L’industrializzazione del latte alimentare in Italia: criticità e ritardi visti attraverso un case study locale

di Giuliana Bertagnoni

Abstract

Quello del latte è un settore nel quale l’Italia ha storicamente registrato un’arretratezza rispetto agli standard internazionali, tanto che è stata fortemente penalizzata dalle politiche comunitarie (anche i non addetti ai lavori ricorderanno la questione delle “quote latte”). Il presente intervento intende ripercorrere alcune tappe dell’industrializzazione del latte alimentare attraverso un case study locale, evidenziando criticità e ritardi che hanno generato un gap rimasto endemico nell’economia agroalimentare nazionale. L’Autrice, mettendo insieme i risultati di varie ricerche condotte nel corso degli anni nel bolognese, ricostruisce come, in un contesto tradizionalmente non vocato alla grande produzione di latte, gli interessi degli attori economici coinvolti nel ciclo di vita del prodotto rimangano nel lungo periodo contrapposti e inconciliabili, malgrado la mediazione politica tentata delle diverse amministrazioni succedutasi alla guida della città (prima liberale, poi socialista, poi fascista e infine socialcomunista). Solo alla vigilia del boom economico, l’elaborazione di nuovi modelli culturali di consumo basati sul richiamo all’appartenenza identitaria, che si affermano grazie a un marketing dal basso di matrice politica, una sorta di “via emiliana” alla comunicazione e alla promozione “commerciale”, alimenta con particolare efficacia la fiducia del consumatore e permette l’affermazione di una realtà industriale rimasta solida sul mercato nazionale nel corso degli anni.

Abstract english

The industrialisation of alimentary milk in italy: criticalities and delays as seen through a local case study

That of milk production is a sector where Italy has historically been rearward compared to international standards, to the extent that it has been highly penalised by community policies. This essay chronicles various stages in the process of industrialization of alimentary milk as seen through a local case study (taking place in the Italian province of Bologna), and highlighting criticalities and delays which generated an endemic gap in the national food and agricultural industry. The Author puts together the results of several researches and shows how the interests of the economic players involved remained opposed and incompatible, in spite of the mediation attempted by the different political administrations which followed one another at the helm of the city.

Questo testo è la rielaborazione del contributo Il mercato alimentare del latte a Bologna fra la fine dell’800 e il secondo dopoguerra [The food market milk in Bologna between the end of the eighteenth century and the Second World War], presentato al convegno di studi The History of the European Food Industry in the nineteenth and the first half of the twentieth century, promosso dall’ICREFH (International Commission for Research into European Food History), in collaborazione con il Dipartimento di Discipline Storiche, Antropologiche e Geografiche dell’Università di Bologna (DiDiSAG) e il Dipartimento di Paleografia e Medievistica dell’Università di Bologna (DPM), che si è tenuto a Bologna il 13-16 Settembre 2011.

Introduzione

Quello del latte è un settore nel quale l’Italia ha storicamente registrato un’arretratezza (sia nella domanda sia nell’offerta) rispetto agli standard internazionali, tanto che è stata fortemente penalizzata dalle politiche comunitarie (anche i non addetti ai lavori ricorderanno la questione delle “quote latte”). I due comparti di cui si compone, quello del latte vero e proprio e quello dei prodotti ottenuti dalla lavorazione dei suoi derivati, hanno storie industriali diverse tra loro. Il presente intervento intende ripercorrere, attraverso un case study locale, alcune tappe dell’industrializzazione del latte alimentare, che riduce, senza risolverlo, il gap conseguente a questo ritardo rimasto endemico nell’economia agroalimentare nazionale.

L’industrializzazione del latte alimentare e dei suoi derivati

Il settore caseario

Il comparto caseario vanta origini antiche e, per numero di occupati e aziende, è tutt’oggi quello prevalente. Ben radicato nella pianura Padana dall’inizio dell’Ottocento, tuttavia ancora fra le due guerre rimaneva caratterizzato da aziende piccole e piccolissime, concentrate prevalentemente in quell’area, che mantengono a lungo un’impronta artigianale e una funzione ausiliaria nei confronti dell’allevamento (Felice 2004, 35).

Un numero consistente di tali aziende erano cooperative, dal momento che la stalla creava le condizioni per una dimensione di imprenditorialità parcellizzata ma diffusa che trovava nella sperimentazione cooperativa una naturale evoluzione. Infatti, mentre il capitale bestiame doveva essere equilibrato alle possibilità di nutrizione del podere e alle necessità lavorative per la coltivazione dei terreni, con i quali i conduttori (fossero essi piccoli proprietari, affittuari o mezzadri) avevano la garanzia della sopravvivenza della famiglia (e la perdita di questo capitale retrocedeva il conduttore allo status di bracciante); i prodotti della stalla prendevano quasi esclusivamente la strada del mercato e in questo settore, che non metteva in discussione la sua sopravvivenza, il conduttore poteva rischiare e sperimentare cercando di conseguire maggiori guadagni (Paterlini 2002, 358-359).

Nella seconda metà dell’Ottocento le latterie turnarie, evoluzione dell’antica “prestanza del latte” in uso nelle valli alpine, si radicarono nella Pianura Padana, dando origine a molte della più importanti latterie della bassa Lombardia e della Lomellina, dove cedettero presto il passo alle latterie sociali, più propense per la loro organizzazione all’avvio di un processo di tipo industriale. Infatti, nelle latterie turnarie i soci mettevano in comune solo il latte, che veniva lavorato a turni giornalieri da ognuno, dividendo la spesa per i materiali e il tempo di lavorazione mentre i rischi attinenti la commercializzazione dei derivati restano a carico dei singoli soci; nelle latterie sociali, invece, erano svolte in comune anche le attività di lavorazione e di commercializzazione dei prodotti, rendendo possibile l’uso di moderni impianti e di manodopera specializzata, permettendo agli associati, più in generale, di avere maggiore forza contrattuale sul mercato (Felice 2004, 63-64).

