Partiti e società. Come nasce (e come cambia) una ricerca storica

di Sebastiano Giordani

Un convegno a Bologna

Nel giugno 2009, si teneva a Bologna, nella prestigiosa sede universitaria di palazzo Hercolani, un seminario dal titolo: Crisi? Gli anni Settanta e le loro fatture, 1968-1981. Il workshop era il frutto della collaborazione tra l’Università di Bologna (in particolare il Dipartimento di Politica, Istituzioni, Storia e il Dipartimento di Discipline Storiche) e la Sissco (Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea), e faceva convenire nel capoluogo emiliano studiosi di diverse discipline provenienti da università e centri di ricerca di tutt’Italia. L’evento si prospettava ricco di stimoli per vari motivi. Innanzitutto per il titolo del seminario – volutamente problematico e interessante per l’inconsueta periodizzazione proposta, in specie per il termine ad quem. Ma soprattutto per l’approccio multidisciplinare che lo caratterizzava (storico, politologico, economico, demografico, sociologico e giuridico) e per la caratura scientifica dei partecipanti.

A quel convegno ero tra gli astanti e potevo constatare che lo svolgimento dei lavori non deludeva le aspettative della vigilia. Non è questa, ovviamente, la sede per un resoconto dettagliato (e tardivo) di quel seminario. Ciò che qui vorrei ricordare è l’immagine, che emergeva dal confronto tra gli studiosi, degli anni Settanta come tornante storico per la storia d’Italia. Tornante caratterizzato dalla compresenza di molteplici “figure di crisi” (Lanaro 1992, 447) che in qualche modo segnavano una cesura, o meglio una transizione. In particolare, di quell’epoca due aspetti si ponevano in risalto: da un lato, la stagnazione economica prolungata e la tensione sociale quasi permanente; dall’altro lato, l’incapacità del sistema partitico e istituzionale di fornire risposte politiche alle domande sociali scaturite dalla grande trasformazione degli anni precedenti.

Fra i tanti interessanti contributi, due in particolare – provenienti, tra l’altro, da studiosi che non erano tra i relatori – colpivano la mia attenzione.

Gli anni Settanta erano stati caratterizzati dalla proposta politica del compromesso storico e, nel triennio ’76-79, dall’avvio di una collaborazione tra Democrazia cristiana e Partito comunista normalmente ricordata come fase della “solidarietà nazionale” o della “solidarietà democratica”. Piero Ignazi interveniva sull’argomento ricordando come tale politica si fosse realizzata sovrapponendosi e prescindendo, di fatto, dalla società civile dove, nel frattempo, fermentavano i movimenti collettivi, rispetto ai quali la reazione dei partiti si dimostrava sostanzialmente di chiusura. Proprio negli anni Settanta i partiti esprimevano uno tentativo estremo di leadership, dando nuovo impulso allo sviluppo del welfare e inaugurando una stagione riformistica che, però, non si rivelava in grado di rifondare veramente il rapporto tra società ed istituzioni, a causa degli scandali ricorrenti e della deludente qualità dei servizi erogati. Secondo Ignazi, quindi, i partiti, un tempo anello di congiunzione tra società e istituzioni, proprio negli anni Settanta vedevano ridimensionarsi il loro ruolo ed il loro potere divenendo così delle “agenzie statali”, garantite dallo Stato (con il finanziamento pubblico e la lottizzazione delle aziende pubbliche) e in esso incistate perché ormai prive della capacità di legittimarsi in altro modo.

Mariuccia Salvati interveniva a sua volta nel dibattito asserendo che un approfondimento delle vicende degli anni Settanta avrebbe consentito di dare nuove prospettive alla storia dell’Italia repubblicana. Secondo la Salvati, la felice chiave di lettura della “Repubblica dei partiti”, proposta da Pietro Scoppola (1997) non dava forse conto pienamente delle dissonanze – emergenti proprio in quel decennio – tra il sistema dei partiti e la società italiana. La categoria di “Repubblica dei partiti”, infatti, pareva attagliarsi più che altro al periodo precedente, nel quale le forze politiche, tenendo unite le tante diversità italiane, avevano realmente “fatto funzionare” la Repubblica1. Invece, in quella stessa categoria non sembravano trovare posto le immagini fortemente divaricate e diversificate del paese che era possibile cogliere già negli anni Settanta, e che sarebbero emerse ancor più nitidamente in seguito. Sulla base di queste considerazioni, si poneva, secondo Mariuccia Salvati, una domanda importante: perché i partiti avevano funzionato efficacemente fino ad allora e poi non più, lasciando che il paese si avviasse alla frammentazione degli anni successivi?

