L’inchiesta parlamentare in Italia: riflessioni sul caso del Vajont

di Diego gavini

Abstract

Il disastro del Vajont (9 ottobre 1963) suscita, nell’Italia che si avvicina alla stagione del centro-sinistra, un ampio dibattito politico sulle cause e le responsabilità della tragedia. Nel maggio 1964 viene istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta che nel luglio 1965 termina i suoi lavori confermando le divisioni politiche suscitate dall’evento. Il contributo analizza l’esperienza della Commissione sul Vajont riflettendo sui limiti e le potenzialità dello strumento delle inchieste parlamentari, proponendo un bilancio che tiene in considerazione i diversi elementi in gioco: il ruolo della mediazione politica, il rapporto con l’opinione pubblica, le conseguenze legislative, il valore storico, il confronto con i percorsi della memoria.

Abstract english

The Vajont catastrophe (9 october 1963) causes a wide-ranging political debate on reasons and responsabilities of the disaster, while Italy is on the point to be ruled by the centre-left government. In May 1964 a Commission of Inquiry is setted up, but when the inquiry ends up in July 1965 political divisions have not changed. This essay examines the experience of this Commission to highlight positive and negative sides of Parliament Inquiries, analysing different points: the political mediation, the relationship with public opinion, the legislative consequences, the historic value,the relationship with memories of the event.

Il fatto

Esistono eventi che, nella loro tragica portata, segnano l’immaginario collettivo, rimanendo impressi in un vissuto al contempo individuale e pubblico, lasciando un segno in comunità locali, nazionali o internazionali. In questi casi, vi sono luoghi che perdono la loro concretezza fisica, per diventare evocazione di un momento drammatico, sia esso un atto terroristico o una catastrofe naturale.

Rientra in tale categoria il Vajont, nome che richiama, inesorabilmente, il disastro del 9 ottobre 1963.

Il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Vajont, Leopoldo Rubinacci, avrebbe sintetizzato i dati dell’evento catastrofico, nella relazione conclusiva dei lavori, nei seguenti termini:

Alle 22 e 39 del 9 ottobre franò un’enorme massa di montagna, che, per effetto della sua unitarietà e compattezza, per il comportamento meccanico della massa, per la rapida evoluzione del piano di scivolamento e per un improvviso fulmineo passaggio dal moto lentissimo ed impercettibile ed una accelerazione, di cinque, sei milioni di volte maggiore, sollevò con violenza mai vista, un’ondata gigantesca e la riversò oltre la diga nella valle del Piave1.

A staccarsi dal Monte Toc, versante sinistro del bacino che accoglie il lago artificiale creato in seguito alla costruzione della diga sul Vajont, è una massa che è stata calcolata fra i 280 e i 300 milioni di metri cubi, in grado di superare la velocità di 100 km/h. L’onda provocata dalla frana avrebbe superato la diga, riversando circa 30 milioni di metri cubi di acqua sulla valle sottostante, spazzando via il paese di Longarone, nella provincia di Belluno, e le frazioni limitrofe. Un’altra parte avrebbe invece raggiunto le pendici della sponda opposta del bacino, arrivando a Erto-Casso e nei borghi adiacenti. “L’onda della morte”, come l’avrebbe ribattezzata il “Corriere della Sera”, in uno dei titoli più efficaci fra quelli che avrebbero occupato le prime pagine dei quotidiani, avrebbe finito per seppellire 1.917 persone.

La frana, al contempo, metteva fine al “Grande Vajont”, progetto di sfruttamento delle acque ideato dall’ingegnere Carlo Semenza, voluto dalla Società adriatica di elettricità (Sade), garantito in termini di sicurezza dal geologo Giorgio Dal Piaz e concretizzatosi nella richiesta di concessione nel 1940. Il disegno, già imponente, conosceva un nuovo ampliamento con la variante del 1957, con cui si arrivava a prospettare la costruzione di un lago artificiale contenente 150 milioni di metri cubi di acqua, resa possibile dall’innalzamento della diga a 266 metri e portando il livello dell’acqua a quota 722,50. Un ampliamento che si inseriva nella politica di potenziamento della produzione di energia elettrica a livello nazionale.

Nel 1959 la costruzione della diga è portata a termine, con un’efficienza che ne fa uno dei simboli dell’Italia del “miracolo”. Nel 1963, nel giorno del disastro, la diga è in quella che dovrebbe essere l’ultima fase di collaudo, con il tentativo di portare l’invaso a quota 722,50. Da marzo l’impianto è passato sotto la gestione dell’Enel, nell’ambito dell’operazione di nazionalizzazione, anche se, di fatto, è lo stesso personale della Sade a continuare a gestire l’operazione.

Fino al 1960 la costruzione della diga non avrebbe posto particolari allarmi, mentre a suscitare una mobilitazione delle comunità locali è piuttosto l’opera di esproprio attuata dalla Sade in vista del riempimento del lago artificiale. La situazione avrebbe conosciuto un’evoluzione solo dal novembre 1960, quando dalla parete del monte Toc si stacca una prima frana dalle dimensioni di 700.000 metri cubi. Essa dava credito a una nuova ipotesi geologica, promossa dal professor Leopold Muller e studiata concretamente da Edoardo Semenza, figlio del Carlo già citato, che si contrapponeva a quella di Dal Piaz, secondo la quale tale zona poggiava su una massa rocciosa compatta. La ricerca di Semenza poneva la tenuta del bacino sotto nuova luce, ipotizzando la presenza di una massa preistorica in grado di rimettersi in movimento se sollecitata. Da quel momento le operazioni della Sade sarebbero proseguite nell’indecisione fra le due ipotesi, sostenute comunque dalla convinzione, dettata da uno studio su modello in scala condotto dal professor Ghetti, che la quota di 700 metri del livello di invaso rappresentasse un termine di sicurezza per gli abitati di Erto e Casso. Su di essi si continuava di fatto a concentrare l’attenzione, mentre mancavano invece indagini adeguate sugli effetti di una frana in grado di suscitare un’ondata che avesse finito per riversarsi a valle.

Quanto finora accennato in merito alle diverse fasi che avrebbero segnato la costruzione della diga e lo sviluppo della frana, non sarà oggetto di approfondimento di questo contributo, per il quale si rimanda a una più opportuna documentazione2. Quanto richiamato rientra piuttosto nella necessità di segnalare quei dati essenziali necessari alla comprensione del quadro generale.

Interesse di questo intervento è invece altro, ovvero quello di avanzare una riflessione sull’attività della Commissione d’inchiesta chiamata a sviluppare un’indagine parlamentare sull’intera vicenda, interrogandone il caso secondo una prospettiva che è principalmente quella della storia istituzionale. In primo luogo ciò avverrà ricostruendo le fasi costitutive della Commissione e individuando i passaggi centrali dell’organizzazione dei lavori e delle sue conclusioni, circoscrivendo al contempo i termini del confronto politico che dettano tempi e andamento delle indagini: questi aspetti saranno affrontati in particolare nei due successivi paragrafi. Nel passaggio conclusivo il contributo proporrà, invece, delle osservazioni in merito al modo in cui la Commissione del Vajont si colloca rispetto all’evoluzione dell’istituto dell’inchiesta parlamentare nell’esperienza italiana e ai suoi aspetti caratterizzanti, tracciando dunque un bilancio che tenga in considerazione un’ottica di più lungo periodo.

La frana e la polemica

I termini, i linguaggi e le rappresentazioni intorno a cui si sarebbe sviluppato il dibattito sul Vajont, si rendono evidenti già all’indomani del disastro. È premessa necessaria richiamarli in quanto danno la misura del contesto nel quale matura il percorso verso la Commissione d’inchiesta e le condizioni che ne influenzeranno i lavori.

Nel Parlamento e nell’opinione pubblica si vanno a fronteggiare due schieramenti contrapposti che vedono da un lato il Partito comunista, con il suo gruppo parlamentare e i mezzi di informazione ad esso collegati, dall’altro la quasi totalità del restante panorama politico e della stampa nazionale. In una posizione autonoma va a collocarsi invece il Partito socialista, nel pieno delle trattative per la costituzione del primo governo di centro-sinistra e, allo stesso tempo, forza che si è spesa in prima linea per la nazionalizzazione dell’energia elettrica (Crainz 2003).

Mentre l’opera dei soccorsi è ancora nelle sue prime fasi, la polemica politica non tarda a scaldarsi, trovando un primo sfogo sulla carta stampata. Già l’11 ottobre “l’Unità” parla di “strage che si poteva evitare”3 e Aniello Coppola, firma del quotidiano, scrive un incalzante editoriale, Tragedia con un nome, in cui si inizia a delineare la linea comunista di accusa da un lato alla Sade, concessionaria incurante dei pericoli della sua azione, dall’altro all’apparato statale, succube dell’azienda idroelettrica sul piano dei mezzi e dell’influenza politica. Segue, già il 13 ottobre, la presentazione di un “libro bianco” sulla tragedia del Vajont da parte del gruppo comunista, in cui questi termini vengono ripresi e ampliati4.

