L’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia. Una retrospettiva storico-giuridica

di Carlo Mercurelli

Introduzione

Il concetto di obiezione di coscienza è di difficile definizione poiché «attiene sia al diritto, sia alla politica, sia all’etica»1 e in considerazione della sua multidimensionale articolazione è piuttosto complesso delineare una enunciazione univoca del suo significato. «In via di prima approssimazione», il carattere polisemico del concetto di obiezione di coscienza si può definire come il «rifiuto di obbedire a un imperativo categorico giuridico in nome di un imperativo etico che è radicato nella coscienza e che la coscienza ritiene dotato di una forza obbligante superiore. Obiezione di coscienza è proprio questo “obicere”, questo gettare contro l’imperativo giuridico un altro imperativo che scaturisce da una legge diversa, ritenuta superiore dalla coscienza»2.

L’atteggiamento dell’obiettore non si esaurisce, però, nel solo rifiuto al servizio militare: esso è «un concetto molto più vasto», che attiene alla formazione di quel foro interiore, in cui si esprime «la radice dell’io». La coscienza rappresenta quel «“luogo” in cui la persona si costruisce e cresce», assume ben precisi valori («una certa idea di uomo» e «un certo ideale di vita») e sulla base di alcuni «punti di riferimento esistenziali», legifera in merito al suo comportamento nella società3. La coscienza è, insomma, «l’organo delle scelte», l’ambito in cui ogni uomo, [sulla base di principi ritenuti vincolanti], sottopone «a vaglio critico impulsi e sollecitazioni ad agire»4, si misura, di volta in volta, con le imposizioni della legge e con gli ordini delle autorità giuridicamente riconosciute, proponendo un’alternativa al comando eteronomo in contrasto con il principio regolatore della sua morale.

L’obiezione di coscienza può perciò esprimersi in molteplici modalità5, ma il campo d’indagine del nostro studio si limiterà all’esame dell’opposizione nei riguardi del servizio militare, il cui «elemento specifico […] è il rifiuto dell’uso delle armi, il rifiuto della violenza, l’applicazione, coerente fino all’estremo, dell’imperativo morale “non uccidere”»6.

L’obiezione di coscienza contro il servizio militare consiste, come affermò Aldo Capitini, nell’«opposizione a partecipare alla preparazione e all’esecuzione della guerra», rifiutando ogni aspetto che, direttamente o indirettamente sia ad essa riconducibile, come ad esempio lavorare alla «fabbricazione di munizioni» e di materiale bellico7. Per l’intellettuale umbro «l’obbiezione di coscienza verso il servizio militare nella storia […] si fonda su due tipi di ragioni. Il primo tipo è di non riconoscere a nessuno e nemmeno allo Stato il diritto di costringere un uomo ad agire contro la propria coscienza. Il secondo tipo è di porre come superiore al potere dello Stato il rapporto amorevole con tutti gli esseri umani, nessuno escluso»8.

Nel corso della storia numerosi sono stati i casi di opposizione all’impegno militare. Pensiamo, ad esempio, tra i tanti, al celebre rifiuto di San Massimiliano9 nel III secolo d.c., all’episodio, accaduto a Rimini, del 1221, che vede protagonisti i Terziari francescani10, alle iniziative, durante l’età moderna, degli Anabattisti, dei Mennoniti e dei Quaccheri, nonché alla formazione, nel XX secolo, di specifici gruppi, come il Movimento internazionale della Riconciliazione (MIR), sorto in Inghilterra nel 1914, e l’Internazionale dei Resistenti alla guerra (W.R.I), la cui prima cellula nasce in Olanda nel 1921.

Il presente scritto non può certo prendere in esame la complessità di una vicenda così ampia, ma si propone l’intento – certamente non meno ambizioso – di ripercorrere alcune vicende esemplari di obiettori che, nel corso del Novecento, con il loro coraggio e il loro personale sacrificio, hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica italiana sul tema, favorendo l’azione legislativa che nel 1972 ha garantito una strada alternativa al servizio di leva.

  1. Obiezione e prima guerra mondiale: Luè, Gagliardi e Cuminetti

In Italia l’obiezione di coscienza al servizio militare conosce la sua prima aperta manifestazione agli inizi del Novecento, per iniziativa di «un umile zoccolaio» lombardo, Luigi Lué11. Lo storico Amoreno Martellini ricorda come durante una delle visite del professor Edmondo Marcucci presso l’abitazione romana di Tatiana Tolstoj, il pacifista umbro ha modo di prendere in esame una «cartolina illustrata indirizzata allo scrittore [russo], datata 1908. Sul retro si potevano leggere frasi scritte in italiano: erano parole di devozione e di entusiasmo per le idee pacifiste e per la pratica della nonviolenza e vi era formulato il proposito di rifiutare il servizio militare. Il mittente della cartolina era» appunto Luigi Luè12. La maturazione delle idee nonviolente nel suo animo, scrive Martellini, ha «una gestazione molto lunga: iniziata all’alba del Novecento quando, militare di leva, si era trovato a fronteggiare dei contadini in sciopero, con il brigadiere che minacciava di aprire il fuoco, e culminata nel clima rovente e drammatico della Grande Guerra quando, richiamato alle armi, si era rifiutato di indossare la divisa ed era stato perciò trascinato davanti alla corte marziale»13. In quella circostanza Luè viene condannato a sette anni di detenzione, iniziando un doloroso calvario che conosce non solo la reclusione, ma anche lunghe sedute presso «ospedali psichiatrici» e periodi di «lavori forzati alle saline di Margherita di Savoia»14.

La vicenda processuale del coraggioso ciabattino di San Colombano si conclude a seguito di un altro processo, istruito a suo carico, in cui Luè, alla domanda del giudice istruttore, che lo interroga circa i motivi della sua ostinata obiezione al servizio militare, risponde: «Primo: per ubbidire alla legge di Dio; e secondo per protestare contro gli uomini cattivi, malvagi ho [sic] incoscienti; perché dicono e scrivono che Tolstoj è pazzo»15. Proprio il richiamo al grande romanziere russo, spinge il presidente della corte militare a chiedere all’imputato se avesse letto per davvero le opere di Tolstoj, ricevendo da Luè una ironica replica: «Signor Presidente, se non avessi letto le sue opere non sarei qui davanti a loro Signori Ufficiali»16. Il processo si conclude con una condanna ad un anno di reclusione, in aggiunta ai sette della precedente sentenza. L’obiettore, però, sconta la sua pena detentiva solo per altri due anni, in virtù dell’amnistia promulgata da Francesco Saverio Nitti nel 1919.

Una vicenda analoga a quella di Luè, è quella vissuta dal piacentino Giovanni Gagliardi, un altro giovane obiettore della Grande Guerra17. Nel 1915 Gagliardi, ricevuta la chiamata alle armi, decide di non presentarsi presso il suo distretto militare, motivando la sua decisione con una lettera in cui «condanna la guerra ed esprime chiaramente il proposito di non indossare alcuna divisa». Il colonnello medico che segue il caso, da un lato, probabilmente, intuisce le ragioni del Gagliardi, dall’altro, consapevole dei rischi, a cui il giovane «può andare incontro, trova una scappatoia», riuscendo a procurargli un rinvio. Trascorsi i termini della proroga, giunge la nuova chiamata, a cui il fisarmonicista emiliano risponde «allo stesso modo», mettendo così in moto la triste prassi riservata agli obiettori: «commissioni, interrogatori, insulti, prigione, tentativi di persuasione» e l’internamento, per circa 400 giorni, presso gli ospedali psichiatrici di Piacenza, Reggio Emilia e Roma18. Il periodo di rigida ed inumana reclusione -che, però, gli evita il plotone d’esecuzione- comminatogli «nella speranza di farlo recedere dalle sue convinzioni», vede Gagliardi impegnato nella scrittura a comporre il pamphlet Guerra e coscienza, in cui l’autore delinea «i suoi convincimenti ideali»19. A conclusione del primo conflitto mondiale, Gagliardi rimane ancora in manicomio e solo l’interpellanza parlamentare del deputato socialista Armando Bussi, gli consente il rientro nella società20.

Un altro caso di obiezione di coscienza, verificatosi durante la prima guerra mondiale, riguarda il piemontese Remigio Cuminetti, nato nel 1890 a Piscina, nei pressi di Pinerolo, in provincia di Torino. Fin da ragazzo mostra una «fervente devozione religiosa», ma solo a seguito della lettura dell’opera di Charles Taze Russell (ispiratore del Movimento dei Testimoni di Geova), Il divin piano dell’Età, trova la sua autentica dimensione spirituale, che vanamente aveva ricercato nelle «pratiche liturgiche» della chiesa di Roma21. Il distacco dal cattolicesimo lo induce ad unirsi agli Studenti Biblici di Pinerolo, iniziando così il suo personale percorso di predicazione.

Allo scoppio della prima guerra mondiale, Remigio lavora presso la catena di montaggio delle officine meccaniche Riv, a Villar Perosa, in provincia di Torino. L’azienda, che produce cuscinetti a sfera, viene dichiarata dal governo italiano ausiliaria di guerra e di conseguenza, scrive Martellini, si impone «la militarizzazione delle maestranze»: «agli operai viene […] infilato un bracciale con le identificative dell’esercito italiano che ne sancisce di fatto la subordinazione gerarchica alle autorità militari, ma viene al contempo concesso loro l’esonero permanente dal servizio miliare attivo»22. Per molti ragazzi si tratta di un vantaggioso espediente per sfuggire al fronte, ma non per Cuminetti che, in ottemperanza alle indicazioni bibliche, sa di non dover collaborare, sotto qualsiasi forma, alla preparazione della guerra. Il giovane testimone di Geova decide perciò di licenziarsi e, puntualmente, di lì a qualche mese, riceve la cartolina precetto per recarsi al fronte.

