La Public History: innovazioni metodologiche e prospettive divulgative nella scienza storica Una discussione con Serge Noiret, presidente del Consiglio Direttivo dell’AIPH

Nota introduttiva a cura della redazione di SeF

Proseguendo l’apertura dei propri campi di riflessione e d’interesse agli sviluppi anche più innovativi della scienza storica, “Storia e Futuro” ha ritenuto in questo numero di proporre un contributo specifico dedicato ad uno dei fenomeni più originali che nel campo degli studi storici si viene affermando anche nel nostro paese. Si tratta di quello che – rivendicando una piena legittimità epistemologica ad essere inserito nella disciplina delle scienze storiche – tende a qualificarsi come un “filone di studi”, ma anche come una “tendenza metodologica”, si potrebbe dire una sensibilità, che ambisce ad introdurre in tali discipline elementi di profonda trasformazione. La “Public History” – che nasce negli Stati Uniti negli anni Settanta e che rapidamente penetra gli studi storici europei – è infatti oggi uno dei campi non solo più praticati da storici di generazioni diverse (ove la prevalenza di giovani studiosi è solo un dato apparente, considerato l’interesse destato invece anche in studiosi di ormai riconosciuta autorevolezza) – ma anche, e forse soprattutto, più discussi, proprio per la carica dirompente di elementi che mettono in discussione impostazioni e metodi tradizionalmente appartenenti al “fare storia”.

La fioritura di contributi monografici (individuali o collettivi), l’attenzione prestata da riviste importanti nel panorama dell’editoria storica, e più in generale il continuo dibattere intorno ai temi della dimensione pubblica della storia, danno tuttavia la misura di un clima di crescente favore dal quale questa nuova proposta sembra essere accompagnata. E la nascita di una “Associazione Italiana per la Public History” – celebrata nel Convegno ravennate del giugno scorso che ha visto la presenza e l’intervento diretto non solo di membri di primo piano della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO), ma anche del Professor Andrea Giardina, Presidente della Giunta Centrale per gli Studi Storici – ne è sembrata la definitiva sanzione, ed il riconoscimento anche istituzionale.

Seguendo questo fervore e l’intensificarsi del confronto, “Storia e Futuro” ha ritenuto opportuno, ed anzi doveroso – come rivista che da ormai molti anni cerca di intercettare ed intervenire nel dibattito storiografico collocandosi al centro delle questioni di più rilevante momento – chiedere a chi della Public History è sostenitore ed attivo studioso, a chi la Public History pratica quotidianamente nella propria attività professionale e scientifica, di spiegare ragioni, contenuti, elementi qualificanti della proposta. Ecco dunque questo breve inserto monografico che si impernia sulle risposte offerte dal Presidente dell’Associazione Italiana per la Public History Serge Noiret – di concerto con i membri del Direttivo dell’Associazione – ad alcune domande, che hanno voluto sollecitare la discussione non mancando, per certi aspetti, di accostare anche questioni provocatorie e non prive di delicatezza.

Ciò che ne scaturisce è l’impressione innanzitutto di una profonda consapevolezza che tutta la comunità scientifica ha del momento estremamente complesso che la storia in quanto disciplina e professione sta attraversando da anni – anni “di profonda crisi”, come gli interlocutori non mancano di sottolineare. E quindi anche dell’urgenza di far fronte al rischio di un declino che molti avvertono – anche coloro che, intervenuti in precedenti occasioni, vengono richiamati e citati in queste risposte nella forma di un dialogo che – riteniamo – dovrebbe costituire uno degli strumenti e delle pratiche più diffuse in una sede di dibattito come la rivista, per sua natura legata ad una dimensione di “working progress” e quasi, per certi aspetti ed in molte sue rubriche, “seminariale”.