Gli anni del “miracolo”

Nei mesi precedenti al convegno di Bologna mi ero occupato della storia dell’Italia negli anni del boom economico, quando l’incontro tra Democrazia cristiana e Partito socialista, artefici Aldo Moro e Pietro Nenni, aveva dato vita all’esperienza dei governi di centro-sinistra. Lo studio del travagliato itinerario politico di quel periodo aveva già evidenziato alcune problematiche interne al sistema dei partiti. Infatti, già negli anni Sessanta, di fronte ai molteplici stimoli provenienti dalla società, tutto il sistema dei partiti era apparso in difficoltà: e sotto diversi aspetti.

Innanzitutto, i partiti denunciavano un certo ritardo rispetto alla comprensione dei fenomeni in atto, nonostante protagoniste di quella stagione fossero personalità indubbiamente avvertite e lungimiranti, come Moro e Nenni e La Malfa.

Secondariamente, le forze politiche italiane mostravano scarsa attitudine al reale governo del paese. Ne erano testimonianza la frequenza elevatissima delle crisi di governo extraparlamentari; i tatticismi talora esasperanti che caratterizzavano l’azione dei partiti e dei loro leader; l’elevato livello di conflittualità interno alle maggioranze di governo, dove ogni parte politica, più che a governare, pareva interessata a rinegoziare i rapporti di forza reciproci in seno al Consiglio dei ministri; le diffidenze e le riserve mentali che caratterizzarono l’intera stagione del centro-sinistra.

Oltre a ciò, le stesse forze politiche perdevano in quegli anni, proprio quando ne avrebbero avuto bisogno, il loro mordente sociale. Mentre nell’immediato dopoguerra i partiti erano stati scuole di moralità, anche un po’ intransigenti, e il problema morale era stato l’essenza dell’impegno politico, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta questa tensione si allentava. Come Gianni Baget Bozzo (1977, 369-370) metteva in evidenza qualche anno dopo, il problema morale si spostava lentamente nell’ambito individuale e i partiti divenivano già allora, dal punto di vista sociale, strutture più deboli, non più innervate dalla militanza ideale e tendenzialmente autoreferenziali2.

Ma c’era di più. Tra le forze politiche, indirizzate ormai verso l’omologazione, gradualmente si instaurava un processo di osmosi: le diverse correnti intrattenevano rapporti anche al di fuori del partito di appartenenza, con altre correnti e con l’amministrazione dello Stato. La prassi del governo ai margini (cioè l’uso del potere ai fini del consenso) tendeva così ad estendersi e incancrenirsi, mentre la Dc diveniva progressivamente il luogo privilegiato di mediazione, attraverso il sistema di potere del condominio doroteo (Craveri 1995, 226-227), degli interessi particolari provenienti dalla società. Questo sistema, in incubazione nell’epoca centrista, con gli anni Sessanta si innestava definitivamente nelle strutture dello Stato e negli apparati pubblici e parapubblici.

Infine, con il centro-sinistra si verificava pure un certo allargamento dello spazio ideologico interno alla maggioranza, che fatalmente ne indeboliva la capacità decisionale e gestionale e, quel che è forse peggio, alimentava ulteriormente ed estendeva, per un meccanismo di compensazione, le degenerazioni di cui si è appena detto. I partiti di governo infatti apparivano – tendenzialmente – caratterizzati da una specie di immaturità: da un lato non riuscivano a comporre le diverse istanze di cui si facevano portatori all’interno della coalizione, considerando ogni cedimento alla controparte come un pericoloso arretramento; dall’altro erano disposti a trovare la composizione su un altro piano, quello della spartizione del potere. In effetti, solo qualche anno dopo, all’inizio degli anni Settanta, un politico avvertito come Ugo La Malfa avrebbe constatato la tendenza dei partiti italiani a dare assoluta rilevanza ai problemi di schieramento (dietro cui nascondere meri interessi di potere) e a lasciare l’attività politica sempre più priva di contenuti (La Malfa 1971; Ronchey 1977, 80).

