Monsignor Agostino Rivarola. Vita e impegno politico nelle “lettere marchigiane”

di Luca Sansone

Abstract

Monsignor Agostino Rivarola fu governatore pontificio prima di San Severino (1793-1797) e successivamente della provincia di Macerata (1802-1807). Attraverso le numerose lettere che in quegli anni indirizzò alla famiglia (oggi conservate presso l’archivio della Società Economica di Chiavari) è possibile ricavare un quadro reale sia della personalità di Rivarola, sia delle difficoltà legate all’amministrazione dei territori pontifici nel periodo che vide l’urto tra Francia napoleonica e Santa Sede.

Abstract english

Agostino Rivarola was papal governor of San Severino (1793-1797) and later of the province of Macerata (1802-1807). Through the many letters that, in those years, he addressed to his family (now preserved in the archives of the Società Economica of Chiavari) is possible to have a true picture of Rivarola personality, and also of the difficulties relating to papal territories administration during the conflict between Napoleonic France and the Holy See.

Premessa

“[…] Mi acorgo di non aver più grazia a scrivere”: così constatava monsignor Agostino Rivarola (1758-1842) in una lettera indirizzata al fratello, il marchese Stefano, nel febbraio del 1796. Più oltre, nella stessa, egli ammetterà di dover spesso ricorrere all’aiuto del proprio segretario, “avendo io un carattere di galina”.

È una scrittura aspra e sgraziata, dunque, quella di monsignor Rivarola: con periodi costruiti in maniera contorta, ricca di anacoluti e non scevra da errori grammaticali, al punto che spesso la comprensione del documento è tutt’altro che immediata. Trattano, queste carte, i più disparati argomenti: da quelle di carattere familiare a quelle dal contenuto più prettamente “politico”. Scritte con tono schietto, vivace e talvolta persino scurrile, sono il prodotto di una penna goffa eppure tagliente, abilissima nel dare libero sfogo agli umori e ai turbamenti di una personalità vulcanica quale fu, appunto, il Rivarola.

Nominato nel 1793 governatore pontificio di San Severino e, successivamente, nel 1802, “Preside generale” della Marca maceratese, egli consegna alla carta le proprie quotidiane emozioni. S’infuria, gioisce, si dispera. Spende soldi e s’indebita, poi piange miseria e reclama, con foga, denari da casa; vagheggia onori e promozioni, e intanto schernisce i potenti della Curia romana; impreca contro il generale “Buona Parte” e contro i francesi, per i quali invoca il castigo divino in Cielo e, in terra, la morte violenta per mano del pio popolo marchigiano. E infine scruta, con occhio attento e curioso, i mutamenti e le fibrillazioni del panorama politico europeo.

Il maggior merito di queste lettere è dunque quello di consegnarci una rappresentazione intensa, un ritratto vivo e reale del loro autore; esse accompagnano il lettore odierno attraverso la vicenda umana, religiosa e politica di Rivarola, in un percorso che si snoda dalla natia Liguria alle Marche, da Roma a Venezia (dove partecipò al Conclave del 1799-1800).

Ne emerge, attraverso un quindicennio, lo spaccato di una società travagliata da mutamenti radicali e profondi: un mondo popolato da giacobini e conservatori, da principi e mercanti, da cardinali e generali. Fu, certamente, un’età burrascosa: e monsignor Rivarola si trovò, spesso e volentieri, proprio nel cuore della burrasca. Possiamo dire che egli visse intensamente; citando un’altra sua lettera (28 marzo 1798), la sua fu una vita “strapazzata”.

Insomma, fu un protagonista del suo tempo: un uomo profondamente calato nella realtà e nei drammi di un’età turbolenta, di cui non a caso egli reca l’impronta, nelle passioni così come nelle inquietudini.

Governatore di San Severino

“[la] mia salute […] è la dio mercé veramente ridente, non sono mai stato meglio dai denti in poi […] insomma sto benissimo e mi sento vivo e alegro come ero a vent’anni”.

Così scrive Rivarola ad un amico di famiglia, Ferdinando Petracchi, il 17 giugno 1796, cioè a pochi mesi dal proprio insediamento nel Palazzo apostolico di San Severino. Possiamo però supporre che questa descrizione, così rosea e felice, non fosse del tutto sincera, ed avesse piuttosto lo scopo di non inquietare eccessivamente l’anziana madre. Infatti altre lettere, scritte sin dall’arrivo in città, offrono un quadro diverso, a tinte ben più fosche.

