Maria Luisa Berneri e l’anarchismo inglese, Carlo De Maria (a cura di), Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi – Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa

Elena Bignami

Copertina MLBerneriIl testo consiste di 9 saggi, elaborazione di altrettante relazioni esposte nel corso dell’omonimo convegno di studi che si è svolto a Reggio Emilia il 19 novembre 2011. Un incontro che si inserisce in un programma di giornate di studio volte a valorizzare fondi, e personaggi, del copioso patrimonio documentario conservato presso l’Archivio Berneri-Chessa di Reggio Emilia.

Dopo i numerosi incontri dedicati a Camillo Berneri – ricordo solo, tra i più recenti, il convegno reggiano Camillo Berneri: singolare/plurale del 2005 e l’aretino Un libertario in Europa del 2007 che, come già sottolinea Giampiero Berti,  approfondisce la riflessione su aspetti decisivi della ventennale riflessione berneriana1 – e la giornata di studi su Giovanna Caleffi Berneri e la cultura eretica di sinistra nel secondo dopoguerra (Reggio Emilia, 22 novembre 2007) – per la quale rinvio alla mia precedente analisi pubblicata su questa rivista2 – , il quadro si arricchisce di quest’altro appuntamento, che vede come protagonista Maria Luisa Berneri, la primogenita della coppia Berneri-Caleffi, nata ad Arezzo il 1° marzo 1918.

L’Introduzione, sottotitolata La biografia di Maria Luisa Berneri attraverso le ombre dell’Europa e stilata dal curatore dell’intero volume, Carlo De Maria, ricostruisce la vita dell’anarchica, dai primi ricordi fino al trasferimento a Londra, intrecciando notizie sulle condizioni esistenziali (l’esilio in Francia, la difficile e affettuosa quotidianità di casa Berneri, l’incontro con Richard, il doloroso lutto del ’37) che attraversano la vita della Berneri in quel periodo, sulla sua formazione culturale – fortemente influenzata dalle «tendenze del movimento socialista e anarchico inglese» e dal «contatto quotidiano con gli ambienti del sindacalismo rivoluzionario francese» (p. 20), ma anche dall’anarchismo di Malatesta e dal pensiero del padre Camillo –, sul profilo intellettuale e l’impegno politico che sin da giovanissima esprime spontaneamente nella forma dell’intervento educativo, ma che trovò sfogo anche nell’organizzazione di conferenze pubbliche. Un lavoro che De Maria realizza soprattutto attraverso lo spoglio di alcuni importanti fondi (Serge Senninger e Vernon Richards in particolare) e con il quale il lettore viene introdotto al tema cardine del volume: il rapporto tra Maria Luisa Berneri e l’anarchismo inglese, di cui fu «intellettuale di punta» (p. 27).

I primi due contributi che seguono, e di cui sono autori, nell’ordine, Giampietro Berti e Pietro Adamo, si concentrano con diverse impostazioni e diversi obiettivi su Journey Through Utopia, il saggio della Berneri pubblicato postumo nel 1950 a Londra e solo nel 1981, grazie all’iniziativa di Aurelio Chessa, in Italia.

