiche” come i resti dei macchinari (per la cui analisi è fondamentale una certa preparazione tecnica), con gli oggetti prodotti dall’azienda, con le strategie di marketing (cartelloni e spot pubblicitari), con le testimonianze orali (ancora numerose), con l’osservazione e la documentazione dei contatti fra l’azienda e il territorio.
Proprio da questo approccio pluridisciplinare discende il termine patrimonio industriale che oggi si preferisce ad archeologia industriale.
Compreso il significato del termine archeologia industriale e definito che l’espressione patrimonio industriale è più funzionale, ci si chiede cosa accada dopo il lavoro di individuazione, catalogazione e studio. Se durante la prima industrializzazione e dopo la seconda Guerra Mondiale il sorgere delle fabbriche veniva visto come negativo per il suo dirompente impatto sul paesaggio, oggi gli impianti sono entrati a far parte, volenti o nolenti, del panorama di molti territori (Castronovo, Greco, 1993). Le necessità di rinnovamento e la chiusura di alcuni impianti produttivi hanno provocato l’interessamento di studiosi e delle stesse comunità per tutelare quello che viene riconosciuto come patrimonio fondativo di un territorio. Si è iniziato dunque a parlare di patrimonializzazione, ossia del conferire valori simbolici e culturali ma anche economici alle componenti dell’eredità industriale (Fontana 2008).
Negli ultimi decenni il fenomeno della deindustrializzazione è stato molto forte in Italia e i “vuoti” lasciati dalla operatività e dalla vitalità delle fabbriche sono divenuti più spesso un problema che una opportunità, d’altra parte “sono necessarie più generazioni per recepire i nuovi spazi e i nuovi luoghi, per rendersi conto dell’attenzione, della cura, della cultura in quelle costruzioni che sembravano solo razionali, solo dettate dal desiderio di piegare a una tecnica e a un fine produttivo spazi e luoghi che fin lì erano volti ad altri scopi. […] nasce una nuova nostalgia: quella dell’archeologia del manufatto industriale, ieri prepotente e inaccessibile, oggi ingenuo e primitivo, ‘inserito’ in un paesaggio di cui è parte determinante” (Cipolletta 1993, 11).
L’accresciuto interesse per i resti industriali ha però fatto sì che alcuni di essi siano diventati oggetto di ristrutturazione, riqualificazione, e nuove destinazioni d’uso che spesso possono portare un concreto arricchimento della zona in cui si trovano (Spaziante 2008).
In genere, nei grandi edifici o nelle aree ex industriali, vengono ricavate nuove abitazioni (ad esempio a Milano, con la contestata costruzione di loft nell’area ex Richard Ginori), parchi industriali (un esempio su tutti è il villaggio Crespi d’Adda, riconosciuto patrimonio dell’umanità dall’Unesco), o in altri casi divengono spazi culturali (ad esempio l’ex zuccherificio Eridania di Parma trasformato in sala da concerti da Renzo Piano, il Museo d’Orsay di Parigi che da stazione ferroviaria è divenuto museo artistico, ecc.).
Uscire dai vincoli dettati dalla “abitudine” alla cultura umanistica e riconoscere lo status di patrimonio agli edifici industriali è stato tutt’altro che semplice (Galuzzi 1994). Siamo oggi di fronte ad un importante recupero della memoria storica delle imprese italiane e l’ampliamento degli ambiti di ricerca, dunque l’edificio ma anche i prodotti e gli archivi, hanno portato alla luce un vero e proprio “giacimento culturale” (Castronovo, Greco 1993) sul quale può essere effettuato un grande lavoro di recupero e valorizzazione che deve essere portato avanti nonostante alcune resistenze.
Il lavoro dell’archeologo industriale è, oggi più che cinquant’anni fa, creare cultura e dare valore a queste aree e, se non è possibile conservare gli edifici, è quanto mai opportuno preservare oggetti, archivi e il saper fare. E quale struttura migliore di un museo potrebbe essere atta a questo scopo?
Musei del patrimonio industriale: finalità e radicamento territoriale
I musei del patrimonio industriale ebbero, sin dalle prime fondazioni, un duplice scopo: risolvere il dibattito fra arte e industria e una funzione didattica. Tali finalità sono rintracciabili nelle strutture attuali ove, in taluni casi, vengono messi in evidenza i valori estetici ed artistici degli oggetti prodotti in serie e in altri in cui sono organizzati percorsi didattici ad hoc.