Agostino è angustiato dalle ristrettezze economiche. Ne riferisce in più occasioni, reclamando che, da casa, gli inviino denaro. Ne fa richiesta, con una certa insistenza, a don Giuseppe Daneri. Costui amministrava i beni e le finanze dei Rivarola (illustre famiglia del patriziato genovese), secondo un’abitudine invalsa presso l’aristocrazia della Superba, la quale selezionava i propri economi tra le file del clero. Un’usanza che spesso suscitava lo stupore, e anche l’ironia, degli osservatori forestieri: tra questi possiamo ricordare due francesi, il turista Charles Dupaty e il doganiere Jacques Boucher de Perthes.

È dunque a don Daneri che Agostino, pressantemente, rivolge i suoi appelli. Così aveva scritto, per esempio, il 4 marzo 1796, cioè a circa un mese dalla nomina a governatore:

“È un gran tempo che io non veggo più un soldo venirmi da casa mia […] Io ho bisogno di danari, e di molti ancora, se ho da provedere alle cose mie, […] perciò vi prego di mandarmene, e quel che è più vi averto di mandarmeli in zecchini Romani”.

Un appello che, per quanto pietoso, rimane inascoltato; tant’è vero che il nostro, che peraltro ha contratto diversi debiti, si vede costretto ad alzare i toni. Il 10 aprile 1797 scriverà, ancora a don Daneri, parole piene di collera, che hanno il sapore di una minaccia:

“[…] vi dico e altamente vi dico che voglio essere pagato […] Nessuno è più buono di me quando si sta a cose ragione, ma quando mi si vuol burlare e prendere giuoco di me divento furioso e mi protesto capace di tutto”.

Egli teme, in particolare, che i suoi interessi non siano sufficientemente tutelati, e ciò a tutto beneficio del fratello, il marchese Stefano, il quale può liberamente disporre dei beni di famiglia.

“Carissimo Don Daneri […] Se mai non poteste mandare quatrini perché gli aveste improntati a Stefano pensate a farvi reintegrare perché io voglio disporre di ciò che è mio […] Il tempo dei complimenti, anzi dirò meglio della coglionagine è passato”.

Così leggiamo in una lettera del 14 settembre 1796. Dello stesso tenore è uno scritto del 16 settembre, rivolto, questa volta, direttamente a Stefano:

“[…] è troppo vero quel proverbio che chi troppo tira alla fine strappa. Io sono stanco di far nei miei affari di Genova la figura del coglione, e di sentire che ogni volta che dò qualche comissione mi si risponda sempre da voi con tante restrizioni, […] e come se mi faceste la carità. Io non voglio carità ma voglio quel che mi conviene. […] vedrò se saprò trovare il modo di avere ciò che mi conviene”.

Sono molteplici le lettere in cui Agostino si sofferma sull’“ecconomico bordello” di casa Rivarola, come lui lo definisce; da questi scritti, peraltro, possiamo arguire che le finanze della famiglia, in quel momento, fossero tutt’altro floride. È lo stesso Agostino, difatti, a compatire, tra il serio e il faceto, il suo interlocutore don Daneri, dicendo che questi ha “tanta poca scaiola e tanti ucelli da governare” (20 maggio 1793).

Ma di certo non è questo l’unico, e neppure il maggiore, tra i problemi che monsignor governatore si trova a dover fronteggiare durante il proprio mandato. Il protagonista principale delle lettere, il tema che in maniera più prorompente emerge, è infatti “la Politica”. Rivarola è un osservatore attento e curioso, e incalza amici e parenti affinché, da Genova, gli forniscano notizie precise e circostanziate su quanto avviene “in patria”. Il 20 maggio 1794 si raccomanda così a don Daneri: “Non mi lasciate ignorare le notizie del nostro Paese che richiamano i riguardi di tutta l’Europa”. Il 7 aprile 1796 chiede di essere costantemente tenuto informato, giacché la “gazetta” ligure, che pure aveva richiesto, non gli viene spedita con l’assiduità che vorrebbe: “le nuove della patria sono interessanti, adesso datemele o fatemele dare settimanalmente”.