La Public History – e questo ci sembra il secondo aspetto rilevante – non si propone, in questo orizzonte, come una semplice proposta di divulgazione magari spettacolarizzata della conoscenza storica. Rifiutando le considerazioni severe che alcuni autori hanno svolto in una precedente inchiesta che “Storia e Futuro” ha condotto negli anni scorsi a proposito delle riviste di storia, l’Associazione rivendica, per voce del proprio Presidente e del proprio Direttivo, la piena legittimità e la perfetta corrispondenza metodologica del “fare storia con strumenti e modalità diverse”, rispetto ad un certo modo tradizionale, che oggi appare in una posizione marginale e chiusa. Ma ancor più netta ed entusiasta è la convinzione che la Public History possa contribuire in misura molto consistente al rilancio non solo di una dimensione “pubblica” della storia ma anche ad una idea di storia come terreno di azione socialmente utile e foriero di notevoli opportunità occupazionali, come del resto – si dice – l’esempio americano starebbe lì a dimostrare.

“Storia e Futuro” offre dunque questi interventi, nella convinzione di svolgere con serietà un ruolo di stimolo al dibattito scientifico, e con l’auspicio che la comunità degli storici possa trovare in queste pagine motivi di riflessione non privi di interesse ed utilità.

La Redazione “SeF”

Cominciamo da una semplice questione di definizione e di metodo: come definirebbe la Public History, tanto in positivo quanto in negativo? Cosa è, ma anche cosa “non è”, la Public History? In quale rapporto si colloca, secondo la Sua opinione, nel confronto con la scienza storica così come quest’ultima è definita nei suoi statuti epistemologici, nei suoi canoni di metodo, nelle sue categorie interpretative e nel suo linguaggio?

E’ difficile rispondere ad una domanda che chiede una definizione in positivo e in negativo per identificare una disciplina. Forse la storia, o la necessità di nutrire e confrontarsi con le memorie sociali del passato, oppure la presenza attiva della cultura storica e del passato nella società possiedono risvolti negativi quando parliamo di uso pubblico della storia? E’ positivo o negativo quando vengono usati in pubblico elementi selezionati del passato a sostegno di ideologie o di moderni principi? In quei casi, certo, possiamo intravedere aspetti negativi, come negativa potrebbe essere intesa la storia come disciplina accademica quando chiusa nelle aule universitarie, negli archivi tradizionali e nella produzione di libri che pochi leggono, e senza promuovere, come imperativo imprescindibile del fare storia, l’utilità di studiare e di comunicare la storia con e per il pubblico. Sono recenti le severe critiche di Christoph Dippert (2015) a come la storia contemporanea viene studiata nelle università in Italia e le conseguenti risposte di storici italiani pubblicati da Italia Contemporanea (2017). L’History Manifesto di David Armitage e Jo Guildi descrive le ragioni di una crisi della storia accademica negli USA ed è stato commentato da più parti in Italia anche se, a fronte di una diagnosi impietosa, gli autori non menzionano nel breve saggio come la public history -e la sua presenza sociale- possa fornire una risposta a quella crisi.

Possiamo certo dire che la public history (PH) si differenzia in positivo dalla storia tradizionalmente insegnata nelle università che, da anni ormai è entrata globalmente in profonda crisi, perché percepita purtroppo come disciplina teorica, localistica, senza capacità di presa sull’attualità e dunque poco utile, che non crea un bene sociale di immediata rilevanza confrontandosi con altre scienze sociali. Tuttavia, la PH da un punto di vista epistemologico non è storia diversa dalla storia tradizionale, se si eccettua il fatto che utilizza alcuni metodi e tecniche non contemplati nel lavoro accademico tradizionale. Si differenzia soprattutto per le sue finalità, ragioni e motivazioni e perché pensa diversamente il suo rapporto con la società. La PH si sviluppa professionalmente sul terreno e combatte per rispondere ai bisogni di cultura storica e di conoscenza della storia che, non corrisposti, trovano sbocchi con chiunque si proponga di fare parlare il passato in pubblico. La PH contribuisce cosi, con le sue pratiche applicate nella società, a salvare il ruolo fondamentale della cultura umanistica in serio pericolo nel mondo. Storia e PH sono tutt’uno, ma la ricerca accademica si accontenta spesso di riprodursi nelle università, nelle riviste e nelle monografie che servono per la selezione interna di ricercatori universitari, mentre la storia effettuata dai public historian si fa in rete, nei media, in pubblico, in diretto contatto con le comunità coinvolte nei processi di elaborazione del passato e non perché si deve preparare un curriculum individuale per un avanzamento di carriera. Si sviluppa inoltre nelle scuole aperte al territorio che servono.