Narrazione di taglio decisamente differente è quella che ritroviamo nello spoglio degli altri quotidiani, dove a prevalere è la cronaca di una catastrofe naturale in grado di travalicare le forze dell’uomo. Gli inviati dei grandi giornali corrono a Longarone, o piuttosto verso quel che ne rimane, per raccontare i numeri del disastro, le fatiche del soccorso, le storie dei drammi individuali. Anche in questo caso la linea interpretativa viene immediatamente tracciata. Il 12 ottobre il “Corriere della Sera” commenta:

La sciagura del Vajont resterà sicuramente nelle cronache come una delle più impressionanti e dolorose nel settore degli invasi idrici artificiali, ma non rientra nella casistica dei drammi il cui verificarsi possa farsi risalire a cause puramente tecniche […]. Dobbiamo alla saldezza della diga del Vajont, alle sue caratteristiche strutturali e costruttive il fatto decisivo che non tutti i milioni di metri cubi raccolti a monte si sono precipitati a valle spazzando ogni cosa5.

Lo stesso taglio è condiviso da “Il Popolo”, quotidiano della Democrazia cristiana, che afferma: “Solo la solidarietà efficace ed affettuosa di tutti potrà cancellare se non le perdite irreparabili, il terrore o l’ora per l’ingiusta ferita”6.

Anche firme importanti narrano, con altra forza delle parole, la vittoria della natura sull’impotenza dell’uomo. Di fatto, è anche un racconto in presa diretta dell’Italia del miracolo economico. È il caso di Dino Buzzati che sentenzia: “Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alla spalle”7. E poi, Giorgio Bocca: “Questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente”8.

Fra i due poli si colloca invece il socialista “Avanti!”, diretto in questo momento da Giovanni Pieraccini che, in seguito, come ministro dei Lavori pubblici, progetterà la ricostruzione dell’area affidando all’urbanista Samonà la realizzazione di piani comprensoriali (Silei 2016). È probabilmente dello stesso Pieraccini il lungo editoriale non firmato, pubblicato l’11 ottobre, in cui viene lasciato il margine del dubbio sulle eventuali responsabilità umane dietro la tragedia: “Una responsabilità – si afferma – potrebbe configurarsi, ove i sondaggi geologici non fossero stati condotti con la necessaria cura, o, peggio, se fossero state trascurate indicazioni sulla friabilità del terreno tali da sconsigliare la costruzione della diga”9.

La diatriba dalla carta stampata si sposta nelle aule parlamentari. È Franco Busetto10 a delineare la posizione del Pci in merito alla vicenda, che travalica i confini del disastro per incentrarsi sulla questione politica delle responsabilità della Sade. Il concetto è espresso nel corso della discussione parlamentare del 15 ottobre:

La Sade […] ha accumulato enormi profitti sfruttando questa ricchezza per i propri fini, senza alcun riguardo per la sicurezza, la vita delle popolazioni, senza alcun riguardo per lo sviluppo equilibrato dell’economia e in particolare dell’agricoltura veneta. La Sade ha assunto il ruolo di uno Stato nello Stato. […] La Sade deve pagare il costo economico del disastro, e quindi le spese di riattivazione della vita civile nelle zone devastate. Tutto ciò deve essere accollato alla Sade11.

L’immagine della Sade come Stato nello Stato ritornerà spesso nella narrazione comunista, così come torneranno gli altri assunti su cui si appunta l’intervento di Busetto: da un lato, alla responsabilità della Sade viene associata quella dei governi a guida democristiana, inerti di fronte alla forza della concessionaria; dall’altro, a essere chiamato in causa è l’Enel, giudicato incapace, nei mesi che precedono la catastrofe, di porre argine ad un evento sempre più prevedibile. L’attacco è mosso di nuovo su un piano politico, descrivendo l’Enel come frutto di una nazionalizzazione incardinata su principi errati, ovvero slegata da quelli che vengono definiti i “controlli democratici” che una responsabilizzazione degli enti locali e l’istituzione delle Regioni avrebbe invece permesso. La chiave di lettura è evidente: sul piano storico il Vajont è descritto come simbolo del fallimento dei governi centristi e del sistema capitalistico italiano; sul piano dell’attualità come segno della debolezza espressa dal dialogo fra democristiani e socialisti che, pur modificando gli equilibri politici, non va ad esprimere quei cambiamenti strutturali necessari. Al contempo, il Pci rivendica il suo ruolo di espressione delle istanze locali, con il richiamo alla partecipazione e alla mobilitazione delle comunità del Vajont contro la Sade. In questo senso trova largo spazio l’operazione di recupero dei tre articoli scritti, fra il 1959 e il 1960, da Tina Merlin, corrispondente de “l’Unità”, in merito alla costruzione della diga12, attirandosi gli strali de “Il Popolo”, che in un editoriale del 17 ottobre addita quella del Pci come La scuola dell’odio.

Intanto, nel corso della stessa seduta del 15 ottobre, il punto di vista del governo Leone è affidato ad una replica del ministro dei Lavori pubblici, Fiorentino Sullo13. Il tema delle responsabilità sul piano amministrativo e della gestione del progetto è rinviato ad una commissione tecnico-ministeriale di cui Sullo annuncia la formazione. L’atto si pone nella necessità di far fronte ad un’opinione pubblica sollecitata da un evento di dimensioni enormi, promettendo risposte non solo a livello giudiziario. Ulteriore pressione viene poi dai gruppi parlamentari che chiedono l’istituzione di una Commissione d’inchiesta bicamerale, tema, questo, su cui si tornerà a breve.

Se l’avvio di un’indagine amministrativa offre lo spazio per estendere il dibattito sulle responsabilità, la linea che Sullo traccia è comunque già significativa, in quanto vi ritroviamo i motivi che contraddistingueranno la posizione della Dc anche nei passaggi successivi. Ripercorrendo le tappe che dal progetto del 1940 portano alla costruzione della diga e poi al 9 ottobre 1963, Sullo sottolinea come ogni previsione scientifica rispetto ai pericoli di una potenziale frana offrisse un quadro rassicurante, insistendo, quindi, sul fatto che la Sade prima e l’Enel dopo, così come i vari uffici statali, avessero operato nel solco di questa convinzione, prendendo le misure opportune, sia a livello di studi tecnici che di messa in sicurezza. Ciò che è da valutare, afferma invece Sullo, è piuttosto quest’ultimo aspetto, ovvero se vi siano stati errori dettati da manchevolezze e omissioni nelle modalità con cui gli studi sono stati effettuati, o se gli scambi di informazione fra concessionaria e organi statali siano stati insufficienti. L’intera questione perde dunque quella coloritura politica data dagli esponenti comunisti ed è ricondotta, piuttosto, ad un piano tecnico.

Fra le due contrapposte narrazioni si pone quella di casa socialista, espressa in assemblea da Luigi Bertoldi. Il perno su cui si regge la lettura dei fatti è quella della responsabilità oggettiva dell’ente concessionario. Afferma Bertoldi:

Da parte dell’ente costruttore, la Sade, vi sono state, non la volontà cosciente di uccidere che evidentemente non vi poteva essere, ma responsabilità precise per non aver tenuto conto del fatto, quale quello da [Sullo] prospettato nella previsione delle conseguenze della frana, che dovevano invece far meditare i responsabili non solo amministrativi ed economici dell’opera, ma anche quelli politici.14

Rispetto alla posizione del Pci, manca piuttosto l’aspetto legato al contrasto politico, il che, ovviamente, non sorprende, dato il contesto in cui il tutto va collocato. Il Psi si vuole inserire nell’attività di governo con un ruolo da protagonista e di stimolo, il che esclude la ricerca di rotture aperte con i democristiani con i quali, intanto, è in corso la complessa tessitura per l’alleanza di centro-sinistra.

La Commissione d’inchiesta sul Vajont

Nel momento in cui Sullo esprime l’iniziativa dell’esecutivo di avviare una commissione tecnico-ministeriale (poi affidata a Carlo Bozzi, Presidente del Consiglio di Stato), i gruppi parlamentari cercano anch’essi di attivare i propri strumenti, ribadendo dunque la portata dell’evento con cui ci si vuole confrontare.

L’obiettivo di giungere a un’inchiesta parlamentare è questione significativa, dal momento che, almeno potenzialmente, ciò sta a significare la volontà di collocare la vicenda del Vajont, nella complessità di orizzonti che la contraddistingue, quale tema di rilievo nazionale. Da ciò viene posta la necessità di un’elaborazione politica ampia, che porti il governo ad un confronto serrato col Parlamento, non solo nella prospettiva dell’individuazione di responsabilità oltre i confini giudiziari, ma anche sotto il piano della discussione relativa alla legislazione e agli indirizzi politici generali.