Al rifiuto di indossare la divisa, si apre per Cuminetti il processo presso il Tribunale militare di Alessandria, che -come scrive Alberto Bertone- nel testo della condanna fa chiaro riferimento ai «motivi di coscienza addotti dall’obiettore: “Si rifiutò dicendo che la fede di Cristo ha per fondamento la pace fra gli uomini, la fratellanza universale, che […] quale convinto credente in quella fede non poteva né voleva indossare una divisa che è simbolo della guerra e cioè l’uccisione dei fratelli (così egli chiamava i nemici della patria)”»23. La vicenda umana di Cuminetti conosce, a seguito della sentenza, «il consueto tour fra le carceri» di Gaeta, Regina Coeli e Piacenza, l’internamento nel manicomio di Reggio Emilia e numerosi tentativi di ridurlo all’obbedienza, a seguito dei quali, decide di «entrare nel corpo della Sanità militare come portaferiti»24. Finita la guerra, Cuminetti riprende la predicazione, ma con l’avvento del fascismo, il testimone di Geova, sottoposto alle solerti attenzioni dell’OVRA, è costretto ad operare in un regime di clandestinità. Muore a Torino il 18 gennaio del 1939.

  1. Obiettori durante il ventennio

Durante il ventennio fascista, due storie, tra le altre, mostrano come in Italia, nonostante il quadro repressivo del regime dittatoriale, la fiamma dell’obiezione alla guerra sia ancora viva: quelle di Claudio Baglietto e di Josef Mayr-Nusser.

Particolare clamore desta la scelta del primo25 che, recatosi in Germania nel 1932, per motivi di studio, ripara l’anno successivo, causa l’avvento di Hitler al potere, in Svizzera, rifiutando di rientrare in patria, poiché matura la convinzione della doverosità dell’obiezione di coscienza nei confronti del servizio militare. Baglietto, come ricorda Capitini, lega indissolubilmente la sua decisione al sentimento d’«amore per ogni uomo in quanto tale» e alla conseguente esclusione «che si possa odiare ed avere antipatia per un uomo qualsiasi»26. Nella scelta di esule, compiuta dallo studioso ligure, che morirà precocemente a Basilea nel 1940, è evidente una chiara matrice religiosa, che lo porta ad andare oltre la «contingenza politica del momento» e ben al di là della «dialettica fascismo-antifascismo»27. Quella decisione, infatti, non è riconducibile al contrasto, che pur egli sente, nei confronti del regime di Mussolini, ma nasce dalla sua opposizione nei riguardi del «servizio militare» e da ciò che «esso implica»: «io -afferma Baglietto- in Italia non tornerei qualunque regime ci fosse, anche liberale o di sinistra quanto si può pensare, quando ci fosse il servizio militare obbligatorio. E così non tornerei in patria, essendone fuori, se fossi cittadino francese, o svizzero, o belga, e di quasi tutti gli stati del mondo»28.

Altrettanto radicale, ma dai contorni più drammatici, è la vicenda dell’altro obiettore, il bolzanino, Josef Mayr-Nusser29. Di formazione cattolica30, Mayr-Nusser si distingue, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, per un notevole impegno nella sua diocesi, organizzando una serie di incontri e dibattiti, tesi a sensibilizzare la comunità cattolica altoatesina sull’impegno che ogni buon cristiano deve compiere in una fase così tragica per l’Europa sempre più compressa nella perniciosa spirale dei totalitarismi. Nei suoi interventi fa esplicito riferimento al pericolo rappresentato da quel «culto del leader che rasenta l’idolatria», mettendo in luce che ogni forma di esaltazione «della personalità è estranea» al movimento cattolico31. Dinanzi all’incedere delle forme più esasperate dei regimi dittatoriali, il giovane bolzanino coglie, in maniera lucida, l’avvicinarsi di «capovolgimenti di enormi dimensioni» e, intuendo a pieno la drammaticità che sta per abbattersi sull’Europa, afferma:

«Siamo noi giovani cattolici in grado di distinguere correttamente questi segni di una nuova epoca? Siamo in grado di cogliere, per così dire, l’opportunità che oggi si offre al cattolicesimo? Più che mai nell’Ac di oggi è necessaria una cattolicità pratica, vissuta»32.

Il richiamo all’impegno, con l’intento – scrive Vanzan – di «spingere i cattolici a schierarsi e ad uscire dallo stato di torpore in cui erano caduti, per opporsi al dilagare dell’ideologia nazista»33, si associa in Mayr-Nusser all’itinerario etico di definire quale dovesse essere, in quella congiuntura così problematica, l’azione del cristiano. Francesco Comina sottolinea che il coraggioso giovane cattolico comprende che «la sequela Christi non sta rinchiusa nei manuali di teologia e di dogmatica», ma «si nutre della testimonianza individuale o di gruppo» e che perciò «muoversi sulla linea del Vangelo significa rigettare ogni forma di violenza, di aggressività, di dispotismo»34. A tal proposito, in un intervento del gennaio del 1938 sulla rivista “Jugendwatch”, periodico della Gioventù Cattolica sudtirolese, Mayr-Nusser afferma:

«Dare testimonianza oggi è la nostra unica arma efficace […]. Né la spada, né la forza, né finanze, né capacità intellettuali, niente di tutto ciò è posto come condizione imprescindibile per erigere il regno di Cristo sulla terra. È una cosa ben più modesta e allo stesso tempo ben più importante che il Signore ci richiede: dare testimonianza»35.

Mayr-Nusser offre l’esempio più alto di testimone di Cristo in uno dei momenti più drammatici nella storia del nostro Paese, allorquando, dopo l’8 settembre del 1943, le truppe naziste irrompono sui territori del Regno d’Italia. L’invasione tedesca per i sudtirolesi presenta caratteri tragici, in quanto su ordine di Hitler – «nonostante le convenzioni internazionali vietassero alle potenze occupanti di arruolare nel proprio esercito uomini di un Paese occupato»36 – le truppe dell’esercito tedesco, con estrema violenza, eseguono un reclutamento forzoso dei cittadini italiani. Tra i tanti viene coartato anche Josef che, nel settembre del 1944, è immesso su un carro bestiame in direzione Könitz, località della Prussia Orientale, designata per l’addestramento, dove giunge dopo quattro giorni di viaggio estenuante. I deportati, come ricorda Vanzan, «sistemati in un vecchio manicomio dismesso», affrontano «tre settimane di addestramento» al termine delle quali «era previsto il giuramento a Hitler»37. Mayr-Nusser, sicuro che mai lo avrebbe pronunciato, dal momento che la weltanschauung nazista rappresentava l’esatta antitesi del messaggio evangelico, il 27 settembre scrive alla moglie Hildegard, preparandola alle gravi conseguenze di tale rifiuto, poiché – come scrive Vanzan – «sentiva […] l’impellenza di tale testimonianza ineluttabile»:

«due mondi si stanno scontrando. I miei superiori hanno mostrato chiaramente di rifiutare e di odiare quanto per noi cattolici vi è di più sacro e intangibile. Prega per me, Hildegard, affinché nell’ora della prova io agisca senza timori o esitazioni, secondo i dettami di Dio e della mia coscienza. […] Qualsiasi cosa possa avvenire, ora mi sento sollevato, perché so che sei preparata e la tua preghiera mi darà la forza di non fallire nell’ora della prova»38.

Il 4 ottobre, al termine dell’addestramento, mentre un sottufficiale delle SS ripete alle reclute il testo del giuramento di obbedienza al Führer39, Mayr-Nusser, con voce ferma, dichiara «Signor maresciallo, io non posso giurare fedeltà a Hitler»40. Motivata per iscritto la sua scelta religiosa41, il giorno seguente il coraggioso Josef viene rinchiuso in carcere e quindi trasferito nella prigione di Danzica in attesa del processo che, nel gennaio del 1945, stabilisce il suo trasferimento nel campo di concentramento di Dachau. Il giovane altoatesino, stremato a causa delle durissime condizioni carcerarie e dagli estenuanti spostamenti42, muore il 24 febbraio ad Erlangen.

Mayr-Nusser, che è il primo obiettore di coscienza cattolico italiano, attraverso il suo martirio offre a tutti gli uomini, come afferma Francesco Comina, «un ripensamento radicale del nostro essere al mondo come cittadini responsabili davanti alle sfide materiali». La sua testimonianza di pace «è il risultato di un’esistenza vissuta in un totale spirito evangelico». Non è stato «un’intellettuale pacifista»43, ma ha saputo leggere le tragiche vicende del suo tempo, operando una scelta di estremo sacrificio in ragione di quelle istanze di amore verso ogni uomo, che il giuramento nazista gli avrebbe fatto sconfessare.

  1. L’obiezione agli albori della Repubblica: Pietro Pinna

A seguito della conclusione della vicenda bellica – con la conseguente elaborazione del nuovo dettato costituzionale, e con la definizione del quadro istituzionale della neonata Repubblica italiana -, la questione dell’obiezione di coscienza si pone, con maggiore rilievo (rispetto alla fase storico-politica del Regno d’Italia) al centro del dibattito del pacifismo italiano, assumendo una sua importanza nell’agenda della politica nazionale.

Nel Paese, l’opposizione al servizio militare desta l’interesse di una parte considerevole dell’opinione pubblica, a partire dall’agosto del 1949, allorquando, nel tribunale militare di Torino, si svolge il processo contro l’obiettore di coscienza Pietro Pinna44.