Uno storico accademico non ha la necessità di incontrare un pubblico specifico, perché scrive innanzi tutto per soddisfare gli sguardi critici di altri universitari. Confrontarsi in pubblico con il passato e la memoria è invece la ragion d’essere della PH. Intendiamoci, molti storici accademici entrano nell’arena pubblica e comunicano le loro ricerche e la conoscenza storica nei media e in pubbliche conferenze e festival; inoltre un‘associazione di storici contemporaneisti come la Sissco è da tempo molto attenta alla presenza della storia nell’arena pubblica. In questi casi, gli storici universitari diventano anche public historian. Tuttavia, la maggioranza degli storici fa storia tradizionale, con fonti tradizionali, e ambisce unicamente alla carriera universitaria e non ad assumere posizioni professionali diverse. Non cercano di approfondire conoscenze interdisciplinari che servono per comunicare la storia e per lavorare in comunità a contatto diretto con il pubblico o ad utilizzare le nuove tecnologie digitali. Queste pratiche, conoscenze, tecniche per condividere il passato col pubblico, non vengono insegnate nei corsi di laurea in Storia. Questo succede inoltre in un paese che frammenta sistematicamente in categorie amministrative e concorsuali non solo le science sociali e umanistiche, ma anche i diversi periodi storici, ghettizzando le epoche dietro a parametri burocratici arbitrari. Forse non si sa che esistono ben 9 settori disciplinari diversi all’interno delle scienze storiche e che chi pratica, ad esempio, Storia medievale, è valutato solo per quello che produce in quello specifico settore, non in altri. Chi pratica la PH pensa invece che sia fondamentale riflettere sul passato in un arco cronologico ampio, studiare e costruire fonti, fare ricerca e comunicare la storia insieme alle comunità con le quali e per le quali questo passato, tutti i passati dai più remoti ai più recenti, sono momenti fondanti e significanti nel presente. Inoltre un public historian dialoga con altri professionisti costantemente: filologi, letterati, geografi, filosofi, sociologi, informatici, architetti, curatori, scenografi, giornalisti …. E’ infatti cosciente di non potere lavorare da solo e non si pone limiti e frontiere al suo agire con il passato in pubblico, né privilegia una forma di narrazione –la scrittura – sulle tante altre che esistono per comunicare ed inscenare il passato per e con il pubblico.

Come definire la PH allora ? A differenza della nordamericana NCPH, la IFPH sul suo sito web non propone finora, una definizione breve di cosa si intende per PH come disciplina, ma soltanto un video che indica in tante lingue e con interventi di storici molto diversi per età, genere, provenienza geografica, le visioni complementari che si hanno della disciplina in differenti contesti nazionali e linguistici. Anche la AIPH, non propone per ora una definizione univoca sul suo sito, perché si sta ancora interrogando sul variegato campo di applicazione del passato nel e con il pubblico italiano e sulle caratteristiche italiane della disciplina: la giovane associazione (giugno 2016) vuole essere inclusiva ed aperta al mondo delle professioni che hanno a che fare con la storia e a tutte le esperienze che coinvolgono il passato nella cultura umanistica e ambientale come ovviamente nei media.

