di Francesca Canale Cama
Nota biograficaBio
Abstract
Abstract Eng
Da Versailles a Sanremo: un lungo processo di pace
“Tra il gennaio del 1919 e quello del 1920 a Parigi si decise il destino del mondo”. Ci si riferisce solitamente con queste parole alla Conferenza di pace che si inaugurò a Parigi il 18 gennaio 1919 con il compito di progettare e realizzare la rifondazione del mondo venuto fuori dalla prima guerra mondiale. Un momento che sempre più concordemente, nella storiografia come nel senso comune, appare l’atto fondativo del nostro presente.
Ed in effetti, il più grande incontro diplomatico di tutti i tempi, giocato secondo le nuove regole dei precetti wilsoniani ma avvenuto in un luogo certamente non neutro come Versailles, aveva tutto il potenziale simbolico e politico per rappresentare uno spartiacque tra due mondi ancor più che tra due epoche, il mondo ‘di ieri’ prebellico e l’era della nuova pace. (Mac Millan 2006; Cardini 2018; Conze 2019).
Ma siamo davvero tutti figli allo stesso modo di quell’unica Conferenza, per di più ben presto convertitasi in un’assise di soli vincitori?
A ben vedere, la vastità dei problemi che la Conferenza di Parigi si trovò davanti fu tale che nella stragrande maggioranza di essi poterono solo essere accennati e si trascinarono in seguito per lungo tempo finendo con l’essere influenzati da nuove contingenze proprie del tempo di pace. Fu il caso, ad esempio, delle trattative di pace con il morente Impero ottomano la cui eco giunge effettivamente fino ai nostri tempi prendendo i mille volti dell’instabilità mediterranea degli ultimi decenni.
Nell’agenda della Conferenza di Parigi, la questione della riorganizzazione politica dell’intero Mediterraneo orientale aveva ottenuto scarsa o nulla attenzione, complice la catalizzante attenzione che, nella fase centrale, ricevette la questione tedesca fino alla firma del trattato di Versailles il 28 giugno 1919. Era quest’ultima, come arguì già l’economista inglese John Maynard Keynes nel fortunato pamphlet Le conseguenze economiche della pace, una questione destinata a mutare gli equilibri della Conferenza e i suoi principi ispiratori facendoli scivolare dalle premesse wilsoniane in base alle quali era stato anche possibile negoziare l’armistizio, alla pace dei vincitori ispirata alla linea del nazionalismo aggressivo della “tigre” Georges Clemenceau, che esigeva per la Germania una pace punitiva, in perfetto accordo con il tradizionale revanchismo francese prebellico e l’ obiettivo bellico della sconfitta del nemico “jusq’au but”. (Keynes 2007)
Una volta firmato il trattato di Versailles, la Conferenza si svuotò di significato e protagonisti. Wilson prese la via del ritorno negli Usa e anche i primi ministri europei, espressione di un mondo ottocentesco che ancora vedeva nell’Europa il centro del mondo e nel suo cuore, l’asse franco tedesco, il fulcro di un equilibrio globale, tornarono a casa delegando il lavoro quotidiano ai propri ministri degli esteri: in certa misura affrontando il problema tedesco si poteva ben ritenere che la direzione del futuro era stata individuata.
Ma le condizioni di pace mondiale erano ben lungi dall’essere stabilite; la nascita della Società delle Nazioni veniva di giorno in giorno rimandata, le questioni affrontate si complicavano di problemi imprevisti e venivano continuamente aggiornate, quando non lasciate in sospeso, come nel caso della spinosa questione adriatica, e persino i trattati con le altre potenze sconfitte languivano per la complessità dei problemi che avrebbero comportato nella loro definizione e successiva applicazione.
Il risultato fu che alla chiusura dei lavori, nel gennaio del 1920, solo tre dei cinque trattati previsti erano stati studiati ed elaborati. Restavano fuori i due accordi che, per diverse ragioni, si erano rivelati più complicati e che avevano sollevato le maggiori difficoltà ideali e politiche: il trattato con l’Ungheria che poneva in maniera drastica il problema dello smembramento territoriale e delle minoranze classico dell’Europa orientale e quello con la Turchia, forse il più anomalo poiché il definitivo collasso dell’Impero ottomano e la prospettiva del suo smembramento ponevano delle questioni molto diverse da tutte le altre emerse nell’elaborazione dei trattati. (Mac Millan 2006; Gerwarth 2017).
Forse per l’opera draconiana o per la consapevolezza delle ambigue implicazioni che avrebbero incrinato i rapporti tra gli stessi ex alleati, la discussione della pace ottomana subì continui rinvii tanto che nelle sue corrispondenze di fine 1919 il ministro italiano Tittoni poteva già individuare il cuore del problema: “Per la Turchia tutti hanno paura di toccare la difficilissima questione”.1
Le ragioni di questa paura erano molteplici. Si trattava, tanto per cominciare, di gestire il primo ‘spazio vuoto ’ geografico e politico di cui decidere la destinazione.
La Grande Guerra nel Mediterraneo, infatti, aveva lasciato un’area, quella comprendente i Balcani e il Medio Oriente ma anche i territori caucasici al confine con la nuova Russia bolscevica, improvvisamente priva della sua cornice di contenimento ed esposta ai progetti e alle nuove ambizioni di ordine mondiale dei vincitori. Il principio di autodeterminazione in base al quale si erano regolate le questioni dei nascenti Stati, qui non aveva trovato applicazione e l’intera questione di se e cosa dovesse essere lo Stato- nazione nel Mediterraneo sembrava piuttosto dover essere regolata da strategie militari e diplomatiche orientate agli interessi e alle preoccupazioni delle potenze vincitrici.
Al contrario di quanto accaduto ad esempio nel caso tedesco, la guerra era stata profondamente anticipatrice di questi disegni di pace, orientata come era alla sconfitta del nemico ottomano in vista della realizzazione di un preciso disegno di spartizione dei territori arabi dell’Impero sancito già ne 1916 dagli ormai notissimi accordi di Sykes-Picot tra Gran Bretagna e Francia. Secondo questo piano, che nell’ottica bellica e imperialista occidentale appariva più che ragionevole, la costa siriana e l’attuale Libano sarebbero andati alla Francia mentre la Gran Bretagna avrebbe assunto il controllo diretto della Mesopotamia centrale (attorno a Baghdad) e della regione meridionale di Bassora. La Palestina, questione nella questione, avrebbe avuto un’amministrazione internazionale, mentre l’attuale Siria, la Giordania e l’attuale Iraq fino a Mosul avrebbero avuto amministrazioni arabe sotto la supervisione francese al nord e britannica al sud. (Canale Cama 2018; MacMillan 2006; Campanini 2006; Fromkin1989)
Soprattutto i britannici, vedevano nelle infinite possibilità offerte dalla riorganizzazione di questo immenso spazio vuoto che era il nascente Medio Oriente il coronamento di un sogno egemonico lungo un secolo ( Canale Cama 2012). Persino una personalità come il primo ministro liberale Lloyd George, che avrebbe mostrato apprezzabili doti di mediazione e di intuizione durante la Conferenza, aveva sognato ad occhi aperti la restaurazione di un mondo ellenico in Asia Minore, il ritorno ebraico in Palestina, i collegamenti con la ‘perla dell’Impero’ attraverso Suez liberi da minacce e la nuova via del petrolio mediorientale sotto il proprio controllo come tasselli essenziali di un trionfante protagonismo mediterraneo nel nuovo tempo di pace. (Lloyd George 1938 ; Antonius 1965; Fromkin 1989; Mac Millan 2006 )
Tuttavia, questa prospettiva contrastava con quanto pure assicurato in corso di guerra dai britannici ad Hussein, custode della Mecca, da Mac Mahon, alto commissario britannico al Cairo, circa la creazione di un unico stato arabo nelle province del Levante. Tra il 1915 e il 1916, nel carteggio tra i due, questo ‘bottino di guerra’ era assicurato agli arabi in cambio della costituzione di un fronte antiottomano che, fagocitando una ribellione interna non avrebbe tardato a dimostrarsi indispensabile per indebolire dall’interno la forza militare dell’Impero. (per i documenti si veda Rossi 1944, 18-40;Mansfield 2004, 154-155; Campanini 2006).