Ragioniere, impiegato presso la Cassa di risparmio di Ferrara, Pietro Pinna -«nato da genitori sardi a Finalborgo -Savona- il 4 gennaio del 1927 e residente a Ferrara»- viene chiamato alle armi nel settembre del 1948 e assegnato «alla settima Compagnia degli allievi ufficiali» di Lecce45. Dopo pochi mesi il giovane matura la sua crisi di coscienza, esponendo per iscritto, a seguito di alcuni colloqui con le autorità militari, le ragioni della sua obiezione al servizio militare. La deposizione di Pinna46 è inviata al Ministero della Difesa che, dopo aver stabilito il ritiro della recluta dal corso allievi ufficiali, decide di inviarla al C.A.R. di Casale Monferrato. Raggiunta la nuova destinazione, il giovane ferrarese rinnova la sua obiezione, rifiutandosi di prender parte alle esercitazioni militari. Per questo atto di insubordinazione, Pinna viene deferito al tribunale militare e in attesa del processo, si aprono per lui le porte del carcere e quel terribile iter, fatto di «interrogatori, di esami fisici e psichiatrici»47, in cui già si erano imbattuti i primi obiettori italiani.

Il processo si svolge, come detto, il 30 agosto del 1949, «in una piccola aula del Tribunale di Torino»48, nella quale, a seguito della fase dibattimentale49, la sentenza del giudice militare, il generale Giuseppe Ratti, stabilisce una condanna a dieci mesi di reclusione col beneficio della condizionale. Prima del verdetto -in cui, come pone in luce Martellini, «il giudice militare volle far intendere che aveva compreso le profonde motivazioni e la buona fede dell’obiettore, ma non poteva non reprimere un reato che rischiava, a suo modo di intendere, di minare le basi della convivenza sociale»50– l’imputato rende la sua dichiarazione finale, ponendo in luce le ragioni della sua obiezione di coscienza:

«Nessuna legge deve cercar di violentare la coscienza di un individuo al punto da impedirgli di realizzare i suoi destini, di vivere per quei principi a cui si sente nato e nei quali trova la sua ragione di esistenza come uomo. Mi si dice che il dovere di ogni cittadino è innanzitutto quello di servire la patria. Ma io non mi sogno neppur lontanamente di rifiutarmi a questo. Chiedo soltanto che la patria realizzi un servizio in cui i suoi figli non siano costretti a tradire i principi della loro coscienza di uomini ed essi allora (ed io con loro, primo) saranno felici ed onorati di servirla e di donarlesi»51.

La pena, comminata al giovane obiettore, non archivia, tuttavia, la sua vicenda, poiché a seguito della scarcerazione, si riapre per Pinna il confronto con le leggi vigenti. Ricevuta una nuova cartolina precetto, che gli intima di presentarsi al 10° C.A.R. di Avellino, Pinna rinnova il suo gesto di disubbidienza, che riavvia l’atroce spirale di «discorsi e colloqui», accanto a «tentativi di risolvere la cosa con compromessi […], senza tener conto» della sua «precisa affermazione» e della ferma volontà di opporsi a qualsiasi mansione correlata, direttamente o indirettamente, con la guerra52. L’ostracismo del giovane ferrarese a qualsivoglia tipo di cedimento morale, lo porta nuovamente a conoscere le durezze del regime carcerario e, soprattutto, a dover subire la celebrazione di un processo lampo, che lo condanna ad altri otto mesi di reclusione, da scontare nel carcere di Sant’Elmo a Napoli. Nella circostanza, come ricorda Martellini, «i giudici militari agirono con tanta fretta che non fu possibile all’imputato chiamare i suoi difensori di fiducia (il solo Umberto Calosso poté assistere al processo) e gli venne così consegnato un difensore d’ufficio che “fece una carica a fondo contro l’obiezione di coscienza”»53.

Le gravi irregolarità del processo spingono l’onorevole Calosso, da un lato, a presentare un’interpellanza parlamentare sul caso, dall’altro, a formalizzare, insieme al democristiano Igino Giordani, la prima proposta di legge dell’Italia repubblicana per il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza. La vicenda Pinna inizia, inoltre, ad assumere un risvolto che va ben oltre i confini nazionali, quando, alcuni giorni dopo l’iniziativa degli onorevoli Calosso e Giordani, arriva sui tavoli del Presidente della Repubblica -Luigi Einaudi- e del Presidente del Consiglio dei Ministri -Alcide De Gasperi- un appello firmato da ventitré parlamentari inglesi, in cui si chiede la scarcerazione del giovane obiettore ferrarese e l’adozione di una legge che riconosca il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare. La questione diventa, insomma, fin troppo spinosa ed imbarazzante per l’esecutivo nazionale, che, a quel punto, inizia a pensare ad una modalità che archivi il caso, chiudendo i clamori determinati dalla vicenda Pinna. La conclusione alle vicissitudini del coraggioso obiettore presenta, come afferma Martellini, un tratto «grottesco»54, che le considerazioni di Edmondo Marcucci raffigurano fedelmente. Dopo che Pinna rifiuta «il condono dell’Anno Santo»55, viene inviato presso il «9° reggimento fanteria di Bari», dove, per l’ennesima volta, rinnova il suo diniego al servizio militare, ma, scrive Marcucci, «ecco la sorpresa: a Bari il medico militare volle a tutti i costi visitarlo», riscontrandogli «una inesistente “nevrosi cardiaca”», per cui «Pinna fu riformato e congedato!»56.

  1. Gli Anni Cinquanta

Durante gli anni Cinquanta sempre più numerosi diventano i casi di obiezione di coscienza. Il rifiuto di indossare la divisa è espressione di motivazioni anche molto differenti tra loro, come dimostrano, tra le altre, le vicende di Elevoine Santi, Pietro Ferrua e Mario Barbani.

Il primo, studente di architettura, di Sala Bolognese, dopo aver esternato la sua avversione nei riguardi del servizio di leva, è arrestato il 18 gennaio del 1950, per poi essere trasferito a Napoli57, in vista del processo tenuto, presso il Tribunale Militare della città partenopea, il giorno 8 febbraio. La vicenda di Elevoine Santi presenta un rilievo particolarmente interessante, poiché il giovane obiettore, nel corso del dibattimento, pone, con convinzione, quale cardine della sua difesa, oltre all’opposizione alla guerra, la centralità del servizio civile, quale impegno alternativo da fornire allo Stato. Santi, membro del Servizio civile internazionale, matura all’interno dell’associazione una significativa esperienza, poiché tocca con mano la tragedia della guerra, avendo partecipato ad alcuni campi di lavoro organizzati nei paesi in cui il quadro di atrocità e devastazioni, lasciato dall’ultimo conflitto bellico, è ancora vivo. In una lettera, inviata a Edmondo Marcucci, in cui l’obiettore emiliano richiede il sostegno dell’intellettuale umbro nell’imminente processo che lo vede imputato, Santi presenta le motivazioni della sua scelta:

«solo nel lottare per la pace trovo attualmente la mia strada e la mia ragione di vita. L’umanità è la mia famiglia e sono contrario a fare qualsiasi atto (e dare un qualsiasi aiuto ad una guerra eventuale) che non sia consono ai principi della mia coscienza. Sono membro del Servizio Civile Internazionale […] e mi sento pronto di fare, in luogo del servizio militare, anche un servizio più faticoso e più pericoloso, che dia un beneficio seppur relativo all’umanità, ma mai un servizio che aiuti chi combatte»58.

Il processo, che presenta numerose irregolarità59, si conclude, dopo pochi minuti di camera di consiglio, con una dura condanna per l’imputato: un anno di detenzione senza il beneficio della condizionale. A seguito della sentenza, l’obiettore emiliano viene dapprima rinchiuso nel carcere di Sant’Elmo e quindi trasferito nel penitenziario di Gaeta60. Al momento del rilascio, viene prospettata al Santi la possibilità di ottenere il congedo dal servizio militare, attraverso un certificato che sancisse la sua infermità mentale. Il ragazzo rigetta il vile escamotage e, suo malgrado, dopo la scarcerazione, è costretto a ripercorrere l’odioso iter di chi respinge le armi. La vicenda di Santi si trasforma in un autentica e infinita peripezia, poiché, dopo aver ottenuto un periodo di convalescenza per una improbabile adenopatia bilaterale, un altro parere medico sconfessa il precedente, ordinando al ragazzo bolognese di far ritorno a Cuneo, per adempiere agli obblighi di leva. Di fronte a questo quadro, Santi decide di abbandonare il proprio paese, dirigendosi, dapprima in Francia, e quindi in Gran Bretagna. Il suo peregrinare lo porta, infine, dopo un breve periodo vissuto in Norvegia, in Svezia, dove ottiene il diritto d’asilo e, dopo qualche anno, la concessione della cittadinanza svedese. La sua vicenda di obiettore, però, non si conclude: l’imprudenza di recarsi, nel 1963, a Milano, per visitare la Fiera campionaria della città meneghina, determina un ulteriore strascico giudiziario. Di nuovo alla sbarra (imputato come disertore, con l’aggravante del passaggio all’estero per una durata superiore ai sei mesi) riesce, però -con l’aiuto degli avvocati Segre e Barto e grazie ad una giuria militare molto più comprensiva di quella del processo di Napoli- a dimostrare che, durante l’esilio svedese, aveva cercato di tenere contatti con le autorità italiane, al fine di poter far rientro in patria. Questo tentativo finisce per smontare l’accusa di latitanza e così il caso si chiude con l’amnistia per l’imputato61.