E, di lì a poco, riporta al fratello le voci, giuntegli da Roma, riguardo ad una congiura filofrancese che ha messo in subbuglio la città, e lo rimprovera di non avergliene lui stesso parlato:

“[…] mi viene un paragrafo di lettera di Genova […] che comincia: Misericordias Domini quia non sumus consumpti e prosiegue per dire una congiura scoperta, il pericolo grave in cui siamo stati e il buon stato attuale, perché i francesi sono svaniti […] Potete credere quanta specie mi abbia fatto di non vedermi scrivere nulla di tutto questo direttamente da Genova e specialmente da voi […] Spero che nel momento che scrivo sia in corso e molto vicina ad arrivarmi anzi domani una vostra lettera che mi raguagli di tutto”.

Quando poi, nel maggio 1797, il fantasma giacobino si concretizza, per impulso dell’ambasciatore francese Faipoult, in un vero e proprio tentativo sovversivo, egli scrive alla madre, il 5 giugno, una lettera concitata:

“Io sono nella massima agitazione […] mi pare di rilevare che Genova dovette rapresentare in quelle ore il giudizio universale, per il disordine per la costernazione e per l’orrore degli eccessi che si cometevano e magiori si tentavano. Si dice […] che una truppa di briganti […] s’impadronirono di molti posti interessanti e forti, che sciolsero i galeotti, che si avanzarono per le strade con canoni carichi a mitraglia, e andavano verso il palazzo Ducale, quando avisati dello sconcerto i Carbonari prima, e poi i Portoriani quei di Pre quei del Molo animati da buon spirito chiesero le armi al Governo e otenutele si fecero con ottimo sucesso sopra i rivoltosi, li levarono i cannoni, e gli obligarono assai presto, a rifugirsi ai posti che avevano prima occupati, dai quali pure furono discaciati con mortalità nella notte suseguente […] Per carità non mi lascino ignorare cose di tanta importanza […] Ho la testa affascinata e fin che non mi tranquilizzo non sò tener proposito d’altra cosa”.

Questo per quanto concerne le vicende liguri; va detto, però, che l’orizzonte cui Rivarola guarda è ben più ampio, ed è la scena europea. In particolare egli concentra l’attenzione, come è naturale che sia, sulle dinamiche romane, ove non risparmia giudizi severi, e talvolta taglienti, nei confronti degli uomini della Curia.

Nel 1796, in un momento particolarmente buio per il papato, Pio VI aveva nominato segretario di Stato il cardinale Ignazio Busca, lombardo, membro di un’importante famiglia che vantava stretti legami con l’Imperatore. La Santa Sede, minacciata dalla Francia, guardava speranzosa agli Asburgo.

Il “cardinal Segretario” non gode della benché minima stima da parte di Agostino, che infatti commenta la nomina con un gioco di parole piuttosto infelice: si tratta di una “buscarata”, l’ultima, si augura, di una lunga serie compiute “in questi ultimi tre anni”. Ciononostante, “siccome bisogna pigliare il mondo come viene”, Rivarola ha avuto cura di mantenere buoni rapporto “con quel bestione” e ora, avvalendosi di un’importante parentela, spera in una promozione. Suo zio, Michelangelo Cambiaso, fratello della madre, è infatti un uomo assai influente: doge della Repubblica di Genova dal 1791 al 1793, prima della carriera politica aveva intrapreso la strada ecclesiastica ed era stato vice-legato pontificio a Bologna, dove aveva conosciuto il cardinale Busca.

Agostino si rivolge così al fratello:

“Ho ragione di sperare de malo bonum. Ma per coadiuvare queste stesse mie speranze penso io e mi viene anche sugerito da un mio amico che è in relazione col Cardinale che lo Zio Michel-Angelo che è stato lungamente suo colega e che lo stesso cardinale mi ha sempre detto di aver avuto amicissimo potrebbe scrivere una lettera di ralegramento al detto cardinale e raccomandarmi a lui. Da questo ufficio spererei molto per il magior grado dell’avanzamento. Pregatelo dunque caldamente in mio nome”.

Non sappiamo se e come si sia mosso Michelangelo, generalmente poco incline ad assecondare l’estroso nipote, dopodiché l’agognato avanzamento non ci fu.