Anche l’esperienza compiuta nello studio dell’Italia del boom economico, dunque, mi aveva lasciato, tra le altre, la netta sensazione che la “Repubblica dei partiti” mostrasse preoccupanti linee di frattura, databili addirittura già alle soglie degli anni Sessanta.

Altri reagenti e prime scelte

Il portato degli studi sul centro-sinistra e gli stimoli del workshop bolognese cominciavano così a reagire tra di loro. Ad essi si aggiungevano alcune domande che mi andavo ponendo da qualche tempo di fronte alle continue metamorfosi in atto nel panorama politico italiano, dove, dopo decenni di immobilismo, i nomi dei partiti e dei movimenti avevano preso a mutare con una certa rapidità. Come tutte le domande che, vagando nella coscienza, non sono oggetto di analisi approfondita, quei quesiti si presentavano in forma piuttosto grezza.

Un partito, di chi è espressione? Chi realmente rappresenta? Di cosa vive? E, in fin dei conti, a che cosa serve? Serve alle leadership per trascinare le masse o ai cittadini per dare corpo ai propri bisogni e alle proprie aspirazioni di natura politica?

Una ricerca, si sa, nasce sempre da alcune domande. Quanto più tali domande trascendono l’ambito soggettivo – dal quale inevitabilmente originano – e riguardano argomenti di interesse più generale, tanto più sarà possibile svolgere un lavoro che – in qualche misura, anche minima – risponda a un bisogno diffuso e contribuisca a far compiere un piccolo passo in avanti in un determinato settore. Nel campo della storia contemporanea, mi è parso che le difficoltà del sistema dei partiti, evidenziatesi già negli anni Sessanta e giunte all’acme nei Settanta, e le difficoltà di dialogo tra le forze politiche e la società avessero la dignità per divenire oggetto di un approfondimento. Era quindi sul rapporto tra partiti società che si appuntava la mia attenzione: e così nasceva l’idea della ricerca.

Ormai da tempo, probabilmente in ogni disciplina, si è abbandonata la pretesa di ricerche pienamente esaustive: la complessità del reale ha fatalmente originato una tendenza alla specializzazione, della quale, credo, degenerazioni possibili sono lo specialismo e pure la timidezza – o addirittura la ritrosia – degli studiosi ad avventurarsi su terreni poco familiari. È pur vero, d’altro canto, che, soprattutto nell’ambito della storia contemporanea, di fronte all’articolazione della società, alla moltiplicazione degli oggetti di studio ed alla abbondanza di testimonianze, risulta sempre meno praticabile una ricerca a spettro troppo ampio, pena il rischio di una dispersione delle energie in molteplici direzioni aventi scarsa valenza euristica.

Tutte queste considerazioni mi erano ben chiare quando, pur volendomi tenere a debita distanza da derive specialistiche, constatavo che il campo si indagine abbozzato appariva un po’ troppo ampio. Assodato che gli anni Settanta erano divenuti ormai l’orizzonte temporale della ricerca, si rendeva necessaria una delimitazione del campo d’indagine; e si presentavano così altre domande. Volendo sondare il rapporto tra partiti e società, a quali ambiti era il caso di dedicare attenzione? A quali partiti? Con riferimento a quale territorio? E soprattutto: su quali fonti si poteva contare? Tali interrogativi si univano ad altre considerazioni riguardanti la fattibilità della ricerca e le risorse disponibili per compierla. E questa fase di elaborazione del progetto portava così alla definizione, innanzitutto, dell’ambito territoriale, che veniva individuato nella regione Emilia-Romagna.

