di Giulia Nataloni e Giorgia Venerucci
Abstract
Introduzione
Le riflessioni e gli approfondimenti che si propongono nel presente articolo hanno un’origine ben definita: le giornate di studio promosse dall’Associazione italiana di Storia orale (Aiso), con il nome Scuola italiana di storia orale. Città e confini. Prima edizione.
L’iniziativa si è svolta il 13-15 ottobre 2011 presso il Castello Colonna di Genazzano (Roma) ed ha proposto un seminario intensivo di storia orale con una chiara bipartizione: un approfondimento metodologico sul trattamento tecnico professionale delle fonti orali, nella loro forma sonora e audiovisiva, ed un approfondimento didattico-formativo sulle principali tematiche della storia orale.
Il termine “scuola” utilizzato, ha forse la funzione di richiamare l’attenzione sui fondamenti e i principi guida che animano la ricerca della storia orale. Scuola ma non dogma o canone rigoroso, perché la storia orale è anche un laboratorio, un campo di lavoro aperto.
Formazione, conservazione e restituzione delle fonti orali. Seguendo i temi e le sollecitazioni raccolte al convegno, si è deciso di dedicare la prima parte dell’articolo, al processo di formazione delle fonti orali. Nella seconda si affronteranno alcune “questioni tecniche” ovvero il trattamento e la conservazione delle fonti, mentre nella terza sezione si parlerà della loro restituzione.
La formazione delle fonti orali: questioni teoriche
Giovanni Contini
Se volessimo caratterizzare la “fonte orale” con una breve e semplice descrizione, potremmo dire che essa è un racconto, una narrazione, una testimonianza orale. Il processo che conduce alla formazione di tale fonte, è complesso e implica l’intervento di due soggetti: l’intervistato e l’intervistatore. Dalla relazione reciproca di queste due parti nasce l’“intervista”, il documento orale.
È possibile rilevare un consolidato utilizzo della fonte orale, nella sua forma audio e audiovisiva, in vari campi disciplinari: tralasciando per un attimo l’ambito storico, di cui ci occuperemo ampiamente, le fonti orali sono utilizzate nelle ricerche antropologiche, sociologiche e di etno-musicologia; tuttavia il dibattito teorico sul loro utilizzo è molto vivace e forse dovuto, almeno in parte, alle particolari caratteristiche della fonti orali che sollevano questioni di grande rilievo, una fra tutte, la loro natura soggettiva.
L’intervento di Giovanni Contini1 alla Scuola di Storia orale, si è concentrato su alcune delle questioni nominate dando rilievo, in particolar modo, al processo di formazione delle fonti orali e al loro utilizzo nei diversi campi storiografici. Tale impiego è da considerarsi legittimo e indispensabile:
Le informazioni orali e audiovisive sono fondamentali per quelle vaste aree dell’esperienza e dell’attività che non hanno lasciato traccia scritta, per le quali non esiste il tradizionale documento/fonte o esiste in misura del tutto limitata ed insufficiente (Contini 1993, 35).
Secondo Contini, esistono dei mondi, chiamati dai vecchi “classi subalterne” di cui non si hanno molte tracce: chi va alla ricerca delle tracce scritte del mondo contadino, troverà solo opere letterarie dedicate (romanzi, novelle) oppure le informazioni registrate sui giornali delle fattorie, nei quali il padrone della terra annotava le merci prodotte, il numero dei capi del bestiame, il numero dei contadini ecc. Le informazioni presenti su questi documenti, evidenziano solo gli aspetti economici ed esprimono il punto di vista del padrone della terra che considerava i contadini esclusivamente come produttori di ricchezza. Tuttavia l’elemento economico è solo uno degli aspetti che potrebbero emergere in una ricerca approfondita: vi è un “mondo culturale” di relazioni sociali, che solo le fonti orali possono raccogliere e testimoniare.
Lo stesso fenomeno si verifica, secondo Contini, per la categoria dei minatori: è possibile studiare la storia di una miniera o di un borgo minerario come Abbadia San Salvatore (Siena), mediante la documentazione degli archivi delle società minerarie. In questi documenti si vede come i tecnici minerari decidevano di impiantare le gallerie e in quali luoghi, ma sono assenti tutta una serie di informazioni su come il lavoro era veramente strutturato, sulle “pratiche lavorative”; non si hanno notizie, per esempio, su come avveniva la trasmissione dei comandi tra le varie professionalità (i tecnici minerai, i minatori, i manovali del cantiere), sulla dialettica e le relazioni che si instauravano tra i minatori e i sorveglianti. In conclusione, senza il racconto diretto dei protagonisti, tutte queste informazioni andrebbero perse. Si vedano in proposito le opere di Contini (1994; 1997).
Dopo aver mostrato il rilevante impiego delle fonti orali nei contesti storiografici esaminati, Contini affronta una questione che da sempre anima il dibattito teorico sulle fonti orali: la loro legittimità e veridicità. Secondo l’autore, le fonti orali sono da considerarsi fondamentali, anche quando sono imperfette. Le fonti orali sono fonti di memoria e “la memoria è un serbatoio in continuo divenire, un archivio in trasformazione dove accanto agli scarti si determinano correzioni, rivisitazioni e riscritture” (Contini 1993, 52).
Per fare un esempio, nelle interviste raccolte dal Usc Shoah Foundation Institute for Visual History and Education2, si poteva osservare, non di rado, una “particolarità della memoria”: in alcune testimonianze dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, il ricordo della vita nel campo, in relazione alla prima fase della loro permanenza, era lineare ed esatto nei particolari (i testimoni ricordavano il campo di arrivo, il suo nome, la località). Ripercorrendo invece le esperienze successive, emergevano dei riferimenti non compatibili con quanto accertato successivamente (per esempio un testimone internato in un particolare campo, ricordava degli elementi che appartenevano ad un altro).
Accade dunque di dover in qualche modo interpretare una memoria che, da un certo momento in poi, non riesce più ad essere esatta ed è piena di lacune. In alcuni casi le parole di un testimone sono un tentativo, spesso non cosciente, di riempire quelle zone di esperienza che allo stesso testimone erano rimaste prive di contenuti.
Qualsiasi intervista rilasciata, non solo quelle di chi ha vissuto vicende drammatiche, dipende fortemente dal “punto di vista” espresso dal testimone, dall’interpretazione personale del suo passato, dalla sua auto-rappresentazione. Molto spesso quando compaiono errori e incongruenze, le testimonianze possono essere delle memorie collettive della comunità:
Soprattutto quando ci si relaziona con persone per le quali la cultura della comunità svolge ed ha svolto un ruolo importante, il racconto della propria vita personale dipende in larga misura da quella che possiamo chiamare la visione del mondo localmente condivisa, cioè quella elaborazione della storia locale che diventa riflessione collettiva (Contini 1993, 20).
Lo studio di Contini (1987) sulle vicende storiche del paese di Santa Croce sull’Arno (Pisa), mette in risalto questo fenomeno. Dalle testimonianze orali degli abitanti si apprende come il successo economico del paese, specializzato nella conciatura delle pelli, fosse dovuto alle “buone qualità morali” dei cittadini, i quali erano onesti, fiduciosi gli uni con gli altri e democratici. I racconti degli abitanti di Scarperia (Contini, 1989), un borgo toscano specializzato nella costruzione di coltelli, attribuivano il tracollo economico degli anni Novanta alle cattive qualità degli abitanti, che erano diffidenti e “si rubavano” i clienti. Nessun riferimento viene fatto a elementi esterni alla comunità che avrebbero potuto causare la crisi, come l’introduzione di nuove leggi nazionali, la concorrenza dei mercati stranieri ecc.