Per questo in sede storica si ritiene che “la lavorazione cooperativa del latte costituì per l’agricoltura di pianura – dalla Lomellina al Mantovano – una novità forse più significativa dell’acquisto e della produzione in comune di concimi, macchine e attrezzi produttivi, in quanto fu l’espressione di una volontà di difesa dei redditi agricoli mediante la loro partecipazione a un sistema di rapporti agroindustriali più strutturato ed evoluto” (Fumi 2002, 379). In questo modello di imprese, infatti, il produttore esercitava un ruolo attivo, dal momento che in qualità di “socio è direttamente interessato all’azienda sociale ed è quindi indotto a seguirne accuratamente l’andamento, assumendone le cariche sociali, vigilando sul casaro e sui soci” (Galaverni 1955, 49: citato da Paterlini 2002, 357).

Dal 1900 la forma cooperativa si affermò definitivamente in Lombardia, Emilia, Veneto, dimostrando nel lungo periodo la vitalità di un sistema (oggi uno dei più importanti distretti agro-alimentare italiani è quello del parmigiano reggiano) organizzato su un alto numero di piccole aziende, solitamente considerato da tecnici ed economisti un indice di scarsa efficienza organizzativa (Fanfani 1998; Colli, Stupazzoni 1980; Ferrari [1970 c.a]). Accanto a questa imprenditorialità cooperativa diffusa, tuttavia, alcune cooperative raggiunsero grandi dimensioni, come la Latteria Soresinese di Cremona, sorta nel 1900, o la Latterie Cooperative Riunite di Reggio Emilia (poi Giglio), nata nel 1934. Ma, più in generale “allo scoppio della prima guerra mondiale il caseificio italiano è in prevalenza dominato dall’industria privata e i caseifici sociali non rappresentano neppure la quarta parte del numero totale degli stabilimenti italiani di lavorazione del latte” (Ferrari [1970 c.a], 40).

Anche il settore privato è caratterizzato da una miriade di aziende di modeste dimensioni, ma, abbracciando con lo sguardo il primo cinquantennio del Novecento, quattro imprese medio-grandi si pongono alla testa del comparto, occupando, nel 1950, quasi il 40% della manodopera industriale complessiva nel lattiero-caseario (in totale circa 10.000 dipendenti), in ordine di importanza: la Galbani (nata nel 1882 a Ballabio, in provincia di Lecco), la Locatelli-Lir (nata nel 1860 a Ballabio), la Polenghi Lombardo (nata nel 1870 a Codogno, in provincia di Lodi) e l’Invernizzi (nata nel 1908 nel bergamasco).

Il latte alimentare

Se prendiamo in esame il solo latte alimentare, per la sua alta deperibilità tale produzione era strettamente dipendente dallo sviluppo dei trasporti e delle tecniche di conservazione. Con lo sfruttamento su larga scala delle scoperte scientifiche – come, ad esempio, il processo di pastorizzazione – e le numerose applicazioni che ne derivarono, le possibilità di conservazione e la gamma degli impieghi del latte si estesero significativamente, facendone un’importante materia prima dell’industria (nella forma di polvere di latte, latte condensato, latte evaporato, sia per l’alimentazione degli adulti come per quella dei neonati) e incentivando la sua produzione anche al di fuori delle tradizionali aree di provenienza.

In Italia, pesava sul settore la scarsa domanda interna, causa/effetto del ritardo dell’industrializzazione complessiva del Paese e delle caratteristiche prevalentemente agricole dell’economia nazionale, che determinava la preferenza per la piccola produzione capillarmente diffusa e l’autoconsumo, e condannando il comparto a un posizionamento arretrato. Per dare un’idea concreta, nel 1946-49 l’Italia per consumo pro capite di latte risulta penultima in Europa dopo la Grecia, mentre nel mondo è superata anche da Cuba, Sud Africa e Brasile; nei decenni successivi si mantiene al di sotto della media europea (Felice 2004, 36 e 39).

Per le difficoltà all’industrializzazione del settore e le caratteristiche spiccatamente locali di questo mercato, diventa utile focalizzare l’analisi su un case study. Bologna si presta bene all’uopo perché è una città medio-grande della Pianura Padana, non particolarmente vocata all’allevamento di bestiame da latte. Delle tradizionali funzioni svolte dai bovini nei sistemi agrari dell’Europa pre-industriale – forza motrice per i lavori agricoli, fonte di concime per i campi, sorgente di latte, burro e formaggio, nonché carne a pellame per la famiglia e il mercato – il bolognese aveva utilizzato principalmente le prime due. E, più in generale, nella bassa pianura emiliano-romagnola, dove le dimensioni aziendali e la scarsezza dei foraggi limitavano il numero dei capi di bestiame che era possibile allevare e la tenacia dei terreni rendeva necessario, per l’aratura, l’impiego di animali particolarmente resistenti alla fatica, gli agricoltori allevavano bovini adatti soprattutto al lavoro dei campi. Anche nelle aree – come la pianura parmense e reggiana – più fertili, con maggiori possibilità di irrigazione e più estese coltivazioni di piante da foraggio, non era possibile, comunque, andare al di là dell’allevamento di una razza a triplice attitudine, capace anche di significative rese in latte, ma non di eguagliare quelle degli allevamenti vocati unicamente a questa produzione

Tuttavia, malgrado queste caratteristiche, nel secondo dopoguerra Bologna ha dato i natali a un’impresa particolarmente vivace nel panorama nazionale, che, conquistando il mercato grazie alla produzione di latte alimentare, è ancora oggi fra i maggiori gruppi italiani dell’agroalimentare.