Certo, a livello internazionale, tra il 2017 e il 2018, sono uscite e stanno uscendo importanti opere di sintesi in lingua inglese che contribuiranno a definire meglio il campo disciplinare internazionale della PH.1 In Italia, alcuni saggi sono stati pubblicati in buone riviste, e nuovi libri stanno documentando l’interesse importante che la PH sta rivestendo in Italia oggi.2 Infatti la PH è internazionale nei metodi, anche se praticamente focalizza il suo interesse sul locale, e la disciplina si declina in ogni lingua perché possiede un suo carattere “glocale” e legato al passato di ognuno nel mondo.3 La PH può essere interpretata anche come uno stato d’animo, un processo sociale con la storia, una visione professionale applicata ed interdisciplinare, una visione utilitaria della storia, un ripensamento profondo a come il passato si debba muovere ed esistere nel presente in tante diverse forme narrative.

Ci tengo a precisare che la PH non si limita ad una migliore comunicazione degli argomenti trattati della storia tradizionale, né a utilizzare i risultati delle ricerche accademiche in pubblico. Non è soltanto divulgazione colta, come talvolta si equivoca, ma è anche ricerca innovativa, fatta anche insieme al pubblico e ad altri professionisti. Dunque, per tornare sull’idea di fornire una definizione, spero mi sia consentito di citare un mio contributo al libro di Bertucelli, Farnetti e Botti, nel quale avevo scritto che

una definizione universale del campo della Public History rimane ambigua e contraddittoria e non applicabile dappertutto nello stesso modo. Il processo di internazionalizzazione della Public History … si svolge su basi differenziate nei diversi paesi in base ai bisogni specifici e alle tradizioni culturali nazionali. Ciononostante, attraverso la globalizzazione di quelle pratiche la Public History attinge ovunque ad istanze professionali simili. Inoltre, la crisi della storia accademica nelle società post-coloniali ha favorito l’ascesa della Public History che tenta di non perdere contatto con la società e di favorire il ruolo pubblico degli storici non solo come commentatori graditi ai media in quanto detentori dello status di professori universitari, ma soprattutto in quanto depositari di queste nuove pratiche professionali che non si insegnano nelle università.

La Public History – secondo quanto emerge nelle dichiarazioni pubbliche fatte in sede convegnistica ma anche nei diversi contributi che negli ultimi anni sono comparsi – avrebbe l’intento anche di “rivitalizzare”, se non di “rilanciare”, il ruolo pubblico di uno storico che si sarebbe chiuso in una posizione di isolamento rispetto al dibattito più ampio, al confronto corrente nell’opinione pubblica, e rispetto anche ad una “domanda di storia” che appare emergere in maniera molto consistente nelle più ampie fasce della società. E’ un tema oggi al centro di un dibattito molto serrato che richiama gli storici ad un dovere pedagogico ed anche civile di intellettuali: l’History Manifesto di David Armitage e Jo Guldi ne è una delle ultime testimonianze. In che modo – secondo la Sua opinione – la Public History potrebbe essere funzionale e contribuire a questo rilancio?

Come accennato nella risposta alla prima domanda, la PH è una importante risposta alla crisi della storia e delle materie umanistiche. Essa però non è mera comunicazione o pedagogia, ma diventa spesso anche ricerca originale sul terreno con le comunità che posseggono fonti e memorie e che ambiscono a condividere la cultura storica in modo pubblico, diffuso e comunicato. E’ probabile che, come già avvenuto negli USA tra la NCPH, la AASLH e la AHA, le organizzazioni di storici accademici si mobilitino per intervenire più spesso nel dibattito pubblico, incalzate proprio dal ruolo di public historian. In questo caso la AIPH potrebbe avere anche per l’Italia un importante ruolo di stimolo nel dibattito pubblico sull’importanza del fare storia favorendo tale discussione tra storici universitari, archeologi, archivisti, curatori di musei, architetti, scenografi, giornalisti, bibliotecari, funzionari pubblici, imprese private, e, in generale scienziati sociali e umanisti.