La situazione determinatasi una volta cessate le ostilità, ricalcò questo doppio binario e se gli ottomani da sconfitti avevano firmato l’armistizio di Mudros, una delegazione guidata dal figlio di Hussein e condottiero della rivolta araba, Faysal, si imbarcava su una nave britannica a Beirut per partecipare alla Conferenza di Parigi in nome di una sorta di ‘cobelligeranza’ con il fronte alleato e vincitore. A rafforzare la sua posizione, anche l’accordo stipulato il 3 gennaio 1919 con sir Chaim Weizzman destinatario in corso di guerra della di istituire un national home (un focolare) della comunità ebrea in Palestina. Questo impegno informale tra ebrei e inglesi diveniva invece un accordo tra ebrei e arabi condizionato al reciproco riconoscimento delle promesse inglesi, l’accettazione della nota dichiarazione Balfour in cambio del riconoscimento delle assicurazioni di Mac Mahon a Faysal, anch’esse informali.
A Parigi, a questo già complesso quadro si aggiungevano gli elementi che derivavano dalla nuova impronta data al processo di pace dal protagonismo americano, almeno sul piano degli ideali. Benché la Conferenza di pace avesse, come accennato, infine privilegiato la via di una pace punitiva con la Germania e gli Imperi centrali, i principi wilsoniani resistevano su altri tavoli delle trattative come quello dell’abolizione della diplomazia segreta e dell’autodeterminazione dei popoli. Erano temi che, come è intuibile, gettavano una luce nuova sui problemi derivati dallo smembramento dell’Impero ottomano e non a caso Wilson definì con disprezzo l’accordo Sykes- Picot come “un bell’esempio di vecchia diplomazia” (Mac Millan 2006, 499).
Intuendo il rischio destabilizzante dell’incontro tra il nascente nazionalismo arabo di Faysal e il filantropismo del presidente americano, soprattutto i francesi fecero di tutto per impedire e poi screditare la presenza di Faysal che riuscì infine a partecipare non come futuro sovrano dello Stato arabo ma come rappresentante della regione dell’Hegiàz, cioè quella già controllata da suo padre Hussein.
L’obiettivo era evitare qualsiasi riferimento a un presunto Stato arabo per poter far valere i termini della spartizione degli accordi bellici. Ma nella sua unica audizione, il 6 febbraio del 1919, Faysal chiarì che gli arabi aspiravano all’autodeterminazione che contemplava indipendenza e unità territoriale con le sole possibili deroghe del Libano e della Palestina. Tra le due posizioni opposte si situava il compromesso, cioè quello di gestire lo ‘spazio vuoto’ arabo attraverso l’ambiguo sistema dei mandati che non concedeva nulla all’ espansionismo europeo ma neanche l’indipendenza agli arabi nella convinzione non solo che i sentimenti nazionali fossero lì ancora flebili, ma che l’assoluta mancanza di strutturazione politica avrebbe creato delle fragili indipendenze.
Il caso degli ex territori ottomani si inseriva nella più generale diatriba interna al Consiglio supremo in tema di mandati. Cosa erano esattamente? La Società delle Nazioni li avrebbe amministrati direttamente diventando “proprietaria” delle colonie, si domandavano quanti come Clemenceau propendevano per la linea di un nazionalismo espansivo, oppure sarebbero stati affidati a delle potenze? E in quel caso quali gli oneri e quali i vantaggi di questa enorme spesa? Il problema era delle ex colonie come dei territori ambiti da Faysal con la differenza che in quest’ultimo caso la ritardata istituzione della Società delle Nazioni, che divenne operativa solo dal 10 gennaio 1920, favorì nel frattempo le trattative informali tra le potenze garantendo ancor meno il futuro indipendente dello Stato arabo.
Girando a vuoto su posizioni inconciliabili, dunque, la discussione su territori arabi si arenò ben presto e non venne più ripresa con la conseguenza che ogni fronte proseguì la propria strada: Wilson aveva proposto, come per altri casi, la formazione di una commissione di inchiesta per valutare i reali desiderata arabi soprattutto in tema di applicazione dei mandati ma era ben presto rimasto il solo a sostenerne l’attività, francesi e britannici preferirono archiviare il problema in attesa di tempi più favorevoli e Faysal, l’unico ad aver posto qualche speranza in un eventuale accordo, non fu più convocato decidendo dopo lunga attesa, in maggio, di ripartire per Damasco. (Mac Millan 2006, 496-502)
Nella primavera del 1919, dunque, la partenza di Faysal aveva forse sollevato di un grande peso il Consiglio supremo, ma il complicarsi della trattativa con lui aveva causato il rinvio dell’intera discussione sul trattato con la Turchia. Il risultato, come accennato, fu che la Conferenza si chiuse senza neanche una bozza su cui ragionare.
La questione che con fin troppa semplicistica sintesi si definiva “trattato con la Turchia” travalicava così i limiti della Conferenza nello spazio e nel tempo. Per risolverla, più che una Conferenza ci sarebbe voluto un processo di pace tanto che, senza timore di esagerare, si può dire che nel Mediterraneo orientale le trattative si protrassero nel corso degli anni successivi e il vaso di Pandora appena aperto nel 1919 a Versailles poté dirsi completamente svuotato solo nel 1923 con la definitiva sistemazione delle condizioni di pace con l’ex Impero Ottomano (Gerwarth 2017; Goldstein 2005; Canale Cama 2018).
Nell’immediato, il passo successivo di questo processo fu il nuovo incontro del Consiglio supremo degli alleati a Londra, tra il febbraio e il marzo 1920. In quell’occasione, assieme a molte altre decisioni lasciate in sospeso, gli alleati contavano di elaborare e approvare l’intero trattato.
Ma la speranza era destinata rapidamente a rivelarsi ingenua. In quello che agli occhi dei vincitori tutti assorbiti dagli enormi problemi dell’applicazione del trattato tedesco doveva apparire un tempo breve si consumarono nel Mediterraneo cambiamenti veloci e significativi che facevano apparire improvvisamente desuete le ragioni della guerra in base alle quali si voleva costruire la pace.