Arte e industria: un lungo dibattito
La portata rivoluzionaria dell’industrializzazione scosse le fondamenta culturali dell’Europa e costrinse le persone a fare i conti con oggetti, tempi, modi di vivere diversi. È naturale dunque che tutti questi cambiamenti abbiano generato esigenze nuove rispetto alle preesistenti. L’industria dovette iniziare a fare i conti con la classe media, cercando di creare prodotti che mantenessero la serialità ma che avessero sufficienti e apprezzabili caratteristiche estetiche per invogliare il pubblico ad acquistarli. Nacquero in questo contesto la figura del consumatore e la moda, che non fu più ad appannaggio dei ricchi signori, ma anche di una più varia e ampia cerchia di individui. Si cercò quindi di conferire i caratteri del lusso anche ad oggetti meno costosi e, se per i più abbienti l’artigianalità rimase a lungo un sinonimo di ricchezza, i nuovi oggetti di design creati per la classe media divennero sempre più belli e desiderabili.
L’influenza di questo dibattito è tutt’oggi presente: in molti musei industriali il profilo storico-artistico degli oggetti industriali prevale su quello tecnologico. È piuttosto raro trovare delle descrizioni unicamente tecniche (ad esempio come si forma l’impasto della ceramica o il procedimento delle lavorazioni in ghisa), ma è ben più facile veder esaltata la bellezza di talune creazioni. Accanto ai musei a vocazione prettamente artistica ve ne sono altri in cui vengono semplicemente esposte macchine utili per la lavorazione dei prodotti più vari. Questi spazi espositivi furono piuttosto rari sino agli anni ’80 del XX secolo e per lo più mettevano in luce modelli o strumentazioni sulle quali continuava a prevalere il carattere storico-didattico.
D’altra parte, una delle domande più frequenti ancora oggi fra gli studiosi del patrimonio industriale è come valorizzare oggetti che non sono portatori del bello. Se lo chiedeva Louis Cloquet (Basso Peressut 1985), architetto parigino che, nel 1900 in una descrizione delle caratteristiche che avrebbero dovuto avere i locali espositivi dei musei delle arti decorative industriali, vedeva prevalere le finalità didattiche: “In musei di questo tipo gli oggetti esposti non devono tanto procurare godimento estetico per la bellezza del loro aspetto, quanto servire allo studio ed essere l’oggetto di un esame dettagliato e in qualche modo analitico”. Lo stesso dubbio si è posta l’attuale direttrice del Museo del patrimonio industriale di Bologna, Maura Grandi, nel suo intervento La museografia del patrimonio industriale al Convegno organizzato dal museo bolognese nel dicembre 2009. Tutto ciò a dimostrazione del fatto che questa domanda rappresenti un nodo cruciale nell’approccio alla materia.
La didattica
La funzione didattica dei musei del patrimonio industriale fu esplicita sin dalla loro fondazione alla metà dell’Ottocento. L’intento era quello di sostituire la pratica di bottega con un’educazione più mirata ed istituzionale e affinare – in alcuni casi – il gusto per la creazione delle cose belle. Con l’industrializzazione vennero fondate numerose scuole tecniche alle quali si affiancava il supporto di macchine e modelli con cui gli alunni potevano interagire. Veniva promosso un principio di emulazione (Amari 1997) in base al quale l’entrare in contatto con i macchinari tecnologicamente più avanzati non solo avrebbe fatto comprendere meglio le nuove tecnologie ma anche stimolato a crearne di migliori.
Come si vedrà chiaramente anche in seguito la funzione educativa resta per molte strutture odierne essenziale. Se in taluni casi essa viene esplicitata unicamente tramite didascalie più o meno dettagliate, in altri essa fa parte del programma museale vero e proprio ed è oggetto di numerosi investimenti.
Resta fondamentale sottolineare il legame dell’uomo al lato pratico delle cose e, come avviene nei fatti, alla creazione di molti oggetti che quotidianamente utilizza. Come sottolineato anche da Valerio Castronovo (1993), una buona cultura tecnica di base è fondamentale per l’esercizio di una democrazia matura.