Tre distinte proposte di creazione di un’inchiesta bicamerale vengono rispettivamente da comunisti, liberali e socialdemocratici15. Il denominatore che le accomuna è l’accento posto sul ramo legislativo come mezzo di bilanciamento dell’azione dell’esecutivo. Differenti sono invece gli scopi che i tre gruppi si prefiggono. Per i socialdemocratici, parte integrante dell’orizzonte governativo, la Commissione d’inchiesta viene prefigurata come integrativa delle verifiche in corso da parte dell’esecutivo e dell’autorità giudiziaria. Per quanto il disegno di legge prospetti la necessità di indagare sulle eventuali responsabilità incorse nel progetto della diga, il piano su cui il Psdi insiste è quello legislativo, laddove si sottolinea il bisogno di svolgere “una ponderata valutazione della rispondenza della legislazione alle esigenze della sicurezza collettiva”.

Il richiamo alla necessità di un aggiornamento legislativo è presente anche nel ddl del gruppo liberale. Si aggiunge però anche una prospettiva che è propria di una forza di opposizione quale ormai è il Pli. Il ricorso a tale strumento è posto, infatti, in un’ottica di valorizzazione del Parlamento, in quanto “depositario della sovranità nazionale” e al di là “di ogni fazione ed ogni interesse”. La relazione che accompagna il ddl fa dunque esplicito riferimento all’opportunità di utilizzare l’inchiesta per superare “ogni eventuale interesse dell’Esecutivo a coprire le dipendenti amministrazioni di cui è responsabile”. Interessante, in questa prospettiva, la proposta di formare la Commissione “senza alcun riferimento alla proporzione numerica dei gruppi parlamentari”, contraddicendo dunque l’art. 82 della Costituzione che indica nella proporzione dei vari gruppi uno dei cardini di tale organismo.

Non giunge ad una tale previsione il ddl comunista, il quale, comunque, contiene nel suo seno gli accenti più politicamente espliciti. In esso ritroviamo, infatti, un riferimento aperto alla società idroelettrica, con la proposta che la Commissione debba essere istituita “per esaminare le responsabilità dirette e indirette della Sade”. A tale condizione si va ad aggiungere un’altra indicazione politica chiara, laddove, in linea con quanto si è già visto, si presenta l’inchiesta come occasione per ripensare la funzione degli Enti locali e le modalità di controllo sull’Enel.

Il percorso che avrebbe condotto all’istituzione della Commissione non è complesso come in altri casi di costituzione di inchieste parlamentari, ma comunque meno agevole di quanto si potrebbe supporre. Volontà del governo è infatti quella di rinviare la discussione sulla Commissione in attesa che termini l’indagine tecnico-ministeriale. In ciò la Democrazia cristiana finirà per essere sostenuta dal Psi, entrato a novembre nei ranghi della maggioranza.

Alla metà del gennaio 1964 la Commissione Bozzi termina i propri lavori consegnando la relazione conclusiva al ministro Pieraccini16. Pur ribadendo l’eccezionalità dell’evento, gli esperti chiamati dal governo non mancano di mettere in luce due criticità. In primo luogo viene stigmatizzata, in quanto ritenuta troppo parziale, la comunicazione da parte della Sade all’amministrazione pubblica, ed in particolare alla Commissione di collaudo del ministero dei Lavori pubblici, del quadro dei rischi che andava emergendo con la frana del novembre 1960 e degli studi che in questo contesto erano stati effettuati per iniziativa della concessionaria. In secondo luogo viene individuata una responsabilità degli organi periferici, amministrativi e di governo, relativa al periodo che precede la catastrofe, giudicati inerti e deficitari sotto il punto di vista del coordinamento nella salvaguardia delle popolazioni.

Con la presentazione della relazione Bozzi e le disfunzioni che essa sottolinea, riprende l’iter per la costituzione della Commissione parlamentare. Il 23 gennaio, nell’aula della Camera, Mario Alicata, presentando il ddl del Pci, ribadisce che compito più ampio del nuovo organismo bicamerale, dovrà essere quello di indagare la “compenetrazione di interessi […] fra le grandi concentrazioni di potere economico, finanziario, industriale l’apparato dello Stato”17. Al contempo, non manca di criticare i motivi della pausa nel percorso di discussione dell’inchiesta, affermando che essi non depongono “a favore dell’efficacia dei poteri del Parlamento in materia di iniziativa legislativa”18.

A ribadire una prospettiva di segno opposto è invece il socialdemocratico Orlando, il quale riconduce l’inchiesta parlamentare a confini più ristretti. “A me pare – afferma in aula – che il compito dell’inchiesta parlamentare non dovrà essere tanto quello di interferire sull’inchiesta in atto della magistratura né di sovrapporsi all’inchiesta già svolta dalla commissione governativa, quanto quello di esaminare le cause remote di questa tragedia”19.

La discussione approda alla Commissione Lavori pubblici della Camera il 31 gennaio 1964, sede in cui si decide di lavorare ad un testo unificato, assumendo quello presentato dai parlamentari socialdemocratici come disegno base. L’iter prosegue in Commissione Affari costituzionali dove il 19 febbraio viene presentato e approvato quello che sarà poi il disegno di legge finale. I confini politico-istituzionali dell’inchiesta sono contenuti nel primo articolo, che recita:

La Commissione procederà all’accertamento delle cause della catastrofe e delle responsabilità pubbliche e private ad esse inerenti ed esaminerà la rispondenza della legislazione e dell’organizzazione e prassi amministrativa alle esigenze della tutela della sicurezza collettiva. La Commissione accerterà l’idoneità delle misure adottate e preventivate a favore delle popolazioni colpite.

Come si può notare, la mediazione parlamentare conduce ad una formulazione generica, evitando le indicazioni politiche più esplicite presenti in particolare nell’ormai superato ddl del gruppo del Pci. Quella che si configura è un’indagine articolata intorno a tre aspetti: analisi di carattere politico dell’azione svolta dagli organismi statali e dalle società concessionarie; esame della legislazione vigente per un suo eventuale aggiornamento; valutazione degli aspetti legati alla ricostruzione.

Gli altri tre articoli configurano poi la struttura della Commissione, seguendo criteri ormai consueti. Vengono chiamati a farne parte trenta fra senatori e deputati, da individuarsi in maniera proporzionale fra i gruppi parlamentari, mentre la scelta del presidente è affidata alle presidenze di Camera e Senato. La durata dell’inchiesta viene infine indicata in quattro mesi; termine che poi, all’atto pratico, richiederà due proroghe20.

Il nuovo testo, dopo un ulteriore passaggio in Commissione Lavori pubblici (21 febbraio 1964), giunge in aula il 27 febbraio. La sua approvazione non suscita particolari problemi. Gli interventi che si succedono nelle dichiarazioni di voto si traducono in una replica di quanto finora visto, con i comunisti a ribadire il carattere innanzitutto politico che deve contraddistinguere la Commissione, e la Democrazia Cristiana, di cui si fa portavoce Alessandrini, a spostare l’accento sulla necessità di individuare le eventuali responsabilità pubbliche nel non aver prevenuto la tragedia.

Il 4 marzo il ddl viene approvato, approdando poi in Senato il 14 maggio 196421. A complicare parzialmente la conclusione dell’iter è la saldatura fra la posizione assunta dal Movimento sociale italiano e alcuni esponenti della Democrazia Cristiana, in merito alle potenziali ricadute giudiziarie dell’inchiesta parlamentare. Secondo il Dc Giorgio Oliva, infatti, la formulazione legislativa sembra lasciar “temere una sostituzione della Commissione d’inchiesta all’Autorità giudiziaria”22. Su una medesima linea ritroviamo il collega di partito Silvio Gava il quale paventa che il primo articolo attribuisca alla Commissione il compito di indagare sulle azioni individuali, sovrapponendosi dunque alla autorità giudiziaria. L’impasse è superata con la presentazione di un ordine del giorno con il quale si specifica che il carattere istruttorio dell’inchiesta parlamentare non possa avere conseguenze sul piano giudiziario23.

A conclusione del dibattito interviene il ministro Pieraccini, il quale sottolinea come la Commissione che si è in procinto di costituire non avrà solo il compito di “accertamento delle cause della catastrofe del Vajont”, ma “anche una funzione costruttiva; cioè dovrà indicare le norme più rispondenti alle esigenze attuali nella legislazione, nell’organizzazione, nella prassi amministrativa, per la tutela della sicurezza collettiva”24.