Il dopoguerra e i nuovi protagonismi mediterranei
Nei lunghi mesi di silenzio lontani dalla Conferenza gli arabi non erano rimasti inoperosi e il 2 luglio 1919 i delegati (musulmani, cristiani ed ebrei) del Congresso generale siriano riunito a Damasco avevano approvato una risoluzione che metteva nero su bianco i termini del nazionalismo arabo, introducendo il concetto di ‘Grande Siria’: un grande stato arabo unito, con forma di monarchia costituzionale e Faysal re. Ma cosa doveva intendersi per Grande Siria?
Al pari degli altri nazionalismi mediterranei postbellici, la concezione del nuovo Stato era piuttosto estensiva con un territorio che includeva Siria, Libano, regioni del sud ovest della Turchia, Giordania e, naturalmente, Palestina. Una richiesta che confliggeva chiaramente con le ambizioni delle potenze alleate e in particolare con quelle francesi sulla Siria (art. 6 della risoluzione) e con l’idea di stabilire il famoso national home sionista in Palestina che anzi veniva non solo screditata ma considerata una pericolosa minaccia ( art.7). Ma non si trattava solo di una rivendicazione territoriale quanto piuttosto di una questione di status. Il Congresso generale siriano, infatti, rispondeva rigettandola alla proposta americana di costituire mandati tanto che al punto 3 della risoluzione poteva leggersi: “Considerato che le popolazioni arabe non sono meno capaci di altre nazioni ( come i bulgari, i serbi, i greci o i rumeni) di esercitare la loro indipendenza, protestiamo contro l’articolo XXIII della Costituzione della Società delle Nazioni che ci relega al rango di razze inferiori bisognose di essere messa sotto la tutela di una potenza mandataria” (Antonius 1965, 440- 442; Zamir 1991).
Il messaggio da riportare alla Conferenza che da poco aveva terminato la grande fatica del trattato con la Germania era fin troppo chiaro: nessuno smembramento della Siria perché la costituzione di uno Stato nazionale era il motivo unico della sollevazione araba contro i turchi e della cobelligeranza con gli alleati che nell’elaborazione della pace andava riconosciuta come determinante per la vittoria. A questi stessi risultati, del resto, era giunta la commissione inviata alla fine da Wilson in Siria e Palestina e in una relazione pubblicata solo nel 1922 gli inviati concludevano: “potranno essere presentarsi dei pericoli se queste popolazioni verranno trattate in maniera imprudente e scorretta, ma esistono grandi speranze di pace e di progresso se verrà adottato un atteggiamento schietto e leale”. (Mac Millan 2006, 514; Antonius 1965)
Quanto simili osservazioni interessassero i plenipotenziari riuniti a Parigi è fin troppo intuibile e fu confermato dalla vana attesa di Faysal che, tornato a Parigi, vi era restato poi fino alla fine della Conferenza nel gennaio 1920 senza essere mai convocato.
Al momento del nuovo incontro a Londra, dunque, Faysal aveva già intrapreso un’altra strada: incoraggiati anche dall’esempio di D’Annunzio che in settembre aveva sfidato le decisioni delle grandi potenze con la forza, gli irregolari arabi fecero pressioni simili perché Faysal dichiarasse l’indipendenza anche a rischio di una guerra con i francesi. Quasi simbolicamente, alla conclusione della Conferenza di Londra con un nuovo, pericoloso risultato interlocutorio, il 7 marzo 1920 il Congresso siriano, in totale autonomia proclamò l’indipendenza della Siria con Faysal re.
L’attendismo della Conferenza di pace e il nuovo rinvio del trattato avevano permesso un radicale cambiamento delle contingenze locali in un’area fortemente destabilizzata come quella del Mediterraneo orientale. Non si trattava infatti solo della questione, pur centrale, dei territori arabi.
Le stesse condizioni della Turchia e della Grecia erano cambiate rispetto ai primi mesi della pace.
Per la Grecia di Eleutheros Venizelos era allora stato possibile stabilire una posizione di vantaggio nella lunga contesa greco- turca degli Stretti ( La Nave, 2019) Con l’aperto favore soprattutto britannico, Venizelos aveva dettato le condizioni nelle contrattazioni con l’Italia circa l’Albania e le isole mediterranee e aveva sfiorato la realizzazione del mito nazionalista della Megali Idea (una Grecia estesa a misura del mondo ortodosso anche nei Balcani) a spese della Bulgaria alla quale era riuscito a strappare la Tracia occidentale spingendo così i confini greci in prossimità dei Dardanelli.
Profittando delle discontinue trattative circa il trattato con la Turchia, il primo ministro greco aveva poi deciso di sfruttare la grande opportunità di questo nuovo vuoto costituitosi al centro del Mediterraneo per compiere un ultimo azzardo, l’occupazione della città turca di Smirne il 15 maggio 1919, rivendicandone anche l’entroterra circostante che, a suo dire ma contro ogni provata evidenza, costituiva una zona a maggioranza greca2.
Benché non ostacolato o sanzionato dagli alleati, il gesto rappresentava una violenta forzatura delle trattative in corso e una decisa anticipazione di qualsiasi condizione stabilita dal futuro trattato. Come Fiume e la Siria di Faysal si trattava di un altro tassello del Mediterraneo che sfuggiva al controllo di Parigi e che diveniva una variabile autonoma e progressivamente determinante del volto della nuova pace.
L’occupazione di Smirne, infatti, non tardò a dimostrarsi un punto di non ritorno della rivalità greco- turca favorendo il rafforzamento interno del nazionalismo turco sotto la leadership del generale Mustafa Kemal Atatürk, eroe di guerra e protagonista del movimento dei Giovani Turchi al tempo della rivoluzione del 1908. (Del Zanna 2012; Grassi 2009).
Dopo l’arrivo dei commissari francesi e inglesi a Costantinopoli, infatti, il generale aveva deciso di rifondare la resistenza dei nazionalisti nelle regioni interne dell’Anatolia e di lì prepararsi al contrattacco. L’occupazione greca aveva accelerato questo processo nutrendo la sensazione che l’amputazione “del corpo vivo” dell’Impero ottomano avesse avuto anticipatamente inizio. In assenza del trattato il gesto greco era visto in ideale continuità con l’ipotesi di internazionalizzazione di Costantinopoli e degli Stretti nonché con la possibilità che larga parte del territorio continentale anatolico prendesse forma di Stato indipendente con la creazione dell’Armenia e del Kurdistan.
Alla fine di giugno, dunque, Kemal rispose convocando un Congresso ad Erzerum il 23 luglio 1919 e per la prima volta, il messaggio telegrafico a questo scopo inviato (passato alla storia come ‘circolare di Amasya’) parlava alla Turchia e ai turchi esplicitamente di nazione: “L’integrità della patria e l’indipendenza della nazione sono in pericolo. Il governo di Istanbul non è in grado di adempiere alle responsabilità che si è assunto. Questa situazione fa sì che la nostra nazione appaia come annientata. Saranno la determinazione e la decisione della nostra nazione a salvare l’indipendenza della nazione”. Ce ne era abbastanza per giustificare la rifondazione di un nuovo patto nazionale con un comitato di rappresentanza che, appena pochi mesi dopo al congresso delle provincie anatoliche di Sivas, elesse come presidente Mustafa Kemal (Grassi 2009, 161-162).