I musei aziendali
Una particolare tipologia di musei industriali è quella dei musei aziendali. Queste sono “istituzioni” anomale perché sono state create e vengono direttamente gestite dalle imprese economiche di cui celebrano la storia. Non possiedono, dunque, la finalità “no profit”, che è uno dei requisiti minimi che un museo deve detenere, secondo quanto definito a livello internazionale dall’International Council of Museums (Icom), recepito a livello nazionale dal Codice dei Beni culturali.
Nei musei aziendali i valori del marchio diventano i protagonisti dell’esposizione.
La scelta di esporre oggetti della propria produzione, di utilizzare spazi espositivi aperti al pubblico per esaltarne determinate caratteristiche e renderle mirabili, risponde nella maggior parte dei casi ad una esigenza di comunicazione da parte dell’azienda. Ma che cosa si vuole comunicare? La prima volontà è quella di sottolineare i valori di autenticità degli oggetti prodotti. In un’epoca di consumismo, disponibilità di denaro e varietà di scelta mai così vasta (si fa riferimento ad un periodo che va dagli anni ’60 sino ad oggi), l’acquisto di un prodotto – specie se di un certo valore – corrisponde, consapevolmente o inconsapevolmente, alla ricerca di un carattere di unicità e originalità, caratteristiche che il marchio storico può certo fornire.
Per le stesse ragioni, possedere un determinato oggetto sottolinea un’identità sempre più difficile da creare.
L’utilizzare in tal modo il dato storico, “piegarlo” alle proprie esigenze comunicative, significa fare un uso strumentale della storia. Il che non deve essere considerato negativamente, ma con la consapevolezza di aggiungere ai propri prodotti una particolare suggestione, in grado di attribuire ai manufatti una valenza mitica, capace di trasformare anche la recente storia industriale in leggenda.
Da questo si comprende chiaramente il perché nella maggior parte delle aziende la gestione del museo sia affidata a direttori marketing o a persone provenienti dal settore della comunicazione aziendale, pratica totalmente assente nei musei del passato (Montemaggi, Severino 2007).
Per le stesse ragioni non stupisce che in molti dei musei aziendali di oggi sia presente un fornito book shop, nel quale, se non si possono acquistare i prodotti veri e propri (ad esempio automobili o motociclette), vengono proposti accessori, modellini, magliette o fotografie comunque rappresentative.
Questi musei non vendono solo oggetti ma creano delle emozioni. Attraverso non sempre oggettivi richiami alla storia si esalta un passato glorioso, vengono proposte foto e immagini video chiare e dai toni enfatici, in grado di richiamare alla mente o momenti vissuti o momenti che si sarebbero voluti vivere. Vengono inoltre esaltate le doti individuali dell’imprenditore, il suo ingegno, il suo talento, talvolta la sua benevolenza verso i lavoratori. In molti casi viene sottolineato il ruolo che la fabbrica ha avuto nel territorio. Tutte queste funzioni, oltre a creare un particolare legame con il visitatore, vengono utilizzate per generare senso di appartenenza nei lavoratori dell’azienda stessa, qualcosa che possa farli sentire fieri della realtà cui appartengono e che contribuiscono a mantenere tale.
Nell’esposizione museale diventa dunque fondamentale coinvolgere il pubblico. Non a caso i musei aziendali, sin dai loro esordi, si sono mossi con una sostenuta dinamicità che spesso si concretizza nel modo più semplice, ossia attraverso la rotazione degli oggetti in esposizione, motivo valido per una seconda visita da parte di appassionati e di chi già aveva apprezzato il museo in precedenza. Oltre a questo, il fatto di stimolare le persone a partecipare attivamente alla visita serve a renderla coinvolgente e ben lontana dall’esperienza che può essere fatta nei più classici musei artistici, che spesso è meramente contemplativa.