Il primo offre una sintetica ma dettagliata analisi del testo berneriano, nella sua struttura e nelle sue scansioni, individuandone virtù e mancanze. Journey prende in esame – scrive Berti – «gran parte delle raffigurazioni utopiche [da Platone a Aldous Huxley] con una doppia, intenzionale chiave di lettura, negativa e positiva, in quanto vengono distinte le utopie autoritarie dalle utopie libertarie». Si tratta cioè di «una ricognizione generale volta ad abbracciare lo svolgimento storico di una determinata propensione della cultura occidentale: quella che si pone contro e oltre l’istituzionalizzazione e la giustificazione dell’esistente» (p. 33), che permette di «vedere il diverso atteggiarsi di una millenaria illusione, ovvero la ricorrente ricerca della società ideale come riposta al problema (irrisolvibile) del male», anche se – tuona l’autore – non sempre chiarisce le problematiche che implica, e cioè il fatto che «il tentativo di creare il paradiso in terra delinea, di fatto, un’alternativa del tutto insussistente alla dimensione del trascendente perché non esce dall’orizzonte religioso, solo che questa religiosità è posta sul piano dell’immanente. In tale prospettiva l’uomo non viene considerato nella sua contingenza effettiva, ovvero nella sua realtà storica, ma nella sua ipotetica, recondita autenticità atemporale» (p. 35). Il secondo autore, invece, prende in considerazione Journey Throught utopia vestendo i panni del (ri)lettore maturo che cerca di allontanarsi dal fascino e dalla fama che il saggio evoca, per vagliare i «problemi storici e politici» che affronta (p. 47). In un certo senso, dunque, Adamo seguita ed entra nel merito delle questioni sollevate dall’analisi di Berti. E così nella coltissima disamina berneriana «dell’utopia e dei suoi autori» (p. 51), «guidata da uno spirito critico che avvicina costantemente utopia e totalitarismo» (p. 49), Adamo vede emergere in primis la mancanza «di consapevolezza della distinzione tra utopia, intesa come genere letterario, e utopismo, inteso come slancio ideale e progettualità di mutamento, come spazio della speranza» (p. 47). Il pensiero va alle affinità con Karl Popper, Ernst Mach, Ernst Bloch ma anche con Lewis Mumford per il quale «l’utopia acquista senso come progetto e stimolo all’azione» (p. 55) e per motivi analoghi con l’idea che le utopie abbiano fornito all’umanità «idee e materiali» (p. 56) di Joyce Hertzler e alla più complessa elaborazione di Karl Mannheim. Una letteratura che la Berneri ha talvolta ignorato, sorprendentemente (perché coevo) nel caso di Mannheim (p. 59) e in generale dei «paradigmi associati all’anarchismo newyorchese» (p. 61). Stupore che Adamo ridimensiona, ipotizzando che la causa di questa omissione possa risiedere nella «natura dell’anarchismo britannico del periodo, lo stile della sua propaganda e i suoi orientamenti culturali» (p. 61), equidistante da Varsavia e Washington, «che mette sullo stesso piano Est e Ovest» (p. 63), anche a scapito della ricerca scientifica e culturale.

Enrico Acciai, autore del quarto saggio, dedica la sua riflessione alla rivista «Spain and the World», «pubblicazione influente e longeva» (p. 75) – uscì infatti per 47 numeri dall’11 dicembre del 1936 al 23 dicembre del 1938, oltre ad uno speciale del giugno 1937 – e alle sue relazioni con il «variegato e complicato universo dell’antifascismo italiano», al fine di avere «un quadro più esauriente su Maria Luisa Berneri, su Vernon Richards e sulla loro generazione» (pp. 69-70). Acciai spoglia attentamente la rivista ripercorrendone la storia sin dagli albori – l’esilio a Londra di Emidio Recchioni, padre del fondatore di «Spain and the World» –, fino alle vicende di quel «conflitto di carattere spiccatamente internazionale» (p. 75) che fu la guerra civile spagnola e alla reazione che produsse sui popoli e sui governi. Un quadro composito, che spiega come il successo di «Spain and the World» sia da attribuire all’incontro tra l’abbandono da parte del governo inglese del governo spagnolo e la conseguente «mobilitazione popolare in suo sostegno […], particolarmente ricettiva verso le pubblicazioni “pro-repubblicane”» (p. 77) e che spiega i suoi tratti distintivi, e cioè che sin dall’inizio e per tutto il corso della sua esistenza è stata caratterizzata dal leitmotiv di «numerosi reportage sulle realizzazioni rivoluzionarie di Spagna» (p. 79) e dal susseguirsi di prestigiosissime firme (Nettlay, Golman, Berneri, Montseny, Sartin, Leval, Oliver), ma anche le due distinte fasi editoriali che la attraversano: una prima che, pur mantenendo una solida sensibilità «ai temi tradizionalmente cari al movimento libertario, amplificati dal contesto rivoluzionario», non dimentica di «seguire le vicissitudini dell’antifascismo italiano nel senso più ampio possibile» (p. 81), e poi la «virata editoriale» dell’estate ’37 (p. 82) quando «Spain and the World», «rispecchiando quanto stava succedendo in contemporanea all’interno del movimento anarchico internazionale» finì per «chiudersi su se stessa» facendo dei vari partiti comunisti «gli obbiettivi privilegiati delle critiche degli editorialisti» (p. 83) e privilegiando la politica internazionale «a scapito delle vicende spagnole» (p. 84), ma lasciando anche emergere tra le sue pagine «una sensibilità antimilitarista e pacifista sino ad allora» inedita (p. 85).