L’era della Turchia di Atatürk era cominciata senza che a Parigi l’andamento dilatorio delle trattative ne fosse minimamente turbato. Anzi, il 17 giugno, il Consiglio supremo aveva eccezionalmente ricevuto una delegazione del sultano ottomano contravvenendo all’indicazione di non concedere audizione agli sconfitti prima che ne fosse definito il relativo trattato. La richiesta di lasciare intatto l’Impero e di consentire alla nuova Turchia di divenire membro della Società delle Nazioni fu non solo accolta con noncuranza ma ridicolizzata dai Clemenceau, Lloyd George e Wilson presenti alla riunione e le proposte ottomane non ricevettero neanche un memorandum di risposta. (Mac Millan 2006, 552).
La conseguente proposta di Lloyd George di stendere quanto meno un trattato monco, cioè con condizioni di pace che riguardassero i territori arabi, Smirne e l’Armenia accantonando per il momento il problema turco la diceva lunga sulla confusione in cui versavano i lavori. Non deve stupire, allora, che da quel momento le condizioni di pace con il morente Impero sarebbero dipese più dalle volontà di Kemal che da quanto discusso alla Conferenza.
Il momento di una decisione in merito doveva essere, anche in questo caso, la conferenza “riparatrice” di Londra tanto più che un’altra evoluzione mediterranea era nel frattempo maturata contribuendo, però, questa volta, alla possibilità di far prendere una nuova direzione al processo di pace.
Quasi contemporaneamente alla riorganizzazione del nazionalismo turco ad opera di Atatürk, in Italia il governo Orlando, che aveva rappresentato il paese alla Conferenza di pace fino alla stipula del trattato con la Germania, era caduto. Dal 19 giugno 1919 prendeva il suo posto l’esecutivo guidato da Francesco Saverio Nitti, ex ministro del Tesoro dell’ultimo anno di guerra e convinto assertore di un necessario rilancio del ruolo internazionale dell’Italia ben oltre il braccio di ferro fino ad allora giocato con gli alleati “sulla nostra piccola questione adriatica”.
Certo la posizione dell’Italia era particolarmente indebolita dall’occupazione intanto intervenuta a Fiume e la crisi sociale viveva momenti di violenta acutezza, ma era il primo governo del tempo di pace propriamente detto e, secondo il nuovo primo ministro, in qualità di potenza vincitrice l’Italia non poteva esimersi dall’impegno nella rifondazione dell’equilibrio mondiale post bellico. Particolarmente severo era il giudizio sui suoi predecessori perché a suo parere “durante la Conferenza di Parigi i rappresentanti dell’Italia si disinteressarono di quasi tutti i problemi che riguardavano la pace dell’Europa, la situazione dei popoli vinti, la distribuzione delle materie prime, l’ordinamento dei nuovi Stati e il loro rapporto col vincitore per concentrare lo sforzo su Fiume, cioè su un punto in cui l’azione dell’Italia aveva una fondamentale debolezza” (Nitti 2014, 59).
Come Keynes, Nitti aveva un giudizio severo sull’attività più in generale svolta dalla Conferenza di pace: gli intenti e le decisioni prese nel corso di quel lungo anno si erano risolte in un fallimento, in una “pace mancata” che avrebbe non solo favorito ma persino creato le condizioni per lo scoppio di un nuovo conflitto mondiale (Keynes 2007; Nitti 2014).
Le conseguenze di una pace sia economicamente che politicamente punitiva imposta alla Germania, il problema dell’errata distribuzione delle minoranze e la nascita di troppi Stati deboli nell’Europa orientale secondo un processo che Nitti aveva molto argutamente definito come “balcanizzazione dell’Europa”( Nitti 2014, 89), la mancata ripresa delle relazioni commerciali e politiche con la Russia bolscevica, la debolezza originaria della neonata Società delle Nazioni erano i principali capi di imputazione mossi al fallimento della Conferenza di pace.
Nitti, però, muoveva queste critiche da una posizione estremamente diversa da quella di Keynes essendo un primo ministro in carica di una nazione alleata. Per questo, prendendo in mano le redini della politica estera dalla fine del 1919, provò ad agire per mitigarle profittando dell’occasione offerta da Lloyd George che aveva richiesto la presenza del Primo ministro italiano proprio nel riunioni di Londra soprattutto in vista dell’ “impellente necessità di affrettare la soluzione del problema turco” per non correre il rischio di ulteriori rinvii. Fatale secondo l’ambasciatore italiano a Londra sarebbe stato infatti arrivare a primavera perché “a quell’epoca l’unico esercito in condizioni di vera efficienza bellica sarà quello turco. Occorre quindi che le potenze, con il loro procrastinare non corrano pericolo di subire, anziché dettare la pace”3.
Ma in cosa poteva essere utile la presenza italiana per accelerare i tempi della pace mediterranea? Fin dal suo insediamento il nuovo governo aveva dato prova di guardare in maniera differente, più collaborativa alla pace e come primo atto di governo, Nitti aveva ritirato la spedizione italiana in Georgia pianificata dal precedente governo alterando con preoccupazione di tutti gli alleati gli equilibri in Asia Minore “L’Italia- ragionava Nitti in proposito- aveva già fatto una spedizione in Albania, di cui fuori le necessità militari per il periodo della guerra, non si era mai compreso lo scopo, oltre quello di spendere una cifra ingente senza la gratitudine degli albanesi; una spedizione in Georgia sarebbe stato un danno le cui conseguenze non si possono sufficientemente valutare e poteva essere una rovina” (Nitti 2014, 98- 99)4.
Questo spirito più conciliatorio e meno egemonico aveva certo rassicurato gli alleati ma la vera differenza stava piuttosto in una questione di prospettiva.
Soprattutto alla nuova Conferenza di Londra l’azione di Nitti, si dedicò a mettere a punto molte questioni ideali e politiche emerse dai trattati e dalle mancate decisioni della Conferenza: la questione di un’equa relazione tra vincitori e vinti, quella della necessità di reinserire la Russia nella rete del commercio europeo, il tentativo di risolvere la questione adriatica attraverso accordi diretti tra jugoslavi e italiani erano solo alcune delle battaglie spesso solitarie e impopolari che egli aveva portato avanti spesso in aperto contrasto con l’alleato francese. (Barbagallo, Altrai, Serra,)
E se nel merito delle singole questioni non sempre Nitti raggiunse un risultato pieno, è un fatto che l’Italia riuscì a guadagnare nuova credibilità e fiducia al punto da poter dare orientamenti determinanti alla Conferenza. Pur nella difficile congiuntura del braccio di ferro con D’Annunzio e di un rimpasto ministeriale, un’acuta osservatrice come Anna Kuliscioff era disposta ad ammettere con pacatezza benevolente che Nitti era «l’uomo di stato più in vista per avere abbandonato le vecchie vie battute dalle vecchie diplomazie. […] Oh certo Nitti può ben essere contento dell’alta posizione che seppe conquistarsi nel mondo politico e diplomatico internazionale. […] E’ acclamato non solo a Berlino ma anche a Costantinopoli e forse lo sarà anche al Cremlino» (Barbagallo 1984, 366 cit. da Kuliscioff A., Turati F. Carteggio, V, Torino, Einaudi, 442)
Ma intanto, il timore di giungere nuovamente a primavera si era avverato e, pur con i nuovi sforzi dell’Italia, la Conferenza di Londra non era arrivata a concepire un trattato con la Turchia.