Analoga, per le tortuose traversie cui è costretto, ma con motivazioni differenti rispetto a quelle addotte dal Santi, è la vicenda dell’obiezione di coscienza del sanremese Pietro Ferrua. La sua ferma volontà di non indossare la divisa della marina italiana, lo conduce, il 3 aprile del 1950, dinanzi al tribunale militare di La Spezia, a rispondere delle accuse mosse nei suoi confronti. Durante l’udienza, l’imputato, interrogato dal presidente della corte, sostiene le ragioni della sua obiezione, affermando che il «dovere» di «difendere la Patria», a suo giudizio, non si traduce nell’ «obbligo» di impugnare le armi62. A conclusione della sua deposizione, degli interventi dei testimoni e delle arringhe di entrambe le parti63, Ferrua viene condannato ad un anno di reclusione con il beneficio della non iscrizione al casellario giudiziario e la conseguente scarcerazione. Ma, come scrive Martellini, «la “scarcerazione non avvenne” […] o meglio, in attesa di una nuova destinazione il giovane obiettore venne assegnato al corpo di guardia di stanza nel carcere militare di Sarzana»64. Il 19 aprile, allorquando viene imposta nuovamente la divisa al Ferrua, l’obiettore ligure ripropone la sua obiezione e così un altro processo è istruito a suo carico. Nel corso del dibattimento l’imputato presenta chiaramente i motivi politici alla base della sua obiezione di coscienza, offrendo, in questo modo, un ulteriore arricchimento al tema dell’opposizione al servizio militare:

«Preciso che non intendo prestare il servizio militare per la mia decisa avversione al militarismo e alla guerra, sua diretta conseguenza. Questa mia decisione è il prodotto delle mie convinzioni anarchiche e del mio spirito istintivo antimilitarista. […] Non riconosco come legittimo l’obbligo imposto dalla costituzione al cittadino di prestare servizio miliare perché, per i motivi che ho esposto, non riconosco alla maggioranza dei cittadini il diritto di imporre tale obbligo»65.

A conclusione della camera di consiglio, il giudizio del tribunale, questa volta, si dimostra decisamente molto meno clemente. La sentenza della corte è, infatti, molto severa: un anno e tre mesi di reclusione, senza condizionale, da scontare presso il carcere militare di Gaeta. Il giovane sanremese, scontata la pena, decide di percorrere un iter simile a quello di Santi, riparando all’estero per evitare di dover essere nuovamente processato66.

L’ultima vicenda, in ordine di tempo, per quel che riguarda la celebrazione del processo, è quella di Mario Barbani di Ozzano Emilia, in provincia di Bologna. Il caso del giovane disegnatore edile67 ha una «portata fortemente simbolica», in quanto l’obiettore si rende protagonista di un «singolare episodio»68. Il 23 giugno del 1950, nel cortile della caserma dell’XI C.A.R. di Palermo, nel pieno svolgimento di una parata militare, decide di abbandonare le file, dirigendosi verso il palco delle autorità. Qui, al cospetto del generale Luigi Efisio Marras, capo di stato maggiore dell’esercito italiano, Barbani, dopo aver deposto il fucile a terra, riesce a malapena a dichiarare: «Depongo le armi che mi sono state consegnate personalmente»69. Il giovane obiettore cerca di pronunciare qualche altra parola, di dichiararsi obiettore, ma viene coartato da alcuni militari, che lo inducono al silenzio, allontanandolo dalla scena. Pochi minuti dopo, come scrive Martellini, «era già chiuso in una cella»70, pronto per esser processato il 26 giugno.

In sede processuale, Barbani viene assistito dall’avvocato Pierfranco Bonocore, che «pur essendo difensore d’ufficio, svolse il suo compito degnamente e con coraggio»71. Durante l’interrogatorio l’imputato afferma di «non aver rivelato le sue convinzioni antimilitariste all’atto dell’arruolamento per aver voluto collaudarle con l’esperienza del servizio militare; le aveva in seguito espresse al suo tenente ed al comandante di compagnia, ma senza effetto alcuno ed allora aveva deciso di dimostrarle direttamente al generale Marras»72. A seguito del dibattimento, il tribunale militare di Palermo emette una sentenza di condanna per il giovane obiettore, pari ad un anno di reclusione da scontare nel reclusorio di Gaeta. Barbani, scontata la pena, nel castello angioino-aragonese, nel 1952 è ancora condotto in carcere, per aver disertato gli obblighi di leva. La sentenza di condanna, della fine del gennaio del 1953, gli commina cinque anni e dieci giorni di detenzione, che, però, come scrive Albesano, a causa del ricorso del pubblico ministro, «il tribunale di Milano riformò», revocando le «attenuanti generiche» del precedente giudizio, e commutandole in «altri tre mesi di» prigione. Per espiare questa pena residua, Barbani «venne di nuovo arrestato a Bologna il 23 gennaio 1954»73.

  1. Gli anni sessanta e il «debutto dei cattolici»: Giuseppe Gozzini

L’incompleta, oltre che rapida, ricostruzione della storia dell’obiezione di coscienza in Italia ci conduce agli anni Sessanta, allorquando il debutto dei cattolici74 (anche se, come abbiamo visto, di vero e proprio debutto non si può parlare) arricchisce di un nuovo e decisivo capitolo il tema del rifiuto di portare le armi in età repubblicana. Nell’autunno del 1963, Giuseppe Gozzini75, dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, presso l’Università Statale di Milano, è chiamato a prestare servizio militare presso il C.A.R. di Pistoia. La mattina del 12 novembre, come scrive Albesano, «venne accompagnato al magazzino vestiario, ma rifiutò di indossare la divisa»76, spiegando la sua decisione con una dichiarazione scritta, in cui presenta i motivi che gli impediscono di adempiere agli obblighi di leva:

«ho rifiutato di indossare la divisa militare perché il servizio militare contrasta con la mia coscienza di cattolico. Sono convinto poi che nell’esercito tradirei non solo la mia risposta personale al Cristo e la mia vocazione nella Chiesa, ma anche il mio impegno di uomo nella Società ed il mio dovere di cittadino di fronte allo Stato»77.

In un’analisi, in cui i temi dell’Evangelo si intrecciano a quelli dell’impegno attivo di cittadino consapevole dei rischi che la guerra – e in particolare quella atomica – può determinare, Gozzini sottolinea che la sua volontà di «essere umile testimone» del messaggio cristiano si concretizza nel «vivere il più integralmente possibile quella non violenza evangelica fondata sulla legge» che obbliga ad amare il prossimo come se stessi e nel resistere «al male con la forza dell’amore»78. A partire dalla specificità cristiana che anima il suo impegno quotidiano di costruttore di pace, Gozzini afferma:

«Di fronte alla pace gaudente dei militaristi di tutte le razze, per me cattolico la pace porta il segno dei chiodi ed è il bene per cui devo soffrire di più sulla terra: si tratta per me di amare sempre il prossimo anche quando è il nemico militare o l’avversario politico, anche quando ha la pelle di colore diverso o appartiene ad un’altra classe sociale ecc., perché il resto “lo sanno fare anche i pagani”»79.

Nella dichiarazione -pubblicata per altro da diversi organi di stampa- Gozzini si sofferma sul significato del suo gesto, riflette sulla sua reale portata e sull’incidenza che esso può avere nell’opporsi alla guerra. Il giovane obiettore milanese è consapevole del rischio che la sua scelta possa essere giudicata come un «sacrificio egoistico», come il simbolo di chi vuole «salvarsi la propria anima», come l’espressione di un «pacifismo astratto», «o peggio» l’emblema di un «aristocratico individualismo». È cosciente che l’atto del «rifiutare il male implicito […] nel servizio militare, non è ipso facto fare la pace», poiché «l’assenza o la quiete delle armi non è ancora la pace»80. Riflettendo a fondo sull’effettiva efficacia del rifiuto agli obblighi di leva -che, «pur essendo così carico di sanzioni giuridiche, […] così poco incide socialmente sulla realtà degli uomini»- Gozzini sottolinea che il punto vero della questione «non è quello, banale in fondo, del portare o no la divisa militare, ma quello di agire nel presente hic et nunc per sbarrare il cammino alla violenza istituzionalizzata», attivandosi, quotidianamente, nel praticare l’esortazione pronunciata da Papa Giovanni XXIII, nei giorni della vigilia conciliare: «“Siate uomini pacifici, siate costruttori di pace. Non attardatevi sui fatui giuochi di polemica amara ed ingiusta, di avversioni preconcette e definitive, di rigide catalogazioni di uomini e di eventi. Siate sempre disponibili per i grandi disegni della Provvidenza. La Chiesa questo e non altro vuole con il suo Concilio”»81.

L’11 gennaio del 1963, presso la Fortezza di San Giovanni Battista di Firenze, si celebra il processo a carico di Giuseppe Gozzini82 che, a seguito, di una lunga udienza, viene condannato a sei mesi di carcere senza i benefici di legge, ma ottenendo le attenuanti generiche. Alla fine del mese di gennaio, una nuova amnistia riporta Gozzini in libertà, lasciandolo però soggetto agli obblighi di leva non ancora compiuti. Si prospetta, insomma, la riapertura dell’iter precedente ma, prima che ciò accada, la visita del medico militare, riscontrandogli una inadeguatezza fisica, lo dichiara inabile, per motivi di salute, al periodo di servizio militare.