A indirizzarmi verso questa opzione erano considerazioni di varia natura. Per prima cosa – non lo si può negare – anche condizionamenti di natura biografica, essendo le mie radici e le mie esperienze indubbiamente legate al territorio regionale. Soprattutto, però, valutazioni di merito. Come noto, l’Emilia-Romagna aveva sempre rappresentato, nella storia della prima Repubblica, un caso particolare. Da un lato, infatti, in grande maggioranza il governo locale era stato nelle mani delle amministrazioni di sinistra, le quali, anche aprendo fronti di scontro col potere centrale, avevano profuso risorse ed energie per sviluppare forme di welfare altrove sconosciute. Dall’altro lato, l’Emilia-Romagna era stata caratterizzata da un intenso grado di industrializzazione e di sviluppo economico, che ne aveva fatto una delle regioni più ricche d’Italia. Il forte legame con il territorio e il robusto incardinamento del modello amministrativo nel tessuto socio-economico facevano pertanto della regione un osservatorio di particolare interesse ai fini della ricerca.

Ma oltre all’ambito territoriale era necessario anche tenere conto dei condizionamenti imposti dalle fonti. Per quanto tali condizionamenti rappresentino, in una ricerca storica, un limite da superare, è innegabile che i rapporti di forza, per così dire, tra il ricercatore e i documenti siano nettamente a favore di questi ultimi. Prima di precisare meglio le domande a cui avrebbe potuto rispondere la ricerca, era quindi necessario sapere cosa fosse reperibile, in Emilia-Romagna, dei documenti dei partiti politici per gli anni Settanta.

Per uno studio di questo genere di documenti, tuttavia, la rintracciabilità delle fonti era un problema non secondario. Gli archivi dei partiti politici, infatti, sono a tutti gli effetti archivi di natura privata e pertanto sfuggono ai meccanismi di tutela della documentazione statale previsti dal Dpr 1409/63 (recante Norme relative all’ordinamento ed al personale degli archivi di Stato). La tempesta che, all’inizio degli anni Novanta, si era abbattuta sull’intero sistema dei partiti della prima Repubblica, e la conseguente dismissione di molte sedi e sezioni locali, aveva così determinato una vera e propria dispersione degli archivi, dei quali in qualche caso si era perduta ogni traccia.

Data l’importanza del tipo di fonte e l’incertezza sulla sua reperibilità, per assicurare una concreta fattibilità al progetto di ricerca appariva quindi subito di capitale importanza stabilire se effettivamente fosse disponibile sufficiente materiale documentario. Così, dopo la costruzione, attraverso la lettura di alcune pubblicazioni sull’argomento, di un quadro generale della situazione, reperivo ulteriori notizie tramite indagini dirette presso enti di varia natura presenti sul territorio regionale. Il canale di informazione principale era la rete regionale degli istituti coordinati dall’Insmli (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia), alla quale si aggiungevano le sedi provinciali degli archivi di Stato ed altri istituti sui quali ottenevo indicazioni nel corso delle ricerche. Emergeva da questa fase di ricognizione che, nonostante Tangentopoli, la sensibilità dimostrata dalle Soprintendenze archivistiche e da molti istituti pubblici e privati aveva consentito di recuperare parte del materiale e di procedere ad un suo almeno parziale ordinamento.

La situazione degli archivi dei partiti si presentava piuttosto differenziata, anche se pareva essere in evoluzione positiva, data l’aspettativa – registrata da più parti – per la probabile, futura acquisizione di nuovi materiali. Dei cosiddetti partiti laici (Pli, Pri, Psdi) non rimaneva quasi nulla, eccezion fatta per qualche nucleo documentario del Pri in alcune sedi romagnole, in una zona, cioè, dove storicamente si era verificato un significativo radicamento del partito repubblicano. Già migliore era la situazione del Psi, del quale si conservava qualcosa per le provincie di Parma, Reggio Emilia, Modena, Rimini, Ferrara e Ravenna. Per la Dc – anche se non dappertutto era garantita la consultazione dei documenti – restavano materiali dei comitati provinciali a Reggio Emilia, Modena, Bologna (dove si trovava anche il materiale dei comitati regionale e comunale), Forlì (ove era reperibile anche il materiale del comitato comunale), Rimini e Ferrara. L’unico partito per il quale era reperibile materiale documentario in tutte le provincie della regione ed era sempre garantita la possibilità di accesso agli archivi era il Pci.