Come abbiamo visto, però, il contesto mediterraneo non era più quello dello spaesamento postbellico. Il progetto della Grande Siria, le intenzioni aggressive dei greci, la riorganizzazione della resistenza turca e l’occupazione dannunziana di Fiume che proseguiva indisturbata davano l’idea di un Mediterraneo in fermento e sempre più sfuggente all’impostazione della pace data dalla Conferenza. Iniziava, i plenipotenziari lo intuivano, una corsa contro il tempo non solo per liquidare le pendenze della guerra ma anche per fronteggiare i risvolti imprevisti della nuova pace; la questione del trattato con la Turchia non poteva più essere elusa.
La Conferenza di Sanremo: una pace mancata per il Mediterraneo
L’ascendente personale di Nitti e la riguadagnata fiducia nel possibile ruolo di contrappeso svolto dall’Italia nei rapporti interalleati concorsero in maniera determinate alla decisione del Consiglio Supremo di discutere il trattato di pace con la Turchia in una nuova Conferenza a Sanremo dal 19 al 26 aprile 1920.
Decisamente dimenticata dalla storiografia5, la riunione italiana raccoglieva i cocci di tutti gli errori e i ritardi che progressivamente si erano accumulati riguardo alla questione ottomana ma anche quello di tutti i problemi rimandati: irrisolti erano rimasti i rapporti con la Germania e l’esecuzione del trattato, la questione delle minoranze magiare e del trattato con l’Ungheria, la politica verso la Russia bolscevica e la questione adriatica avvertita ora come vera e propria minaccia alla pace europea che si aggiungevano alla già complessa trattativa principale.
Ma soprattutto il nuovo incontro del Consiglio supremo era un’efficace cartina di tornasole di quanto ormai le discussioni sulla pace ottomana dovessero fare i conti con un quadro reale radicalmente mutato. Imporre le soluzioni pensate in tutt’altro contesto appena un anno prima comportava una notevole forzatura rivelando l’estrema fragilità dell’architettura di pace. Di questo in certa misura aveva già percezione Nitti quando ricordava: “la riunione di Sanremo non poteva avvenire in condizioni più difficili: né programmi e idee più opposti potevano trovarsi in conflitto” (Nitti, 1947, 365).
Alle difficoltà appena evocate, infatti, si sommava il logorarsi dei rapporti interalleati, anch’esso frutto del passare del tempo. La contrapposizione tra britannici e francesi era divenuta sempre più insanabile per serie divergenze sull’applicazione del trattato tedesco ma aveva raggiunto l’apice proprio nelle trattative per la pace con la Turchia6. Disaccordi molto aspri avevano riguardato i confini dei potenziali mandati e la stessa sorte di Costantinopoli tanto che Nitti ricorderà in seguito che “Lloyd George e Millerand si guardavano con diffidenza e, spesso, non si davano la mano” (Nitti 1947, 367)
Complicava la situazione la posizione sempre più defilata degli Usa che pagavano il prezzo della progressiva marginalizzazione del presidente Wilson al Congresso. Nel caso specifico della questione ottomana, c’era la particolarità che essi non avevano mai dichiarato guerra a Costantinopoli e dunque non avevano né promesse da riscuotere né mire espansionistiche da soddisfare. In accordo con i principi wilsoniani si erano però occupati di questioni cruciali come il mandato in Armenia per il quale mostravano ancora interesse o l’autodeterminazione del Kurdistan ma a Sanremo non avevano neanche incaricato un plenipotenziario. L’interrogativo che attanagliava i delegati era allora: che fare ora con il Trattato? Aspettare il consenso degli Usa per sottoporlo alla Turchia rischiando la paralisi o informare il presidente americano a cose fatte per conoscenza?7
Apparentemente banale, la questione rappresentava invece un grandissimo capovolgimento all’interno del consesso alleato. Gli Stati Uniti, come temeva Wilson nella nota inviata agli alleati il 26 marzo, venivano relegati al rango di alleati minoritari e una distanza siderale separava le attuali trattative da quelle che appena pochi mesi prima avevano fatto arenare l’accordo diretto italo jugoslavo proprio a causa del veto americano (Altari, 1976, 372 e ss.).
Le recenti posizioni assunte dal Congresso americano avevano anche sminuito di molto l’importanza della dottrina wilsoniana e dei Quattordici punti, cosa che certamente favoriva il raggiungimento di accordi basati su principi differenti. Mai come a Sanremo, quindi, gli alleati europei erano rimasti i soli padroni della situazione e si apprestavano a regolare trattative che avevano costituito il presupposto essenziale della loro collaborazione nella guerra mediterranea (Canale Cama 2018).
Il trattato con la Turchia, in realtà, era già stato scritto soprattutto nei suoi aspetti tecnici in buona parte durante le riunioni della Conferenza degli ambasciatori e dei ministri degli esteri a Londra8. Il compito della Conferenza, dunque, era definire poche questioni ma assolutamente fondamentali per la loro rilevanza politica e, soprattutto, come aveva affermato Nitti, “il faut resoudre tuote les questions principales pour donner aux peuples la sensation que nous travaillons pour la paix. Il faut parvenir coûte que coûte à une décision sour toutes questions; il vaut mieux une mauvaise dècision que de ne pas en prendere”9.
Per rispettare il proposito di questo efficientismo, la Conferenza aveva adottato ancor più che a Parigi o a Londra il criterio delle delegazioni ristrettissime, generalmente primo ministro e ministro degli affari esteri. Il risultato era un’organizzazione verticistica che riduceva ai tre ‘grandi’ le principali discussioni e decisioni salvo la delega a qualche commissione di esperti e l’inclusione di un rappresentante americano nelle discussioni riguardanti l’Armenia o giapponese su temi più generali.
