Le riviste di storia contemporanea in Italia. Cinque domande a: Guido Melis – Direttore de “Le Carte e la Storia”

Domande

Le domande

  1. Quando nasce la rivista? In quale clima politico e culturale si inserisce? Quali indirizzi storiografici intende accostare e con quali avere, invece, un rapporto più marcatamente dialettico?

  2. Che tipo di “gruppo” raccoglie nella redazione e tra i collaboratori? Quali ne sono le caratteristiche formative, generazionali, e come risponde agli interessi storiografici espressi dalla rivista?

  3. Se volessimo tratteggiare in uno spazio breve una sorta di “storia della rivista”, quali elementi indicherebbe per caratterizzarne l’evoluzione, quali i problemi affrontati, e quali gli esiti più rilevanti delle scelte editoriali fatte?

  4. Cosa significa fare oggi una “rivista di storia”? Quali problemi gli storici si trovano ad affrontare nel nuovo scenario disegnato dalla trasformazione non solo della scienza storica, ma più in generale dei mezzi e dei metodi attraverso i quali procede oggi la ricostruzione storica?

  5. Come Direttore di una rivista di storia ritiene che sia condivisibile il segnale d’allarme da più parti lanciato a proposito di una “crisi della scienza storica” ed addirittura di una “inutilità del mestiere di storico”? Quale rapporto ritiene che possa esistere oggi tra la storia concepita e fatta a livello scientifico e la divulgazione che ormai sempre più si affida a mezzi e soggetti che rischiano di eroderne la legittimazione?

1. La rivista nasce nel 1994, dopo un non breve periodo di gestazione. E’ figlia di un incontro importante: quello di alcuni di noi, io in particolare, con Mario Serio, all’epoca Sovrintendente all’Archivio Centrale dello Stato. Chi non ha conosciuto Mario forse non può capirlo. Era un servitore esemplare dello Stato, veniva da una cultura giuridica (il che gli era valsa inizialmente l’ostilità degli archivisti di professione), ma aveva due doti rare nella nostra amministrazione: una grande curiosità intellettuale e apertura mentale, cui univa una solida formazione umanistica; ed una umiltà che appariva modestia e invece era capacità di ascolto. Mario e noi collaborammo a molte cose. Lui sviluppo’ fondi archivistici poco studiati, ascoltando le nostre esigenze. Senza addentrarci nel ripercorrere la storia degli studi di storia delle istituzioni, è un fatto da sottolineare che in quegli anni fondammo tutti insieme un indirizzo. E la regola fu: far parlare gli archivi, non solo per attingervi notizie ma per ricostruire la loro formazione e il modo in cui le carte di erano prodotte e conservate. Naturalmente imparano molto anche altrove: dai francesi ad esempio (tutta la storia dei burocrati). E da giuristi di tipo nuovo come era Sabino Cassese. Infine decidemmo di fare quello che chiamano “un bollettino” e intorno ad esso istituimmo una Società per gli studi di storia delle istituzioni.  L’uno e l’altra erano una cosa nuova. Il bollettino voleva soprattutto dare notizie su ricerche e fonti. La Società non aveva – come altre – fini accademici e non accorpava solo i docenti delle materie storico – istituzionali. Chiamava invece a riunirsi studiosi che effettivamente praticassero la ricerca, senza galloni e divise; e -fatto inedito – operatori delle fonti. Archivisti pubblici e free lance, bibliotecari (con un gruppo di addetti alle biblioteche dei ministeri), e persino funzionari colti con la passione della loro storia. Questa è stata la linea maestra. La rivista, prima stampata in proprio, ha interessato Il Mulino, che è subentrato e ha dato lustro e continuità all’impresa. Abbiamo via via trovato una formula. Fonti ma anche riflessioni. E fonti non solo di archivio e cartacee. Poi saggi, un po’ di studiosi affermati, un po’ di ragazzi alle prime prove. Una redazione mista, molto vivace.  Una rosa ampia di collaboratori. La Società, coi suoi 250 soci, alimenta la macchina. Noi abbiamo un comitato scientifico di senatori e una redazione abbastanza giovane (ora si è giovani a 40 anni). Io ho sempre praticato la regola di dibattere della rivista tutti assieme, senza gerarchie.  Non decidiamo mai a maggioranza. Valutiamo insieme in happening alquanto divertenti. . Da qualche tempo siamo nel sistema Anvur, in A per varie discipline.  Dunque utilizziamo un’ampia rosa di referee , quasi sempre esterni. Io e Antonella Meniconi (uno dei 3 vicedirettori, gli altri sono Marco Meriggi e Francesco Di Donato) leggiamo tutto. Lei, con l’aiuto di qualche ragazzo di buona volontà, fa l’editing.  Il prodotto è artigianale, ma ritengo di buona fattura. Spesso riceviamo pezzi, più spesso, impostando il numero collettivamente, li chiediamo.

2.Tu mi chiedi poi come ci orientiamo nel momento attuale della cultura storica. Posso dirti quel che penso io, perché non esiste un …manifesto della rivista. Io penso, come pensava il mio carissimo amico Roberto Ruffilli , che dobbiamo sempre ricordare che la storia è una scienza sociale e che risponde alle domande del nostro tempo. È banale, ma se scrivo di Stato fascista , come sto facendo in questi mesi, io ho in mente l’evoluzione degli Stati contemporanei e le crisi politiche che viviamo e le nuove sollecitazioni poste dalla velocità della nostra epoca. La crisi dipende molto dalla nostra incapacità come storici (ma esiste una definizione che corporativamente ci accomuna? ) di pensare alla nostra collocazione in un contesto che cambia vorticosamente . Ti accenni alla divulgazione.  Io amo scrivere saggi con le note, e ho imparato dai miei maestri il gusto della filologia. Ma ho fatto per quasi 40 anni anche il collaboratore di pagine culturali, l’editorialista, sono abituato ai media, sto su fb e nella rete. Capisco che la storia deve avere un valore sociale, trasmettere sapere immediatamente utile. Se archivi e biblioteche debbono servire solo a noi, non possiamo sostenere l’assalto della politica di bilancio e dei suoi cultori.

Ho illustrato a Conversano, al congresso delle riviste di cultura, quali sono i nostri problemi ed in larga mi permetto di rinviare a quell’intervento, ora pubblicato sul n. 2 del 2015 e che riproduce quella relazione. Problemi legati al ruolo che ci assegna l’Anvur (cessiamo di essere padroni di noi stessi, perché ci facciamo carico di selezionare buoni autori dando loro la chance di scrivere su una rivista di fascia A) e problemi connessi con il ventaglio molto ampio del nostro interesse. Capita a volte di interrogarci noi stessi: cosa è la storia delle istituzioni? Sino a che punto possiamo spingerci nell’esplorazione di territori di frontiera?  Ti confesso che io sono un esploratore nato. Ora, per dire, abbiamo lanciato un seminario storici – linguisti-giuristi-operatori delle fonti istituzionali sul tema “La lingua delle istituzioni”. Io penso che la cultura (e la politica) do massa abbiano bisogno di un background fatto di sedi che elaborino anche a livelli molto raffinati.  E di specialismi.  Tutto sta nel mix, nell’equilibrio.