La situazione riscontrata, in fin dei conti, rispecchiava le condizioni storicamente determinatesi, e non solo in relazione all’egemonia territoriale dei comunisti nella regione. Il Pci, infatti, aveva sviluppato per tempo una certa sensibilità per la salvaguardia del patrimonio archivistico; sia a livello centrale, dove già nel 1969 veniva istituito presso la direzione un “Ufficio archivio” con il compito di provvedere al recupero di tutte le carte del partito3, sia in Emilia-Romagna, dove, ad esempio, nel 1981 Pier Paolo D’Attorre invitava “sezioni, federazioni provinciali, comitato regionale, singoli militanti” a lavorare per estendere e rendere accessibili le fonti per una storia dei comunisti in Emilia-Romagna (D’Attorre 1981, 8).

I vantaggi di un approfondimento

Stando così le cose, per proseguire la ricerca si prospettava già una scelta, tra l’ipotesi di consultare tutti i documenti reperibili e quella di operare ulteriori limitazioni del campo di indagine. Ma si rendeva ancora più necessario – ed urgente – imparare a conoscere gli archivi di partito, e rendersi conto del reale valore informativo del quale erano depositari. In altre parole, era venuto il momento di iniziare la lettura dei documenti, e di prendere contatto in modo concreto con la realtà delle fonti.

Sulla base delle informazioni reperite fino a quel momento, decidevo allora di iniziare con la consultazione dell’archivio della federazione di Ferrara del Pci. Lo stato di conservazione dell’archivio ferrarese e la sua fruibilità – resa agevole dalla sensibilità della professoressa Anna Maria Quarzi, direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara – mi avevano infatti portato ad individuarlo come “archivio-pilota”, in grado di favorire l’acquisizione di competenze utili allo svolgimento di un lavoro più proficuo nei mesi successivi. Prima di tutto, a Ferrara era possibile prendere visione compiutamente del materiale reperibile in un archivio di partito ed effettuare una valutazione attendibile circa la ricchezza informativa di tale fonte. Inoltre, la completezza dei documenti rendeva l’attività, per così dire, formativa, utile cioè a farmi riconoscere quali fossero i tipi di documento più interessanti; e tesaurizzare quell’esperienza mi avrebbe consentito di svolgere un lavoro più selettivo, rapido e proficuo negli archivi che avrei dovuto visionare successivamente.

Ai fini della ricerca, l’esperienza di Ferrara si rivelava in effetti decisiva.

Prima di tutto per una considerazione di ordine generale, che si è chiarita soprattutto a posteriori e dalla quale credo di poter trarre un preciso insegnamento. Accostarsi ad un lavoro con l’intenzione di rispettare un preciso protocollo metodologico, escludendo a priori certe attività e puntando esclusivamente su altre pianificate in precedenza, impedisce di ricostruire – per così dire – lo scenario entro cui è destinata a svolgersi la ricerca. E tale circostanza rischia di far tralasciare interessanti opportunità, di precludere l’accesso a qualche pista utile. In altre parole, sono convinto che un approccio troppo algido e una eccessiva sicurezza di sé nell’impostazione del lavoro possano compromettere i risultati finali. In una ricerca viene sempre il tempo in cui bisogna tenere ben strette le redini, ed osservare uno scrupoloso programma di lavoro; ma quel tempo deve essere preceduto da una fase in cui – per restare nella metafora equestre – sia possibile anche procedere a briglia sciolta.

Tornando all’ambito specifico, la permanenza nell’archivio ferrarese si rivelava utilissima per un altro motivo. La possibilità di consultare documenti differenti tra loro (corrispondenza della segreteria, verbali, materiali delle commissioni federali, ecc.) e prodotti da diversi organi del partito (la federazione, le sezioni territoriali, gli organismi intermedi) mi consentiva di svolgere un’attività di fondamentale importanza, che potrei definire di “immedesimazione”. Leggere con curiosità quelle carte, ma senza un itinerario preciso, mi permetteva di prendere dimestichezza con i diversi documenti, di imparare a riconoscerne lo stile, di immergermi, per così dire, nella vita del partito e respirarne l’atmosfera.