La rappresentazione elaborata dagli abitanti esprime una semplicistica “visione positiva” degli eventi, nel caso di Santa Croce sull’Arno, e una “visione pessimista”, nel caso di Scarperia, anche se le interviste contengono particolari interessanti e non uniformi. Contini sostiene che questa specie di “filosofia di paese” non è semplicemente una falsificazione, ma un tentativo di dare una coerenza logica a una vicenda, è una “cattiva storiografia”. In questi casi quello che si tratta di fare è “smontare” questa visione del mondo collettiva, capire come sono andate realmente le cose partendo dalle testimonianze: “risalire al paradigma interpretativo radicato nella realtà sociale e territoriale di appartenenza e collegare conseguentemente e correttamente le diverse informazioni fornite” (Contini 1993, 52).
In alcuni casi i testimoni adottano una particolare visione del mondo collettiva perché non riescono a darsi spiegazioni di un determinato fenomeno (come il successo o il fallimento economico di una comunità), o non hanno i mezzi culturali per farlo.
Nell’ambito delle ricerche di storia orale, sostiene Contini, vi sono studiosi che sottovalutano l’importanza dell’immagine nell’intervista e preferiscono registrare solo nel formato audio. Forse questa scelta poteva essere appropriata nella fase iniziale della storia orale, quando fare un’intervista con una videocamera, significava la presenza necessaria di un operatore e l’utilizzo di macchine molto complesse ed ingombranti, o di un sistema di illuminazione che disturbava i testimoni.
In realtà negli ultimi tempi, sono comparse sul mercato delle macchine potenti che possono essere posizionate semplicemente sul tavolo di fronte al proprio interlocutore senza creare scompiglio.
Con il sistema di ripresa audio-video è possibile intervistare le persone mentre svolgono delle operazioni. Nell’ambito di ricerche sulle attività artigianali, l’intervistato può mostrare le operazioni manuali di cui sta parlando (come la costruzione di un orcio o un vaso di terracotta). Un’intervista eseguita durante lo svolgimento di un’operazione lavorativa è molto efficace perché le persone coinvolte parlano più liberamente e si sentono meno “schiacciate” dalla relazione con l’intervistatore.
Le immagini sono importanti anche per un altro motivo: le interviste video riportano la mimica dei soggetti la quale è in grado di commentare, involontariamente, le parole pronunciate. Se l’intervistato “dice una bugia”, può essere smentito dalla sua stessa mimica.
Ad ogni modo, la scelta dei ricercatori a favore della registrazione audio o della video intervista è legata ai personali obiettivi e alle metodologie adottate, perché gli strumenti sono sempre una parte integrante e fondamentale della ricerca.
Gabriella Gribaudi
L’intervento di Gabriella Gribaudi, presidente Aiso e professore di Sociologia all’Università degli Studi Federico II di Napoli, ha approfondito la relazione tra storia orale e città.
Come si descrive la città? Come si descrive lo spazio urbano? Secondo un approccio che Gribaudi considera tradizionale, vi sono dei paradigmi descrittivi riconducibili a tre tipologie: la descrizione funzionalistica, la descrizione formalista e il paradigma della modernizzazione. Il primo approccio descrive i luoghi della città in relazione alle loro funzioni (i palazzi del potere, le piazze del mercato, i luoghi di cura); il secondo si concentra sulla sua forma, individuando una forma urbana industriale, pre-industriale, mediterranea ecc. Infine, il paradigma della modernizzazione, descrive la città evidenziando la sua evoluzione, il passaggio dall’epoca pre-moderna a quella moderna.
L’indagine della storia orale in relazione alla città, tenta di superare le tipologie descritte e si propone di “entrare nello spazio urbano” il quale è sempre uno “spazio di pratiche”.
Il concetto di spazio (in antitesi al luogo) e la nozione di pratiche introdotti da Gribaudi, hanno come riferimento esplicito, l’opera dello storico gesuita Michel De Certeau (1990). La storia orale prende in esame gli spazi della città (e non i luoghi) seguendo le riflessioni dell’autore: “Partiamo da una distinzione fra spazio e luogo che delimita un campo. È un luogo l’ordine (qualsiasi) secondo il quale degli elementi vengono distribuiti entro rapporti di coesistenza” (De Certeau 1990, 175). Quindi il luogo va inteso come la posizione/configurazione degli elementi sul campo. Il luogo si trasforma e diventa spazio quando gli elementi di cui è composto iniziano a muoversi, a interagire tra loro, a compiere delle azioni: “È spazio l’effetto prodotto dalle operazioni che l’orientano, lo circostanziano, lo temporalizzano, lo fanno funzionare come un’unità polivalente. Lo spazio è un luogo praticato” (De Certeau 1990, 175).
La città è uno “spazio sociale” formato dalle pratiche messe in atto dai suoi protagonisti; le pratiche sono delle operazioni, delle attività originali e imprevedibili che esprimono il modo di vivere, e di sopravvivere, degli abitanti. Gribaudi evidenzia come sia indispensabile “seguire le pratiche degli spazi, ricostruire i percorsi nello spazio e narrare lo spazio senza descriverlo dal di fuori”. In questo passaggio si evidenzia la distinzione fondamentale tra una semplice “descrizione” di un luogo e la “narrazione” di uno spazio: tra le due distinzioni la storia orale privilegia la seconda, raccogliendo le esperienze individuali dei testimoni e i racconti che mai potrebbero essere colti mediante un’indagine quantitativa.
Un esempio di tale approccio è lo studio di Gribaudi (2005) sulla rivolta napoletana contro gli occupanti tedeschi, episodio noto col nome delle “quattro giornate di Napoli” (28 settembre-1 ottobre 1943). L’insurrezione della popolazione napoletana, fu la reazione della città alle violenze subite a partire dall’8 settembre 1943 e, in particolar modo, ai rastrellamenti compiuti dall’esercito tedesco a partire dal 28 settembre.
L’autrice ha raccolto numerose testimonianze e memorie delle persone coinvolte negli scontri, come quella di Antonio Amoretti:
Io abitavo in via Cristallini, a via Cristallini è sorto questo nucleo e c’era questo sottotenente di cavalleria che era un disertore. […] Ha organizzato questi gruppi, si è sparsa la voce… Io mi sono unito, ho visto che si cominciava sta barricata. La barricata era stata messa all’ingresso di via Cristallini, all’imbocco c’è un vicoletto, li fu eretta la barricata con i materiali presi dai palazzi crollati. […] Noi combattevamo per la difesa della strada, dei quartieri (Gribaudi 2005, 290).
Dopo aver ripercorso la storia dell’insurrezione mediante le narrazioni dei protagonisti, Gribaudi ha ricostruito le vittime delle quattro giornate attraverso il Registro dei morti dello Stato di Napoli; in questo caso l’incrocio3 delle fonti tradizionali con quelle orali ha prodotto interessanti risultati: si è appurato che i morti sul campo, provenivano prevalentemente dai quartieri più antichi e popolari della città: “I dati mettono in risalto la natura popolare dell’insurrezione e la distinzione nettissima tra le due parti della città: quella del grande centro storico e quella dei nuovi quartieri operai e borghesi” (Gribaudi 2005, 235).