Il mercato del latte alimentare a Bologna fra Ottocento e Novecento

Il consumo del latte in Italia era collegato all’infanzia e alla vecchiaia, valorizzato soprattutto per le sue proprietà nutrizionali e “curative”. Per soddisfare la modesta domanda di questo alimento, ritenuto più che altro necessario in alcune fasce di età e per determinate caratteristiche di salute, in epoca pre-industriale si usava mungere la mucca per le strade delle città (la cosiddetta “munta a domicilio”), in modo da garantirne freschezza e genuinità. Alla fine dell’Ottocento le città come Bologna venivano rifornite dalle stalle del suburbio, dove il latte veniva munto due volte al giorno e riscaldato a fuoco lento (di qui l’espressione “latte scottato”) prima di essere portato dentro le mura, dove, in modesti quantitativi, veniva introdotto dai contadini oppure da alcuni intermediari, detti anche raccoglitori o bagarini, e venduto al mercato insieme agli altri prodotti agricoli (Bertagnoni 2000).

Gli osservatori dell’epoca erano perfettamente consapevoli della pericolosità di questo latte, “pochissimo pulito e quindi poco conservabile e facile veicolo di forme infettive” (Brazzola 1898, 25). Tuttavia l’enorme frazionamento del mercato rendeva impossibile un controllo efficace. Né il modico quantitativo di latte industriale proveniente da fuori provincia (nel 1898 si registravano due spacci riforniti ogni notte per via ferroviaria: la Latteria Milanese, che riceveva il latte dalle latterie Locate Triulzi, e la Latteria Modenese) bastava a migliorare la situazione: “Bologna usa a preferenza il latte dell’industria frazionata” (Brazzola 1898, 6-7). Nel 1911 erano circa 700 gli “introduttori” autorizzati (sulla base di certificazione veterinaria) a rifornire giornalmente Bologna e, attraverso gli “appostamenti del latte” posizionati su tre o quattro delle dodici vie di accesso alla città, gli agenti sanitari potevano verificare, all’occorrenza, le condizioni di tutto il latte destinato al consumo quotidiano.

Tuttavia l’iniziativa dell’amministrazione comunale non era in grado di prendere provvedimenti utili a risolvere i problemi di un settore pur così delicato per la salute pubblica. Nel 1911 il nuovo ufficiale sanitario propose di consentire la vendita del latte soltanto agli esercizi dotati dei necessari requisiti igienici e di vietare quella ambulante. La disposizione provocò l’aspra protesta dei fruttivendoli, intimoriti che l’introduzione della figura di un intermediario fra i produttori diretti e i consumatori avrebbe compresso i prezzi d’acquisto alla stalla e fatto lievitare quelli al consumo. Dopo lunghe discussioni, la norma approvata si limitava a imporre una complessa serie di requisiti refrigeranti che doveva possedere il carretto, senza vietare il commercio ambulante, che proseguì, di fatto, in condizioni igieniche “identiche a quelle del passato” (Bertagnoni 2000, 75).

 Questo immobilismo, peggiorato dalle difficoltà generali di approvvigionamento provocate dal sopraggiungere della Prima guerra mondiale, determinava una situazione di rifornimento precaria, tanto che nel 1916 il Comune di Bologna si vide costretto a indire un concorso per produttori, raccoglitori e rivenditori di latte, con l’obiettivo di “incoraggiare la produzione e l’introduzione del latte in città” (Bertagnoni 2000, 81). L’una e l’altra forse scarseggiavano anche a causa di un prezzo di vendita, sottoposto a calmiere, considerato non abbastanza remunerativo dagli agricoltori, che preferivano concentrarsi su altre produzioni. Nel dopoguerra si registra qualche cambiamento. Dal 1919, di fronte a una produzione locale particolarmente scarsa e incapace di soddisfare una richiesta popolare in sensibile crescita, si cominciarono a importare ulteriori quantitativi di latte da fuori provincia (dalla Società Polenghi Lombardo e dalla Latteria Soresinese). Per non creare sperequazione fra il prezzo del latte importato e quello di produzione bolognese, che poteva dare origine ad abusi e speculazioni, la concorrenza con il latte industriale comportò un aumento anche dei prezzi locali.

 Per migliorare la situazione, il dibattito verteva, in particolare, intorno a due ipotesi: quella di municipalizzare i servizi di raccolta e distribuzione del latte e quella di stimolare la costituzione di cooperative o consorzi di produttori o rivenditori, dando vita a vaccherie e latterie modello. Ma le molteplici trattative intercorse fra l’ufficiale sanitario del Comune e gli agricoltori legati al Consorzio agrario di Bologna si risolsero in un nulla di fatto, forse per l’eccessiva prudenza dei diversi attori memori degli insuccessi accumulati negli anni precedenti (fin dal primo Novecento le esperienze di vaccherie modello, anche se in possesso di tutti i requisiti necessari, si erano rivelate fallimentari sotto il profilo commerciale).

Sul fronte distributivo, fra il 1918 e il 1923 operò il Consorzio fra proprietari e conduttori di latterie in Bologna, nato con lo scopo di acquistare collettivamente il latte, importandolo pure da altre province, e distribuirlo nei singoli spacci, per conseguire economie di scala riuscendo ad ottenere anche diverse forme di agevolazioni pubbliche (Bertagnoni 2000, 69). Tuttavia ancora nel 1921 il Consorzio delle latterie calcolò l’esistenza di circa 2.500 rivendite non autorizzate.