Claudia Baldoli seguita il discorso di Acciai – il richiamo è alla questione pacifista/antimilitarista che emerge durante la seconda fase della rivista «Spain and the World» – ed esplora «alcuni temi della campagna della Berneri contro i bombardamenti di massa nella Seconda guerra mondiale» (pp. 93-94) che ben mettono in rilievo quanto la perspicacia dell’analisi critica berneriana arrivi ad anticipare «aspetti che la storiografia ha iniziato a esplorare solo di recente» (p. 94). Riprendendo la critica di Salvemini, la Berneri – scrive la Baldoli – denuncia come «le bombe, il mezzo con cui la democrazia intendeva combattere il fascismo» distruggessero in realtà solo «i quartieri operai delle città, spesso le zone più antifasciste, i cui abitanti non avevano nemmeno votato per Hitler nel 1932» e non il fascismo (p. 96). Una critica che la Berneri rivolge soprattutto alle incursioni aeree degli alleati sull’Italia. «Secondo l’interpretazione di Maria Luisa Berneri – scrive la Baldoli, gli alleati [fino al ’43] chiedevano agli italiani di ribellarsi ma continuavano a bombardarli, poiché essi non volevano una rivoluzione italiana, ma semplicemente il crollo del morale della popolazione»  (p. 100), e più tardi, durante la guerra di liberazione, quando l’obiettivo divenne quello di «sabotare la produzione bellica tedesca, […] interrompere i rifornimenti e le linee di comunicazione, e […] sostenere lo sforzo degli eserciti, il loro effetto, per la popolazione civile, fu ancora più devastante che durante gli anni precedenti», e questo si rivelò un devastante mezzo – sostiene la Berneri – per «impedire la rivoluzione italiana» (P. 102).

Carissa Honeywell  ricostruisce, attraverso le carte dei National Archives, la vicenda giudiziaria che nel febbraio del 1945 vide arrestati Maria Luisa Berneri e Vernon Richards per “incitamento diretto a membri delle forze armate a non compiere il proprio dovere” e che si risolse con l’assoluzione della Berneri e lievi condanne per Richards e due altri collaboratori. Una vicenda che fa da sfondo anche al bel saggio di Pietro Di Paola, attento studioso del movimento anarchico italiano a Londra, dedicato all’impatto che ebbe la Berneri sul gruppo di Freedom Press. Insieme a Richards contribuì – scrive Di Paola – «a far uscire il gruppo […] da una crisi che durava dai tempi della Prima guerra mondiale» e ad arricchirlo di nuovi militanti ed «esponenti di rilievo del mondo artistico e letterario» (pp. 133-134). La storia del gruppo si snocciola allora intorno alle sue pubblicazioni e alle personalità che vi contribuirono. Da «Spain and the Wold» – poi «Revolt!» –, che segna un «momento di svolta per la ripresa del gruppo» (p. 134) grazie alla collaborazione di George Orwell, George Woodcock, Herbert Read, Alex Comfort, un giovanissimo Colin Ward, ma anche Emma Goldmann – che con la Berneri, ricorderà Senta qualche pagina più avanti, aveva rapporti strettissimi, «tanto che nel 1938 le due svolgono le proprie rispettive attività politiche nello stesso stabile di Soho, a Londra, dove entrambe risiedono» (p. 162) – e degli «antifascisti e anarchici della colonia italiana», a «War Commentary» che, «pubblicato durante tutta la durata del conflitto senza saltare un solo numero […], soprattutto grazie a tre donne: Marie Louise Berneri, Peta Edsall e Lilian Wolfe» (p. 136), poté contare sulla collaborazione di George Woodcock (anima del gruppo dal ’42 al ’48) ma anche di «artisti e letterati, in particolare i poeti apocalittici e un gruppo di surrealisti francesi e belgi esuli a Londra che erano stati messi in contatto con la Berneri […] [da] Simon Watson Taylor» (p. 138), autore sul «War Commentary», a dire di Woodcock, dell’unica recensione entusiastica «in tutta la stampa britannica” della Fattoria degli animali» (p. 138). Ma fra i collaboratori di rilievo occorre menzionale anche il pacifista John Hewetson che «introdusse nel giornale argomenti all’epoca controversi sulle relazioni sessuali e sulla contraccezione chiedendo, fin dal 1942, la totale legalizzazione dell’aborto», l’obiettore Philip Sansom «disegnatore e a lungo tipografo del giornale» (p. 139) e il “disertore” John Olday.