Il 24 giugno 1964 vengono nominati i componenti della Commissione. A presiederla è chiamato Leopoldo Rubinacci, esponente dell’area sindacalista della Democrazia Cristiana, il quale può contare già sull’esperienza della conduzione dell’inchiesta sul lavoro attiva fra il 1955 e il 1958.

Fra i componenti che si ritaglieranno un ruolo di un più vivo attivismo all’interno della Commissione si segnalano Mauro Scoccimarro, Franco Busetto e Gianmario Vianello nelle fila del Pci, Ercole Bonacina per il Psi, Guido De Unterrichter, Pietro Vecellio e Costante Degan in quota Dc. Si tratta, con l’esclusione del trentino De Unterrichter, di parlamentari che hanno i propri collegi elettorali di riferimento in Veneto o in Friuli Venezia-Giulia, e dunque maggiormente coinvolti nella vicenda del Vajont25.

Il nuovo organismo si riunisce per la prima volta il 14 luglio 1964. I termini di organizzazione dell’attività sono delineati da Rubinacci il 31 luglio presentando un documento che espone la sua visione politica dei compiti dell’inchiesta ed il programma dei lavori26. Rispetto al primo tema vengono delineati come obiettivi principali: l’indicare i mezzi per evitare il ripetersi di analoghe vicende, analizzando la catena dei fatti ed esaminando le lacune della macchina statale, e il farsi carico dell’aspetto “più squisitamente umano della tragedia” vigilando affinché la ricostruzione avvenga con la massima efficienza. Il tema dell’individuazione delle responsabilità, dunque, per quanto ventilato, è posto in maniera secondaria, indicando come sforzo principale della Commissione quello di guardare al dopo tragedia.

Per quanto concerne invece l’aspetto organizzativo, il lavoro viene suddiviso in quattro gruppi. Al primo è affidato l’incarico di analizzare le risultanze tecniche e scientifiche accumulatesi negli anni; al secondo di fornire un quadro delle norme che regolano l’organizzazione amministrativa nel campo della concessione delle acque pubbliche; al terzo di ricostruire i procedimenti che hanno accompagnato il progetto della diga; al quarto di studiare la situazione della ricostruzione.

I gruppi, coadiuvati dai membri della presidenza, avrebbero svolto la loro attività dopo la pausa estiva. In particolare il primo ed il quarto sottocomitato si sarebbero recati sui luoghi colpiti dalla frana per svolgere dei sopralluoghi e una serie di audizioni con le personalità degli Enti locali e dell’amministrazione periferica coinvolte nella vicenda. La parte più ampia dell’indagine si sarebbe comunque svolta sulla vasta documentazione inerente l’intera questione, il che avrebbe posto per una seconda volta il tema del rapporto con la magistratura. Molte delle carte, nel momento che la Commissione d’inchiesta entrava in funzione, si trovavano difatti già nelle mani dell’autorità giudiziaria27. Di fronte al rifiuto del pubblico ministero, incaricato dell’indagine, di fornire le copie dei documenti richiesti, Rubinacci avrebbe fatto istanza direttamente al giudice istruttore del Tribunale di Belluno, il quale poneva fine alla vicenda accogliendo la richiesta del presidente della Commissione, riconoscendo la diversità dell’indagine parlamentare e la mancanza delle conseguenze di essa su quella giudiziaria (Fenucci 1999).

Quella su cui i gruppi di lavoro dell’inchiesta bicamerale si trovano a svolgere le proprie ricerche è dunque una documentazione vasta, in grado di restituire una visione d’insieme ampia, che spazia dai diversi studi relativi alla costruzione della diga ai numerosi atti amministrativi che l’hanno accompagnata, passando da quanto proviene dagli Enti locali, dalle comunicazioni inerenti le settimane che precedono la tragedia e dalle carte relative alla ricostruzione.

Il giudizio su questo materiale resta complesso e le divisioni politiche che si registrano prima dell’inchiesta permangono inalterate nel corso di essa. Relatore dei lavori del primo gruppo, dedicato agli studi tecnici nelle diverse fasi della progettazione e del collaudo, è il Dc De Unterrichter, ma alla sua relazione i comunisti Busetto e Gaiani oppongono la presentazione di note personali. Se, infatti, il primo giunge alla conclusione che la frana del 9 ottobre 1963 “trova la causa prima nella natura dei terreni, nella loro disposizione a sedile, nel modellamento”28 e che essa è da descriversi “come un fenomeno del tutto eccezionale per volume, massa dislocata, velocità di movimento, modalità di movimento, modalità di accumulo del materiale franato”29, tale da superare qualunque ipotesi scientifica preventiva, per i due parlamentari del Pci, alla luce degli studi messi in campo l’evento catastrofico risultava “prevedibile e probabile”, il che “imponeva la massima prudenza da parte della società concessionaria e degli organi dello Stato e la massima sollecitudine per le vite umane”. La mancata presa in considerazione di questi elementi, secondo Busetto e Gaiani, configura dunque “una situazione di responsabilità” che coinvolge la Sade e lo Stato30.

Pur senza giungere alla formulazione di analoghe relazioni alternative, Gianquinto (Pci) dissentirà dalle conclusioni interlocutorie Foderaro (Dc), incaricato di relazionare per il secondo gruppo, in particolare per quel che concerne i rapporti fra Stato e Sade. Laddove il relatore afferma che “rimane […] fermo il principio secondo il quale la Pubblica Amministrazione concedente non può, durante lo svolgimento del rapporto, ingerirsi nella sfera di autonomia, privata o pubblica, nella quale agisce il concessionario”31, il senatore comunista contrappone l’idea della prevalenza dell’interesse generale e dunque della necessità del controllo politico32.

Una medesima situazione si ripropone nel terzo gruppo, dove l’analisi del relatore Ajroldi (Dc) non viene condivisa da Vianello, espressione del gruppo comunista, in quanto ritenuta insufficiente sotto il punto di vista dell’esame di

quattro questioni, e cioè: la questione che riguarda il rapporto Stato-concessionaria, la questione che riguarda il rapporto Sade – che poi diventa Enel – rispetto al suo funzionamento interno; la questione che riguarda il rapporto Stato-concessionaria nel momento in cui, con la nazionalizzazione, si ha un nuovo tipo di concessionario che diventa ente pubblico; la questione, infine, che riguarda le proposte che partono dalle popolazioni e dai loro organismi democratici33.

L’unica mancanza di contrasti si presenta nel quarto gruppo, dove ad ognuno dei cinque commissari che ne fa parte è assegnato lo studio di un singolo aspetto dell’opera di ricostruzione, dall’esame dello stato del ripristino delle opere pubbliche a quello dei lavori di messa in sicurezza, passando dalla verifica degli interventi di pronto soccorso, di ricostruzione degli abitati e di risarcimento dei danni34.

Sulla scia delle divisioni che attraversano in maniera orizzontale i gruppi di indagine, la Commissione, chiusa la fase istruttoria, torna a riunirsi in seduta plenaria il 30 marzo 1965, lavorando a ritmo intenso fino alla metà di luglio.

Il proseguimento della discussione è articolato in tre fasi differenti: una prima relativa alla questione ritenuta più urgente, ovvero la riedificazione degli abitati; una seconda dedicata alla ricostruzione dei diversi passaggi che dal 1940 segnano il progetto di sfruttamento delle acque del Vajont; una terza di valutazione delle eventuali responsabilità. La parte relativa alla costruzione delle proposte legislative verrà invece svolta a margine del dibattito in assemblea, affidata alla presidenza allargata a singoli rappresentanti dei diversi partiti35.

In merito alla prima questione, il tema politicamente più dirimente che si presenta è quello della valutazione della realizzazione del piano comprensoriale che, dato il suo carattere innovativo e complesso, avrebbe comportato inevitabilmente dei ritardi e una difficile mediazione con le comunità locali (Silei 2016). La questione si interseca con la capacità dell’esecutivo di procedere alla rivitalizzazione della zona e, soprattutto, pone al centro dell’attenzione il ruolo del Partito socialista, che su questo terreno si misura nel tentativo di produrre politiche riformiste. Non a caso gli esponenti del Psi che siedono in Commissione si mostreranno particolarmente attenti nella difesa dell’opera di ricostruzione ogni qualvolta nella discussione emergeranno critiche sui ritardi che si vanno registrando.

Il 6 maggio la Commissione d’inchiesta approva all’unanimità una relazione-stralcio che fa il punto sugli aspetti inerenti questi temi. Articolata in quattro parti (dedicate agli interventi di pronto soccorso, al ripristino delle opere pubbliche, a quello delle condizioni di sicurezza, e alla ricostruzione), è frutto di una sintesi fra le diverse espressioni politiche. Per quanto attiene strettamente i piani comprensoriali, nell’ottica di una rinascita economica dell’area del Vajont viene riconosciuto che essi rispondono “senza dubbio ad una esigenza moderna e razionale”36. Dei rilievi vengono però mossi ai tempi di attuazione. Da questo punto di vista, viene sottolineato come “la fase dell’immediata ricostruzione avrebbe potuto attuarsi senza indugi sulla base dei piani regolatori e della normativa preesistente, mentre quella, logicamente successiva, della rinascita economica della zona avrebbe avuto modo di svilupparsi secondo le indicazioni dei piani comprensoriali”37.