Il processo nei confronti di Gozzini, come osserva Martellini, «può essere considerato un crocevia fondamentale, oltre che per il completo coinvolgimento dei cattolici nei temi della nonviolenza» e del «primato della coscienza individuale sulle leggi dello Stato», per l’affiorare di motivi che attengono «più alla sfera politica e sociale che non a quella spirituale»83. In un passo della sua lettera, infatti, Gozzini scrive:

«Per me il male non è la guerra. Semmai è un male presente anche in quello che per eufemismo chiamiamo “tempo di pace”, perché mette le sue radici in altri mali: l’ingiustizia, la fame, lo sfruttamento, l’ignoranza, la malattia ecc. di fronte ai quali vorrei esercitare molto più positivamente la mia “obiezione di coscienza”. Inutile quindi aggiungere che sarei disposto a servire la patria in un servizio civile alternativo che mi offra questa possibilità»84.

Il rilievo dell’analisi del giovane obiettore milanese non risiede tanto nel richiedere una modalità differente dal servizio militare nel servire lo Stato, ma nelle motivazioni che adduce a sostegno del suo desiderio, ossia un impegno che sostanzi la sua obiezione di coscienza nel combattere i mali che affliggono l’umanità; motivazioni e impegno che, proprio a partire dal suo rifiuto del servizio militare, tendono a caratterizzare in maniera significativa le future istanze di opposizione agli obblighi di leva. Martellini, in riferimento al caso di Gozzini, scrive che «da quel momento la storia dell’obiezione di coscienza non fu più la stessa. Negli anni successivi, infatti, all’interno della scelta tanto degli obiettori laici, quanto di quelli cattolici, si modificò il dosaggio di queste due componenti -coscienza e agire sociale o, se si vuole, spiritualità e politica- a favore della seconda»85.

  1. Il ’68 e la politicizzazione dell’obiezione di coscienza

Il nuovo modo di vivere e sentire la scelta dell’obiezione di coscienza si innesta, a pieno titolo, nell’ambito di quel processo di trasformazione che il pacifismo italiano inizia a conoscere con il profilarsi, sulla scena nazionale, delle istanze di contestazione del movimento sessantottino. In particolare, nella cultura pacifista degli anni sessanta si registrano nuove critiche nei confronti delle forze armate. Al servizio militare -considerato, secondo i parametri classici, palestra di educazione alla violenza e all’assassinio- si addebita, da un lato, di rappresentare un impedimento per i giovani desiderosi di impegnarsi in attività molto più proficue, e, dall’altro, un ingranaggio di un più ampio sistema, che preferisce sperperare risorse umane e finanziarie nei contingenti militari e negli armamenti, piuttosto che devolverle a sostegno di più urgenti problemi sociali. Insomma, come fa osservare Martellini, «lentamente e inesorabilmente», mentre «l’argomentazione del servizio civile iniziò a sovrastare le libere opzioni della coscienza», il rifiuto del servizio militare, sulla scia della «generale spinta antiautoritaria della contestazione giovanile», si associa non tanto più «al primato della coscienza individuale», ma alle ragioni «della contrapposizione politica nei confronti dello Stato e del suo apparato repressivo» oltre che della alla «lotta antimperialista e agli squilibri prodotti dal capitalismo internazionale»86.

Il 1965 registra due casi di obiezione di coscienza -quelli di Ivo Della Savia e Giorgio Viola- nei quali, accanto al motivo tradizionale della contrapposizione tra legge e coscienza, iniziano a profilarsi alcune delle nuove motivazioni del rifiuto al servizio militare87. Il primo, quello dell’anarchico milanese della Savia, manifesta chiaramente la matrice antimilitarista del movimento politico cui aderisce88, ma nelle sue dichiarazioni trova, in ogni caso, spazio la dimensione del foro interiore, quale unico strumento in grado di opporsi al quadro di violenze ed ingiustizie presenti nel mondo:

«Ci sarà sicuramente chi pontificherà che la rivolta individuale, il rifiuto dell’individuo, è sterile. Io non lo credo. Credo invece che proprio nel risveglio della coscienza critica dell’individuo, nella scoperta che è in suo potere di accettare o no certe cose, nella decisione dell’individuo, di tutti gli individui di non riconoscere più a nessuno il diritto di disporre della loro vita e della loro morte, in questo sta l’unica possibilità di uscire dal vicolo cieco di violenza e di ingiustizia in cui si sono cacciati gli uomini, lasciandosi legare mani e piedi a mastodontici meccanismi di potere che sfuggono al loro controllo»89.

Analogamente nell’atto di obiezione del cattolico Viola, ai temi più propriamente cristiani90 si affiancano considerazioni più squisitamente politiche sul reale valore dell’autonomia individuale in un regime liberaldemocratico:

«Un ordinamento che realmente cerchi la democrazia (cioè si ponga come obiettivo fondamentale lo sviluppo, l’accrescimento, la maturazione della personalità in una generale socializzazione degli interessi personali) deve non solo dichiarare libertà e buone intenzioni nella Costituzione, ma anche occuparsi efficacemente di stimolare in ogni modo e raccogliere, con strutture adatte e disponibilità di strumenti, i contributi individuali in modo che sia la coscienza individuale, posta, attraverso le stesse strutture e strumenti, a fornire i dati essenziali per la formulazione delle leggi ed una continua verifica delle stesse»91.

Il processo di politicizzazione dell’obiezione di coscienza ha, però, il suo vero e proprio battesimo nel giugno del 1967, quando, come scrive Martellini, Andrea Valcarenghi -una delle figure più significative della cultura underground italiana- «rese una dichiarazione pubblica di obiezione di coscienza, sancendo la saldatura tra le nuove culture giovanili ed il pacifismo integrale»92. Ricevuta la cartolina precetto, Valcarenghi si reca al C.A.R. di Cosenza, dove, dopo aver rifiutato di vestire la divisa, è rinchiuso in carcere. A seguito della condanna, conosce i rigori del carcere di Gaeta. Nella sua dichiarazione l’obiettore afferma di aver compiuto il gesto di obiezione «non per fede religiosa né per spirito anarchico, ma per motivi politici e per senso morale»93.

  1. Il movimento pacifista come movimento di massa: il diritto all’obiezione di coscienza

Con la fine degli anni Sessanta, il pacifismo italiano, e con esso chiaramente la professione dell’obiezione di coscienza, escono dagli angusti argini di quel movimento che, nei decenni precedenti, aveva mostrato, per la sue ristrette dimensioni e per una presa piuttosto marginale sulla società civile italiana, caratteri inevitabilmente elitari. La trasformazione che investe il Paese a partire dagli effetti determinati dal miracolo economico e l’allentarsi, sul fronte internazionale, del clima della guerra fredda -che aveva polarizzato il panorama politico nazionale in uno scontro manicheo di opposti propagandismi, soffocando le voci critiche e isterilendo di conseguenza la possibilità di espressione delle istanze nonviolente- liberano, anche in virtù del rilievo delle teorie critiche della Scuola di Francoforte, nuove energie che, seppur da prospettive differenti, animano la galassia pacifista italiana, consegnandole i caratteri di movimento di massa.

Non si ci trova più, insomma, di fronte ad un circoscritto numero di persone, ma finalmente ad un insieme di gruppi che, pur partendo da posizioni diverse, convergono sull’obiettivo della costruzione di un orizzonte di pace. Martellini afferma come in questo nuovo contesto, «l’obiettore non era più solo col travaglio della propria coscienza. L’obiezione di coscienza era divenuta un gesto di protesta collettiva di gruppi di giovani che dichiaravano insieme, collettivamente, il rifiuto di prestare il servizio militare»94.

A tal riguardo un esempio che mostra chiaramente la nuova dimensione assunta dal movimento pacifista è rappresentata dalle iniziative di alcuni giovani siciliani del Belice che, nel giorno della festa della Repubblica, uniscono al tema dell’obiezione di coscienza quello dell’utilità del servizio da prestare allo Stato nazionale. Il 2 giugno del 1970 molti giovani, provenienti dai comuni terremotati della Valle del Belice, si danno appuntamento a Palermo, per protestare contro i colpevoli ritardi dello Stato in merito al processo di ricostruzione della zona occidentale dell’isola. In quella circostanza i manifestanti associano al tema della suddetta protesta, la richiesta di prestare un servizio civile, alternativo a quello militare, nell’intento di dedicarsi all’opera di ricostruzione dei loro paesi. Martellini, infatti, ricorda come nel giorno dell’anniversario della nascita della Repubblica Italiana «oltre quattrocento ragazzi delle classi di leva dal 1950 al 1953 […] si erano dati appuntamento in un paese della valle del Belice per dare vita a una marcia pacifica fino al capoluogo, dove avrebbero dovuto piantare un tenda davanti al distretto militare e iniziare un sit-in fino a che le loro richieste non fossero state accolte»95. La manifestazione di protesta, che prosegue anche nei giorni successivi alla marcia del 2 giugno96, costituisce uno dei punti più alti della contestazione giovanile nei confronti del servizio militare. L’iniziativa dei giovani del Belice, però, va oltre il ristretto ambito dell’obiezione di coscienza, o meglio, offre a quella secolare battaglia una rilevante connotazione politica in grado di aprire un’ampia discussione in merito all’autentico concetto di cittadinanza e alla conseguente idea di patria. Se da anni, il tentativo di far approvare una legge per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza mira a sottolineare che la difesa della patria non è circoscrivibile alla sola protezione dei suoi territori, ma ha in sé un significato molto più ampio -includente, in prima istanza, il sostegno alle persone e alle aree più bisognose del paese, affinché tutti godano pari diritti- il terremoto del Belice «rappresentò probabilmente l’occasione in cui contrastanti interpretazioni dell’idea di patria si scontrarono in modo» molto evidente. Da quel confronto «l’interpretazione dei giovani, di una patria fatta di cittadini, riportò una importante, seppur parziale, vittoria sull’idea di patria degli apparati militari e politici: nel novembre del 1970, infatti, pochi mesi dopo la protesta […], il governo varò un decreto ad hoc che consentiva ai giovani nati tra il 1950 e il 1953, residenti nei comuni terremotati, di svolgere un servizio civile alternativo a quello militare […], per contribuire all’opera di ricostruzione dei loro paesi»97.

