Labour History beyond borders: Concepts and Explorations Conferenza internazionale, Linz 10-13 settembre 2009

Andrea Ragusa

Il rinnovamento degli studi storici, senza dubbio importante ed indicativo di mutati contesti socio-culturali, può a volte diventare una prassi utilizzata con disinvoltura non priva di eccessi. Così, un filone tradizionalmente definito, dal perimetro assai netto, può correre il rischio di uno snaturamento profondo.

È quanto emerge dai risultati della 45a Conferenza Internazionale degli storici del movimento operaio e degli altri movimenti sociali, ospitata come di consueto, dal 10 al 13 settembre 2009, nella Jägermayrhof della ÖberOsterreich ArbeiterKammer a Linz. Nella quale, diciamo subito, si sono ascoltate molte belle e ben documentate relazioni su temi inerenti la storia del lavoro e dei lavoratori in differenti contesti geografici. E nella quale, pure, l’apertura tematica e metodologica della storiografia internazionale è stata a più riprese sottolineata in riferimento ad esperienze anche assai distanti dal tradizionale scenario europeo. Come in quella indiana, ad esempio, illustrata da Rana Behal, dell’Università di Delhi, fondatore e segretario dell’“Association of Indian Labour Historians”, sottolineando non solo uno sviluppo di questo tipo di studi, dopo una loro originaria marginalizzazione, nelle aree considerate periferiche e meno sviluppate del pianeta; ma anche l’arricchirsi della labour history con l’inserimento di temi nuovi quali il lavoro migratorio, e la vita dei lavoratori. Una evoluzione, quella della storiografia indiana del lavoro, che ha del resto risentito delle difficili condizioni in cui il paese stesso si è sviluppato: dapprima legata ad isolati interessi di esponenti della borghesia cittadina, o addirittura di missionari stranieri, alla fine dell’Ottocento; poi emersa all’attenzione di un più vasto pubblico tra gli anni Venti e Trenta, nelle circostanze della Grande depressione post-Ventinove, con la costituzione, da parte del governo britannico, di una “Royal Commission on Labour in India”, e la pubblicazione di un voluminoso rapporto sulle condizioni dei lavoratori indiani; infine, con l’avvio della decolonizzazione, legata a categorie interpretative di matrice europea (soprattutto la modernizzazione) e ad una forte influenza del marxismo per poi lasciare spazio, dalla fine degli anni Settanta, ad una attenzione crescente per la complessità della storia quotidiana.

O come in quella brasiliana, di cui ha parlato Claudio Batalha, dell’Università di Campinas, nella quale si evidenzia una evoluzione per molti aspetti analoga: dalla storia interna dei militanti e dei dirigenti a quella fatta da storici di professione, ma anche da sociologi, antropologi, studiosi di scienze sociali affini, intorno al problema della modernizzazione. E nella quale, tra l’altro, una forte influenza delle vicende politiche sullo sviluppo scientifico ha determinato una crescita consistente degli studi sul mondo del lavoro tra anni Settanta ed Ottanta, dopo la prima grande stagione degli anni Trenta durante la Prima Repubblica Brasiliana.

Il tema delle migrazioni, e delle particolari condizioni in cui si trovano i lavoratori immigrati, è stato al centro del dibattito della seconda giornata, ancora una volta con relazioni inerenti in prevalenza aree geografiche extra-europee. Così, all’esame del complesso regime giuridico cui l’immigrazione viene sottoposta dai governi di Thailandia e Malesia – ma, si badi, assai meno quella che diventa manodopera a basso costo a sostegno dello sviluppo economico, come ha evidenziato nel suo intervento Michele Ford dell’Università di Sidney – si è accostata, nella relazione di Minjie Zhang, del College of Public Administration della Zejihang Gongshang University, la considerazione del rapporto tra emigrazione interna e sviluppo economico in Cina, a partire dall’esperienza compiuta nel villaggio di Yiwu, piccolo borgo della provincia dello Zhejang, ai confini con la zona economica di Shangai. Attraverso tre fasi, dal 1978 al 2000, Yiwu ha incrociato la più grande fase di urbanizzazione della Cina, innescata da un movimento di industrializzazione senza precedenti: circa un milione sono stati gli immigrati che si sono aggiunti ai 700.000 residenti ufficiali. Acquisendo in questo scenario, tra l’altro, una propria specificità: sia come snodo del mercato nazionale, sia come perno di una rete urbana che lega, attraverso i movimenti migratori, i maggiori poli dello sviluppo, sia infine come esempio di città di dimensioni medio-piccole sviluppatasi attraverso l’urbanizzazione di aree rurali. Le implicazioni esistenziali dell’immigrazione sono emerse nell’altra interessante relazione di Abdoulaye Kane, giovane studioso senegalese afferente al Dipartimento di Antropologia dell’Università della Florida. Ma, elemento piuttosto interessante, nel caso degli Haalpular, popolazione collocata nell’area di confine tra Mali, Mauritania e Senegal, implicazioni assai positive, ove si consideri, come sollecita a fare Kane, la capacità che gli stessi immigrati hanno avuto di ricostruire una percezione di legame con la madrepatria, e di strutturare relazioni con il paese di origine, soprattutto attraverso l’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, ed al fatto che veri e propri “villaggi Haalpular” si siano creati all’interno delle grandi città immettendoli da subito in una dimensione globale.