Su fronte produttivo, nel 1924 venne istituita la Casa Materna, una società anonima creata per provvedere all’assistenza di bambini agiati o comunque non aventi diritto alla beneficienza pubblica, che si dotò di due laboratori per la preparazione di diversi tipi di latte: quello intero sterilizzato e maternizzato per i lattanti e gli adulti malati, quello intero igienico per il consumo ordinario della popolazione. Ma allorquando questo istituto cercò di premere sul Comune per convincerlo alla municipalizzazione del servizio di raccolta e distribuzione, proponendo l’impianto di “stazioni lattiere” vicine ai luoghi di produzione per raccogliere il latte subito dopo la mungitura, filtrarlo, raffreddarlo e trasferirlo al suo laboratorio scientifico per igienizzarlo o sterilizzarlo – progetto apertamente osteggiato sia dai produttori sia dai rivenditori – il Comune affermò di non potere svolgere un efficace controllo sulla produzione del latte per l’alto numero delle stalle fornitrici (nel 1925 si registravano circa 1.200 stalle che rifornivano di latte Bologna, quasi tutte in condizioni igieniche molto trascurate), temendo inoltre che i contadini fossero disincentivati dalle norme restrittive al rifornimento della città. Rassegnato nella propria impotenza, per favorire lo sviluppo industriale l’Ufficio d’igiene rispolverò la tradizione proposta della stalla modello. Dal canto suo, la Casa Materna ripiegò sulla sola commercializzazione, chiedendo nel 1927 all’Ente autonomo dei consumi del Comune la cessione di alcuni locali di palazzo Re Enzo per “l’approntamento di una latteria modello per la vendita del latte igienizzato proveniente dalla Casa Materna’” (Bertagnoni 2000, 69).

Il contesto nazionale e internazionale: l’industria del latte si consolida

Gli stessi problemi segnavano il dibattito nazionale e internazionale. Infatti, l’approvvigionamento urbano di latte alimentare non adulterato e dotato dei necessari requisiti igienici interessava tutti i paesi occidentali e, dopo essere stato al centro del Congresso internazionale del latte di Washington (1923), in vari paesi europei (Inghilterra, Svizzera, Svezia, Danimarca e Germania) venne risolto con la creazione di appositi stabilimenti per il trattamento del prodotto e il suo confezionamento in bottiglie sigillate per la distribuzione, le Centrali del latte.

Negli anni Venti in Italia si continuò, con più decisione che in passato, a emanare norme a livello locale, senza riuscire, tuttavia, a superare la condizione di semimonopolio dei venditori a domicilio. Sino al 1920 nella stessa Milano, al centro della più importante area di produzione italiana, esisteva ancora la consuetudine della ”munta a domicilio”, per non parlare di città come Napoli, Palermo o Roma nelle quali questa pratica continuò molto più a lungo.

Cesura significativa e punto di svolta fu il Rd 9 maggio 1929, n. 994 (poi perfezionato con la legge 16 giugno 1938, n. 851), con il quale si imponeva il rispetto di speciali condizioni ai locali da adibire a vaccheria; si prescriveva l’accertamento dello stato sanitario degli animali; si dettavano categoriche norme per la mungitura, la refrigerazione, la raccolta e il trasporto del latte. E, definiti essenza e scopi delle Centrali del latte, si autorizzavano, infine, i Comuni ad istituirle, isolatamente o in consorzio, per provvedere alla raccolta del latte destinato al consumo locale, sottoporlo ai controlli necessari, pastorizzarlo e distribuirlo in contenitori igienici.

Parallelamente, all’estero si erano sviluppate – per iniziativa di studiosi, imprenditori e autorità governative – capillari campagne di promozione del consumo del latte alimentare, inizialmente nella forma di latte condensato, in polvere e farina lattea e, successivamente, anche di latte fresco. Negli anni Trenta gli osservatori italiani (Sirri 1934) erano a conoscenza che, per esempio, in Inghilterra, il National Milk Publicity Council, costituito dai rappresentanti dei venditori e dei produttori, col ricavato di una piccola tassa sul latte venduto, conduceva da oltre un decennio un’intensa propaganda col motto: “Bevete più latte”. E che nello stesso periodo il consumo era più che raddoppiato. Oppure che campagne collettive per il consumo del latte erano state fatte in Germania, in Olanda, in Scandinavia, in Francia, in Austria, nel Canadà, e in Danimarca, dove lo stesso governo aveva patrocinato la riunione dei venditori e dei produttori in vaste organizzazioni cooperative che provvedevano ad un’efficace propaganda del consumo e stimolavano il miglioramento qualitativo della produzione con controlli sistematici, basati su incentivi e disincentivi. Per non parlare degli Stati Uniti, che avevano cominciato queste politiche nei primi anni Venti.

Che l’Italia cercasse di tenere il passo con quanto si faceva all’estero, malgrado la politica autarchica del regime fascista, lo dimostra l’ospitalità che la città di Roma diede al X Congresso mondiale del latte (1934), un’occasione per confrontarsi con le novità tecnico-scientifiche e i progressi conseguiti negli altri paesi. Nei programmi autarchici degli anni Trenta l’educazione alimentare occupava un posto privilegiato. Il latte, che tradizionalmente era considerato un alimento dell’età evolutiva per il suo valore nutritivo, importante soprattutto per le classi sociali meno abbienti che avevano un regime alimentare di base povero, divenne un simbolo usato per celebrare l’assistenzialismo fascista (Bertagnoni 2000, 102). Tuttavia tra le due guerre non mancarono tentativi di estendere il consumo del latte alle fasce adulte della popolazione (anche perché latte e formaggi potevano fungere, per le necessità della politica dei consumi fascista, da sostituto di altri alimenti) e di promuovere, più in generale, un progressivo cambiamento dell’immagine di questo prodotto (la Centrale del latte di Genova realizzò un fumetto rivolto ai padri di famiglia, mentre una campagna fotografica degli anni Trenta ritraeva dei giovani militari nell’atto di bere del latte). Anche se la definitiva conquista dell’ampio segmento di mercato rappresentato dai consumatori adulti può essere fatta risalire soltanto agli anni Cinquanta.