Il risultato conseguito dai Comitati Antileva della valle del Belice è il prologo all’approvazione della legge numero 772 del 15 dicembre 1972 che riconosce -dopo un lunghissimo iter parlamentare- il diritto all’obiezione di coscienza. Con l’entrata in vigore della legge si determina nel ordinamento giuridico italiano «un salto qualitativo»: se prima «l’obiezione al servizio militare non era riconosciuta e costituiva un illecito [da cui] derivava conseguentemente un processo penale e una condanna», con «l’approvazione della legge, l’obiezione è diventata un comportamento lecito; la legge lo riconosce come legittimo, offrendo una alternativa all’obiettore: il servizio civile»98. Fermo restando che con la 772 l’obiettore finisce per ottenere una posizione di parità con il cittadino che preferisce svolgere il servizio di leva, numerosi sono i limiti che il testo legislativo presenta. Segre, l’avvocato che, come abbiamo visto, per più di vent’anni aveva difeso nelle aule dei tribunali militari tutta la prima generazione di obiettori, si esprime in questi termini sulla tanto agognata legge:

«Dovremmo provare la gioia di una grande vittoria noi che dal 1949, difendendo il primo obiettore dinnanzi al tribunale militare di Torino ci siamo battuti sempre con appassionato impegno per il riconoscimento giuridico dell’obiezione in innumerevoli conferenze, campagne di stampa, tavole rotonde, cortei, marce della pace, progetti di legge, ecc., ora che finalmente il Parlamento ha votato la legge che li riconosce. Ma la nostra gioia per questa conquista civile […] si è illanguidita nel constatare che purtroppo l’obiezione di coscienza non viene riconosciuta dalla legge con un vero e proprio diritto, dal momento che è sottoposta al giudizio di una Commissione speciale che deve vagliare la buona fede dell’obiettore. Un diritto civile non si giustifica attraverso la verifica dei convincimenti religiosi, filosofici e morali del richiedente, un diritto si impone di per se stesso al di là di ogni discrezionalità del potere»99.

Le imperfezioni presenti nel testo di legge sono molteplici, a partire dal fatto che, come scrive Venditti, «l’obiezione non venne riconosciuta come oggetto di un diritto soggettivo pieno e perfetto». Dovendo la domanda dell’obiettore esser sottoposta all’esame di una commissione militare, che detiene la facoltà di accoglierla o respingerla, attraverso un provvedimento del Ministero della Difesa, non ci si trova di fronte ad un «diritto pieno poiché la posizione soggettiva dell’obiettore resta pur sempre subordinata ad un provvedimento amministrativo che ha un certo margine di discrezionalità»100. I limiti della 772 furono certamente numerosi101, ma ai fini della ricostruzione della lunga lotta per l’approvazione del diritto all’obiezione di coscienza, non è tanto importante sottolineare la serie di incongruenze giuridiche, che caratterizzano un testo «pieno di cautele», di «precauzioni» e mosso dalla «paura che il suo riconoscimento potesse avere conseguenze sovvertitrici [per] le forze armate»102; è significativo, invece, mettere in luce come l’azione coraggiosa di Lué, Gagliardi, Cuminetti, Mayr-Nusser e degli altri obiettori abbia dimostrato che il primato della coscienza, unito ad un prassi nonviolenta, ha avuto la capacità di sensibilizzare via via l’opinione pubblica nazionale, di creare una mobilitazione di ampi strati della società italiana nel raggiungere collettivamente una legge che fosse rispettosa dell’autonomia di ogni individuo.

1 R. Venditti, Le ragioni dell’obiezione di coscienza. Intervista di Pietro Polito, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986, p. 33.

2 Ibidem.

3 Ibidem.

4 R. Venditti, Le ragioni dell’obiezione di coscienza. Intervista di Pietro Polito cit., p. 34.

5 Esempi classici di obiezione di coscienza, non riconducibili immediatamente al rifiuto di portare le armi, sono quelli espressi, ad esempio, dai cristiani contro l’impero romano, nei cui riguardi essi manifestarono«un’obiezione esclusivamente volta e rivendicare la libertà di coscienza e di culto». Venditti ricorda che i «cristiani dicevano di no all’imperativo giuridico di prestare adorazione agli dei, di bruciare incenso agli idoli; dicevano di no in nome della propria libertà di coscienza, opponendosi ad uno stato che pretendeva di essere teologo e di imporre un culto che era in contrasto con la loro fede». Cfr. R. Venditti, Le ragioni dell’obiezione di coscienza. Intervista di Pietro Polito cit., p. 34. Altro esempio storico, che dimostra come l’obiezione di coscienza possa presentarsi sganciata dal rifiuto del servizio militare, è quello assai celebre di Antigone, che si oppose all’ordine del re Creonte, il quale vietava la sepoltura alle salme dei suoi oppositori. Dinanzi al tiranno, Antigone giustificò il suo atto, invocando quelle leggi non scritte che albergano nel cuore di ogni essere umano.

6 R. Venditti, Le ragioni dell’obiezione di coscienza. Intervista di Pietro Polito cit., p. 36.

7 A. Capitini, L’obbiezione di coscienza in Italia: con la proposta di legge per il riconoscimento, Lacaita Editore, Manduria, pp. 7-8.

8 A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Linea d’ombra, Milano 1967, p. 67 (esiste anche una versione più recente: edizioni dell’asino, Roma, 2009).

9 Massimiliano -giovane cristiano di Tebessa, in Numidia- dinanzi al proconsole Dione, che chiedeva spiegazioni in merito alla sua ostinata rinuncia ad arruolarsi nell’esercito imperiale, rispose che, in quanto cristiano, non poteva entrare nella milizia, compiendo violenze sugli altri uomini. La fermezza di Massimiliano nel sostenere le sue ragioni, lo portò al martirio. Cfr. P. Siniscalco, Massimiliano, un obiettore di coscienza del tardo impero, Paravia, Torino 1974.

10 Nel 1221 nella piazza dell’Arengo di Rimini i terziari francescani, dinanzi «all’invito del podestà di prestare il giuramento di fedeltà, che implicava l’impegno di impugnare le armi al comando degli organi dello Stato», affermarono: «Noi non possiamo combattere né portare le armi, sia di offesa che di difesa, perché noi vogliamo la pace con gli uomini e con Dio, conquistandola con opere di bontà, trasformando il male che è nel mondo in bene». In quella circostanza l’intervento di Onorio III sostenne la causa dell’obiezione di coscienza, invitando le autorità ecclesiastiche di Rimini a difendere la posizione del Terz’Ordine francescano. Cfr. A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza cit., pp. 68-69.

11 E. Marcucci, Sotto il segno della pace. Memorie, Centro studi per la pace Edmondo Marcucci, Jesi 1983, p. 113.

12 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, Donzelli Editore, Roma 2006, p. 12. Luigi Luè nasce a San Colombano al Lambro, in provincia di Milano, il 16 giugno del 1876. Dopo aver frequentato i primi due anni della scuola elementare, inizia a lavorare come ciabattino, aiutando il padre e i fratelli maggiori. Il senatore Stefano Semenzato, nella seduta tenuta a Palazzo Madama, il 29 gennaio del 1997, ha affermato che Luigi Luè «è il primo obiettore di questo secolo». Grande ammiratore di Tolstoj, Luè esprime per la prima volta «l’avversione alla violenza militare […] nel 1901», ma solo nel 1917, «dopo essersi rifiutato di combattere al fronte, subì quella prigione che negli anni ha segnato la storia dell’obiezione in Italia». Cfr. http://www.originifamiglialue.ch/senato.pdf, pp. 89-90.

13 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e militarismo nell’Italia del Novecento cit., p. 12.

14 Ivi, p. 13.

15 Nel ricostruire la sua vicenda, Lué scrive che, mentre si trovava in carcere, degli «Ufficiali» gli chiesero perché avesse «rifiutato la divisa e di andare al fronte a combattere». A questa domanda Luè affermò: «stando alle mie concezioni della vita sociale e hai [sic] principi dei libri di Tolstoj, la mia coscienza mi vietava di uccidere». Le affermazioni di Luè, in merito alle vicende processuali, sono tratte dalle lettere che lo stesso inviò ad Edmondo Marcucci il 31 maggio e il 1° agosto del 1951. Cfr. Fondo Marcucci, busta 11 fascicolo 1.7/a. Il fondo Marcucci si trova presso la Biblioteca Comunale di Jesi (AN).

16 Ibidem.

17 Giovanni Gagliardi nasce a Castelvetro Piacentino il 14 febbraio del 1882. Fin da bambino mostra un precoce interesse per la musica, che ben presto diventa una vera e propria passione: ricevuta in regalo un’ocarina, Gagliardi decide, in seguito, di andare a lezione di fisarmonica e di esibirsi di tanto in tanto presso l’osteria di famiglia. Il passo successivo è quello di trasformare questa abilità in una professione, suonando nelle osterie in cambio di «qualche spicciolo». Il suo raggio d’azione, scrive Martellini, «dapprima limitato alla Lombardia, diviene via via più ampio, passando varie volte attraverso i confini nazionali». Significativa è la sua esperienza in Lorena e in particolar modo il lungo soggiorno parigino, interrotto dallo scoppio della prima guerra mondiale, che lo costringe al rimpatrio. A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento cit., p. 22.