L’accordo raggiunto in questa sede è però lungi dal replicarsi per quanto riguarda la questione, molto più delicata, dell’individuazione delle responsabilità pubbliche e private.

Come si è già accennato, il relativo dibattito si articola in due tempi. Una prima fase prende avvio con la seduta del 29 aprile 1965. L’obiettivo è quella della ricostruzione dei fatti attraverso la documentazione disponibile. La discussione viene articolata intorno a quattro periodi temporali: l’arco cronologico che va dal 1940, ovvero dalla presentazione della richiesta di concessione delle acque da parte della Sade, alla variante del 1957; il triennio 1957-1959 nel corso del quale il nuovo progetto viene approvato; il periodo che intercorre fra il novembre 1960 e il marzo 1963, ovvero fra la prima frana del monte Toc e la richiesta di avvio del terzo collaudo della diga; i mesi fra il marzo 1963 e l’evento del 9 ottobre, quando ormai si è in pieno regime Enel.

Questa parte dei lavori è conclusa con una serie di audizioni, passaggio anch’esso complesso perché parte dei commissari della Democrazia Cristiana oppone un iniziale rifiuto al loro svolgersi. Al termine di una faticosa mediazione, che comporta due riunioni di presidenza ed una della Commissione in seduta plenaria, viene selezionata la lista delle personalità chiamate a portare la loro testimonianza, nella quale risultano i sindaci delle zone colpite dal disastro, i prefetti di Belluno ed Udine, singoli rappresentanti della Sade e del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Fra le audizioni più significative certamente quelle degli ministri dei Lavori pubblici coinvolti nella costruzione della diga, Giuseppe Togni, Benigno Zaccagnini e Fiorentino Sullo38. Dalle loro dichiarazioni emergono principalmente due questioni: in primo luogo essi denunciano il loro scarso coinvolgimento, ai termini della normativa vigente, nella supervisione del progetto; in secondo luogo, sottolineano l’incapacità capacità dell’amministrazione statale di attirare tecnici altamente specializzati e quindi in grado di svolgere in maniera autonoma i controlli scientifici più all’avanguardia.

Con la serie delle audizioni ci troviamo inoltre di fronte al terzo intreccio con l’autorità giudiziaria, in quanto i commissari decidono di non procedere alla convocazione di chi coinvolto nel procedimento intanto avviato dalla magistratura, rinunciando dunque ad alcune fra le testimonianze più significative. Tali passaggi d’altronde non fanno che confermare una tendenza più ampia, a partire dalle Commissioni sull’aeroporto di Fiumicino e sulla mafia (istituite rispettivamente nel 1961 e nel 1962), in cui i rapporti fra le inchieste parlamentari e la sfera giudiziaria appaiono irrisolti, suscitando in tal senso un vivace dibattito (Caravita 2001; Fenucci 1999; Posteraro 1985; Recchia 1985; Tanda 1997).

Il 7 giugno si entra in quella che è la fase finale dei lavori dell’inchiesta, con il confronto inerente la valutazione delle responsabilità e delle cause del disastro. In due giorni di prolungate sedute intervengono Scoccimarro per il Pci, Bonacina per il Psi, Degan, Ajroldi e Vecellio per la Dc, riproponendo dunque un protagonismo dei tre partiti maggiori. Le tesi esposte, che ritroveremo pienamente nelle relazioni conclusive, non fanno che confermare una rigidità, e dunque una limitatezza, delle posizioni già emerse, e accentuatesi nel corso dell’inchiesta, nell’esame dei singoli episodi, costantemente letti attraverso paradigmi contrastanti39. La frattura che attraversa la Commissione conduce, infatti, all’impossibilità di una sintesi, il che produrrà la stesura di tre documenti, uno di maggioranza a firma Rubinacci, uno del gruppo del Pci e uno presentato da Bonacina e Ferroni per il Psi40.

Per quanto riguarda la relazione di maggioranza, essa va a fondarsi su un punto dirimente, ovvero la convinzione che la frana abbia assunto dimensioni tali da sfuggire a qualunque previsione formulata. A ciò si accompagna la valutazione positiva dell’impegno della Sade sia nel promuovere gli opportuni accertamenti, sia nel collaborare attivamente con l’amministrazione pubblica nella messa in sicurezza della zona. Scrive Rubinacci: “Né dall’esame dei comportamenti nelle varie fasi, né dall’analisi dei singoli atti, emergono fatti o circostanze nelle quali sia possibile ravvisare condiscendenze della Pubblica Amministrazione verso la concessionaria, mentre da quasi tutti gli atti emerge un intento collaborativo”41.

Al contempo, la relazione si sofferma su un altro tema centrale, ravvisando come l’intero progetto della diga del Vajont abbia seguito un impulso proveniente da un indirizzo politico volto allo sviluppo del Paese, piuttosto che un interesse privato della Sade e che, nell’arco dell’intero percorso, quest’ultima abbia sempre agito dimostrando cautela. Scrive a tal proposito Rubinacci:

In concreto, dall’analisi delle procedure non risulta che la Pubblica Amministrazione si sia dimostrata succube e compiacente. A parte il fatto che la realizzazione dell’impianto è stata richiesta dallo Stato stesso, risulta che i voti del Consiglio superiore dei lavori pubblici contengono prescrizioni e richiedono adempimenti; che quando sorsero dei dubbi, quando si pose il problema della stabilità della sponda sinistra, lo Stato non rimase inattivo, poiché non si limitò a chiedere alla Sade di far eseguire determinate indagini, determinati studi e controlli, ma vi provvide anche direttamente attraverso il consulente geologo che faceva parte della Commissione di controllo e direttamente controllando tutta una serie di prescrizioni poste a carico della società concessionaria42.

Ciò che, invece, è da mettere in luce, secondo il relatore, è una debolezza della macchina statale nel vigilare sulla costruzione di opere di tali dimensioni, a causa del personale a disposizione, degli ostacoli della poco razionale ripartizione delle competenze burocratiche e del mancato aggiornamento della normativa vigente dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica.

Come si può dunque chiaramente cogliere, la relazione Rubinacci nell’analisi di cause e responsabilità si mostra assolutoria anche rispetto a quelle che furono le conclusioni della Commissione Bozzi, superando le critiche di quest’ultima rispetto all’operato della Sade, dell’Enel e delle autorità periferiche, in maniera talora così ostinata da ricondurre anche gli episodi più ambigui della vicenda ad una lettura che certamente appare eccessivamente pregiudiziale.

Per quanto concerne la relazione del gruppo del Pci, ritroviamo posizioni già consolidate nel tempo e che vanno a porsi in piena opposizione rispetto a quanto emerge nel documento di maggioranza. I commissari comunisti non tornano soltanto a stigmatizzare il rapporto Sade-Stato, parlando di “concentrazioni di potere economico [che] non solo si pongono di fronte allo Stato per imporre la propria supremazia, ma penetrano negli stessi organi dello Stato per indirizzarne decisioni ed attività ai propri fini” e ad insistere sulla proposta di cambiare indirizzi politici a favore di un nuovo ruolo del settore pubblico, di un decentramento dei poteri e della necessità di ricalibrare la struttura dell’Enel. Per quanto riguarda l’aspetto più concreto delle cause nel disastro, i parlamentari del Pci giungono ad una conclusione molto netta (ma forse giustificabile solo a posteriori), con un atto di accusa aperto nei confronti della Sade e, soprattutto, dello Stato che ha abdicato al suo compito:

Dopo i primi franamenti del Toc, quando il professor Penta formulò, in merito alle cause del movimento franoso, due ipotesi, una delle quali avanzava l’eventualità di un pericolo gravissimo, quando lo stesso Penta affermava che “non scioglieva le riserve” sul tipo di evento franoso possibile, spettava al Governo, al Ministro, il dovere di sciogliere quella riserva, se in loro avesse prevalso la considerazione della sicurezza della popolazione e della difesa dell’interesse pubblico. Bisognava bloccare l’impianto. Bisognava non autorizzare l’invaso del bacino. Questa era la scelta politica da fare. Non fu fatta. Si trattava della Sade; di una fra le più grandi holdings finanziarie. [… ]È emerso un contrasto, ormai consolidato, tra la prassi e la legge, in cui è scomparsa ogni netta distinzione tra interesse pubblico e interesse privato, in cui l’interesse privato si è sovrapposto a quello pubblico43.