In Italia, il decreto del 1929 aprì la strada all’impianto di un buon numero di Centrali sul territorio nazionale, contribuendo efficacemente alla diffusione del consumo di latte alimentare. Coerentemente al principio corporativo di collaborazione fra gli attori economici, la legge del 1938, che perfezionava quella del 1929, prevedeva che i Comuni concedessero l’esercizio delle Centrali a Consorzi di categoria, costituiti fra agricoltori, industriali e commercianti, che avrebbero operato in regime di monopolio, avendo per legge l’esclusiva della raccolta e della vendita del latte nelle cosiddette “zone bianche” (che erano le aree collocate in prossimità delle Centrali, di loro specifica pertinenza). In questo modo si risolveva l’annoso problema dell’approvvigionamento delle città, le quali potevano finalmente disporre di un alimento fondamentale igienicamente sano.

Poiché questo è un punto nodale della nostra riflessione, puntiamo brevemente lo sguardo su tali realtà d’impresa per inquadrarne la performance nel lungo periodo. Negli anni Cinquanta e Sessanta le Centrali non avevano rivali nel comparto del latte, ed erano seconde solo alle principali aziende casearie. Nel 1959 le Centrali di Torino e di Genova erano rispettivamente la quinta e la sesta impresa italiana del settore, dopo la Galbani, la Invernizzi, la Polenghi Lombardo e la Locatelli; seguivano, al dodicesimo e tredicesimo posto, le Centrali di Trieste e Messina (Felice 2004, 60). Nonostante le grandi dimensioni, nel dopoguerra i processi di meccanizzazione avanzarono ad un ritmo molto più lento che nel resto del lattiero-caseario, come minore fu anche l’incremento degli utili rispetto alla media delle aziende private del settore. I motivi erano diversi: in particolare il prezzo del latte, diversamente da quello del formaggio, era calmierato e non seguiva le regole del mercato (veniva periodicamente fissato dal Comitato interministeriale prezzi – Cip, e poi rielaborato in ogni provincia da specifiche commissioni – Commissioni provinciali prezzi, Cpp); inoltre, la modernizzazione avanzava lentamente per la caratteristica di questa produzione, altamente deperibile, in Italia, estremamente frazionata, come abbiamo visto, per cui le operazioni di raccolta e distribuzione rendevano necessario l’impiego di un numero relativamente elevato di operai, frenando l’espansione delle attività meccanizzate. Ciononostante, le prime confezioni di tetrapak vennero introdotte in Italia dalla Centrale di Modena già nel 1956, e, più ingenerale, alcune Centrali riuscirono ugualmente a fare innovazione.

Le Centrali ebbero un rapido declino dopo il 1973, quando la Corte di giustizia del Lussemburgo dichiarò illegale il loro sistema monopolistico. Sotto l’incedere della liberalizzazione del mercato, le municipalizzate, costituite per operare nei confini del mercato locale, comunale o intercomunale, non riuscirono a fronteggiare la concorrenza delle aziende private e cooperative, che per ripartire i costi potevano contare su una certa diversificazione della produzione e su circuiti di smercio a più ampio raggio (Felice 2004, 60).

La municipalizzazione dell’industria del latte: un’occasione mancata per Bologna?

A questo punto siamo in grado di chiudere il cerchio delle considerazioni sul nostro case study. Dopo la legge del ’29 anche nel capoluogo emiliano si cominciò a valutare la possibilità di risolvere il problema dell’approvvigionamento cittadino con l’istituzione di una Centrale del latte. Immediatamente, nello stesso 1929, una proposta – che non ebbe seguito – venne formulata all’amministrazione comunale dai Sindacati fascisti degli agricoltori, che, in collaborazione con il Consorzio produttori latte, presentarono al podestà di Bologna, Leandro Arpinati, uno Studio per l’impianto di una centrale del latte a Bologna. A fasi alterne, il dibattito si protrasse, senza arrivare a nulla di fatto, per tutti gli anni Trenta, o più esattamente fino alla fine degli anni Cinquanta, quando l’iniziativa prese altre strade, come vedremo.

Sul piano della produzione, negli anni Trenta cominciarono ad essere introdotti anche a Bologna allevamenti specializzati alla produzione lattifera, quali la razza Bruno alpina, che dalla Svizzera si era diffusa in Lombardia nel corso dell’Ottocento, e la Frisona, di origine olandese.

Fig. 5. Progetto per la Centrale del latte di Bologna, schizzo assonometrico, in Bertagnoni 2000, 94.

Ma solo con la guerra, come era stato nella prima crisi bellica, le cose cominciarono a cambiare. Nel 1941 sorsero, infatti, in località Roveri, Borgo Panigale e Arcoveggio, tre Centri di raccolta e trattamento latte diretti dalla Gestione centri latte della Sezione della zootecnia del Consorzio provinciale fra i produttori dell’agricoltura di Bologna (poi Ente economico della zootecnica, dipendente direttamente dal ministero dell’Agricoltura e delle Foreste), che operava in collaborazione con la costituenda Società anonima dettaglianti di latte nel Comune di Bologna. La funzione di raccolta e controllo che i Centri latte avrebbero dovuto svolgere, nel regime di razionamento bellico dei consumi e conferimento obbligatorio all’ammasso, si trasformò ben presto in una concessione in esclusiva della fornitura e della vendita del latte in città; latte che veniva sottoposto a diversi trattamenti malgrado l’inesistenza dei requisiti tecnici e igienici degli impianti. Più in generale, l’attuazione del provvedimento rispondeva alle esigenze di una economia di guerra, senza migliorare in modo significativo la sicurezza igienica. Ben presto il latte – come ogni risorsa alimentare – cominciò a scarseggiare, essendo più remunerativo venderlo al mercato nero, magari trasformato in burro.