 

Come risponde alle obiezioni – talvolta non prive di sfumature anche duramente polemiche – che provengono da alcuni settori del dibattito storiografico, e che oppongono alla proposta della Public History problemi di metodo (la storia in quanto scienza non sarebbe forse, per definizione, pubblica?), di fonti (quali fonti per la costruzione della Public History?), di canoni interpretativi e di linguaggio (fare lo storico non è forse diverso dal fare il giornalista-storico, il divulgatore, l’organizzatore di musei o di festival, o di rievocazioni, soprattutto in ragione del fatto che queste figure abbiano delle competenze che lo storico non possiede, ma non avrebbero alcune delle competenze che invece rimangono prerogativa dello storico)? E più in generale come risponde all’obiezione di chi avverte il rischio di una delegittimazione ed infine di una trasformazione-scomparsa della professione di storico per come l’abbiamo conosciuta?

Non ho avuto modo di scoprire e di leggere finora in Italia molte obbiezioni alle ragioni della PH che abbiano avanzato argomentazioni e sfumature pertinenti al campo discusso. Anzi, alcune associazioni tradizionali di storici accademici stanno già promuovendo la storia in pubblico. Esse propongono ricerche innovative legate all’attualità, come hanno recentemente ricordato il presidente della Sissco, Fulvio Cammarano, e lo storico Maurizio Ridolfi in vari interventi pubblici. Tuttavia altri storici accademici hanno espresso opinioni superficiali e polemiche, che sembrano scritte da chi non sa bene cosa sia la “public history”. Cito per esempio un breve intervento di Eugenio di Rienzo in un intervista per Storia e Futuro, che liquida la disciplina della PH con battute sprezzanti o alcune dichiarazioni del medievista Franco Cardini che in realtà il lavoro di public historian e di divulgatore di storia in pubblico lo pratica invece da anni. A mio / nostro avviso l’idea secondo la quale la PH sarebbe solo spettacolarizzazione del passato fatta da chi non sa di storia per chi ne sa ancora meno, è solo uno slogan che rivela la mancanza di informazione su cosa sia la disciplina e l’assenza di interesse per come la storia possa essere inscenata pubblicamente fuori dai canali accademici tradizionali.

Riflessioni interessanti e critiche sono invece venute da Angelo Torre nel 2015, in un numero di Quaderni Storici, il quale propone di approfondire il concetto di patrimonio culturale come storia applicata in pubblico e come concetto alternativo o complementare della PH. Torre ha effettuato un originale percorso di lettura degli sviluppi internazionali della storia applicata in Francia, nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Ricostruisce le peripezie della storia applicata fuori dalle università nel mondo anglo-sassone partendo dagli anni ’10 del XX secolo, dopo il lavoro del pioniere della applied history Benjamin F. Shambaugh. Lo studio del “patrimonio culturale” –molto legato ai concetti della storiografia francese-, è centrale per l’attività applicata degli storici fuori dall’accademia e alternativo, secondo Torrre, a quello della PH, ed è il solo capace di frenare l’erosione del potere esplicativo critico e di lungo respiro della storia in pubblico. Torre vede tre dimensioni per una storia fuori dalle università: la storia applicata in politica nella tradizione dei consiglieri del principe, la storia “pubblica” che risponde ad una domanda di storia non accademica e la dimensione pubblica dell’heritage. A nostro parere, queste distinzioni che concettualizzano alcuni approcci di storia applicata, sono tuttavia artificiali: si collocano nella dimensione globale di una disciplina che è parte integrante delle scienze storiche come la PH. Il patrimonio culturale, la sua preservazione e valorizzazione, e la storia che viene applicata attorno ad esso, sono soltanto uno dei campi dell’applicazione della ricerca storica in pubblico. La discussione introdotta da Torre, che ha illustrato le sue idee durante il convegno internazionale di Public History di Ravenna nel giugno scorso, si riallaccia al dibattito epistemologico che si è determinato inizialmente in America negli anni ’70 ed è interna al campo stesso della PH. Egli accentua la dimensione di gestione pubblica del patrimonio culturale, il concetto francese di “patrimoine” nei confronti di altre attività pubbliche degli storici che rientrano tutte nell’ambito della PH o della storia applicata, come si sarebbe potuta chiamare già negli anni ’70 in California con Wesley Johnson e Robert Kelley.