Per quanto attiene, infine, la relazione del Psi, ritroviamo considerazioni simili, ma appunto non identiche. La Sade viene dipinta come il grande burattinaio dell’intera vicenda, ente da controllare che diventa controllore, che spende il proprio capitale di influenza per proseguire il collaudo della diga al solo fine di difendere il proprio investimento, nonostante tutti gli elementi che suggerissero dei ripensamenti:

La Sade raccoglie le varie istanze della concessione, le sceglie, sceglie i progetti, li definisce, li modifica, li coordina, li unifica, così come è nella storia dal 1927 al 1957; la Sade raccoglie, valuta, controlla, arricchisce, seleziona e tiene per sé tutti gli elementi di giudizio riguardanti la struttura geologica del terreno, come è testimoniato dalla successione delle perizie, diciamo così, di parte; la Sade decide, muta, sostituisce, adatta la richiesta di adempimenti pubblici alla mutevolezza dei propri interessi e li ottiene tutti, con limitazioni o condizionamenti solo formali44.

Così sentenziano i commissari socialisti, che additano alla Sade una responsabilità diretta nell’accaduto, attribuibile alla “sua volontà, prima determinata, indi ostinata, di difendere l’opera e la sua redditività, fino ai limiti estremi del rischio”45.

Accanto alla constatazione di questi spazi concessi alla Sade, non manca l’accusa allo Stato, presente ovunque, ma disarticolato fino a divenire assente:

Lo Stato è apparso un simulacro di potere, una fabbrica automatica o quasi automatica di autorizzazioni, di permessi, di assentimenti, di concessioni; è sembrato o ha funzionato come un mosaico incomposto di poteri, l’uno dissociato […]. Riguardiamo le vicende del disastro: dall’approvazione del progetto della diga alla frana del 1963, dov’è lo Stato? È dovunque e in nessun luogo46.

A fronte di questo squilibrio, gli Enti locali, ribadendo dunque la prospettiva di una politica di decentramento, vengono valutati nella loro funzione positiva, in quanto collettori delle istanze democratiche, vigili rispetto ai processi che coinvolgono le collettività. Manca nella relazione, invece, ogni accenno all’Enel, tradendo in questo senso le difficoltà a valutare le problematiche emerse nel passaggio della nazionalizzazione dell’energia elettrica, cavallo di battaglia del Partito socialista.

La distanza, ampia, che si registra in Commissione nella lettura politica della vicenda, da cui discende anche il giudizio sulla catena dei fatti, si ricompone invece per quel che riguarda l’altro versante, quello della proposta legislativa, che trova uno sbocco unitario accolto nella relazione di maggioranza47.

Se ad analisi diverse corrispondono soluzioni legislative uguali, non può non venire il dubbio che tale compito sia stato svolto con un impegno meno corposo. Questa impressione sembra confermata laddove si vada ed esaminare le indicazioni proposte. I temi individuati sono in linea con il dibattito cui si è accennato: i commissari indicano nella lacunosità della normativa di controllo delle grandi opere, nella capacità tecnica a disposizione della macchina statale, nel ruolo degli Enti locali nelle concessioni delle acque pubbliche, nella ripartizione delle competenze burocratiche e nella situazione idrogeologica del Paese i settori in cui intervenire. Debole è però il lato della proposta che si limita a delineare i temi di massima, senza ipotizzare soluzioni più ragionate.

Un accenno è rivolto dai commissari anche allo strumento dell’inchiesta parlamentare, di cui si ravvisa la necessità di regolamentare in maniera più efficace determinate questioni, come lo svolgimento delle audizioni o il ruolo delle relazioni di minoranza. Mancano però proposte su come intervenire in tal senso, venendo dunque meno un contributo costruttivo.

Riflessioni sull’istituto dell’Inchiesta parlamentare

Con la seduta del 13 luglio 1965, in cui vengono votate le relazioni conclusive, la Commissione d’inchiesta sul Vajont chiude ufficialmente la propria esperienza.

Un bilancio della sua attività può essere espresso in maniera più avvertita tenendo in considerazione l’evoluzione dell’istituto delle Commissioni d’inchiesta nella vicenda italiana e interrogandosi, dunque, sulle modalità in cui, rispetto ad essa, si colloca la Commissione Rubinacci.

Come è noto tale filone può contare su una tradizione importante a partire dalla stagione post-unitaria per poi proseguire nella vicenda repubblicana (Caravita 2001; Furlani 1954; Tronconi 1985). Modello di riferimento originario è quello inglese, inevitabile considerando la cultura della gran parte della classe dirigente liberale, fondato sulle indagini dirette dei parlamentari, il coinvolgimento dell’opinione pubblica e sul “principio della responsabilità politica del potere esecutivo di fronte alle Camere” (Pansolli 2009, 37).

Tanto nella stagione post-unitaria che in quella di età repubblicana, sia attraverso importanti indagini sociali sia con la promozione di inchieste politiche sul funzionamento delle istituzioni o sul ruolo di poteri anche definiti ad “autonoma legittimazione” (Crocella 1996), il ricorso all’inchiesta parlamentare ha suggellato le grandi questioni che gli attori politici, nel tempo, hanno posto al centro del dibattito nazionale. Questo strumento ha dunque permesso di vedere da vicino l’Italia della marginalità, dei grandi temi sociali, così come quella del connubio fra criminalità, poteri economici e poteri pubblici.

Se il discorso sui risultati ottenuti dalle singole esperienze di indagine è particolarmente complesso, dal momento che su di esse pesa l’intrecciarsi di molteplici fattori, primo dei quali l’equilibrio politico che di volta in volta si va ad instaurare, è altrettanto vero che il funzionamento di un tale istituto rappresenta spesso una chiave utile per comprendere la vitalità dei corpi parlamentari e della mediazione politica.

È in tal senso opportuno ribadire, per quanto noto, che la prima fruttuosa stagione delle inchieste si colloca nell’Italia post-unitaria, laddove, appunto sul modello inglese, una classe dirigente lavora per costruire gli spazi di autonomia del Parlamento, diventando l’inchiesta strumento per “instaurare rapporti diretti con le comunità con gli enti locali, con i cittadini” (Pansolli 2009, 11). Come ricorda ancora Pansolli: “Nel quadro del primato del parlamento ha origine anche il principio implicitamente sostenuto dalla classe politica liberale, e che il posteriore processo elaborati o della giuspubblicistica farà largamente proprio, secondo il quale il diritto d’inchiesta parlamentare risulta connaturato con il sistema rappresentativo” (2009, 13). È già stato ampiamente osservato da molti (Fiocco 2004, 19) che la crisi del ruolo del Parlamento nel solco del periodo fascista, non più in grado di rappresentare un contraltare al potere esecutivo, si traduce in un inevitabile abbandono della consuetudine delle Commissioni d’inchiesta. Tale strumento è recuperato a partire dal vivace dibattito che accompagna la nascita della Repubblica, trovando anche una collocazione nella Costituzione con l’articolo 82 (Caravita 2001; Tronconi 1985), in cui vengono sanciti i tre principi su cui fondare l’inchiesta parlamentare: il pubblico interesse, la composizione proporzionale e la possibilità di avvalersi dei poteri giudiziari.

Nella fase segnata dal centrismo il ricorso a tale strumento è quantitativamente limitato: nella prima legislatura vengono varate due inchieste, sulla miseria (Fiocco 2004) e sulla disoccupazione (Palamara 2007), nella seconda appena una, sulle condizioni dei lavoratori. Questo dato poggia su una motivazione precisa. Le Commissioni d’inchiesta si fondano su un equilibrio delicato, in quanto tendenzialmente promosse da minoranze che attraverso di esse esercitano una pressione sull’esecutivo, ma che pur sempre necessitano dell’avallo della maggioranza per essere varate. Nel duro scontro politico che caratterizza la stagione centrista, lo scarso dialogo che vige fra maggioranza e minoranza produce un’inevitabile difficoltà nella promozione di Commissioni d’inchiesta. Le uniche ad essere condotte in porto saranno dunque quelle che nascono dall’iniziativa di una forza interna all’area centrista, quella socialdemocratica, che vi ricorre allo scopo preciso di produrre politiche riformiste (Palamara 2007). Proprio l’aspirazione che le muove, anche a prescindere dalle ricadute concrete sul piano legislativo, contribuisce a rendere gli esiti di queste tre inchieste una testimonianza significativa delle condizioni sociali del Paese.

Altro dato da considerare è poi quello delle caratteristiche costitutive. Le tre esperienze ricordate si inseriscono nella tradizione delle indagini sociali, laddove all’intento conoscitivo si unisce la funzione principalmente legislativa dell’inchiesta, chiamata dunque non solo a tracciare un quadro dell’esistente ma anche a proporre indirizzi di intervento. In tal senso è stato opportunatamente richiamata da Giusy Palamara (2007) l’importanza delle inchieste sociali inglesi a cui il Psdi guarda come modello ispiratore.