Nel dopoguerra, con l’abolizione dell’ammasso, finì il monopolio dei Centri latte e si aprì lo spazio per diverse iniziative private, ma la qualità non migliorò: fino al 1950 i Centri latte distribuirono latte sfuso e non pastorizzato e solo nel 1956-1957 tutti gli stabilimenti privati presenti in città si dotarono di impianti per l’imbottigliamento.

Malgrado le reiterate richieste dell’amministrazione comunale guidata da Giuseppe Dozza per ottenere il permesso all’istituzione di una Centrale del latte (nella seduta del consiglio comunale del 22 novembre 1956 la casa era data per certa e ne venne approvata la costituzione), il governo non lo accordò mai. Il disaccordo verteva essenzialmente sui soggetti che avrebbero dovuto gestire la Centrale e sulla localizzazione degli impianti. Eppure a favore di tale soluzione si espressero molte componenti della società e dell’economia locale, dai cooperatori ai commercianti (l’Ascom – Associazione commercianti – aderente alla Confederazione generale del commercio, l’Associazione dei piccoli commercianti, dalla quale nascerà nel 1971 la Confesercenti la Lega nazionale delle cooperative e mutue). Meno chiara fu la posizione assunta dalle varie organizzazioni agricole (Battilani 2004).

Si trattava del solito cul-de-sac, per cui il progetto fu alla fine accantonato, lasciando l’approvvigionamento del latte alla città nelle mani di un libero mercato reso anche più competitivo dalla penuria di spazio disponibile al di fuori delle “zone bianche” delle Centrali. Nel 1957 le aziende per l’igienizzazione e la distribuzione latte alimentare erano: i Centri latte (i cui stabilimenti di lì a poco sarebbero stati incorporati dalla Polenghi Lombardo – che era stata acquisita dalla Federconsorzi – e poi, nel 1969, sarebbero stati gestiti dalla Felsinea latte, una cooperativa patrocinata dalla Coldiretti); l’azienda Plib, nata nel 1955 ad opera di Antonio Accorsi, il maggior industriale caseario bolognese; la società Ala, nata a Casalecchio di Reno nel 1956 ad opera di un gruppo finanziario veneto (Zignago) legato al gruppo Marzotto Sfai; la società San Luca, nata a San Lazzaro di Savena nel 1956 ad opera degli agrari bolognesi; il neonato Consorzio bolognese produttori latte, più noto con il nome Granarolo, sul quale è opportuno soffermarci.

La “via emiliana” alla promozione “commerciale” del latte

Nelle campagne bolognesi la produzione di latte era rimasta sussidiaria rispetto agli altri prodotti agricoli e la raccolta continuava ad essere molto frazionata: pochissime stalle con molti capi e una massa di agricoltori che continuavano a tenere qualche mucca da latte dalla quale ricavavano anche solo poche decine di litri, ma che permettevano l’accesso al mercato (quindi anche un po’ di liquidità). A partire dagli anni Cinquanta nella destra Reno, che non era legata a nessuna produzione di qualità (mentre la sinistra del fiume era zona tipica per la produzione del parmiggiano-reggiano, che assorbiva tutto il latte prodotto), si verificarono problemi di sovrapproduzione, che costrinsero il piccolo produttore ad accettare prezzi bassissimi del latte venduto alla stalla. In tali condizioni, regolare il mercato divenne un obiettivo del movimento sindacale e cooperativo legato allo schieramento socialcomunista (in particolare le organizzazioni di settore della Cgil e l’articolazione territoriale della Lega delle cooperative e mutue), che aveva in quegli anni un ruolo organizzativo attivo nell’aspra conflittualità sociale in atto nelle campagne. L’idea era di istituire delle raccolte cooperative associando in un consorzio i produttori – proprietari grandi e piccoli, affittuari e mezzadri –, organizzando il trasporto in modo da contenere i costi e vendendo collettivamente il prodotto per disporre di maggiore forza contrattuale (Bertagnoni 2004b).

Il conflitto esploso con i privati nelle stelle per aggiudicarsi la raccolta assunse subito una connotazione politica. Infatti, i patti agrari classificavano il mezzadro semplicemente come mungitore e attribuivano solo al proprietario la qualifica di produttore di latte, il quale, perciò, poteva disporne e decidere a chi venderlo. Allorché i contadini rivendicarono la libertà di conferire il latte alla propria cooperativa, l’opposizione di parte padronale fu irriducibile perché l’iniziativa assumeva un valore paradigmatico nelle lotte di emancipazione contadina in atto, cosa di cui tutti gli attori avevano piena consapevolezza.

Quando i proprietari decisero di fare intervenire le camionette della celere per impedire ai camion della cooperativa di entrare nelle aie dei poderi, gli agricoltori organizzarono cortei di biciclette, sulle quali venivano ostentati i classici bidoni di latta, e continuarono a portare il latte alla cooperativa. Grazie all’abilità dei dirigenti cominciò così una sorta di spettacolarizzazione del trasporto (Di Marco, Ortoleva 2004, 231), un processo dapprima spontaneo poi costruito con una certa cura e che avrebbe a lungo segnato la “presenza pubblica” della cooperativa sul territorio. Contrapponendosi le autoblindo della polizia a pacifiche biciclette di chi voleva solo produrre e guadagnarsi il pane, lo scontro attirò le simpatie pure di quanti non erano politicamente schierati: con la vittoria giudiziaria dei soci-produttori questa contrapposizione rimase una sorta di marchio d’origine di grande impatto sui consumatori. Ai cortei di bici si sostituirono, qualche anno dopo, i cortei di camion, che sfruttavano ogni necessità commerciale di spostamento per attraversare “in sfilata” la città e la provincia, accompagnati dai saluti collettivi dei simpatizzanti (che coincidevano con i consumatori fidelizzati).