Secondo l’autrice
l’insurrezione può essere letta come un’azione che nasce in uno spazio vissuto ed elaborato ogni giorno attraverso le pratiche ordinarie dei suoi abitanti. I quartieri antichi della città furono la struttura di base su cui vennero costruite le azioni militari, uno spazio sociale denso in cui circolavano le notizie e si prendevano le decisioni. L’insurrezione ebbe inizio perché lo spazio sociale e civile della città era stato gravemente ferito; lo spazio simbolico della città, che si mostra attraverso il proprio quartiere, è la vera patria da difendere.
Da un punto di vista storiografico, l’episodio delle quattro giornate di Napoli è molto rilevante, perché divenne subito materia di dibattito politico e subì una sorta di “processo interpretativo”. Per alcuni studiosi gli scontri armati furono un semplice gesto di ribellione sul modello delle forme primitive di rivolta sociale, descritte da Hobsbawm; in particolar modo Gribaudi evidenzia come le quattro giornate siano state associate al modello del mob cittadino (Hobsbawm 1959, 138). Tale interpretazione ha rafforzato l’idea di una sollevazione spontanea, senza obiettivi specifici e comandi organizzati. Al contrario l’autrice ritiene che contro l’occupazione tedesca si sviluppò una “resistenza civile” nella quale i cittadini hanno compiuto atti di disobbedienza, di opposizione e di solidarietà che si potrebbero definire pratiche di resistenza ordinaria.
È stata l’incapacità di analizzare con mente libera questo spazio sociale, di coglierne le dinamiche interne, a impedire il riconoscimento dell’insurrezione. Sono stati innanzitutto le relazioni e gli scambi che animano il quartiere, la memoria che vi si era costruita, a rendere possibile la mobilitazione in una congiuntura eccezionale. Emerge la complessità della stratificazione sociale dei gruppi combattenti e la razionalità delle loro azioni.
Si potrebbe dire che la storia orale abbia il compito di ricostruire il rapporto tra la “città delle pietre” e la “città dello spazio sociale”: il lavoro su Napoli è la narrazione di uno spazio sociale che tenta di mette insieme i pezzi della storia “perché le pietre possono essere lette con un linguaggio simbolico ed emergere nella memoria collettiva”.
Maria Immacolata Maciotti
Maria Immacolata Maciotti, professore di sociologia all’Università degli studi di Roma La Sapienza, considera l’approccio della storia orale “trasversale” alle discipline delle scienze sociali in quanto “la pratica e il modo di fare ricerca della storia orale potrebbe coinvolgere gli studiosi di storia, di psicologia sociale e di antropologia”.
In particolar modo in sociologia quella che viene chiamata storia orale si inserisce in un approccio qualitativo ampio entro il quale si utilizzano come metodologie tanto le dichiarazioni, quindi le storie orali vere e proprie, quanto i materiali scritti come carteggi, lettere, diari che raccontano le storie di vita delle persone.
L’opera del sociologo statunitense William Thomas Il contadino polacco in Europa e in America è uno dei primi esempi di indagine sociologica svolta a partire dai carteggi e diari dei soggetti coinvolti: il fenomeno dell’immigrazione polacca viene analizzato mediante i documenti privati dei protagonisti, dai quali emerge il forte legame con la terra d’origine, le difficoltà di adattamento ad un nuovo mondo e le trasformazioni in corso. L’attenzione della sociologia per la memorialistica inizia a partire da questo momento.
“Fare interviste, raccogliere e restituire narrazioni” è l’obiettivo del ricercatore che lavora con fonti orali. Ogni intervista (ci riferiamo alla registrazione audio perché la studiosa ha utilizzato prevalentemente questo tipo di formato) richiede molta preparazione, è un lavoro complesso che per essere ben svolto ha bisogno di tempo.
Tra il ricercatore e l’intervistato deve nascere un rapporto di fiducia, specialmente se le persone coinvolte sono immigrati senza il permesso di soggiorno, oppure sono coinvolte nella terra degli esseri umani, o in traffici di droga e prostituzione. È necessario, secondo Maciotti, “rassicurare” i testimoni e offrire delle garanzie reali per la loro incolumità, come per esempio impegnarsi a non rivelare il loro nome (nei casi che richiedono questa precauzione); è opportuno spiegare il perché dell’intervista e rendere noto il nome del committente del lavoro, se presente.
L’incontro e la conoscenza tra il ricercatore e l’intervistato sono l’anteprima dell’intervista, un elemento indispensabile nel quale si manifestano gli aspetti più sensibili e critici della ricerca: in alcuni casi la responsabilità e il coinvolgimento del ricercatore sono grandi perché il suo lavoro non è un’anonima e dozzinale ricerca di mercato.
Quali caratteristiche devono avere le domande? Maciotti ritiene che le domande devono essere semplici e lineari sia quando l’intervistato è una persona colta, sia quando è un analfabeta. Un esempio eccellente di semplicità sono le interviste realizzate da Claude Lanzmann nel film Shoah: l’autore privilegia le domande semplici, senza ambiguità e sentimentalismi.
Una questione spesso sottovalutata ma di grande importanza è il “passaggio dall’oralità alla scrittura”. Dopo aver raccolto l’intervista si procede nella sua trascrizione cercando di rendere al meglio il parlato. Alcuni studiosi ritengono di non dover inserire la punteggiatura perché questa non è presente nelle parole dell’intervistato; al contrario Maciotti sostiene che alcuni interventi sono necessari per rendere l’intervista pienamente comprensibile e fruibile. È opportuno eliminare le espressioni del tipo “emm” “amm”, comuni nel linguaggio parlato, sostituendole con la punteggiatura e inserire i commenti del ricercatore direttamente nel testo tra parentesi. Infine nelle note conclusive si potranno descrivere brevemente le modalità di intervento operate.
La trascrizione pone problemi specifici relativi al campo della filologia e sono attuali le parole di Paola Carucci quando argomenta:
Come sempre capita nel campo della trascrizione, la scelta di un rigore filologico assoluto o temperato da qualche intervento di normalizzazione dipende anche dalle finalità cui è diretta l’edizione dei documenti (Barrera 1993, 16).
Dopo aver illustrato le caratteristiche del “fare interviste, raccogliere e restituire narrazioni” Maciotti si sofferma su una questione terminologica: la distinzione tra il termine testimonianza e narrazione. Nella prima fase della storia orale in Italia (anni Sessanta e Settanta) i ricercatori hanno avuto l’impressione di “dare voce alle persone prive di voce” e di compiere “un’opera socialmente giusta” raccogliendo le storie delle periferie della città e degli ambienti più difficili. Si è quindi insistito sull’aspetto delle testimonianze e sul loro valore che “ribaltava la versione della storia ed esprimeva una visione dal basso”.
Oggi, sostiene Maciotti, si preferisce parlare di narrazioni (e non di testimonianze) con la consapevolezza che “si è di fronte a narrazioni di eventi che sarebbero potuti essere anche diversi da quello che sono, se l’intervistato avesse raccontato prima e non a distanza di trent’anni un certo episodio”. Tuttavia la presenza dei ricordi non esatti o delle versioni non veritiere non sminuisce l’importanza delle narrazioni: si rende solo necessario comprendere le ragioni di tale fenomeno. Nel corso del seminario si è rilevato che i termini testimonianza e narrazione, vengono usati con sfumature diverse, come del resto accade per le espressioni di intervistatore, intervistato, informatore. Le accezioni adottate dai ricercatori corrispondono alle loro esigenze di studio.