A partire dalla terza legislatura nuove condizioni modificano l’approccio a tale istituto e l’inchiesta sul Vajont si inserirà in questa evoluzione. La crisi del centrismo, cui si accompagna il difficile percorso che avrebbe portato al centro-sinistra, crea nuovi spazi nella mediazione parlamentare, offrendo la sponda a formazioni prima escluse da questa dialettica per inserirsi nei processi di governo. Si pensi, in tal senso, al ruolo decisivo assunto dai socialisti nel promuovere la Commissione d’inchiesta sulla mafia (Gavini 2014), punto programmatico che si inserisce nel più ampio dialogo con la Democrazia Cristiana. L’apertura di nuovi spazi si traduce anche in una più stringente pressione a cui l’esecutivo e il Parlamento vengono sottoposti dall’opinione pubblica di fronte a casi o scandali che suscitano l’attenzione nazionale. Qui appare molto appropriato quanto scrive Fenucci (1999) a proposito del ruolo dell’inchiesta parlamentare: “Secondo una delle critiche più frequenti l’inchiesta parlamentare sarebbe […] scarsa di risultati concreti. […] Sembra tuttavia che non si possa negare che, anche quando apparentemente non si hanno frutti immediati, un effetto si sia avuto: l’allentamento della tensione politica determinata nel Parlamento e nel Paese dal sospetto di abusi, di scandali gravi, di reati della classe politica”. È proprio in quest’ottica che, nel quadro della terza legislatura, accanto all’inchiesta sulla concorrenza in campo economico (Granata 2007), anch’essa incentrata su un profilo principalmente legislativo, riprende vigore l’altro filone già presente in età liberale, quello delle inchieste politiche, destinate ad indagare singoli casi di rilevanza pubblica (Long 1985; Pansolli 2007). Ci si riferisce, nello specifico, alle Commissioni sulla cosiddetta “Anonima banchieri”, e a quelle già ricordate sulla costruzione dell’aeroporto di Fiumicino e sulla mafia (sebbene quest’ultima rappresenti un significativo intreccio di inchiesta al contempo sociale e politica).

È questa duplice evoluzione che ci permette di meglio contestualizzare l’istituzione della Commissione sul Vajont, inchiesta politica per quanto concerne la ricerca delle cause della catastrofe, ma al contempo pensata come occasione di riforma stimolata dalla cornice del centro-sinistra (è opportuno ricordare sia che a tale Commissione è affidata anche una funzione di proposta legislativa, sia che negli stessi anni è varata l’Inchiesta sul Sifar da cui scaturirà la riforma dei servizi di informazione). Queste premesse non concorreranno comunque ad imprimere un’accelerazione nel ricorso a tale istituto né a creare quei presupposti per una sua agevole conduzione. Da questo punto di vista, anzi, l’esperienza della Commissione Rubinacci illumina rispetto ad alcune problematiche che permangono rispetto a tale istituto e che per altri versi si sarebbero accentuate superata la fase delle grandi indagini sociali degli anni Cinquanta.

A partire da questo quadro di riferimento è possibile tracciare alcune considerazioni conclusive. Un primo tema investe proprio la costituzione e la conduzione stesse dell’inchiesta. La formazione di una Commissione parlamentare per indagare le cause del disastro del Vajont eleva l’evento al rango di una grande questione nazionale. Ciò però non comporta un approdo rapido a tale conclusione. Non aiuta neanche il quadro politico: nonostante un ampio schieramento di forze sia favorevole all’inchiesta, permane da parte del perno della coalizione della maggioranza, ovvero la Democrazia cristiana, la consapevolezza che essa offra spazi che pongono sotto pressione l’operato del governo, sia da parte delle minoranze, comunisti in particolare, sia da parte dai nuovi partner socialisti. Il tutto si traduce in un’accorta manovra per stemperare il clima, procrastinando l’avvio dei lavori48, strategia che attraversa in maniera pressoché immutata la storia delle Commissioni d’inchiesta. La rigidità dello scontro politico permane anche in sede di conduzione dell’attività dell’organismo bicamerale, il che condurrà all’impossibilità di una mediazione, fino alla proposizione di tre relazioni conclusive.

Questi motivi si collegano ad un altro aspetto che è centrale per ragionare sulle inchieste parlamentari, ovvero il rapporto con l’opinione pubblica. Si tratta di un versante cruciale, anche perché la tradizione italiana punta a porsi sulle orme di quella inglese (Long 1985; Pansolli 2007, 37-38). L’opinione pubblica, nell’indagine sul Vajont, è però rilegata ad un ruolo marginale, mai pienamente coinvolta, il che è dovuto ai due dati appena richiamati. Da un lato la distanza fra la tragedia del 9 ottobre 1963 e l’avvio dell’inchiesta parlamentare stempera l’attenzione che i mezzi di informazione per la vicenda. Dall’altro, le relazioni finali, proponendo paradigmi interpretativi di segno totalmente opposto, contribuiscono a dare la percezione che l’inchiesta si sia risolta in uno scontro politico già segnato, non aggiungendo quindi nulla di sostanzialmente nuovo a quanto già noto e, dunque, trovando un tiepido accoglimento da parte di un’opinione pubblica poco stimolata a tornare a riflettere sugli eventi che hanno segnato il Vajont.

Queste constatazioni ci conducono ad un’ultima riflessione che investe il lascito di tale esperienza. Interrogarsi sugli effetti e sull’eredità della Commissione del Vajont comporta la necessità, anch’essa tipica nell’approccio alle inchieste parlamentari, di utilizzare prospettive differenti.

Sul piano della contingenza, le conseguenze dell’attività di indagine sono sostanzialmente risibili. Sia per quel che riguarda la spinta del dibattito nazionale verso una più approfondita riflessione sui temi aperti dalla vicenda del Vajont, sia nella cornice più strettamente parlamentare. Le conclusioni dell’inchiesta non sono infatti seguite da una discussione nelle sedi preposte, né da conseguenze legislative, fatti salvi alcuni aspetti legati alla ricostruzione su cui, peraltro, l’intervento della Commissione appare marginale.

Sul piano storico e politico la prospettiva invece cambia e il discorso si fa più complesso. L’inchiesta parlamentare dovrebbe rappresentare, in linea ipotetica, “un mezzo per circoscrivere e chiarire responsabilità, per controllare il potere esecutivo, uno strumento di ricerca intorno a determinate situazioni e determinati settori e quindi di preparazione legislativa, capace di mettere in grado il Parlamento di fare leggi con una cognizione di causa altrimenti irraggiungibile”, come afferma lo stesso Rubinacci in un suo scritto (1958). Per comprensibili motivi vi è però una distanza fra l’assunto teorico e la prassi concreta. Il che, ovviamente, si registra anche con la Commissione sul Vajont. Se si esclude dunque una lettura che non tenga conto dell’influenza del confronto politico, sono proprio lo scontro e il dibattito che attraversano l’esperienza dell’inchiesta a diventare oggetto di interesse e a restituirci un’immagine di una dialettica vivace, non asfittica. A essere in discussione, nella Commissione condotta da Rubinacci, non vi è solo un evento drammatico, ma una più generale contrapposizione di visioni sociali ed economiche che l’avvio della stagione di centro-sinistra contribuisce ad articolare ulteriormente. L’inchiesta sul Vajont diventa dunque testimonianza stessa dei fermenti che accompagnano questa fase politica, nelle declinazioni concrete che la segnano, dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica al ruolo degli Enti locali.

Infine, permane intatto il valore storico di tale esperienza. La rigorosa conduzione dell’indagine ha permesso di accumulare un importante complesso documentario che, esaminato nel suo insieme, offre un riferimento valido laddove si voglia tornare a ragionare con lucidità rispetto alla vicenda del Vajont. I percorsi della memoria su un tema che ha segnato così in profondità l’esistenza di intere comunità, hanno inevitabilmente generato narrazioni contrastanti. Da un lato la pubblicazione del libro di Tina Merlin (1983), il potente spettacolo teatrale di Marco Paolini, Il racconto del Vajont, e il film del regista Renzo Martinelli, Vajont – La diga del disonore, hanno promosso una linea interpretativa tesa a insistere sulle colpe della Sade e sulla mortificazione delle popolazioni locali. Dall’altro si colloca la testimonianza di Edoardo Semenza (2001) che punta a decostruire una rappresentazione giudicata faziosa, insistendo sull’enormità dell’evento e spostando piuttosto gli aspetti critici sulla gestione dell’Enel.