In sostanza si creò un’identificazione tra la raccolta del latte cooperativo e il punto di vista dei lavoratori.

Grazie al successo dell’iniziativa di raccolta, si decise di mettere i contadini nella condizione di controllare la filiera del latte dalla produzione al consumo (raccolta, trasformazione, commercializzazione), per competere sul mercato con il grande monopolio privato. Il progetto, che portò nel 1957 alla nascita del Consorzio bolognese produttori latte (Cbpl), più comunemente noto con il nome Granarolo (dal paese di provincia che ospitò il primo stabilimento), era ambizioso: i privati erano già consolidati e la competizione era grandemente sproporzionata, per di più le cooperative di trasformazione prodotti agricoli, che associavano le categorie rurali intermedie, era avanguardistica rispetto alle strategie elaborate a livello nazionale dalla Lega delle cooperative e mutue, che in campo agrario privilegiava la tradizionale cooperazione fra braccianti. Tuttavia tale indirizzo, in linea con la politica del partito comunista guidato in quegli anni da Togliatti, che mirava a guadagnare consensi nei ceti medi e a combattere il grande monopolio privato, ebbe un successo clamoroso da una parte per la capacità di coniugare necessità di emancipazione economica e sociale dei ceti meno abbienti con una strategia politica più ampia; dall’altra per la capacità di puntare fortemente sulla qualità di un prodotto, il latte, che, pur essendo legato all’idea di purezza e innocenza dell’infanzia, aveva alle spalle una storia di lungo periodo estremamente turbolenta sul piano della igienicità e sicurezza. Questa operazione di riscatto dell’immagine di un alimento caro all’immaginario collettivo attirò le simpatie anche di chi non era politicamente schierato.

Nella competizione per affermarsi sul mercato, si fece del conflitto l’elemento cardine. Si trattava, infatti, della lotta di chi viveva del proprio lavoro, il piccolo produttore, contro l’arroganza di chi sfruttava il lavoro altrui, la grande industria privata. Uno stereotipo, a ben vedere, che realmente la cooperazione impersonava. La battaglia con le aziende già presenti nel mercato bolognese (e sostenute dagli agrari locali) si combatteva su due fronti: le aie, come abbiamo detto, e i punti vendita, dove i privati erano in grado di fare leva sui consumatori con una politica di bassi prezzi (ma arrivarono anche ad adulterare il latte Granarolo per danneggiarne l’immagine, ottenendo, per l’abilità dei cooperatori che smascherarono il tentativo, l’effetto contrario).

Come la Granarolo abbia conquistato in un lampo un posizionamento stabile sul mercato non sarebbe comprensibile senza sottolineare le peculiarità del gruppo dirigente, che, non potendo vantare pregresse esperienze manageriali, mise in campo le strategiche competenze maturate nella propria militanza politica in una dimensione che oggi diremmo democratica partecipativa. Infatti, nella ricostruzione di questa storia sorprende la spontaneità con cui tutti gli attori coinvolti anche marginalmente nel processo produttivo e commerciale (quelli che oggi chiameremmo gli stakeholder) si fecero entusiastici interpreti della promozione del latte cooperativo (il direttore li chiamava “i partigiani dell’azienda”). In realtà, lo “spontaneismo” è solo apparente, perché ci troviamo di fronte a una tradizione che non è quella della promozione commerciale, ma della militanza politico-solidaristica (di matrice non solo socialista e comunista, ma anche cattolica), nella quale il singolo si fa interprete delle direttive del partito o dell’organizzazione sindacale, e usa propri mezzi per diffonderne i messaggi, dal volantino al megafono o all’altoparlante (Di Marco, Ortoleva 2004, 235).

In un contesto in cui la mentalità degli attori coinvolti legava inseparabilmente la logica politica dell’agitazione-propaganda e quella commerciale della pubblicità-promozione, la solidarietà non era una necessità “d’immagine” ma era una scelta comunicativa di fatto (Di Marco, Ortoleva 2004, 235), perché nella cultura politica della sinistra promuovere la cooperativa, sostenere il partito, il sindacato e l’amministrazione di sinistra, aiutare chi ne aveva bisogno erano aspetti del tutto inscindibili. Diventava così naturale mobilitare i produttori sfruttando le reti tradizionali di vicinato, che erano già state attivate attraverso le “cellule” del Pci per aggregare iscritti e diffondere propaganda, ed essere sempre presenti nelle riunioni politiche, negli scioperi delle grandi fabbriche (dove si distribuiva gratuitamente il latte in segno di solidarietà) e in ogni occasione di ritrovo pubblico; nonché farsi promotori di convegni, assemblee, manifestazioni o fiere per discutere dei problemi del settore agricolo e, in particolare, del comparto lattiero-caseario, o per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica nelle congiunture economicamente più critiche. In questa logica, molte iniziative partivano dal basso e si sviluppavano quasi con moto proprio. È il caso della tradizionale Festa del latte – nata nel 1959 sull’esempio della fiera agricola, ma con ineludibili contaminazioni con le Feste dell’Unità – e presto diventata un evento di richiamo di masse enormi di simpatizzanti/consumatori. Del resto attrarre il pubblico presso lo stabilimento (con una capillare campagna di informazione nelle scuole e sul territorio), per visitare gli impianti e conoscere i produttori, era uno dei nodi della fortissima “presenza pubblica” dell’azienda.