Trattamento e conservazione delle fonti orali: questioni tecniche
Pietro Cavallari
Nel secondo giorno a introdurre la parte laboratoriale del convegno è stato Pietro Cavallari, che lavora all’Istituto centrale per i Beni sonori e audiovisi (ex discoteca di Stato – museo dell’Audiovisivo) dove si occupa della catalogazione e descrizione dei documenti audiovisivi ed è referente per la documentazione storica della collezione dell’Istituto e responsabile del gruppo di lavoro “Storia orale”. Nel suo brevissimo intervento ha ricordato come il convegno svoltosi a Roma nel 19864 abbia dichiarato l’intervista una fonte che assurge alla dignità di documentazione storica alla stregua delle fonti archivistiche. Ha quindi evidenziato come l’Aiso aiuti ad affiancare la raccolta della documentazione al lavoro con strumenti tecnologici, fornendo delle linee guida nazionali. Infatti nel momento stesso in cui si crea una fonte questa deve essere consultabile e a questo servono la catalogazione, che permette di comunicala ad altri, e la conservazione. L’avvento del digitale ha creato una rottura con il passato poiché ha determinato una serie di problematiche nuove tra cui l’obsolescenza dei supporti.
Gli interventi poi di Luciano D’Aleo e Marco Marcotulli hanno approfondito l’argomento, facendo luce sulle questioni tecniche che riguardano sia la registrazione in audio che in video.
Luciano D’Aleo
Luciano D’Aleo è responsabile dell’area della tutela e conservazione della collezione audiovisiva dell’Istituto centrale per i Beni sonori e audiovisivi del ministero per i Beni e le Attività culturali. Dopo aver introdotto le nozioni tecniche fondamentali del suono e i concetti di frequenza e intensità, D’Aleo è entrato nel vivo della questione parlando dei vari mezzi di registrazione sonora che possono essere utilizzati e dei supporti che possono loro essere affiancati. Il microfono è l’elemento cardine dal quale dipende buona parte della qualità della registrazione. Alcune volte potrebbe essere utile utilizzare due microfoni che, posizionati nel giusto modo, permettono di registrare i suoni in maniera più mirata e selettiva. In base alle esigenze e alle disponibilità, insieme al microfono possono essere utilizzati anche una serie di accessori, alcuni dei quali sono indispensabili. Ad esempio l’asta che fissa il microfono, la cuffia anti vento che limita i rumori di fondo e le cuffie monitor che permettono di ascoltare quello che si registra e che sono fondamentali per capire la qualità del suono in entrata. Inoltre, visto che un’intervista può durare anche diverse ore e in alcuni casi può svolgersi all’esterno, dove non sono presenti prese di corrente, è necessario avere delle batterie di ricambio.
Oggi esistono essenzialmente due tipi di registratori, quelli analogici e quelli digitali, che continuano a coesistere. In entrambi i casi ai vantaggi fanno da contrappunto agli svantaggi. Benché gli analogici siano ormai considerati obsoleti, vengono ancora molto usati, anche per la facilità con cui si possono reperire le audio cassette. I supporti digitali d’altro canto, se da un lato integrano in un unico dispositivo tutto ciò che può essere utile alla registrazione (microfono, registratore, ecc.) e permettono di salvare molte ore di audio, dall’altro non è detto che siano i più adatti alla conservazione.
Sta di fatto che importanti fondi sono tutt’ora conservati su supporti analogici con i quali bisognerà fare i conti per parecchio tempo. Per questo D’Aleo ribadisce più volte durante il suo intervento l’importanza di conservare sempre l’originale registrato su supporto analogico, poiché è ancora possibile recuperarlo, mentre su supporti digitali a volte non è possibile. Infatti, per quanto si pensi che il supporto ottico sia il più sicuro, in realtà è uno dei più fragili e deboli. Quindi, qualora un originale sia registrato su Cd, Dvd o memory card, è bene che venga riversato, magari in un hard disc esterno. Le cause della fragilità di Cd e Dvd sono molteplici, dalle caratteristiche dei diversi materiali che li compongono, alla loro sensibilità ai cambiamenti ambientali. Inoltre possono subire dei danni meccanici (a differenza di quello che comunemente si crede la parte più sensibile è quella superiore), e gli stessi pennarelli permanenti andrebbero utilizzati in una superficie ridotta, e solo nella parte centrale. Inoltre tanto maggiore è la quantità di dati che il supporto digitale può memorizzare, quanto più alto è il rischio di avere un grave danno ai dati. È quindi per questo che il danno aumenta se utilizziamo dei Dvd.
D’Aleo invita perciò ad essere cauti, “è importante essere sempre consapevoli degli strumenti che utilizziamo; i supporti tecnologici offrono molte possibilità, la cosa fondamentale è acquisire la consapevolezza della loro fragilità”. Per questo è fondamentale indagare quelli che lui definisce gli “aspetti grigi” degli strumenti a nostra disposizione.
D’altro canto l’avanzare continuo della tecnologia comporta la rapida obsolescenza dei diversi supporti e per questo dobbiamo necessariamente fare i conti con nuovi tipi di strumenti. L’importante è cercare sempre di utilizzarli bene e al meglio.
Dopo aver spiegato come avviene la digitalizzazione dei dati, introducendo il concetto di campionatura dei segnali analogici, D’Aleo arriva a spiegare il concetto di compressione dei dati. I registratori oggi in uso possono essere impostati su diversi tipi di compressione, ma è importante sapere che se è vero che maggiore è la compressione e meno fedele sarà il segnale registrato, è anche vero che più fedele è la registrazione più memoria viene occupata. Esiste una vasta gamma di segnali digitali compressi, il più diffuso dei quali è l’mp3. Questi sistemi di compressione sono detti “psico acustici adattivi”, poiché, come spiegato da D’Aleo,
tenendo conto del fenomeno di mascheramento che avviene naturalmente del nostro sistema cognitivo, si sono studiati quali segnali non vengono percepiti dai nostri orecchi. Quindi il sistema ha degli algoritmi che elimina quei suoni.
Internet ha favorito considerevolmente lo sviluppo di questi sistemi di compressione, tramite i quali i file audio possono circolare in rete più facilmente. Quindi le registrazioni compresse, mentre con le cuffie possono restituire un buon suono, con un impianto stereo di buona qualità mostrano i loro limiti. D’Aleo consiglia comunque di registrare sempre nel migliore dei modi e nella qualità migliore, altrimenti dopo non è più possibile migliorare l’audio.
È sempre importantissimo creare un file di backup del file originale e conservarlo in digitale in due modi, su un Cd o Dvd e su un hard disk, che per ora è considerato uno dei sistemi più sicuri per mantenere a lungo i dati.
Marco Marcotulli
Della stessa opinione è Marco Marcotulli, regista, documentarista e fotografo, il cui intervento, che ha seguito quello di D’Aleo, si è incentrato sulle questioni tecniche che riguardano le riprese video. Marcotulli precisa che esistono molti mezzi per poter salvare la videoregistrazioni, ad esempio sistemi raid che fanno automaticamente una copia di backup del materiale salvato nel computer. Inoltre prima che un sistema diventi obsoleto devono passare degli anni, durante i quali abbiamo tutto il tempo per prendere le dovute precauzioni. Quindi la responsabilità della perdita delle registrazioni non può essere imputata che a noi stessi, alla nostra incuranza e superficialità.