Nonostante questa intenzione accentratrice a malapena celata, il Consiglio supremo doveva fare i conti con i nuovi tempi che avevano popolato la piccola città ligure di delegazioni giunte al di fuori della Conferenza in rappresentanza del composito mosaico delle agitazioni mediterranee: la numerosissima rappresentanza dei greci guidata ancora una volta da Venizelos, i rappresentanti ebrei “pochi ma molto abili”, gli armeni che avevano grande fiducia nel successo delle loro aspirazioni e “grande facondia nel manifestarle”. Meno insistenti e più attendisti nonché presenti a giusto titolo gli ottomani e il nuovo re di Siria, Faysal che aspettavano gli esiti del trattato. (Nitti 1947, 367)
In questa bizzarra situazione che si sperava teutonica ma che aveva finito col trasformarsi in una koiné mediterranea, il vero ago della bilancia poteva essere a sorpresa l’Italia, coinvolta negli accordi di spartizione del tempo di guerra con britannici e francesi ma più imprevedibile circa la posizione che Nitti avrebbe preso sulle diverse questioni. Nei mesi precedenti, soprattutto a Londra, egli era stato il destinatario principale di tutte le petizioni egli appelli dei vinti. E se, come egli stesso ricordò, fu particolarmente sensibile alla causa ungherese, non mancò di esaminarle tutte e di introdurle nelle trattative nell’ottica dell’interesse della pacificazione generale. Armeni, curdi, la Anglo- ottoman society che protestava contro l’occupazione greca del vilayet (circoscrizione) di Aidin a maggioranza turco, l’appello della delegazione egiziana direttamente al Parlamento italiano giocato sulla suggestiva idea che una nazione di recente formazione potesse meglio comprendere le necessità di paesi che lottano per l’indipendenza e quindi veicolarle alle grandi potenze, complicavano e arricchivano l’universo decisionale di Nitti che, come presidente, aveva l’opportunità di imprimere la sua direzione all’andamento della Conferenza10.
A proposito dei temi centrali della Conferenza, egli non aveva nascosto la propria divergenza anche con Lloyd George e in seguito avrebbe ricordato: “Io ero convinto che accogliere le richieste dei greci era un pericoloso errore e fatale alla Grecia; accogliere le richieste degli ebrei per la Palestina era aprire la via all’antisemitismo; accogliere le proposte degli armeni non era possibile nessuno volendo mettere a disposizione i mezzi militari e finanziari che erano necessari per la riuscita”. (Nitti 1947, 367)
Si trattava di un disaccordo generale sulle principali questioni in discussione a Sanremo espresso sistematicamente negli ordini del giorno sembravano seguire una priorità data dalla solidità degli appoggi all’interno del Consiglio supremo. I Greci, ad esempio, discussero le loro condizioni con la Turchia per primi perché fin da Parigi godevano dell’appoggio incondizionato di Lloyd George e del relativo favore dei francesi. Sulla difficile occupazione di Smirne e sulla prospettiva di una cessione di questo vilayet a maggioranza turca solo l’Italia era contraria e, nei frequenti colloqui a latere della Conferenza, Nitti aveva anche provato a convincerne Venizelos della possibilità di una mediazione italiana per un compromesso che lasciasse l’intera Anatolia alla Turchia11. L’idea confliggeva però con l’impostazione della delegazione inglese che era estremamente favorevole alla cessione di Smirne considerando con una certa leggerezza che nessuna modificazione territoriale avrebbe reso più accettabile il trattato ai turchi. Nella seduta del 22 aprile Smirne venne così attribuita alla Grecia (la versione definitiva del trattato limiterà questa occupazione ad un periodo di cinque anni dopo il quale i cittadini di Smirne avrebbero scelto se appartenere alla Grecia o all’Impero ottomano) insieme alla Tracia occidentale e orientale. Era la prima divergenza tra italiani e britannici, che a Londra avevano stabilito una solida alleanza, cui a breve sarebbe seguita quella sulla Palestina. Ma prima, essendo una causa patrocinata direttamente dal presidente americano Wilson, la Conferenza discusse il problema del costituendo stato di Armenia.
Fin dalle discussioni preliminari a Londra il caso dell’Armenia era parso evidentemente legato a doppio filo non solo ai problemi di definizione territoriale comportati dal trattato con la Turchia, ma anche al complesso sistema dei mandati voluto da Wilson. La Conferenza di Parigi si era limitata a riconoscere l’indipendenza di questo stato de facto aggirando le molteplici insidie insite nella definizione territoriale, ma come molti altri popoli lungamente costretti all’interno degli Imperi multinazionali, anche gli armeni insistevano per un’interpretazione estensiva del proprio territorio nazionale. Per il nuovo Stato armeno, dunque, si contemplavano due ipotesi: una Great Armenia che avrebbe incluso sei vilayet turchi con un’estensione territoriale dal Mar Nero al Mediterraneo e una lesser Armenia, più piccola che però avrebbe compreso anche la vecchia comunità armena russa con capitale Erivan. Ma anche qui il mutare delle contingenze dell’area caucasica erano diventate ormai più determinanti del volere del Consiglio supremo. Il recente rafforzamento militare della Russia bolscevica e della Turchia nazionalista ponevano infatti il problema della capacità di difesa del nascente Stato dalle mire espansionistiche dei vicini dal momento che l’inclusione del vilayet di Erzum avrebbe esposto l’Armenia ad un sicuro attacco turco.
La soluzione obbliata era dunque un mandato ad una grande potenza in grado di impiegarvi da subito forze militari di difesa. Nel corso del tempo si era pensato alla Gran Bretagna, agli Usa e persino all’Italia che nella divisione di Parigi non aveva avuto mandati per il ritiro della delegazione Orlando- Sonnino. Ma se Nitti aveva respinto con chiarezza l’onere anche andando nuovamente contro i desiderata alleati, non altrettanto esplicita era stata la posizione di Wilson che lasciò la conferenza in un indefinito attendismo. L’unico punto su cui si raggiunse una decisione definitiva era l’esclusione dal trattato con la Turchia dell’accordo sullo strategico porto di Batum che interessava tutti. Un accordo doveva essere raggiunto tra i nuovi stati nascenti (Armenia Georgia e Azerbaijan) intrinsecamente deboli e dunque prevedibilmente pronti nel futuro prossimo ad accordi commerciali ed economici con le grandi potenze. Iniziava a prevalere il criterio della spartizione.
Del resto, quanto gli orientamenti prevalenti alla conferenza di Sanremo seguissero il principio della convenienza o della spartizione delle zone di influenza fu particolarmente chiaro nella discussione sul Kurdistan, territorio contiguo all’Armenia e parte dell’Impero ottomano che, secondo il criterio di autodeterminazione avrebbe dovuto rappresentare il più esteso stato della penisola arabica. Ma l’organizzazione tribale della popolazione rendeva difficile veicolarne il nazionalismo e, secondo il resoconto di lord Curzon alla Conferenza “mais il est habité surtout par des tribus presque sauvages qui se trouvent assez souvant en guerre avec leurs voisins et aussi avec le Gouvernement turc”. Il vero interesse per le grandi potenze era piuttosto la sua posizione geografica che nella parte sud avrebbe dovuto includere il vilayet di Mossul che, sulla carta, aveva però delle buone possibilità di passare sotto mandato della Gran Bretagna. “Il n’existait pas – si era dunque concluso- des kurdes qualifiés pour parler au nom du pays enteir. D’autre part on a eu l’impression que le Kurdistan n’auraiot pas pu mantenir son existance sans s’appouyer sur quelque Puissance”. La questione, anch’essa spinosa, veniva così rimandata.