Tutto ciò rendeva il latte cooperativo diverso: l’“altro latte” veniva nominato negli slogan promozionali. La differenza traeva origine proprio nelle caratteristiche valoriali, che divennero attributi del latte stesso. Era il progetto politico-sociale sotteso, di emancipazione operaia e contadina, quello che si vendeva e che veniva acquistato, con entusiasmo e grazie a un passaparola inarrestabile. Il concetto di “qualità” – sul quale subito la cooperativa puntò non potendo vincere la concorrenza con una politica del contenimento del prezzo – era intrinseco al profilo non strettamente commerciale dell’impresa e trovava la prima legittimazione nel legame di solidarietà extraeconomico, in un processo virtuoso in grado di generare la fiducia incondizionata del consumatore, che agiva da cassa di risonanza per la promozione. Una sorta di “via emiliana” al marketing, come l’ha definita lo storico della comunicazione Peppino Ortoleva.

Conclusioni

Per concludere, nel secondo dopoguerra la cooperazione ebbe la capacità di fare quello che non era riuscito alle amministrazioni succedutesi alla guida del capoluogo emiliano dopo l’Unità d’Italia, a partire dalla Bologna liberale per passare attraverso Zanardi e le prime giunte rosse ed arrivare ad Arpinati ed al fascismo: dare un approvvigionamento di latte adeguato a una grande città risolvendo l’insanabile contrasto di interessi fra le parti economiche coinvolte (come influiscono le lobby economiche – e non solo politiche – sullo sviluppo di questa città è una domanda imprescindibile della ricerca locale). E lo fece – in un contesto che tradizionalmente non era vocato alla grande produzione di latte – con un’impresa capace di conquistare il mercato nazionale in modo stabile e duraturo grazie alla sua capacità di trasformare il valore cooperativo in valore economico per la forza attrattiva di un progetto emancipativo che univa la campagna del piccolo agricoltore che produceva alla città dell’operaio che consumava. In sostanza, la cooperazione che si è radicata nell’alveo politico della sinistra nel comparto economico dell’agroalimentare ha sviluppato con particolare efficacia l’abilità di ottenere la fiducia del consumatore, proponendo nuovi modelli culturali di consumo basati sul richiamo all’appartenenza identitaria, grazie a un marketing dal basso, di matrice politica, una sorta di “via emiliana” (e, più in generale, “italiana”) alla comunicazione e alla promozione “commerciale” slegata dalla tradizione manageriale del marketing generalmente associata all’americanizzazione. Anche per questa via il latte si è emancipato dall’immagine di un alimento adatto a vecchi e bambini, per conquistare il consumatore adulto.

Il Consorzio cooperativo del latte, conquistato il mercato locale, nel 1972 si consorziò a una cooperativa di area cattolica, la Felsinea latte (nata per volontà della Coldiretti per gestire i Centri latte), dimostrando una flessibilità politica straordinaria per l’epoca (una sorta di “compromesso storico” ante litteram), nell’interesse della crescita economica dei produttori. Per rispondere alla domanda posta nei paragrafi precedenti, l’impossibilità di impiantare la Centrale a Bologna fu così trasformata da elemento critico in fattore determinante di successo. Infatti, l’anno dopo cominciava il declino delle Centrali, che, pur avendo raggiunto grandi dimensioni, uscite dall’ambiente protetto in cui la condizione di monopolio nelle “zone bianche” le teneva non sopravvissero alla competizione del libero mercato; mentre il Consorzio cooperativo del capoluogo emiliano cominciava una crescita costante fuori dai confini provinciali prima, regionali poi.

Peccato che esempi di questo tipo non sarebbero comunque bastati a preparare l’industria italiana alla competizione internazionale, permettendogli di superare lo storico gap.

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Bio

Biografia

Giuliana Bertagnoni è ricercatrice storica libero professionista presso strutture culturali (quali università, enti locali, musei, archivi), istituti storici e fondazioni. Si è occupata di storia dei partiti politici e dei movimenti sindacali, di storia sociale e di storia d’impresa, con particolare attenzione al movimento cooperativo. Ha pubblicato 5 monografie, come autrice e curatrice, nella collana Storia e studi cooperativi edita dal Mulino; fra le sue ultime pubblicazioni: Democrazia e amministrazione: uomini e istituzioni, IV volume della collana Isrebo con E. Guaraldi, Dalla guerra al boom. Territorio, economia, società e politica nei comuni della pianura orientale bolognese, Bologna, Edizioni Aspasia, 2007; con L. Maluccelli, H. Swinnen, S. ter Woerds (eds), Family, Employment and Services. The Challenge of Reconciliation for Local Governance), Utrecht, Verwey-Jonker Instituut, 2008; con T. Menzani, Servizi, lavoro e impresa cooperativa. Il terziario in Legacoop e nelle altre organizzazioni di rappresentanza (1975-2010), Bologna, Il Mulino, 2010; con P. Battilani, Cooperation Network Service. Innovation in outsourcing, Lancaster, Carnegie Publishing Ltd, 2010.

Biography

Giuliana Bertagnoni holds a degree in Contemporary History at Bologna University. She is a researcher and a freelancer working for universities, local authorities, museums, archives, historical departments and foundations. She is interested in politic and social history, paying special attention to the cooperative movement. She edited the book Il gruppo Granarolo fra valori etici e logiche di mercato [The Granarolo group between ethic values and market trends], (Il Mulino, 2004), and authored Uomini donne valori alle radici di Camst [Men women and values at the root of Camst] (Il Mulino, 2005). She is editorial secretary of the online historical review “Storia e Futuro”.