In effetti la dimensione della global history ha sotteso per intero i due giorni di convegno, nell’intento di perseguire quell’obiettivo di rinnovamento metodologico degli studi storici nella direzione di un riposizionamento degli equilibri dello sviluppo storico oltre la tradizionale visione eurocentrica che li ha segnati per lungo tempo, ed anche di critica ad una categoria come quella di modernizzazione che in fondo non è stata priva di un certo monolitismo unidirezionale. E senza dubbio opportuno e di grande interesse è stato il richiamo di Dick Geary, dell’Università di Nottingham, a considerare sempre con attenzione l’importanza di una visione e di una indagine comparata di un processo storico, che lo dissezioni e lo contestualizzi in relazione alle diverse circostanze culturali, sociali ed economiche nelle quali, in una area geografica, esso si è sviluppato. In questa direzione, ad esempio, vanno gli studi compiuti in questi anni dal gruppo di giovani studiosi diretto, presso l’Istituto di Storia Sociale di Amsterdam, da Marcel Van der Linden, per la ricostruzione di una storia globale dei lavoratori tessili, di cui Elise van Neederven Meerkerk, dell’Università di Leiden, ha presentato i primi risultati facendo perno su di una impostazione di lunghissimo periodo (addirittura dalla metà del secolo XVII fino ad oggi) che molto recupera della braudeliana long durée. Meno convincente, appare semmai una certa tendenza a “forzare” i limiti concettuali, metodologici e spazio-temporali dello studio sul tema della storia del lavoro e dei lavoratori, fino a farne, come a tratti è sembrato nel convegno austriaco, quasi una sorta di “sociologia del lavoro”, assai più che una “storia del movimento operaio” in senso proprio. Che la storia del movimento operaio si sia rinnovata è cosa ormai del tutto nota, come anche il fatto che il concetto stesso di classe operaia si sia sciolto, negli studi più recenti, in quello di mondi operai: assai più articolato, complesso, per certi aspetti addirittura contraddittorio. Bruno Trentin, dall’alto di un’esperienza sindacale importante come quella di segretario della Fiom e poi segretario generale Cgil, lo aveva segnalato già alla fine degli anni Settanta: “non esiste una ‘classe’ pura che esprime in modo corale ed univoco la sua vocazione storica, ma una classe operaia in formazione perenne, nei suoi aspetti soggettivi, nelle tradizioni culturali diverse ed anche contraddittorie che si agitano, nelle ideologie intrise di contaminazioni reciproche che operano al suo interno”. E così, indubbiamente, è necessario mettere in relazione l’appartenenza di classe con l’appartenenza generazionale o di genere, per capire chi fossero gli operai, dove e come vivessero, e quali rappresentazioni di sé proponessero all’esterno. Ma, appunto, rappresentazione di una appartenenza che dal concetto di classe non può prescindere. Forse è vero quanto Jan Lucassen ha detto concludendo i lavori del convegno di Linz: oggi la storia del movimento operaio non è più possibile perchè non esiste, alla base, una filosofia della storia che la renda possibile: un marxismo, e men che meno un socialismo, essendo cambiato proprio il soggetto di riferimento della rappresentanza del socialismo e dell’analisi marxista. Tuttavia viene da chiedersi quanto questo possa legittimare un abbandono definitivo di un filone storiografico che ha pur sempre rappresentato un vettore fondamentale dello sviluppo della ricerca storica perlomeno a partire dal secondo dopoguerra. E quanto invece questo non chieda di ripensare in termini nuovi una storicizzazione del fenomeno movimento operaio a partire dalle specificità che esso ha avuto: si dica dello sviluppo in un’area geografico-economica perimetrata (l’Europa della prima rivoluzione industriale, l’Europa del vapore e dell’acciaio); si dica della rappresentazione in forme e modi specifici di cui oggi ad esempio varrebbe la pena di esplorare le complesse implicazioni simboliche (il “berretto a cencio” del primo operaio inglese entrato alla Camera dei Comuni ha avuto un significato addirittura esistenziale tanto quanto l’appellarsi “compagno” o il salutarsi con il pugno alzato). Si dica, soprattutto, dell’unica, effettiva modalità in cui il movimento operaio si è manifestato storicamente, ovvero l’organizzazione politica e sindacale, che ha sintetizzato continuamente il dinamismo conflittuale dei rapporti economici e sociali nelle forme della coscienza di classe.

È forse questa la domanda più importante emersa dai lavori della Conferenza di Linz: cosa significhi fare oggi storia del movimento operaio. Se sia possibile, in altri termini, operare una storicizzazione del fenomeno che consenta di riscoprirlo e valutarne l’importanza in termini nuovi. O se invece, coerentemente al mutato contesto sociale, anche la storiografia debba rassegnarsi a raccontarne la scomparsa cercando l’accostamento alle nuove forme di lavoro, al futuro del lavoro nella società globale, fino a diventare una disciplina assai lontana dalla sua originaria natura. È questa una domanda alla quale le conferenze dei prossimi anni dovranno necessariamente tentar di dare una risposta.

Biografia

Andrea Ragusa [Orbetello (GR), 1974], professore associato di Storia contemporanea presso l’Università di Siena, svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Scienze storico-giuridiche, politiche e sociali della stessa Università. Ha concentrato i propri interessi sulla storia degli intellettuali e della cultura politica, e sulla storia della comunicazione politica.

Biography

Andrea Ragusa [Orbetello (GR), 1974] is Associated Professor of Contemporary History at the University of Siena; he also works at the Department of Historical, Political and Juridical Sciences of the same University. He focalizes his studies on the history of intellectuals, political culture, and political communication.