Tra l’altro la Chiesa, in quegli anni, attraversava un periodo assai grigio; riprova ne è il fatto che l’incarico dello stesso Busca ebbe vita brevissima. Il segretario di Stato rassegnò le proprie dimissioni nel 1797, all’indomani del trattato di Tolentino, la pace ignominiosa imposta con la forza da Napoleone, tra le cui conseguenze ricordiamo la cessione alla Francia delle legazioni di Ferrara, Bologna e Romagna, la rinuncia di ogni pretesa papale su Avignone e, infine, pesanti tributi da pagare al nemico come riparazione di guerra.

La situazione era quindi incandescente, e peraltro non mancavano, nelle Marche pontificie così come nel resto della Penisola, i più fervidi fautori della Francia. Tra questi vi erano anche alcuni ecclesiastici. Per esempio Ludovico Sensi, arcidiacono di Loreto, all’arrivo dei francesi venne da questi nominato governatore generale della città, al posto di monsignor Celani, il quale era precipitosamente fuggito oltre il Tronto.

Rivarola rievoca le vicende di quei giorno in una lunga lettera alla madre (18 marzo 1797): Sensi “si presentò in Loreto e andò a primo pezzo a spoliare con furore e con ischerno la capella della Madonna”. Non solo saccheggiò la Chiesa, ma anche “ha devastato il Palazzo Apostolico dove era un appartamento per il Papa di veluto rosso trinato d’oro tutto nuovo”. Infine “questo vaso d’iniquità ha incassata la statua della Madonna e vi ha scritto sopra Parigi”. Solo lo sdegno della popolazione, accalcatasi di fronte alla chiesa, impedì allo “scelerato” di procedere alla demolizione della “Santa Casa”.

Rivarola vede, in tali vicende, “il castigo d’Iddio”, incorso e per la debolezza dei capi della Santa Sede e per “l’avilimento di un popolo coragioso che si è lasciato imporre da un pugno di gente che non erano più di 10 o dodici mila al sommo”. Si comprende bene quale spirito animi Rivarola, che aveva guardato speranzoso alle insorgenze che scuotevano la regione:

“A Cingoli […] hanno amazzati i Comissarj […], a Fermo a Civita-Nuova e altrove è accaduto lo stesso e i Francesi a vista di questi oltraggi conoscendo di esser pochi e temendo conseguenze funeste hanno pregato per mettere in pace i popoli insorgenti […] Se noi non eravamo traditi dai nostri […] dei Francesi non ne scappava uno, ed è loro andata bene perché i popoli avezzi ad una lunghissima pace sono appunto come un ferro ruginoso, che prima di fare di se bella mostra e di balenare sulli occhj del nemico, abbisogna di essere dalla contradizione dal danno e dalle soverchierie messo alla rota”.

Governatore di Macerata

Dopo la prima restaurazione del governo papale, Rivarola venne nominato, il 12 luglio 1800, legato a Perugia. L’impiego a Macerata sopraggiunse a distanza di pochi anni, nel settembre 1802, ed egli lo accolse con malcelata insofferenza: “Ho abbandonato con dispiacere Perugia e le persone cui ero affezionato”.

Macerata, scrive, è una “città piccola bella e moltissimo popolata” ma egli sente l’amaro in bocca, perché “chi ha saputo adatarsi a San Severino può ben stare a Macerata ma chi era stato delegato a Perugia non doveva essere ne può vedersi volentieri degradato a Macerata”. Si consola da tale dispiacere riflettendo sui buoni introiti che possono derivargli dal nuovo incarico, per i quali spera di riuscire, finalmente, a “lasciar in sumno pacis Don Daneri”, saldando anche tutti i “debbiti antichi e moderni”; cosa che, ovviamente, si rivelerà essere una pretesa illusoria.

Comunque, “il Governo di Macerata è piuttosto lucroso”, al punto che “se non avessi piaghe sempre gementi, e avessi un cuoco meno sprecone potrei avere sempre alla mano qualche scudo, felicità non mai conosciuta daprima”.