La sospensione delle decisioni su Armenia e Kurdistan lasciava però di fatto i confini caucasici della Turchia indefiniti e sotto tiro di una duplice minaccia, quella turca e quella russa. Benché nella versione definitiva del trattato ci si riferisse alla creazione di entrambi gli Stati (i confini definitivi dell’Armenia avrebbero dovuto essere decisi in seguito dal presidente Usa mentre il Kurdistan veniva concepito in una versione ‘tronca’ comprendendo solo i territori turchi), molto presto, come vedremo, nella loro regolamentazione avrebbe prevalso ancora una volta la forza sui deliberati della Conferenza.
Nell’immediato della discussione, però, la questione armena era servita a reintrodurre sotto una nuova luce, più “wilsoniana” il discorso sui mandati facilitando l’approccio al punto nodale della riunione, la discussione definitiva sui mandati in Siria, Palestina e Mesopotamia ( 24- 25 aprile). Le promesse fatte attraverso la pur informale dichiarazione Balfour dagli inglesi agli ebrei circa un national home (un foyer, secondo la versione francese) da poter stabilire in Terra Santa erano rimaste senza le garanzie previste un anno e mezzo prima dall’accordo con Faysal ed erano motivo in più per propendere per un mandato britannico in Palestina. La risoluzione adottata, dunque, fu quella già largamente attesa, nonostante ancora una volta le resistenze dell’Italia.
A Sanremo gli arabi palestinesi non erano rappresentati e anche Faysal faceva della Palestina una questione marginale rispetto al più generale problema dell’affermazione di una Grande Siria, discussa con risultati catastrofici anch’essa tra il 24 e il 25 aprile. La Conferenza decise la spartizione del regno di Faysal secondo le linee più o meno previste dagli accordi Sykes- Picot ma sotto la nuova forma dei mandati affidati alla Società delle Nazioni. Unica eccezione, l’indipendenza della regione dell’Hegiàz secondo l’accezione restrittiva già utilizzata per Faysal a Parigi.
Ma Faysal poteva ancora dirsi fortunato per la tutela che i mandati offrivano ai territori arabi (Baldissera 1972). Vere e proprie manovre di spartizioni erano state effettuate nei giorni precedenti con la discussione della sezione VII del trattato con la Turchia che riguardava la regolamentazione di Egitto, Sudan e Cipro. Nel pieno rispetto delle ambizioni e delle compensazioni venivano regolate le questioni della libera circolazione nel Canale di Suez, nel senso che la Turchia rinunciava ai diritti in favore della Gran Bretagna, si sanciva l’intangibilità di Cipro ma con l’aggiunta di un articolo sulla conferma di protettorati francesi sul Marocco e sulla Tunisia che in sostanza gli accordi di protettorato e di regime delle merci rispettivamente del 1912 e del 1881 “accettandone tutte le conseguenze”.
Il 23 aprile, poi, il giorno precedente alla discussione sui mandati arabi, si era dato avvio a quell’accordo tripartito con il quale si includeva anche l’Italia nel processo di spartizione e di sfruttamento del territorio ottomano. Nitti otteneva la zona di Adalya sulla costa e una posizione vantaggiosa nello sfruttamento delle risorse carbonifere per colmare la penuria di miniere nazionali mentre la Francia concedeva all’Italia eguali diritti nella zona di Eraclea.
Cadeva così anche l’ultima, pur flebile resistenza all’ univoca interpretazione imperialista del trattato ottomano. Pur se animata da sinceri propositi, la posizione di Nitti era critica perché subiva il ricatto dell’ancora irrisolta questione adriatica. Il favore degli alleati gli era indispensabile per controbilanciare il tradizionale appoggio americano alla causa jugoslava. Discussa solo a margine della Conferenza (26 aprile) e viziata dalla posizione attendista degli jugoslavi, la questione subì un ulteriore slittamento ma almeno nella confortante chiave della ripresa dei negoziati diretti previsti a maggio a Pallanza tra i rispettivi ministri degli esteri. Per il ministero Nitti il compromesso con gli alleati era stato un prezzo alto ma essenziale da pagare per guadagnare quell’ultima chanche di risoluzione del difficile contenzioso, pena il fallimento dell’intero disegno di pace nittiano. (Altari, 1976, 450 e ss.)
La Conferenza di Sanremo, insomma, era riuscita in certa misura a dare soluzioni, “anche se cattive”, come si era auspicato Nitti in apertura. La strada per il trattato di pace con la Turchia era aperta e, secondo i piani, avrebbe portato nuovamente a Parigi per la conclusione, la firma con la delegazione del sultano e Faysal.
Tuttavia, essa non era riuscita a cogliere quel fermo immagine definitivo della pacificazione del Mediterraneo orientale. “Non credo alla fine della Turchia”, avrebbe commentato Nitti a proposito delle durissime clausole del trattato, “i turchi cacciati dall’Europa, dove soltanto un piccolo lembo di terra sarebbe rimasto loro, non avrebbero potuto che ridursi tra le montagne dell’Anatolia dove ciò che rimaneva loro di meglio era proprio il vilayet di Smirne. […] la Grecia poteva avere appoggi ma la Turchia aveva per sé l’esasperazione di un popolo esaltato dal dolore e coraggioso […] l’insurrezione si sarebbe trasformata in una crociata politico religiosa”. (Nitti 1947, 371).
Ed in effetti, nel giugno 1920, Venizelos aveva ottenuto da un Consiglio supremo ancora operante il via libera per conquistare anche l’interno del vilayet di Smirne. La rotta di collisione con le forze del nazionalismo turco che premevano dall’Anatolia era certa. (Bush 1976; Mac Millan 2006)
L’ultima fase del processo di pace con la Turchia cominciava con conflitto, la guerra greco- turca.
In conseguenza di questa nuova, estrema, forzatura la firma del trattato, il 10 agosto non nella prevista Parigi ma a Sèvres, trovò equilibri di potere interni al mondo ottomano radicalmente mutati e la delegazione che lo firmò era praticamente delegittimata in partenza. Accolto in Turchia da un intera giornata di lutto nazionale, il trattato era fragile come il luogo, il museo delle ceramiche della cittadina, in cui era stato firmato e umiliante al pari di quello tedesco tanto da originare, fino ai tempi presenti, la cosiddetta “sindrome di Sèvres”. (Grassi 2020, 198 e ss.)
Una recisa opposizione venne dai nazionalisti di Kemal che proseguendo la guerra e imponendosi come potere legittimo all’interno determinarono il mancato riconoscimento del trattato. (Bush 1976; Mac Millan2006; Del Zanna 2012;)
Ma la sospensione del trattato con la Turchia significava anche l’indefinitezza di tutte le clausole. In situazioni infiammate come il Medio Oriente o il Caucaso questo significò, come accennato, il prevalere di soluzioni di forza, molto lontane dalle decisioni della Conferenza di pace.