Anche il regista, come D’Aleo, invita a essere sempre consapevoli delle nostre azioni, dalle quali dipende buona parte del risultato del nostro lavoro. È bene ad esempio non cancellare mai l’originale analogico che può essere irripetibile perché i sistemi digitali sono soggetti a obsolescenza. Infatti le cassette miniDv dovrebbero essere sempre mantenute in archivio e, visto che Cd e Dvd sono molto labili per la conservazione dei dati, è bene che le registrazioni vengano subito riversati su un hard disk, il cui costo oggi non è elevato.
Marcotulli fa poi una breve panoramica dei programmi video esistenti, fra i quali i più usati sono .AVI e .mov.
Per quanto riguarda i mezzi di registrazione, possono essere acquistate telecamere che registrano bene a prezzi non elevati. Il problema spesso è il modo in cui vengono fatte le riprese. Il documentarista quindi, con l’aiuto di scene tratte da film famosi quali Apocalyps now, fa un breve panoramica delle regole per comporre l’immagine che possono aiutare a rendere la ripresa più gradevole. Infatti, decidendo l’inquadratura “non decidiamo solo quello che inquadriamo ma decidiamo soprattutto quello che togliamo”. È quindi buona norma, ad esempio, assecondare sempre il senso di lettura dell’immagine, come una pagina scritta, da sinistra a destra e dall’alto in basso. Cercare anche di seguire lo sguardo del soggetto. Tutto questo è importante in particolar modo se dobbiamo fare un’intervista ambientata e abbiamo la possibilità di scegliere l’ambiente, in questo caso si dovrebbe cercare di inquadrare l’intervistato nel contesto in una maniera gradevole. A questo proposito Marcotulli parla dell’importanza dell’“immagine sbilanciata”, che evita la monotonia data da una ripresa piatta; nel caso in cui il soggetto stia facendo un lavoro, si può mettere leggermente sbilanciato da una parte e dall’altra inquadrare quello che sta facendo.
Segue poi un breve excursus storico che ripercorre le tappe fondamentali dell’utilizzo del video come documentazione. Fino a pochi anni fa erano utilizzate quasi esclusivamente registrazioni audio in quanto i filmati erano abbastanza costosi e necessitavano dell’attività di più persone e operatori professionisti. Inoltre non si potevano fare interviste a presa diretta a causa del rumore fatto dalle macchine che fra l’altro, per le loro dimensioni, richiedevano studi televisivi. La situazione migliora con le cassette Vhs, che richiedevano ancora macchine abbastanza ingombranti ma i cui costi erano più accessibili. In questo caso però, mentre le cassette ad uso amatoriale erano meno costose ma di qualità inferiore, quelle ad uso professionale davano risultati molto buoni ma avevano prezzi elevati. La vera svolta si ha con l’avvento del digitale che ha permesso di effettuare riprese sul posto a costi minori. Con l’avanzare della tecnologia gli strumenti per registrare in digitale diventano obsoleti e questo ha fatto si che ci sia stato un miglioramento notevole nelle macchine, sempre più evolute e dai costi concorrenziali. La fascia di utenza quindi di queste attrezzature aumenta notevolmente e le spese di produzione sono ridotte quasi a zero. Basta infatti conoscere le nozioni basilari per poter effettuare una ripresa e un montaggio di buona qualità. Nell’arco di un paio di decenni quindi si è passati della pellicola al digitale e questo comporta l’utilizzo del computer.
Le riprese possono essere fatte in due formati: in 4:3 (il formato utilizzato dai televisori fino a pochi anni fa) e in 16:9 (il formato attuale).
I formati invece televisivi essenzialmente sono due, NTSC, usato in America, e il PAL, usato in Italia ed è importante conoscerne la differenza quando masterizziamo un Dvd che deve essere leggibile all’estero.
I supporti su cui andiamo a memorizzare i nostri filmati possono essere diversi in base alla telecamera che usiamo; le prime telecamere, come accennato in precedenza, usavano i nastri, adesso vengono usati le miniDv. Queste permettono di registrare fino ad un’ora di filmato in HD e sono state le più utilizzate fino a pochi anni fa. Hanno però il limite di essere soggette a usura; questo a causa della scarsa qualità del supporto che tende a rovinarsi, comportando la perdita dei dati. Per un certo periodo venivano utilizzate anche delle telecamere con miniHD interni ma erano poco pratiche sia per la lentezza nel riversare i dati che per la loro estrema fragilità. Oggi sono molto utilizzate le flash card, piccole schede di memoria su cui vengono memorizzati i dati e supportano diverse ore di registrazione in un buon formato. Queste presentano diversi vantaggi visto che sono molto resistenti, il costo dei supporti è contenuto e inoltre possono essere riversate in poco tempo.
Ad oggi quindi, il digitale permette di avere dei risultati buoni utilizzando un’attrezzatura minima. Non si deve dimenticare comunque che nella raccolta delle fonti orali conta soprattutto il rapporto che si instaura sin dall’inizio con l’intervistato. L’attrezzatura necessaria, per Marcotulli, si riduce quindi a due videocamere, un microfono esterno e il supporto per la videocamera. Diventa fondamentale compensare l’invadenza di questi strumenti con un buon approccio, entrando subito in sintonia con il soggetto. A questo proposito il fotografo dice una cosa molto importante, che non dovrebbe mai essere dimenticata dall’intervistatore: “Quando andiamo a raccogliere un testimonianza siamo noi che impariamo da lui [intervistato], è lui che ci da qualcosa e ci sta facendo un favore”.
Per quanto riguarda il microfono esterno, può servire a isolare i rumori del contesto se dobbiamo fare dei filmati in ambienti rumorosi, ma non è indispensabile nel caso in cui siamo in un interno e il microfono della telecamera è buono. È molto importante comunque verificare prima la resa audio, anche perché, come già accennato anche da D’Aleo, alcuni rumori non udibili dal nostro orecchio vengono invece catturati molto facilmente dal microfono.
Utilizzare una seconda telecamera invece può servire per registrare l’intervistatore, ma questa è una scelta soggettiva. Diventa importante se ad esempio dobbiamo realizzare un filmato da presentare ad un pubblico ampio. In questo caso possiamo effettuare il montaggio più facilmente utilizzando le diverse inquadrature. Inoltre ciò può aiutare a creare dei picchi di interesse, saltando anche i discorsi, montandoli in modo da richiamare l’interesse dello spettatore. Con l’aiuto di un secondo operatore si potrebbero anche fare inquadrature di alcuni particolari dell’intervistato, che arricchirebbero il documentario finale. Per quanto riguarda la disposizione delle telecamere, una andrebbe vicino al collo dell’intervistatore, così che sembri che l’intervistato guardi la camera, l’altra andrebbe messa in asse, che inquadra entrambi a mezzo busto.
Una disavventura che può capitare a chi registra delle interviste è, come la definisce Marcotulli, la “maledizione della telecamera spenta”, di cui parla anche Alessandro Portelli nel suo intervento. Cioè, al momento in cui la telecamera viene spenta, il testimone dice cose importantissime. Per evitare che ciò succeda al termine del colloquio sarebbe bene non spegnere la telecamera o il registratore, in modo da poter registrare anche tutti quei “suoni di vita” che fanno da corollario all’intervistato, che sono reali e possono essere utilizzati.