A fronte di questa memoria non condivisa, la lettura non tanto delle relazioni conclusive della Commissione parlamentare sul Vajont, quanto dei documenti accumulati e del dibattito che si sarebbe consumato in sede di inchiesta sulla trama dei singoli episodi, permette di intraprendere la strada verso un’avvertita ricostruzione storiografica.

1 Senato della Repubblica, IV leg., doc. 76-bis, “Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont”, Relazione finale, p. 98. D’ora in avanti Relazione conclusiva di maggioranza. Le relazioni di minoranza, contenute nel medesimo documento, saranno nominate Relazione di minoranza del Pci e Relazione di minoranza del Psi.

2 Per i dati finora richiamati e per gli opportuni approfondimenti, cfr. Relazione conclusiva di maggioranza e anche il recente volume di Silei (2016).

3 I morti sotto il fango, in «l’Unità».

4 M. Passi, Consegnato a Segni il libro bianco del Pci, in “l’Unità”, 14 ottobre 1963.

5 Silvar, Le forze della natura non hanno travolto la diga, in “Corriere della Sera”, 12 ottobre 1963.

6 Il lutto del Paese, in “Il Popolo”, 11 ottobre 1963.

7 D. Buzzati, Natura crudele, in “Corriere della Sera”, 11 ottobre 1963.

8 G. Bocca, Non c’è più nulla da fare o da dire tra fango e silenzio, in “Il Giorno”, 11 ottobre 1963. Si segnala comunque come il noto giornalista e scrittore avrebbe poi cambiato opinione sulla vicenda: cfr. Id., Vajont, strage annunciata nell’Italia del boom, in “la Repubblica”, 8 ottobre 2003.

9 Accanto a loro, in “Avanti!”, 11 ottobre 1963.

10 Dirigente del Pci veneto che, in quanto tale, si era già trovato ad affrontare la questione della costruzione della diga.

11 AC, 15 ottobre 1963, pp. 2983-2984.

12 T. Merlin, L’“Unità” fu processata per aver denunciato il pericolo, in “l’Unità”, 11 ottobre 1963.

13 AC, 15 ottobre 1963, pp. 2291-3005.

14 Ivi, p. 3018.

15 Il riferimento è alle proposte di legge n. 595 (del Pli), n. 596 (del Pci), n. 601 (del Psdi), presentate tutte il 16 ottobre 1963.

16 F. De Luca, L’inchiesta sul Vajont denuncia che vi sono delle responsabilità, in “La Stampa”, 16 gennaio 1964.

17 AC, 23 gennaio, p. 4519.

18 Ivi, p. 4520.

19 Ivi, p. 4521.

20 La Commissione è istituita con la legge n. 370 del 22 maggio 1964; le proroghe sono regolate dalle leggi n. 880 del 9 ottobre 1964 e 23 aprile 1965 n. 32.

21 Il passaggio alla Camera avviene a scrutinio segreto, con 381 voti favorevoli e 19 contrari.

22 AS, 14 maggio 1964, p. 6867.

23 Ivi, p. 6877. Unico ad astenersi nella votazione è il gruppo del Pci.

24 Ivi, p. 6879.

25 La Commissione è composta da dodici membri della Dc (Nicola Fortini, Tommaso Ajroldi, Angelo De Luca, Guido De Unterrichter, Giacinto Genco, Giorgio Oliva, Pietro Vecellio, Piergiorgio Bressani, Giacomo Corona, Costante Degan, Renato Dell’Andro, Salvatore Foderaro), sette del Pci (Mauro Scoccimarro, Luigi Gaiani, Giovanni Gianquinto, Vittorio Vidali, Mario Alicata, Mario Lizzero, Gianmario Vianello), quattro del Psi (Giovanni Mosca, Ercole Bonacina, Luigi Ferroni, Lanfranco Zucalli), tre del Pli (Enzo Veronesi, Francantonio Biaggi, Piergiorgio Bressani), due dell’Msi (Araldo Crollalanza e Alfredo Covelli), uno del Psdi (Basso Granzotto) e uno del Psiup (Lucio Luzzato). Come vicepresidenti vengono eletti Fortini e Scoccimarro, come segretari Mosca e Veronesi.

26 L’intera documentazione relativa alla Commissione è stata raccolta e curata dall’Archivio storico del Senato della Repubblica, dando vita al volume Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003. D’ora in avanti per i documenti citati ci si riferirà direttamente ad esso come Inventario analitico, utilizzando come riferimento la sua catalogazione interna. Per il programma di lavoro cui si fa riferimento nel testo vedi 4.1. Relazione introduttiva del Presidente della Commissione Rubinacci, 31 luglio 1964.

27 Sulla questione, Relazione conclusiva di maggioranza, pp. 11-14.

28 Inventario analitico: 1.6.4., Relazione del sen. De Unterrichter sugli studi tecnico-scientifici connessi alla concessione delle acque e alla costruzione della diga del Vajont, 25 febbraio 1965, p. 34.

29 Ivi, p. 33.

30 Inventario analitico: 1.6.6. Nota del dep. Busetto e del sen. Gaiani sugli studi tecnico-scientifici connessi alla concessione delle acque e alla costruzione dell’impianto del Vajont, 12 marzo 1965, pp. 17-18.

31 Inventario analitico: 1.7.3. Bozza del dep. Foderaro sulle norme vigenti in materia di concessioni delle acque pubbliche e per la costruzione di sbarramenti di ritenuta, 16 marzo 1965, p. 27.

32 Ivi, p. 46.

33 Inventario analitico: 1.8.7. Resoconto stenografico della seduta della Commissione relativo alla discussione sulla relazione del sen. Ajroldi, 24 febbraio 1965, p. 9.

34 Relazione conclusiva, pp. 17-20.

35 Nello specifico vengono chiamati a collaborare Giovanni Gianquinto (Pci), Salvatore Foderaro (Dc), Araldo Crollalanza (Msi), Attilio Zannier (Psdi), Ivano Curti (Psiup). Vedi la seduta del 28 aprile

36 Senato della Repubblica, IV leg., doc. 76, Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont, Prima relazione, p. 44.

37 Ivi, p. 45.

38 Per le audizioni vedi in Inventario analitico: 4.22. Processo verbale n. 24 della seduta del 26 maggio 1965; 4.23. Processo verbale n. 25 della seduta del 26 maggio 1965; 4.24. Processo verbale n. 26 della seduta del 28 maggio 1965.

39 Per i processi verbali delle sedute del 7 e 8 giugno 1965 vedi Inventario analitico: 4.25, 4.26, 4.27.

40 La relazione Rubinacci sarà votata, oltre che dalla Dc, da liberali, socialdemocratici e missini, mentre i comunisti si asterranno per la relazione dei socialisti e altrettanto faranno gli esponenti del Psi nei confronti del Pci, mostrando se non un’identità di vedute perlomeno una forte vicinanza.

41 Relazione conclusiva di maggioranza, p. 170.

42 Ivi, p. 179.

43 Ivi, p. 26

44 Relazione di minoranza del Psi, p. 5.

45 Ivi, p. 7.

46 Ivi, p. 6.

47 Relazione conclusiva di maggioranza, pp. 190-200.

48 Nel corso della seduta del Senato del 14 maggio 1964, è il parlamentare democristiano Rosati a ribadire l’importanza dell’aver procrastinato l’avvio dei lavori della Commissione sul Vajont: “Vi è stato chi ha approfittato anche di questa sciagura per fini politici, a favore della propria parte. Ora, aver atteso, prima di nominare la Commissione parlamentare, è stato, sotto questo aspetto, un fatto positivo; gli animi sono oggi infatti più rasserenati e i giudizi più obiettivi. Coloro che saranno chiamati a studiare le cause della sciagura, potranno essere più sereni”, p. 6865.

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Sito dedicato al disastro del Vajont che raccoglie descrizioni dell’evento, materiale fotografico, una rassegna bibliografica.

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Pagina dedicata al Vajont dal sito Focus.it con raccolta di testimonianze, animazioni e dati sulla catastrofe del 9 ottobre 1963.

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Biografia

Diego Gavini ha conseguito nel 2016 il titolo di dottore di ricerca in Storia presso l’Università degli studi di Tor Vergata con una tesi su “La prima Commissione parlamentare Antimafia nella Repubblica dei partiti (1962-1976). Autore di articoli e saggi sul fenomeno mafioso nella storia italiana, dal 2015 è coinvolto nel progetto di ricerca “Religious Devotion Between Mafia and Antimafia”, coordinato dalla professoressa Lucia Ceci.

Biography

Diego Gavini discussed a doctoral thesis about “The first Antimafia Commission of Inquiry in the Republic of Parties (1962-1976)” in April 2016 at University of Tor Vergata-Rome. He is author of essays focused on the presence of mafia in Italian history. Since 2015 he is a member of the research team working on the project “Religious Devotion Between Mafia and Antimafia”, coordinated by professor Lucia Ceci.