18 Cfr. Vita romantica di Giovanni Gagliardi, obbiettore di coscienza e musicista, in “Libertà”, 9 novembre 1950.

19 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento cit., pp. 22-23. Particolarmente significativo è un brano dell’opera in cui Gagliardi pone in luce il rilievo della coscienza individuale contro le logiche istituzionali: «Né la lega tra le nazioni, né il disarmo, né le organizzazioni socialiste, né il Papa, né Dio potranno por fine alle guerre. La soluzione sta solo nella coscienza dell’individuo decisamente compenetrata dall’imperativo categorico “Non uccidere”». Cfr. E. Marcucci, Sotto il segno della pace. Memorie cit., p. 123.

20 Gli anni del regime fascista sono segnati per Gagliardi, da un lato, da profondi rivolgimenti interiori, che lo portano a convertirsi al cristianesimo, e ,dall’altro, da un fecondo attivismo nel panorama musicale, che lo vede intento a perfezionare lo sviluppo tecnico della fisarmonica e impegnato in diverse tournée. Con l’entrata in guerra dell’Italia, nel secondo conflitto mondiale, per Gagliardi si riapre la triste trafila già sperimentata un quarto di secolo prima. L’etichetta di sovversivo gli procura, infatti, nuovi periodi di internamento e il confino politico a Ventotene, dove ha modo di instaurare rapporti d’amicizia con alcune delle autorevoli personalità antifasciste presenti sull’isola, in particolar modo con Pertini e Terracini. Gagliardi morirà nel paese natio il 26 settembre del 1964.

21 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento cit., p. 30.

22 Ibidem.

23 Il testo della condanna, sentenza n. 309 del 18 agosto 1916, è tratta dallo scritto di A. Bertone, Remigio Cuminetti, in AA.VV., Le periferie della memoria. Profili di testimoni di pace, ANPPIA, Torino; Movimento Nonviolento, Verona 1999, pp. 57-58.

24 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento cit., p. 31. Durante il suo impegno sul fronte, Cuminetti si distinse per coraggio e generosità, soccorrendo un «ufficiale ferito» che «si trovava davanti alla trincea senza più avere la forza di ritirarsi». Cuminetti, che riesce a trarre in salvo l’ufficiale, nell’operazione viene ferito ad una gamba. A guerra terminata, «per l’atto di coraggio compiuto […] gli fu assegnata la medaglia d’argento al valor militare» ma decide di rifiutarla poiché «non aveva compiuto quell’atto per guadagnarsi un ciondolo, bensì per amore del prossimo». Cfr. V. Paschetto, L’odissea di un obiettore durante la 1ª guerra mondiale, in “L’incontro”, luglio-agosto 1952, p. 8.

25 Claudio Baglietto nasce a Varazze nel 1908. Si laurea in filosofia presso la Normale di Pisa, dove ha modo di stringere amicizia con Capitini. Tra i due inizia un percorso che è, ad un tempo, intellettuale, etico e religioso. Insieme approfondiscono alcuni dei temi della filosofia kantiana, si avvicinano alla galassia dell’esistenzialismo e a Carlo Michelstaedter, discutono del pensiero di Gandhi, spingendosi alla diffusione di pagine dattilografate, sui temi della nonviolenza, tra i normalisti che, come loro, si trovavano su posizioni antifasciste. Il sodalizio tra Capitini e Baglietto si interrompe (anche se fitto sarà lo scambio epistolare tra i due), allorquando quest’ultimo, nel 1932, avendo ottenuto una borsa di studio, giunge in Germania, all’Università di Friburgo, per approfondire la sua ricerca su Wittgenstein.

26 A Capitini, L’obbiezione di coscienza in Italia cit., pp. 38-39.

27 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento cit., p. 40. Al pari di Capitini, l’antifascismo di Baglietto non sorge sul diretto terreno politico ma poggia su un «“teismo razionale di tipo spiccatamente etico e gandhiano” e sul “metodo gandhiano della noncollaborazione col male”». Cfr. A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, Celebes, Trapani 1966, p. 20.

28 A. Capitini, L’obbiezione di coscienza in Italia, cit., p. 38.

29 Josef Mayr-Nusser nasce a Bolzano il 27 dicembre del 1910. La sua formazione scolastica è di tipo tecnico. Consegue il diploma di ragioniere, ma non può proseguire gli studi, poiché le condizioni familiari -il padre era morto durante la 1ª guerra mondiale- non glielo consentono. Josef trova lavoro, in qualità di cassiere, dapprima presso la ditta “Eccel”, in seguito nell’azienda Ammon; imprese, entrambe, con sede a Bolzano. Cfr. P. Vanzan S.I., Josef Mayr-Nusser, obiettore di coscienza e martire, in “La Civiltà Cattolica”, Quaderno N°3793 del 05/07/2008 – (Civ. Catt. III 3-106), p. 39.

30 Mayr-Nusser frequenta assiduamente la sede dell’Azione cattolica della città altoatesina e nel 1934 viene eletto presidente «della sezione maschile dei giovani di Ac per la parte tedesca dell’arcidiocesi di Trento». Cfr. P. Vanzan S.I., Josef Mayr-Nusser, obiettore di coscienza e martire, cit., p. 39.

31 Ivi, p. 40.

32 Ibidem.

33 P. Vanzan S.I., Josef Mayr-Nusser, obiettore di coscienza e martire, cit., p. 41.

34 F. Comina, Josef Mayr-Nusser, in AA.VV., Le periferie della memoria. Profili di testimoni di pace cit., p. 110.

35 Ibidem.

36 La Convenzione dell’Aia del 1907 consentiva a una forza di occupazione di reclutare uomini dai territori occupati soltanto per il servizio di polizia e non per azioni di guerra. Cfr. P. Vanzan S.I., Josef Mayr-Nusser, obiettore di coscienza e martire, cit., p. 44.

37 Ibidem.

38 P. Vanzan S.I., Josef Mayr-Nusser, obiettore di coscienza e martire, cit., p. 46.

39 Queste le parole dell’atto di sottomissione: «Giuro a te, Adolf Hitler, Führer e Cancelliere del Reich, fedeltà e coraggio. Prometto solennemente a te e ai superiori designati da te l’obbedienza fino alla morte. Che Dio mi assista». Cfr. F. Comina, Josef Mayr-Nusser, cit., p. 107.

40 Ibidem.

41 Conclusa la sua deposizione, Josef, rivolgendosi alle reclute, affermò: «Se mai nessuno trova il coraggio di dire a questa gente [i nazisti] che si può anche non essere d’accordo con il sistema, questo sistema non cambierà mai». Cfr. F. Comina, Josef Mayr-Nusser, cit., p. 113.

42 Mayr-Nusser fa sosta per circa 10 giorni nel campo di concentramento di Buchenwald.

43 F. Comina, Josef Mayr-Nusser, cit., p. 114.

44 Occorre sottolineare che quello di Pietro Pinna non fu il primo caso di obiezione di coscienza in Italia dopo la fine della 2° conflitto mondiale. A guerra conclusa, infatti, scrive Martellini, «nel 1946 il giovane cuneese Rodrigo Castello, appartenente alla chiesa dei Pentecostali, si era rifiutato di indossare la divisa: processato nel 1947 era stato giudicato colpevole e condannato, ma aveva usufruito dell’amnistia togliattiana ed era stato scarcerato. Pochi mesi più tardi, nel gennaio del 1948, era il soldato di leva Enrico Ceroni di Casale Monferrato, testimone di Geova, a essere condannato per lo stesso reato dal tribunale militare di Torino, che gli aveva comminato cinque mesi e 20 giorni di carcere, con la sospensione condizionale e la non iscrizione». Cfr A. Martellini, Fiorni nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., p. 85.

45 A. Capitini, L’obiezione di coscienza in Italia, cit., p. 43.

46 Nel documento, Pinna chiede il riconoscimento del suo status di obiettore di coscienza, mirando ad ottenere l’esonero dal sevizio militare. Nell’istanza presentata al Ministero della Difesa, Pinna afferma, inoltre, di esser ben disposto a prestare un servizio alternativo, «ma disarmato, anche rischioso, come il rastrellamento di terreni minati». Cfr. A. Martellini, Fiorni nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., p. 86.

47 A. Capitini, L’obiezione di coscienza in Italia, cit., p. 44.

48 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., p. 87.

49 La difesa del giovane ferrarese viene affidata a Bruno Segre e Agostino Buda. A sostegno della causa di Pinna, intervengono, in qualità di testimoni, Umberto Calosso, Aldo Capitini ed Edmondo Marcucci.

50 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., p. 89.

51 Le affermazioni di Pinna sono tratte da A. Capitini, L’obiezione di coscienza in Italia, cit., p. 53.

52 Capitini ricorda che a Pinna fu proposto di «fare lo scritturale». Cfr. A. Capitini, L’obiezione di coscienza in Italia, cit., p. 45.

53 Amoreno Martellini ricorda come l’avvocato di Pinna «prese la parola quattro volte nel corso del dibattimento: la prima per chiedere che l’onorevole Calosso potesse essere ascoltato come teste della difesa; la seconda per rimproverare lo stesso Calosso per la dichiarazione resa (“le aule dei tribunali -lo avrebbe ammonito- non sono delle cattedre e, tanto meno, delle piazze adatte a propagandare nuove dottrine”); la terza per chiedere, quasi incredulo, se effettivamente fosse stato impartito l’ordine col quale si intimava a Pinna di prestare servizio ed eseguire le esercitazioni; ricevuta risposta affermativa da tutti i testimoni e dallo stesso Pinna, prese parola un’ultima volta in tono sconsolato, per rimettere l’imputato alla clemenza della corte». Cfr. A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., p. 89.