Un altro problema evidenziato dal documentarista nasce quando la persona tende ad auto rappresentarsi, cioè a telecamera accesa cambia tono di voce e sembra recitare; questo succede in maggior misura con i giovani rispetto ai vecchi e per rimediare a ciò si può, magari in un secondo momento, far tornare l’intervistato sullo stesso concetto, che potrebbe raccontare in un modo diverso.
Altro elemento da non trascurare è l’ambientazione dell’intervista. Marcotulli sottolinea l’importanza di lasciare la persona nel suo contesto, senza ricostruirlo rischiando altrimenti di creare uno scenario poco realistico, fondato solo sugli stereotipi dell’intervistatore. Per dare una dimensione all’immagine invece può essere utile far sì che dietro non ci sia il muro; a tal proposito mettere un oggetto prima e uno dopo al soggetto serve a dare profondità all’inquadratura.
Dopo aver realizzato l’intervista Marcotulli suggerisce di registrare a caldo tutte le informazioni sul lavoro fatto e archiviare poi questo file insieme agli altri dell’intervista. Ma il lavoro non é ancora finito fino a quando non si è riversato il filmato e non si è fatta una copia di backup su un apposito hard disc adibito solo a ciò. Oggi sono in vendita dei dispositivi di questo tipo a prezzi contenuti che permettono di archiviare molte ore di registrazione. Tutto questo lavoro a maggior ragione deve essere fatto subito se si tratta di miniDv, il cui rischio di deterioramento è considerevole.
A questo punto il montaggio può essere fatto con gli appositi programmi; il documentarista suggerisce Premier Adobe per il pc o Final Cat per il Mac.
Al termine del suo intervento Marcotulli con l’aiuto di un suo collaboratore ha mostrato come realizzare concretamente quanto detto. In questo caso sono stati impiegati una macchina fotografica che effettua riprese con una qualità molto elevata, un cavalletto, un microfono, e una luce.
Il regista ha inoltre mostrato un documentario da lui realizzato nel 1983 Canti lontani dal centro che, tramite la perfetta integrazione di interviste, documenti, fotografie, canti popolari e filmati di repertorio, racconta la Roma delle borgate e un mondo polare a noi ormai lontano.
La pubblicazione delle fonti orali: dall’esperienza di ricerca alla restituzione della fonte.
Alessandro Triulzi
Una serie di interventi nel corso dei tre giorni di convegno hanno evidenziato come pubblicizzare e rendere fruibili ad un ampio pubblico, anche di non specialisti, le fonti orali raccolte nel corso dei vari progetti di ricerca. A tal fine sembrano avere un particolare successo film, siti internet, libri, Cd, mostre e video-istallazioni nati proprio dalla raccolta di storie di vita.
Alessandro Triulzi è docente di Storia dell’Africa subsahariana presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Orientale. Da diversi anni si occupa di storie di vita e racconti di migranti. La sua esperienza con la storia orale inizia in Africa, a cavallo con la frontiera Etiopica, nell’ambito di una scuola di italiano. Qui non è lui a svolgere le interviste ma dei ragazzi del posto, adeguatamente preparati; questo sia per una questione linguistica che per annullare tutte le distanze e le reticenze fra intervistato ed intervistatore. Oggi Triulzi fa rivivere tale esperienza nell’ambito dell’associazione Asinitas che opera a Roma e Milano e si occupa di educazione e intervento sociale rivolto a minori e adulti, italiani e stranieri. Qui Triulzi nell’ambito del progetto “Archivio della memoria migrante” coordina un gruppo di ricerca che si occupa di raccogliere testimonianze, narrazioni e storie di persone provenienti da paesi africani. I contatti vengono presi ancora una volta all’interno della scuola di italiano, e anche qui sono molte le difficoltà da affrontare. Infatti i testimoni, essendo migranti, nel sottoporsi ad un’intervista mostrano tutte le problematiche sia metodologiche che etiche del caso. Molti di loro infatti sono clandestini e hanno dovuto affrontare situazioni estreme per venire nella nostra terra. Per questo è stato fondamentale ancora una volta creare un contesto d’ascolto adeguato, addestrando i migranti stessi a svolgere le interviste.
Lo scopo di questo progetto è quello di lasciare in qualche modo traccia del passaggio di queste persone in Italia. Come dice Triulzi:
Questo progetto cerca di dire loro voi siete persone che attraversano la società in un momento di transizione, siete pionieri in molti casi. Le vostre storie non sono riconosciute. Noi crediamo che queste storie siano importanti da conservare, noi vogliamo lasciare traccia dei vostri racconti a prescindere se siete clandestini o meno, rifugiati o meno.
Anche per questo il professore pensa che questo materiale debba entrare a far parte dell’Istituto centrale dei Beni sonori e audiovisivi. È importante infatti che siano gli emigranti a fornirci la loro rappresentazione di sé, e questo forse potrà essere utile in futuro anche ai loro figli, che così potranno ricostruire le vicende vissute dai padri in Italia.
La stessa scuola di italiano da loro la possibilità di parlare di sé e della loro vita prima di emigrare, servendosi di questi argomenti come strumenti linguistici.
Le interviste sono state fatte in più riprese, lasciando parlare quanto più liberamente i testimoni e cercando di ridurre al minimo le interruzioni. Sono fatte in italiano da chi conosce un po’ la lingua, oppure nella lingua dell’intervistato.
Triulzi ha evidenziato più volte quanto sia problematico rendere queste frequentazioni costanti. Per rendere possibile ciò spesso sono gli stessi volontari dell’Associazione a pagare loro i mezzi pubblici per arrivare alla sede, cercando così di rendergli meno difficile la vita in Italia.
Le interviste conservate sono per lo più registrazioni audio, anche per tutelare la privacy dei migranti.
Nel fare le trascrizioni delle interviste sono diverse le difficoltà riscontrate sia di ordine linguistico che culturale. Infatti in questo senso non possono essere trascurati i diversi significati che si celano dietro uno stesso gesto o espressione nelle diverse culture.
L’archivio quindi si trova ad affrontare problemi enormi sia etici che metodologici perché, come racconta Triulzi, “Sono soggetti che scompaiono, nel corso delle interviste, non vengono più, vengono imprigionati […] oppure gli succede qualcosa sotto i vostri occhi, praticamente mentre parlate con loro”.
Parallelamente alle raccolta delle interviste Triulzi e Asinitas hanno dato vita a una serie di attività. Hanno organizzato mostre e fatto film, insegnando agli stessi migranti a filmare. Uno di questi Come un uomo sulla terra del regista etiope Dagmawi Yimer, dopo aver avuto una diffusione capillare tramite i social network, è stato trasmesso dalla tv nazionale. Dal film, Paolo Castaldi ha tratto il fumetto Etenesh. L’odissea di un migrante (2011) e sta uscendo dello stesso regista il quarto film Benvenuti in Italia. Per Triulzi, interviste e film dovrebbero servire ad “allargare il livello di consapevolezza della società civile in Italia rispetto al dramma dei migranti” e infatti, nell’età dell’immagine, utilizzando questi strumenti si può giungere ad un pubblico ampio e diversificato. L’obiettivo di Triulzi e di Asinitas sarebbe quello di creare in un futuro prossimo un archivio multimediale nel quale custodire questo importante materiale.