Tuttavia vi è chi, all’interno dell’università intesa non come luogo di elaborazione di una risposta alla domanda sociale di storia, ma come area di potere e di riproduzione di carriere accademiche, ha paura di perdere uno status sempre più sprovvisto di rilevanza sociale, perché diventato autoreferenziale, gerarchico e incapace di apertura interdisciplinare e di diversificazione delle tecniche narrative o anche di riflessione sull’impatto delle nuove tecnologie della rete, che hanno rivoluzionato il modo di fare storia in pubblico oggi. In realtà – anche se questo potrà non incontrare il consenso degli storici accademici – non importa il profilo professionale di chi fa storia nell’arena pubblica, purché si faccia con la storia un lavoro ben fatto, in coscienza, in modo documentato e critico, non abbandonando l’aspetto filologico della disciplina. Esistono moltissimi libri illeggibili e del tutto irrilevanti scritti da storici accademici, come anche interventi di grande rilevanza sociale e culturale legati all’attualità e ai bisogni di approfondimento della storia, scritti sulle riviste accademiche italiane. Allo stesso modo esiste una buona PH, fatta di lavori egregi e di ricerca originale per e con il pubblico e, al contrario, numerose realizzazioni pubbliche insignificanti, acritiche e superficiali, prive delle basi metodologiche della public history.

In ogni caso bisogna riconoscere che la domanda di storia che proviene dalle nostre comunità non viene soddisfatta dalla risposta che possono dare gli storici universitari nei loro saggi accademici e nei loro libri, ma va oltre il prodotto tradizionale dell’accademia, stravolge la professione di storico perché chiede di incontrare il passato sotto forme diverse, nei media, nelle piazze, nella rete e nelle discussioni pubbliche sulle memorie attive nel presente. Per salvare la professione nella sua interezza, la PH è necessaria perché porta con se un notevole rinnovamento della pratica professionale e il confluire di varie professioni sotto il denominatore comune della storia e, di conseguenza, una salutare apertura a nuove professionalità, che sono essenziali complementi alla formazione tradizionale dello storico accademico e alla permanenza del ruolo sociale della cultura storica. Questa reinvenzione delle forme narrative del passato e questa direzione interdisciplinare attenta al ruolo culturale e sociale del passato sono quelle di chi crea master in PH o in comunicazione della storia, o di chi insegna storia pubblica digitale, e sottolineano la necessità e l’importanza di incorporare nuove fonti e metodi (storia orale, storia digitale, studi museali, archivistica e biblioteconomia) alla pratica tradizionale al fine di guardare alla storia nella sua dimensione pubblica, alla elaborazione di politiche culturali che aiutino a spiegare il presente e ad arginare la perdita di importanza della storia come elemento costitutivo della nostra memoria collettiva e della cultura umanistica in generale.

In Italia il recente convegno ravennate di giugno 2017 ha visto la costituzione della Associazione Italiana per la Public History. Quale spazio – secondo la Sua opinione – la Public History potrebbe avere nel nostro paese, e quale spazio potrebbe aprire ai tanti, soprattutto giovani, storici in formazione o già consolidati, anche attraverso la creazione di spazi e ruoli professionali in parte nuovi e diversi rispetto a quello tradizionale dello storico-ricercatore?