Così, se l’Armenia venne conquistata dall’esercito bolscevico e i suoi confini rinegoziati tra Russia e Turchia, in Siria la Francia poté forzare la mano e imporsi ben oltre i limiti individuati dai mandati, tanto che lo stesso Faysal finì con l’appellarsi senza successo alle decisioni di Sanremo (Baldissera1972; Gabellini 1996). Anche il mandato britannico era interlocutorio in attesa della conferma (due anni) da parte della Società delle Nazioni.
Ma il Mediterraneo aveva insegnato almeno che ogni rinvio poteva essere pericoloso e così il nuovo ministro delle Colonie britannico, Winston Churchill, nel 1921, pensò che fosse meglio cedere almeno in parte alle istanze arabe e alle promesse fatte. Divise, dunque, il mandato in due parti: la Palestina che si estendeva fino ad ovest del Giordano e la formazione di un piccolo, nuovo stato arabo, la Transgiordania (attuale Giordania) con Abdullah, fratello di Faysal, re. A questo, in breve tempo, si sarebbe aggiunto anche uno Stato creato di sana pianta, l’Iraq, risultato di un artificioso agglomerato di territori e popolazioni. Nell’impossibilità di garantirne la tranquillità i britannici offrirono la corona in via compromissoria proprio allo spodestato Faysal.
Il volto del Medio Oriente contemporaneo incominciava a configurarsi ma solo in minima misura questo rifletteva le intenzioni iniziali della Conferenza di pace (Antonius 1965; Fromkin 1979)
Alla conclusione della guerra greco- turca, nel 1922, l’impressione di un Mediterraneo sfuggito al controllo dei vincitori fu confermata dalla pace che metteva fine alla contesa con il nuovo trattato di Losanna. Si trattava, come è noto, della prima opera di revisionismo coronata da successo capovolgendo interamente i termini del draconiano trattato di Sèvres. A spese di una Grecia ridimensionata nel territorio e nelle aspirazioni nasceva la Turchia moderna.
Ma non solo. A Losanna si apriva anche una nuova stagione politica. Accanto a ‘ dinosauri’ della pace come Curzon e Poincaré una nuova classe politica mediterranea faceva la sua comparsa. E se questa volta a firmare il trattato c’erano riconosciuti messi della Turchia di Kemal, l’Italia era rappresentata dal nuovo primo ministro Benito Mussolini. Non si poteva certo parlare ancora di politica estera fascista, ma quella prima sortita internazionale, a pochi mesi dalla marcia su Roma, fu per Mussolini occasione per osservare e riflettere sul rapporto tra forza e diritto (Di Casola 1993).
La Conferenza di Parigi, a quel punto, sembrava così lontana nel tempo da essere avvolta da un alone onirico ed il mondo lo aveva cambiato solo in una certa misura e per una stagione effimera. Il suo sguardo poté dirsi globale nella misura e nelle capacità di uomini del XIX secolo, convinti dell’impossibilità di sovvertire i rapporti centro- periferia tanto da un punto di vista geografico che politico. Invece dalla periferia, dall’estrema periferia mediterranea un’onda nuova si era mossa, quella del revisionismo dei trattati che in pochi anni, proprio sull’esempio di Mustafa Kemal Atatürk, avrebbe veicolato il malcontento dell’Europa mediterranea e continentale nutrendo una nuova stagione di potenti ideologie.
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Parole chiave:
Conferenza di Sanremo, Grande guerra nel Mediterraneo, Grande Siria, nazionalismo arabo, nascita del Medio Oriente, accordi Sykes Picot, Faysal, Mustafa Kemal Atatürk, Francesco Saverio Nitti, sistema dei mandati, Conferenza di Parigi, trattato di Sèvres.
1 ACS, Archivio Nitti, b.30, fasc. 98, sottofasc. 3, Tittoni a Nitti, 11 novembre 1919.
2 ACS, Archivio Nitti, b. 36, fasc. 100.
3 DDI, sesta serie, vol. IV, Imperiali a Tittoni, 13 novembre 1919, cit. p. 538
4 F.S. NITTI, L’Europa senza pace, cit. p. 98- 99. Il ricordo di questa prima decisione di governo si trova raccontato anche in F.S. NITTI, Rivelazioni, cit. 529 e in F.S NITTI, Scritti politici, vol. II, cit. p. 123 e 308.
5 Anche nella rinnovata storiografia della stagione dei centenari ancora in corso, la Conferenza di Sanremo ha ricevuto solo qualche sporadica menzione veicolando l’idea che il trattato lì elaborato fosse in effetti figlio della Conferenza di Parigi apertasi nel 1919. Relativamente presente anche nella memorialistica (Tardieu 1921; Barrère 1938; Lloyd George 1938; Nitti 1947) essa – come tutto il periodo 1920-21- non è compresa nella raccolta generale dei documenti diplomatici italiani la cui VI serie si ferma al 25 novembre 1919. (cfr.DDI VI serie vol. IV). La ricostruzione qui proposta è basata sui rendiconti e il materiale conservato in ACS, Archivio Nitti nel quale si trovano non solo i resoconti stenografici delle riunioni e i copia lettera della presidenza del Consiglio ma anche la nutritissima corrispondenza che il presidente Nitti mantenne in quelle settimane. Per la ricostruzione ci si riferisce qui ai resoconti in ACS, Archivio Nitti, b. 36, fasc 100 (Verbali Consiglio supremo sessione Londra- Sanremo) dal 92 al 109. I riassunti in inglese sono contenuti qui in Ivi, sottofasc. 3, mentre il resoconto stenografico in francese è in Ivi, sottofasc.4. Sulla storia stessa della conservazione di questi documenti negli anni dell’esilio si veda quanto scrive lo stesso Nitti in F.S. Nitti, Scriverò un libro di memorie? in Scritti politici, Roma- Bari, Laterza 1979 e F.S. Nitti, Le mie carte, i miei appunti dove sono andati a finire?, in Meditazioni dall’esilio, Napoli, ESI, 1948.
6ACS, Archivio Nitti, b. 27, fasc. 97, Scialoja a Nitti, 1 aprile 1920, resoconto della seduta del giorno precedente. Per i verbali della Conference of ambassadors and foreing ministers tenutasi nel mese di marzo a Londra, Ivi, b. 35 fasc. 100, sottofasc.2.
7 La discussione sul rapporto con l’associato americano fu affrontata come premessa alle riunioni nella seduta d’apertura. Cfr. ACS, Archivio Nitti, busta 36, fasc. 100, seduta del 19 aprile 1920.
8 La bozza su cui si ragionava a Sanremo era quella stampata il 14 aprile 1920 che, ad esempio, non comprendeva le clausole riguardanti la Palestina. Cfr. ACS, Archivio Nitti, busta 25, fasc. 93.
9 ACS, Archivio Nitti, b. 36, fasc. 100, intervento del presidente della Conferenza Nitti alla riunione preliminare, 18 aprile 1920.
10 Ivi, b. 26 fasc. 95; b. 27 fasc. 97, sottofasc. 1-2.
11 Sulle idee di Nitti circa le questioni discusse alla Conferenza si vedano i telegrammi mandati da Nitti a Roma all’attenzione del re e del gabinetto dal 22 al 27 aprile 1920 in ACS, Archivio Nitti, busta 24, fasc.90.