Rosella Schilacci
Un altro lavoro dalle finalità simile è quello svolto da Rosella Schilacci, documentarista e ricercatrice, della quale a Genazzano sono stati presentati due documentari, Shukri. A new life e Approdi. Shukri è una ragazza somala di trent’anni che ha lasciato il suo paese e i suoi quattro figli, affrontando un pericoloso viaggio in zattera per cercare una vita migliore in Italia. La registra racconta la sua vita quotidiana nel nostro Paese e le tante difficoltà linguistiche e sociali che deve affrontare.
Approdi invece è un filmato multimediale di grande suggestione, realizzato dalla Schilacci insieme alla reporter Chiara Ceolin, dove si narrano le condizioni estreme in cui si trovano a vivere duecento rifugiati africani all’interno degli spazi della ex clinica San Paolo di corso Peschiera a Torino. Da segnalare in questo caso sono i suoni che fanno da sottofondo alle immagini, il “contesto sonoro” (di cui in seguito parlerà Enrico Grammaroli nel suo intervento) che fa parte della quotidianità di questi migranti.
Alessandro Cattunar
Alessandro Cattunar ha illustrato la pratica di utilizzo delle fonti orali nell’ambito di produzioni audiovisive e multimediali e, in particolar modo, l’utilizzo delle fonti orali in contesti di confine.
Le città di confine sono degli ambiti di ricerca molto interessanti per la storia orale perché da questi territori emergono una serie di problematiche legate all’identità e alla memoria che le fonti orali possono approfondite con risultati originali.
Dalla ricerca storica su Gorizia e il confine italo-sloveno che attraversa la città a partire dal 1947 (si veda Cattunar 2009a, 2009b), sono stati raccolti 50 racconti di vita, testimonianze aperte realizzate senza un questionario rigido “per lasciare il testimone libero di raccontare e strutturare la propria memoria”.
Il lavoro di Cattunar e dei suoi collaboratori ha fatto emergere dalle testimonianze una sorta di topografia della memoria nella quale i testimoni ricordano eventi, luoghi e vicende in relazione alla loro biografia e alla comunità di appartenenza.
Da sempre i monumenti e le targhe presenti sul territorio indicano la storia di una città ma come è possibile comunicare la storia della città in relazione ai “luoghi della memoria” espressi dalla sua comunità? I ricercatori si sono posti tale domanda ed hanno deciso di “restituire” le interviste raccolte in una triplice modalità: una ricerca accademica sviluppata all’interno di un dottorato di ricerca, un archivio della memoria e un museo diffuso della memoria sul territorio.
L’Archivio della memoria. Strade della memoria. Storie di vita e di popoli raccoglie testimonianze orali nella forma di video interviste, audio interviste e materiali fotografici. In particolar modo si è realizzato un portale per
rendere fruibile i racconti di vita in maniera completa e contestualizzata sia ai ricercatori, sia ad un pubblico ampio e generalizzato di cittadini e curiosi che hanno manifestato la necessità di ascoltare queste memorie del passato.
Da un punto di vista stilistico Cattunar si è proposto di “unire il rigore della catalogazione con la possibilità di consultare in maniera intuitiva i materiali” perché molto spesso le fonti orali si trovano nascoste all’interno di banche senza una precisa segnalazione. Seguendo gli standard nazionali proposti dall’ICCD si è realizzata una scheda catalografica completa in tutti gli aspetti che vanno a comporre l’intervista: i dati relativi al testimone, il contesto geografico, l’abstract, i percorsi bibliografici dell’intervista.
Si è cercato di realizzare un portale nel quale fosse possibile accedere non solo ad un documento, ma a tutto ciò che ruota intorno a quel documento e che permette di interpretare in maniera complessa il materiale esaminato.
L’archivio della memoria è un progetto in continua evoluzione e si propone di coinvolgere tra i suoi sostenitori enti pubblici, istituzioni, ricercatori e chiunque sia interessato alla salvaguardia della memoria storica.
Alessandro Portelli
Chiude la tre giornate romane Alessandro Portelli, professore di Letteratura americana alla Facoltà di Scienze umanistiche dell’Università La Sapienza di Roma e fra i massimi interpreti mondiali della storia orale. È uno dei fondatori del Circolo Gianni Bosio a Roma nel quale è archiviata, a partire dagli anni Sessanta, la più grande raccolta di materiali sonori, musicali e storici di Roma e del Lazio e che può essere considerato il principale archivio di storia orale popolare.
Il Circolo nasce come derivazione dell’Istituto Ernesto De Martino al quale ha dato vita Gianni Bosio, uno storico che ha colto nella musica popolare una fonte importante per narrare la storia delle classi “non egemoni”, come le definiva lui, a partire dalle loro stesse espressioni culturali.
Per Portelli un archivio non dev’essere solo un luogo di conservazione ma anche una “matrice di produzione” e per questo, riproponendo i materiali raccolti attraverso pubblicazioni, convegni e corsi di formazione, il Circolo diventa un mezzo di collegamento con il territorio.
Durante il suo intervento il professore ha presentato una sequenza di canti popolari che, insieme ad Enrico Grammaroli, ha selezionato per la realizzazione di un Cd con un libro. L’intento dell’opera è raccontare la storia dei castelli romani attraverso la musica, intrecciandola a frammenti di narrazione tratti da interviste da lui realizzate in un ampio arco di tempo, dagli anni Settanta ai giorni nostri.
Portelli, guidando all’ascolto di canzoni politiche come Mira la rondondella di Silvano Spinetti detto “Cicala”, mostra come una canzone che apparentemente sembrare leggera, in realtà ha uno spessore di storia e di relazione con la storia notevole. Il testo della canzone nomina vari esponenti politici di periodi diversi (Longo, Berlinguer, Nenni, Togliatti…) e sembra essere un palinsesto, infatti è stato composto alla fine degli anni Quaranta ma è stato progressivamente aggiornato, adattandolo alla storia politica del presente. Le trasformazioni di questa semplice canzone fanno emergere un certo tipo di “relazione con la storia” e il fatto che venga mantenuta la memoria cercando di portarla fino al presente.
Portelli ricorda come nelle prime interviste fatte negli anni Settanta a Genzano (che veniva definita l’altra Mosca per il sostengno al Partito comunista), Albano, Ariccia e Velletri, si tendesse a rivendicare orgogliosamente una lunga strada nella propria identità politica. Quando però, in tempi recenti, mette mano a questo materiale per pubblicarlo, si rende conto che la situazione in quei luoghi è molto cambiata. Genzano può essere ancora ritenuta la piccola Mosca ma gli altri paesi dei castelli considerati rossi negli ultimi quindici anni hanno avuto amministrazioni di destra. È intervenuto quindi un cambiamento profondo di cui si deve tenere conto per non presentare una realtà falsa o dal solo valore di memoria. “Il graduale trasformarsi di piccola proprietà contadina alla fine ha, in qualche modo, inciso sul tipo di società, sul tipo di organizzazione e di entità politica”. Le interviste più interessanti, non riportate nel Cd, risultano quelle sulla caduta dell’Unione sovietica e del Partito comunista, la cui utopia si credeva venisse realizza. Questo ha lasciato la gente senza più orientamento e ha influito notevolmente sulla tradizione storica di quei luoghi; la tradizione del canto politico, ad esempio, si è persa. Ma per Portelli “il lavoro sulla memoria è anche il lavoro sulla storia della memoria, e cioè cosa hanno pensato, in cosa hanno creduto nel corso del tempo” queste persone e riportare ideali che in seguito si sono rivelati utopici e sbagliati significa anche indagare cos’ha significato questo errore di sensazione per una società. Nella storia orale è sempre necessario arrivare fino al presente perché “la storia orale è essenzialmente un rapporto fra presente e passato”. Per questo il professore da un paio di anni ha deciso di ritornare in quei luoghi e effettuare nuove interviste, aprendo una nuova fase della sua ricerca.