Museo e territorio
Un’ulteriore funzione dei musei del patrimonio industriale è quella di creare e incentivare il legame con il territorio in cui si trovano. Quando un’impresa si insedia in un luogo, le modifiche che vi apporta sono forti e radicali e si manifestano su vari fronti; la cittadinanza vi lega il proprio destino, vengono create nuove abitazioni, scuole, attività commerciali per una popolazione in crescita. Il paesaggio e gli equilibri che lo reggevano mutano. All’insediamento dell’azienda segue un importante confluire d’interessi che porta ad un innegabile aumento della ricchezza. Ricchezza materiale, ma anche spirituale: quando in un territorio nascono marchi storici e stili di vita che sottolineano valori emergenti proprio grazie al lavoro, si instaura negli abitanti un senso di appartenenza e un orgoglio che porta ad un’ulteriore valorizzazione dell’entità industriale di riferimento. Pertanto la fondazione di un museo corrisponde anche al desiderio di esaltare questi valori, questo senso di appartenenza.
Spesso anche il museo aziendale si trova inserito in un sistema di attività culturali territoriali e in molti casi tali strutture vengono descritte nelle guide turistiche accanto ad altre strutture più “istituzionali” quali chiese, musei civici, musei artistici. Si sviluppa una comunicazione del prodotto-museo sino ad ora inedita, in cui la visita coinvolge la scoperta di un territorio dove vengono promosse le attività più varie, tra le quali, da non dimenticare, la ristorazione che in Italia è sempre un’efficace attrattiva.
Il museo industriale si trova in taluni casi ad essere un polo culturale di primaria importanza nella città che lo ospita, perché diviene il tramite per promuovere iniziative di vario tipo che possono anche essere lontane dalla materia principale trattata nella struttura espositiva. Si organizzano sagre e fiere, competizioni sportive, rievocazioni d’epoca e via dicendo, alle quali i musei partecipano attraverso il diretto coinvolgimento del personale, con l’esposizione di prodotti, la vendita o la donazione gratuita di gadget e così via.
La collezione
Le collezioni dei musei del patrimonio industriale sono rappresentate da oggetti portatori di valori e come tali devono essere conservati, se ne deve comunicare il significato e – ove possibile – ricreare il contesto in cui venivano utilizzati. Memorabile in tal proposito è questa affermazione di Kenneth Hudson: “L’ideale sarebbe che gli attrezzi, i macchinari gli apparecchi di un tempo venissero conservati nei medesimi luoghi in cui furono usati, visitati dagli spiriti degli operai morti da generazioni” (Hudson 1994).
Questa suggestiva considerazione è stata poi sviluppata con ulteriori precisazioni da Antonio Calabrò:
ogni oggetto ha una storia. È frutto di un sistema di relazioni, per esempio, tra chi lo progetta, chi lo produce, chi lo mette in commercio e chi lo usa. Ha un suo sapere incorporato (risultato del lavoro fatto per realizzarlo e di tutto ciò che storicamente porta a quel lavoro) e, contemporaneamente, ha una sua funzione simbolica, nel doppio senso dell’espressione di quel sapere e del rilancio concettuale a un universo collegato di valori e significati. Ogni oggetto, dunque, è al centro di un sistema di relazioni, materiali (il fare, il commerciare) e immateriali. Testimonia e definisce un mondo, ma sollecita a considerare altri mondi eventuali. Un oggetto, in altri termini, è un oggetto, un segno, un sogno (nel senso d’una possibilità di futuro). Va capito. E conservato (Aa.Vv. 2003, 8).
Questi oggetti si fanno portatori di una nuova cultura, ossia la cultura d’impresa, entrata nel bagaglio culturale italiano soltanto in tempi recenti, insieme alla nascita del Made in Italy. In essa vengono rappresentati i valori migliori delle persone, l’intraprendenza, la dedizione al lavoro, il riconoscimento del merito e delle capacità e la “tensione eretica di chi rompe lo status quo per affermare un prodotto o un servizio nuovi e per rompere la paludosità d’un vecchio mercato” (Aa.Vv. 2003, 12).
La storia dei grandi imprenditori, delle innovazioni che hanno migliorato concretamente il benessere sociale e i legami dell’uomo all’industria sono gli oggetti della narrazione dei musei.
La collezione è uno dei punti chiave della discussione intorno ai musei ed infatti i contenuti della stessa vengono utilizzati per suddividere le strutture in base agli ambiti di interesse. La necessità di catalogare, di “dare un nome” alle cose è abbastanza naturale se si considera la “giovinezza” della materia e la necessità di guidare odierni e futuri curatori (Negri 2003).