In Italia la PH si pratica da decenni ormai, la nascita di un associazione nel 2016 ha solo permesso a molti praticanti di ripensare il loro lavoro con il passato in chiave nuova e di allacciarsi a pratiche esistenti globalmente e con un nome internazionale anche grazie al mantenimento dell’accezione linguistica inglese. La PH esiste dunque attraverso molte pratiche professionali che, una volta individuate, fanno parte del bagaglio professionale dei public historian. In Italia, si potrebbe finalmente riconoscere queste pratiche con la storia, valorizzarle e tentare di insegnarle evidenziando le professioni per le quali la storia e l’analisi del passato siano componenti fondamentali. In un paese che vive di cultura storica, di patrimonio archeologico e urbanistico, di paesaggi e di musei e, soprattutto di turismo, gli sbocchi professionali dei public historian coscienti del lavoro che svolgono in area MIBACT, sono e saranno, si spera, molti, non limitando il mestiere di storico all’accesso all’università o all’insegnamento. Il dibattito è aperto e la public history è diventata ormai parte dell’orizzonte culturale in Italia come in altri paesi.

Serge Noiret,
Presidente della International Federation for Public History (IFPH) e della Associazione Italiana di Public History (AIPH), 29 agosto 2017.

1 Enciclopedie che riguardano la dimensione disciplinare nel suo complesso escono tra il 2017 e il 2018 aggiungendosi ai lavori corali già esistenti come James B. Gardner e Paula Hamilton (eds), Oxford Handbook for Public History, Oxford University Press, Oxford 2017; David Dean, Enciclopedia of Public History, Wiley-Blackwell, London 2017; Paul Ashton e Alexander Trapeznik (eds), What is Public History Globally? Using the Past in the Present, Bloomsbury, London 2018; Serge Noiret e Mark Tebeau (eds) Digital Public History Handbook, De Gruyter, Munich 2018.

2 Si vedano Serge Noiret, “Public History” e “storia pubblica” nella rete, in F. Mineccia, Luigi Tomassini (a cura di), Media e storia, numero speciale di «Ricerche Storiche», 39, n. 2-3, 2009, pp. 275-327; dello stesso autore: La “Public History”: una disciplina fantasma? in Public History. Pratiche nazionali e identità globale, in «Memoria e Ricerca», n. 37, maggio-agosto 2011, pp.10-35; Angelo Torre: “Public History e Patrimoine: due casi di storia applicata”, in Quaderni storici, a.50, n.3, dicembre 2015, pp.629-659. Inoltre, nel 2017 in Italia sono usciti i lavori di Paolo Bertella Farnetti, Lorenzo Bertucelli e A.Botti (a cura di): Public History. Discussioni e Pratiche., Milano, Mimesis, 2017; Maurizio Ridolfi: Verso la Public History. Fare e raccontare storia nel tempo presente., Pisa, Paccini, 2017; Serge Noiret (a cura di): “Musei di storia e Public History”, in Memoria e Ricerca, n.1, Gennaio-Aprile 2017.

3 Eleni Lemonidou, Public History: The International Landscape and the Greek Case, in «Ricerche Storiche», a. XLVI, 2016, 1, pp.93-104; Linda Shopes, The evolving relationship between Oral History and Public Histor”, in «Ricerche Storiche», a. XLVI, 2016, 1, pp. 105-118; Juniele Rabêlo de Almeida, Maria Gouveia de Oliveira Rovai (a cura di), Introdução à história pública, Letra e Voz, São Paulo 2011 e Anna Maria Mauad, Juniele Rabêlo de Almeida, Ricardo Santhiago (a cura di), História pública no Brasil: sentidos e itinerários, Letra e Voz, São Paulo 2016 Na Li, Public History in China: Is it Possible?, in «Public History Review», Vol. 21, 2014, pp. 20-40,

http://epress.lib.uts.edu.au/journals/index.php/phrj/article/view/4135/460; International Сonference: The past is a foreign country? Public history in Russia, June 3-4, 2016, Moscow, Media Department Faculty of Communications, Media and Design, National Research University Higher School of Economics, https://cmd.hse.ru/data/2016/06/02/1131009910/Public-history-2016-en.pdf; Alexander Khodnev, Memory Studies “Boom” in Russia, in «Public History Weekly», 4, 11, 2016 e The Cold War: Memory and Forgetfulness”, in «Public History Weekly», 5, 3, 2017;