Tale ottimismo non gli impedisce, tuttavia, di raccomandare al fratello di piangere “miserie a conto mio” presso lo zio Michelangelo: “vedete di straparli qualche cosa in denaro, o almeno qualche pezzo di argento, un bel rochetto, qualche finimento damascato insomma qualche cosa che io piglio tutto”. A distanza di qualche anno, nel marzo 1805, ogni velleità di indipendenza economica viene definitivamente accantonata. Agostino torna dunque reclamare denari, in mancanza dei quali, scrive stizzito al fratello, “la mia borsa diventerà peggio che il Canto oscuro, dove tutti vanno a cacare”.

Per il resto, egli ha “la consolazione di essere qui molto amato, e temuto assai, tanto che senza castigare nessuno le cose vanno nel maggior buon’ordine per la opinione della mia fermezza, e della supposta severità”.

Non cessa, però, di ambire a incarichi più prestigiosi e forse anche più remunerativi, come dimostra una lettera del 12 febbraio 1803:

“Si parla della restituzione della Romagna. Potrebbe essere, che se accadesse io fossi cercato per andarvi, e non mi ricuserei, e quantunque conoscessi, che mi caricherei di un’enorme fatica, pure l’amor proprio, e il venire l’Ordinatore dello Stato in due punti più difficili tra un Confine, e l’altro me ne darebbe il coraggio. Questo però potrebbe accadere nell’ipotesi, che il Padrone Generale non scrivesse mandateci il tale, nel qual caso il primo imbecille diventerà sempre il primo Uomo della Corte Romana”.

Di fatto, è un Rivarola piuttosto rassegnato. Al riguardo, scrive di aver “adottato quanto allo spirito un certo apatismo, di cui mi trovo bene per non inquietarmi dell’altrui soverchierie, e vi assicuro che attualmente sono indifferente a essere Governatore ò a essere Cardinale, come tornarmene a Casa”.

Tale “apatismo” è pero destinato a subire un violento scossone: in questi anni i rapporti tra Francia e Chiesa si sono, infatti, ulteriormente inaspriti. Nel luglio 1807, dopo innumerevoli provocazioni e umiliazioni, silenziosamente sopportate da papa Pio VII, lo scontro tra Francia e Santa Sede giunge al suo apice. Il generale Jean Le Marois, per esplicito ordine di Napoleone, si proclama governatore di Ancona, Macerata, Fermo, Spoleto e Urbino e prende possesso, manu militari, del territorio.

Di fronte a tale prevaricazione, l’atteggiamento delle autorità pontificie tende ancora ad evitare lo scontro aperto, in una politica all’insegna della fermezza e, allo stesso tempo, della prudenza. Ce ne dà una dimostrazione lo stesso Rivarola, in una circolare del 10 novembre diretta ai giusdicenti della provincia, che reca l’indicazione di trattare “civilmente il Comandante di questa colonna mobile” senza però mancare di protestare “altamente in voce, e in iscritto contro la violenza”.

Di lì a poco, però, Rivarola venne tratto in arresto. Così ce ne dà notizia il suo segretario, Paolo Cacciatori, scrivendo al marchese Stefano:

“Il Generale Lemarois […] aveva fatto ingiungere per mezzo dell’altro Generale, che risede qui, l’arresto ed il trasporto in Ancona al Corpo della Magistratura […] In seguito di ciò Monsignore credette di far presentare […] una protesta […] Il Generale dopo ricevuta questa venne ad arrestarlo in casa portandosi una sentinella, dopo le due, e mezza della notte lo fece montare in legno, e scortato da trè Granatieri lo tradusse in Ancona, da dove poi è stato fatto passare in Pesaro, ignorandosi il resto […] così siamo rimasti orfani, e derelitti in mezzo alla più crudele afflizione”.

Rivarola viene dunque incarcerato nella fortezza di Pesaro, presto raggiunto da Filippo Silvani Brunetti, suo luogotenente, cui subentrerà nella carica il governatore di Osimo, un tal “dottor Merenda”; dopo sei mesi di prigionia, il nostro viene spostato a Rimini, rimanendovi per altri diciotto mesi.

Come riferisce il Papa nella sua Allocuzione alla Congregazione Concistoriale del 16 marzo 1808, è infine giunto “quell’infausto giorno, che nel corso di tre anni ci avevano già annunciato le tante ed incessanti minacce dell’Imperatore de’ Francesi”. Occorre prendere atto che ormai Le Marois spadroneggia incontrastato nelle province di Ancona, Urbino, Macerata, Fermo e Camerino: addirittura, il generale “fece dipingere sulla Porta d’Ancona lo Stemma Imperiale colla iscrizione “Porte de France”, diede varj ordini ai publici Rapresentanti di quella Comunità, e perfino si fece lecito di Arrestare Mg. Rivarola Presidente della Provincia Maceratese”.