Queste suddivisioni per categorie non illustrano ancora a sufficienza la composizione delle collezioni, che merita dunque ulteriori precisazioni.
Una prima definizione si evince già da quanto detto precedentemente. Non occupandosi più unicamente delle strutture architettoniche (delle quali però resta fondamentale lo studio, ove siano ancora presenti) la conservazione del patrimonio industriale deve prendersi cura degli oggetti: catalogarli, interpretarli, esporli.
L’archivio
Una prima fondamentale distinzione andrebbe fatta differenziando l’archivio dalla collezione vera e propria.
L’archivio aziendale è ancora poco studiato sotto il profilo dei contributi che esso può dare alla storia o ad altre discipline. Esso si presenta come una fonte preziosa in quanto oggettiva, ma di difficile accesso e sinora, si ritiene, poco compresa anche dagli imprenditori stessi, che raramente sono disposti a metterlo a disposizione. I motivi più evidenti di queste reticenze sono da riscontrarsi sia nella legislazione, che obbliga a tempi lunghi di conservazione, che spesso conferiscono ad essi un carattere di inviolabilità, sia alla riservatezza delle informazioni contenute in alcuni documenti aziendali, ad esempio i verbali dei Consigli di Amministrazione, o i rapporti interni sullo stato delle aziende. Anche le stesse schede del personale contengono spesso notizie e considerazioni che violano la riservatezza della privacy e le leggi vigenti in materia sia allora sia oggi (Bonfiglio-Dosio 2003; Montemaggi, Severino 2007).
Giorgetta Bonfiglio-Dosio (2003) sottolinea inoltre un’altra problematica relativa al reperimento, specie degli archivi più datati, che vengono conservati presso vari enti territoriali e che in alcuni casi vengono smembrati per motivi di spazio. Questa dispersione ne rende ancor più ardua la consultazione. I documenti contenuti negli archivi sono però di estremo interesse in quanto contengono importanti informazioni sull’andamento dell’azienda (contabilità, libro mastro, rapporti con clienti e fornitori) nonché disegni tecnici, cataloghi, prezzi, ecc. Il tutto si rivela fondamentale per una ricostruzione storica delle vicende aziendali in grado di discostarsi dal carattere giubilare assai tipico delle narrazioni prodotte dalle imprese stesse.
Si è riscontrato tuttavia un notevole ritardo nella ricezione di questo patrimonio come tale e pertanto nelle strutture prese in esame in questa sede gli archivi sono per lo più inaccessibili, alle volte nemmeno inventariati o anche solo semplicemente ordinati.
Il museo
La catalogazione museale, che avviene di norma in appositi registri, è uno strumento particolarmente utile perché rappresenta il primo atto per la salvaguardia dei materiali contenuti nella sede.
Ad essere catalogati sono tutte le testimonianze di cui l’istituzione è entrata in possesso. L’acquisto degli oggetti da proporre al pubblico è una voce importante del budget di queste strutture, anche se non è escluso che l’acquisizione possa avvenire sia in maniera poco o scarsamente onerosa, o che sia correlata ad un semplice gesto di liberalità. Nei musei aziendali può avvenire che il materiale sia già di proprietà perché trattenuto per varie ragioni (interesse collezionistico da parte dell’imprenditore, giacenze di magazzino), o destinato proprio alla sede museale appena uscito dalla produzione (ciò avviene quando la struttura è già attiva), oppure può essere frutto di donazioni o prestiti di clienti o collezionisti (Negri 2003).
Dopo essere stati catalogati gli oggetti dovranno trovare posto nell’esposizione secondo impostazioni concettuali e progetti di fattibilità che, da un lato, riflettano l’approccio dei curatori nel rappresentare le realtà industriali all’interno di un percorso storico e che, dall’altro, riscuotano il consenso dei committenti. Le comparazioni e l’organizzazione dei contenuti e dunque l’interpretazione che di essi si dà, prevede un sistema di relazioni che assume un significato determinato. Proporre un oggetto in un museo significa ridargli un contesto, un luogo in cui perde il senso – il carattere funzionale – per il quale era stato creato e divenire parte di una collezione da ammirare o con cui interagire. Molta attenzione è stata posta e tuttora si pone alla disposizione degli oggetti, in particolare da parte degli architetti di interni che elaborano varie disposizioni spaziali nelle quali collocare le teche, le luci, i gradi di calore e tutto quanto possa inerire alla conservazione e alla valorizzazione degli stessi (Negri 2003; Basso Peressut 1985).