54 Ivi, p. 90.

55 Nel 1950 Pio XII celebra il Giubileo della Chiesa Cattolica.

56 E. Marcucci, Sotto il segno della pace. Memorie cit., p. 130.

57 Elevoine Santi era stato assegnato al X C.A.R. di Avellino.

58 Le affermazioni di Santi sono tratte da E. Marcucci, Sotto il segno della pace. Memorie, cit., p. 133.

59 La data dell’udienza viene comunicata all’avvocato difensore, ancora una volta Bruno Segre, solo una settimana prima; ai testimoni del Santi -il ministro evangelico Arnaldo Carzaniga, l’ing. Corrado Mastrocinque, il segretario nazionale dello S.C.I. Luciano Franzoni e il prof. Edmondo Marcucci- il presidente della corte non consentì di prender parola.

60 Mentre Santi sconta la sua pena presso il carcere militare di Gaeta, Albert Einstein dichiara: «Verso il signor Santi e per il modo con cui ha agito, io provo stima e simpatia. E’ una vergogna che al tempo nostro la schiavitù dell’individuo arrivi a tal punto che esso e’ obbligato dallo Stato ad agire in modi riprovati dalla sua coscienza come immorali. Volentieri rilascio pubblica dichiarazione di questa mia convinzione». Cfr. S. Albesano, Storia dell’obiezione di coscienza in Italia, Editrice Santi Quaranta, Treviso 1993, p. 50.

61 Le notizie relative alla vicenda di Elevoine Santi sono tratte da S. Albesano, Storia dell’obiezione di coscienza in Italia cit., pp. 45- 46.

62 Ivi, p. 46.

63 Avvocato difensore fu, ancora una volta, Bruno Segre; a testimoniare in favore del Ferrua, furono chiamati Ugo Fedeli, figura di spicco dell’anarchismo italiano, l’onorevole Calosso ed il professor Marcucci.

64 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento cit., p. 98.

65 Le affermazioni di Pietro Ferrua sono tratte da A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento cit., p. 99.

66 Pietro Ferrua si recherà dapprima in Francia e quindi in Svezia. Dall’Europa, emigrerà, poi, alla volta del Brasile e, infine, negli Stati Uniti.

67 S. Albesano, Storia dell’obiezione di coscienza in Italia cit., p. 47.

68 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., p. 96.

69 Traggo le affermazioni di Barbani da S. Albesano, Storia dell’obiezione di coscienza in Italia, cit., p. 47.

70 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., p. 96.

71 S. Albesano, Storia dell’obiezione di coscienza in Italia, cit., p. 47.

72 Ibidem.

73 S. Albesano, Storia dell’obiezione di coscienza in Italia, cit., p. 48.

74 L’espressione è tratta da A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., p. 144.

75 Mario Gozzini nasce a Cinisello Balsamo, in provincia di Milano, il 14 luglio del 1936.

76 S. Albesano, Storia dell’obiezione di coscienza in Italia cit., p. 68.

77 Le affermazioni di Gozzini del 17 dicembre 1962 sono tratte da G. Gozzini, Perché sono un obiettore di coscienza, in “La Voce dei Poveri”, Anno X, febbraio 1965.

78 Ibidem.

79 Ibidem.

80 Ibidem.

81 Ibidem.

82 Il giovane obiettore è difeso dall’avvocato Segre e in qualità di testimoni intervennero Capitini e il sacerdote salesiano Don Germano Proverbio. Cfr. S. Albesano, Storia dell’obiezione di coscienza in Italia, cit., p. 70.

83 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., p. 153.

84 G. Gozzini, Perché sono un obiettore di coscienza, in “La Voce dei Poveri”, Anno X, febbraio 1965.

85 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., p. 153.

86 Ivi, p. 155.

87 Nello stesso anno si verifica anche l’obiezione del cattolico Fabrizio Fabbrini, la cui opposizione al servizio di leva si contraddistingue per una chiara istanza di nonviolenza evangelica e di rifiuto all’obbedienza di leggi ingiuste: «Occorre porre l’accento sull’amore per il prossimo e del nemico e sull’orrore della violenza. Occorre proclamare che al cristiano non è lecito fare il soldato, neppure in tempo di pace […]. Il mio gesto ha soprattutto un valore di protesta contro chi si prepara a fare la guerra, sia pure di difesa […]. C’è sempre un limite all’obbedienza degli ordini: in tutti gli ordinamenti c’è un principio per cui agli ordini ingiusti non si deve obbedire […]. Penso che disobbedire ad una legge ingiusta non sia tradire lo Stato, ma aiutarlo a migliorarsi […]. Con la guerra non difenderete né i deboli né i poveri […]. Noi la vita preferiamo donarla, piuttosto che toglierla agli altri: perché è donando, e non uccidendo, che si conquista la dignità di persone umane». Cfr. A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, cit., p. 72.

88 Della Savia, qualche giorno prima del processo, pone in luce le ragioni della sua obiezione di coscienza: «Voglio manifestare la mia opposizione attiva ad ogni militarismo, ad ogni organizzazione militare […]. In una eventuale guerra […] non combatterei per un “patria” o per dei “valori”, ma per degli interessi contrapposti (una classe dirigente contro un’altra, un sistema di oppressione e di sfruttamento del lavoro umano contro un altro sistema di sfruttamento e di oppressione) per nessuno dei quali mi sento di simpatizzare e tanto meno di uccidere e di farmi uccidere. Mi rifiuto di commettere e di prepararmi a commettere indegne ed insensate violenze su ordinazione. Voglio testimoniare pubblicamente che non mi inganna e che vorrei non ingannasse più nessuno questa colossale e dispendiosissima e atroce mistificazione della “pace armata”». Cfr. I. Della Savia, Perché mi rifiuto di diventare soldato, in “Mondo Beat”, numero unico del 15 novembre 1966, pp. 6-7.

89 Ivi, p. 7.

90 L’architetto Viola, prima di essere tradotto nel carcere militare di Peschiera del Garda, in attesa del processo, sostenne le motivazioni che lo avevano spinto a dichiararsi obiettore di coscienza: «La mia collaborazione alla guerra sarebbe una stridente contraddizione col mio impegno alla testimonianza cristiana, col vivere l’insegnamento di Cristo che è pace e amore». Cfr. A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, cit., p. 71.

91 Ivi, p. 71-72.

92 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., pp. 157-158.

93 Ivi, p. 158.

94 Ivi, pp. 158-159.

95 Ivi, p. 172.

96 Dalle pagine del quotidiano “l’Unità” è possibile trarre la significativa dichiarazione di Franco Stassi, uno dei leader di quell’azione di protesta, che fu oggetto di una dura quanto ingiustificata operazione di polizia, conclusasi con 3 arresti e 4 fermi con l’accusa di «istigazione a delinquere». Stassi, animatore dei Comitati Antileva della valle del Belice, rilasciava queste affermazioni: «Sappiamo di rischiare grosso e di correre il rischio di pagare di persona. Ma sappiamo di cogliere nel segno. È’ assurdo che in Italia si debbano spendere nel giro di un solo anno duemila e più miliardi per l’esercito e per gli armamenti e che non se ne spendono appena 160 per avviare la nascita delle nostre terre. È’ chiaro c’è una precisa scelta, una precisa volontà politica. Contro questa volontà, e per cambiare le cose ci battiamo e vogliamo che altri si battano. Vogliamo che in tanti si sentano impegnati in una lotta che non è soltanto nostra ma di tutti e per tutti, perché tutti paghiamo lo stesso prezzo: le baraccopoli, la disoccupazione, l’opprimente presenza della mafia, la paurosa disgregazione, la fuga in massa all’estero, la ricostruzione che tarda». Cfr. G. Frasca Polara, In galera i terremotati contro la leva, in “L’Unità”, 6 giugno 1970, p. 7.

97 A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., pp. 174-175.

98 R. Venditti, Le ragioni dell’obiezione di coscienza. Intervista di Pietro Polito, cit., p. 80.

99 Le dichiarazioni dell’avvocato Segre sono tratte da A. Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., p. 202.

100 R. Venditti, Le ragioni dell’obiezione di coscienza. Intervista di Pietro Polito, cit., p. 101.

101 Gli obiettori finirono, in parecchi casi, per svolgere mansioni che non avevano alcuna legame con la scelta che avevano professato. Molti, ad esempio, si trovarono a svolgere mansioni tese semplicemente a sostituire figure professionali cronicamente carenti negli enti pubblici. Un altro limite, seppur di natura diversa rispetto al precedente, fu quello di aver imposto all’obiettore un servizio più lungo di ben otto mesi rispetto al servizio militare. Tra le tante incongruenze presenti nel testo, si può, inoltre, ricordare che il servizio civile venne affidato al Ministero della Difesa, che -scrive Venditti- avendo «come compito istituzionale quello di organizzare e potenziare le forze armate, […] è naturalmente incline ad una certa diffidenza nei confronti del fenomeno obiezione, e al contempo non ha alcuna specifica competenza tecnica ad occuparsi del servizio civile (che è servizio estraneo alle forze armate)». Cfr. R. Venditti, Le ragioni dell’obiezione di coscienza. Intervista di Pietro Polito, cit., p. 101.

102 Ibidem.