Conclusione

Nelle lettere che Rivarola invia dalla città adriatica, dove è tenuto prigioniero, leggiamo rassegnazione e sconforto. È un uomo abbattuto, stanco, che consegna al fratello, il 20 giugno 1809, un’amara riflessione:

“[…] nella colisione di due grandezze i Piccoli intermedj restano schiacciati così io e molti miei compagni di carriera di travagli e di sincera affezione ai proprj doveri andiamo a cambiare gli onori e le ricompense che potevamo sperare in un ozio ed in un oscurità umiliante se pur anche basterà come è vero il volgare proverbio che non cade foglia che Dio non voglia, così è vero che la religione è un grande sostegno ed una grande consolazione per i sventurati che cessano appunto di esser tali perché hanno la grande ventura di crederci […] senza inquietarmi abbandono ogni mio pensamento e desiderio ai consigli imprescrutabili della Providenza. […] Per il meglio che mi possa andare mi risulterà il piacere di rivedervi […] Se poi anderà alla peggio sarà quel che sarà.

La misura di queste disposizioni più o meno dipenderà credo io dall’urto magiore o minore, che potrà produrre la magiore o minore fermezza che s’incontrerà nel protagonista di questa Pièce larmoyante – ma come io credo che questa anderà all’ultimo grado così vedete quel che ci posiamo aspettare […] Se fossi meno fermo di carattere e meno raserenato ai voleri del Celo potreste ben immaginare quali cative impressioni dovrebbe incontrare il mio fisico per così gravi scosse morali, ma posso asicurarvi che sto benissimo di salute e abbastanza tranquillo”.

Sembrerebbe la fine infelice di un’ambiziosa carriera: non è affatto così.

Nel marzo 1814 Rivarola sarà infatti al seguito di papa Pio VII, di ritorno verso Roma. Verrà nominato delegato apostolico per la restaurazione del governo di Sua Santità e assolverà l’incarico con solerzia, smantellando energicamente ogni retaggio della passata amministrazione. Con un editto del 13 maggio egli prescrisse l’abolizione di tutta la legislazione napoleonica e ripristinò in toto il sistema di antico regime, al punto da suscitare la riprovazione di un osservatore straniero, che lo accusò di “cieco e focoso zelo”.

Questo forestiero si chiamava Henri Beyle, meglio noto come Stendhal; ma questa è un’altra storia.

Biografia

Luca Sansone, laureato in Scienze storiche presso l’Università di Genova, è socio della Società Savonese di Storia patria e collabora con “Studi napoleonici – Fonti Documenti Ricerche”.

Biography

Luca Sansone, graduated in History at the University of Genoa, is member of the association Società Savonese di Storia Patria and collaborates with “Studi Napoleonici – Fonti Documenti Ricerche”.

Fonti e Bibliografia

Fonti

Archivio della Famiglia Rivarola, presso la Società Economica di Chiavari:

Plico n. 206: Lettere di mons. Agostino Rivarola agli agenti di casa Rivarola, 1773-1823;

Plico n. 207: Lettere di mons. Agostino Rivarola all’agente don Giuseppe Daneri, 182-1805;

Plico 208: Lettere di mons. Agostino Rivarola al fratello march. Stefano e altri, 1796-1798;

Plico n. 209: Documenti politici di mons. Agostino Rivarola relativi all’urto tra Napoleone e lo Stato della Chiesa, 1797-1807;

Plico n. 210: Lettere di mons. Agostino Rivarola al fratello Stefano e alla cognata Anna Ceccopieri, 1799-1803;

Plico n. 212: Lettere di mons. Agostino Rivarola, Preside della provincia di Macerata, al fratello march. Stefano, 1803-1809.

Bibliografia

1809 Corrispondenza autentica e compita dei Ministri di Sua Santità cogli agenti del Governo Francese e comandanti della sua armata, Palermo.

1814 Raccolta di documenti autentici sulle vertenze insorte tra la S. Sede, ed il Governo Francese nell’usurpazione degli Stati della Chiesa, Tomo III, Roma.