Come si è potuto vedere, le scelte sono fortemente orientate secondo vari aspetti, ma la cosa più importante è il tipo di oggetti che possono essere contenuti nelle collezioni dei musei industriali. Come è possibile immaginare, in questo ambito possono rientrare le serie più disparate di oggetti, pertanto è opportuno seguire la traccia lasciata da Massimo Negri quando elenca gli elementi costitutivi di una collezione aziendale (2003):
Monumenti industriali (edifici ed annessi, infrastrutture, segni nel territorio di proprietà o nella disponibilità del museo nelle più diverse forme).
Oggetti mobili propri della vita aziendale (macchinari, utensili, arredi, vestiti ed equipaggiamenti, campioni di materie prime, prodotti, ecc..).
Manufatti artistici strettamente connessi alla storia dell’impresa (iconografia d’impresa, opere d’arte realizzate su commissione per specifiche necessità aziendali, ecc.).
Documenti di archivio cartacei di varia natura (corrispondenza, documenti amministrativi, fotografie, documenti societari, cataloghi, libri e altri prodotti a stampa, disegni tecnici, ecc.).
Documenti sonori, cinematografici, video.
Documenti informatici.
Saper fare, cioè il patrimonio costituito dalle abilità di lavoratori e tecnici legati in vario modo all’azienda.
Qualche considerazione conclusiva
Il museo del patrimonio industriale rappresenta la sintesi fra discipline differenti, che comprendono l’architettura, la sociologia, l’economia, l’ingegneria, il design, la ricerca, la comunicazione, la politica e, ovviamente, la storia. Queste culture vengono comunicate al pubblico attraverso pannelli esplicativi, immagini fotografiche e filmati, percorsi didattici, ma soprattutto organizzando spazi e allestimenti nel modo migliore per suscitare emozioni e interesse. Entrare in un museo industriale significa il più delle volte prendere contatto con gli oggetti, ricostruire una realtà del passato attraverso immagini, far funzionare prodotti che oggi non sono più disponibili sul mercato, riscoprire la quotidianità di un mondo ormai lontano nel tempo.
Dal canto loro, i musei aziendali utilizzano la storia per mettere in luce i valori di un marchio, una persona, una famiglia, una comunità. Inutile dire che le aziende hanno come funzione principale quella di vendere e, più esplicitamente, di realizzare profitti, mentre “creare cultura” potrebbe apparire contraddittorio con questa funzione. Il museo nasce proprio per comunicare qualcosa e commercializzarlo: per favorire la vendita di prodotti e competenze, si fornisce l’accesso ad una esperienza che crea emozioni ed identità.
Inoltre, è stato rilevato che i musei aziendali più frequentati, soprattutto dal pubblico proveniente dall’estero, sono quelli delle aziende che si fanno portatrici del Made in Italy. Per queste realtà, il museo è una sorta di “biglietto da visita in 3D” dell’azienda (Montemaggi, Severino 2007), che le permette di conferire valore aggiunto ai suoi prodotti acquistabili da parte di un consumatore sempre più attento al contenuto extraeconomico di ciò che acquista.
La necessità di concentrarsi su beni immateriali coincide con un mutamento del modo di essere delle aziende, che oggi non possono rivolgere la loro attenzione solo alla produzione, ma sono chiamate ad essere più presenti nel territorio in cui sorgono, facendo nascere legami culturali, valorizzando l’ambiente, occupandosi di questioni sociali, ecc.
È dunque auspicabile che i bisogni economici delle imprese trovino un terreno di incontro con le necessità della ricerca storica, in modo da consentire la valorizzazione e, in molti casi, la conservazione degli archivi aziendali che sono ancora oggi, per la maggior parte, disordinati, sconosciuti e inaccessibili. Concentrare i fondi per mettere le fonti a disposizione degli studiosi consentirebbe di approfondire non solo la storia delle singole aziende, ma anche la complessità delle relazioni esistenti fra queste e le trasformazioni del territorio in ambiti spaziali di un’ampiezza spesso sorprendente.
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Siti consigliati
archeologia industriale: www.ticcih.com
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