Senta, invece, analizza «il pensiero di Maria Luisa Berneri sugli avvenimenti della politica europea e internazionale negli anni Quaranta del Novecento» (p. 159), riassumendolo mirabilmente in pochissime righe: «Ella contesta così l’idea che il mondo sia diviso ideologicamente in regimi liberali e democratici da una parte e regimi autoritari o totalitari dall’altra. Le differenze nei tipi di governo ci sono, ma, sostiene, sono più di forma che di sostanza e in realtà essi condividono gli stessi caratteri di fondo: il cosiddetto “mondo libero” del secondo dopoguerra, ovvero le democrazie occidentali, è libero solo per le classi dominanti, mentre per i lavoratori in patria e gli oppressi nelle colonie significa sempre “schiavitù”. […] La sua visione è quindi completamente anarchica: non ci sono governi buoni, neppure quelli che si arrogano la pretesa di combattere contro Hitler in nome della democrazia, e non può esistere una guerra giusta, una guerra che ponga termine al concetto stesso di guerra» (p. 164). In questo quadro si inserisce Neither East nor West, la «raccolta articoli apparsi proprio in «War Commentary» e in «Freedom»» pubblicato postumo nel ’52» e «considerato il primo libro in lingua inglese a dar voce alla condanna senza compromessi tanto della politica delle potenze occidentali quanto di quella dell’Unione Sovietica» (pp. 165-166).

Conclude Mariuccia Salvati, che nel richiamare alcuni passaggi del convegno offre spunti per analisi future – l’affascinate tema dell’utopia, l’opportunità di studiare reti di relazione «per una possibile network analysis (o analisi di strutture relazionali)» (p. 178) – ma anche una riflessione. Richiama l’attenzione sull’opportunità di riflettere sul periodo della guerra come «terreno di incontro tra posizioni politiche non necessariamente uguali ma idealmente vicine» (p. 176) e rievoca il gruppo di «politics», la rivista che «pubblicata e diretta tra il 1944 e il 1948 a New York da Dwight Macdonald » (p. 176) si mostra, scrive Sumner, come «“un ponte tra generazioni radicali, tra ‘vecchia’ e ‘nuova’ sinistra, e tra Europa e America”» (p. 177), proprio come doveva essere – osserva la Salvati – una figura come quella di Maria Luisa Berneri, così preziosa da far «emergere in modo sconcertante», con il suo Journey «il rapporto stretto e fatale tra pensiero utopistico e realtà sociale», per chiudere con le parole di Woodcock.

I maggiori meriti di questo denso e sottile volume vanno a mio avviso individuati nel progetto di lungo periodo di cui parlavo all’inizio, e cioè nell’impegno costante con cui l’Archivio Berneri-Chessa lavora su fondi complicando e arricchendo continuamente studi già in atto e soprattutto, nel caso specifico, nella lungimiranza, a cui in realtà ci hanno già abituati queste giornate di studio, di riunire studiosi di alto profilo chiedendo loro di spostare lo sguardo e concentrare sforzi e competenze su luminosi profili femminili; proprio come quello di Maria Luisa Berneri.

  1. Giampietro Berti – Giorgio Sacchetti, Introduzione, in Un libertario in Europa. Camillo Berneri: tra totalitarismi e democrazia, Eid. (a cura di), Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa in collaborazione con la Provincia di Arezzo, 2010, p. 14. []
  2. Percorsi di studio sull’anarchismo al femminile: Giovanna Caleffi Berneri, in «Storia e Futuro», 2013, n. 31 [http://storiaefuturo.eu/percorsi-di-studio-sullanarchismo-femminile-giovanna-caleffi-berneri/]. []