Da una parte di questo lavoro nasce il libro con il Cd che a breve sarà pubblicato.
Enrico Grammaroli, che si è occupando della parte sonora del Cd, ha illustrato le principali difficoltà che si possono riscontrare nel realizzare un lavoro di questo tipo. Una su tutte è quella di trasformare delle registrazioni (in questo caso più di cinquanta) anche molto diverse fra loro, in un unico racconto. Diverse cronologicamente, poiché vanno dal 1900 fino ai giorni nostri, per tipologia, in quanto si succedono parlato e cantato, e per temi, che spaziano dall’amore alla politica.
A caratterizzare quest’opera però, come tiene ad evidenziare Grammaroli, è il “contesto sonoro estremamente vitale e descrittivo di un mondo che c’era dietro a quelle canzoni” e che lui ha insistito affinché rimanesse intatto. Mentre in molti casi si tende a produrre delle registrazioni “perfette”, non disturbate da rumori esterni, Alessandro Portelli e Gianni Bosio hanno insegnato ad accendere il registratore e continuare a riprendere, compresi i rumori di fondo e il parlato che precede e segue determinate canzoni. E questo è quello che definisce lo stile di ricerca del Circolo Gianni Bosio.
Per facilitare l’ascolto hanno cercato di selezionare brani più comprensibili, integrando inoltre l’audio con i testi pubblicati nel libro.
A conclusione dell’incontro Portelli ribadisce un concetto su cui più volte si è tornato a parlare durante le tre giornate e cioè quanto sia importante non spegnere il registratore al termine dell’intervista, quando il soggetto spesso, inaspettatamente, si abbandona a racconti bellissimi che altrimenti sarebbero persi per sempre. Infatti “l’intervista è importante anche perché tende sempre ad allargare i termini del discorso, comincia sempre prima e finisce sempre dopo”. “Molte delle cose interessanti cominciano quando l’intervista è finita, cioè quando si chiude la fase formale della narrazione ‘storica’ e si comincia a parlare del più e del meno” (Portelli 2005). A questo punto il ricercatore potrebbe trovarsi di fronte a narrazioni che lo portano ad ampliare l’abito della sua ricerca o a trasformare completamente il suo punto di vista.
Conclusioni
Il convegno si è concluso con il proposito da parte dell’Aiso di realizzare in futuro altri incontri di questo tipo, rendendolo quindi un appuntamento periodico, che diventi punto di riferimento, oltre che occasione d’incontro e confronto, sui tanti temi che vertono attorno alla storia orale.
A fare da filo conduttore nei tre giorni trascorsi nella bellissima Genazzano, oltre ai temi trattati e all’interesse comune per la storia orale, è stata sicuramente la passione che spinge chi si occupa di questa materia a perseverare nel proprio lavoro. Lavoro spesso non facile a causa delle tante difficoltà, soprattutto di ordine economico, che si possono incontrare ma molto prezioso, che va non solo conservato al meglio ma anche fatto conoscere e tramandato nel migliore dei modi.
Biografia
Bibliografia
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1968 Il contadino polacco in Europa e in America, Milano, Edizioni di comunità.
Siti consigliati
Sito dell’Associazione Italiana di Storia Orale.
http://www.asinitas.org/home.html
Associazione Asinitas che si occupa di educazione e intervento sociale rivolto a minori e adulti, italiani e stranieri.
http://comeunuomosullaterra.blogspot.com/
Blog tratto dal film Come un uomo sulla terra di Dagmawi Yimer e Andrea Segre (60’, 2008).
http://www.azulfilm.com/shukri.html
Shukri. A new life, documentario di Rossella Schilacci (HD 22’, 2010).
http://www.azulfilm.com/landing.html
Approdi/Landing, filmato multimediale di Chiara Ceolin, Fulvio Montano e Rossella Schillaci (HDCAM 6’, 2011).
http://www.circologiannibosio.it/
Sito del Circolo Gianni Bosio di Roma.
http://www.aisoitalia.it/metodi-e-strumenti/registrare/
Alessandro Portelli, L’uso dell’intervista nella storia orale, in www.aisoitalia.it.
http://www.aisoitalia.it/2009/01/un-lavoro-di-relazione/
Alessandro Portelli, Un lavoro di relazioni: osservazioni sulla storia orale, in www.aisoitalia.it, n.1, gennaio 2010.
http://www.icbsa.it/index.php?it/22/attivit-culturali/29/
Atti del convegno L’intervistato strumento di documentazione. Giornalismo, antropologia, storia orale che si è svolto a Roma dal 5 al 7 maggio1986, in www.icbsa.it.
http://www.stradedellamemoria.it/
Strade della memoria. Storie di vita e di luoghi è un portale che raccoglie e mette a disposizione degli utenti un vasto patrimonio di testimonianze orali e (audio)visive con particolare attenzione alle aree di confine.
http://dornsife.usc.edu/vhi/italian/
USC SHOAH FOUNDATION INSTITUTE for visual history and education. Italian portal.
http://www.archiviovideodistoriaorale.it/parcoamiata/
Parco Nazionale Museo delle miniera dell’Amiata. Interviste video ai minatori del Monte Amiata.
http://www.laboratoriodistoriasociale.eu/
Laboratorio di storia sociale “Memoria del quotidiano” (Università di Bologna, Polo di Rimini).
Filmografia
Ceolin C., Montano F., Schillaci R.
2011 Approdi / Landing.
Lanzmann C.
1985 Shoah.
Schilacci R.
2010 Shukri. A new life.
Contenuti correlati
- Giovanni Contini è responsabile della sezione Archivi Audiovisivi della Sovrintendenza Archivistica della Toscana. [↩]
- L’istituto ha raccolto, a partire dal 1994, 52.000 video testimonianze dei sopravvissuti allo sterminio nazista nei campi di concentramento e sterminio e promuove l’uso delle testimonianze come strumento educativo. [↩]
- “Non sempre le fonti tradizionali e le fonti orali sono incrociabili e comparabili le une con le altre, infatti in alcuni casi si muovono su piani diversi, incomunicanti anche quando la realtà da studiare è sufficientemente limitata e le due fonti sembrerebbero destinate a dialogare proficuamente […] Tuttavia in alcuni casi l’incrocio tra fonti tradizionali e le fonti orali è possibile: le fonti orali permettono di spiegare ciò che veniva solo descritto dalle fonti tradizionali, infatti le fonti orali sono per loro natura pedagogiche ed esplicative mentre le fonti demografiche si prestano più alla descrizione e quantificazione” (Contini 1993, 32)”. [↩]
- Convegno L’intervista strumento di documentazione. Giornalismo, antropologia, storia orale, Auditorium della discoteca di Stato, Roma, 5-7 maggio 1986. [↩]