Un altro importante effetto prodotto da quell’esperienza era una più precisa delimitazione dell’ambito della ricerca. La mole documentaria cui mi trovavo dinnanzi mi faceva comprendere meglio quali avrebbero potuto essere i tempi per una ricognizione delle fonti su tutto il territorio. E così appariva evidente l’opportunità di rinunciare, per carenza di tempo, alla consultazione degli archivi di tutti partiti della regione e di concentrare l’indagine al solo partito comunista (che, peraltro, era comunque il partito egemone della regione, del quale era possibile, come si è già detto, reperire documentazione in ogni provincia).

Infine, durante le giornate trascorse nell’archivio ferrarese, si faceva sempre più chiara l’idea che, per rispondere alle domande poste in origine, fosse interessante indagare il rapporto tra i vertici e la base del partito, e che a tale scopo rivestisse un’importanza determinante la “dinamica congressuale”. Infatti, in occasione dei congressi, all’interno del partito si avviava una riflessione sulla piattaforma politica di volta in volta sottoposta all’approvazione della base. Si svolgevano dunque i congressi di sezione e di cellula (le unità organizzative di base del partito), nel corso dei quali il dibattito tra i militanti veniva registrato in appositi verbali, che in seguito erano trasmessi all’organo gerarchicamente sovraordinato, cioè la federazione. Per una ricerca come quella che stavo avviando – avente il proprio focus sul nesso intercorrente tra la linea politica espressa dai vertici del partito e il modo in cui tale linea politica era recepita e assimilata dai militanti – i verbali dei congressi di cellula e di sezione si rivelavano allora di fondamentale importanza. A posteriori, essi permettevano infatti di captare – nei limiti del possibile – le opinioni, le sensazioni, gli umori, le speranze della base comunista. Ponendo in relazione quei verbali con gli atti ufficiali dei congressi sarebbe divenuto così possibile ricostruire, almeno in parte, il vasto dibattito interno sulla linea politica del partito. Da questo punto di vista, gli anni Settanta offrivano per il Pci numerosi momenti di verifica. Nel 1972, nel 1975 e nel 1979 si tenevano, infatti, rispettivamente il XIII, il XIV ed il XV Congresso nazionale; nel 1977 si teneva il I Congresso regionale dell’Emilia-Romagna. Dunque, ben quattro campagne congressuali in un decennio, utili per cercare di ricostruire, con un taglio preciso, la storia di una stagione molto importante per il Pci, caratterizzata dal più elevato livello di influenza sulla società e sul quadro politico che il partito avesse mai raggiunto.

L’approfondimento compiuto a Ferrara aveva richiesto tempo; tuttavia era stato decisivo per condurre la ricerca sul binario giusto. Inoltre, aveva portato a maturazione una idea più chiara del campo di indagine, e aveva permesso di formulare qualche ipotesi di partenza, da sottoporre a verifica. È su questo aspetto che, per concludere questa prima parte, occorre ancora soffermarsi brevemente.

La prospettiva del lavoro. Alcune supposizioni

Per dare conto delle ipotesi da cui partiva il lavoro di ricerca, è necessario gettare uno sguardo sulla storia del Pci emiliano-romagnolo nel periodo precedente gli anni Settanta.

Nel 1956 l’VIII congresso nazionale del Partito comunista italiano precisava i caratteri della “via italiana al socialismo”: in estrema sintesi, si trattava di una strategia di riforme strutturali da attuare nel rispetto del quadro costituzionale. Riforme strutturali che erano ritenute indispensabili per migliorare la qualità della vita delle masse ma anche per accrescerne la coscienza di classe, dilazionando nel tempo la resa dei conti – che prima o poi sarebbe venuta – con gli squilibri del capitalismo. I passaggi fondamentali di questa proposta politica erano contenuti nella relazione di Togliatti al congresso. In breve, erano i seguenti: 1) anche se restava intatta la considerazione della superiorità della società sovietica, non era più necessario adeguarsi al modello dell’Urss; 2) per la realizzazione del socialismo il Pci si collocava decisamente sulla strada democratica; 3) su questa strada, le riforme di struttura e l’attuazione della Costituzione divenivano i due capisaldi di riferimento, due tappe obbligatorie del percorso; 4) per quanto riguardava la vita del partito, nonostante il ricambio generazionale già attuato ed ancora in corso, era richiesta l’accettazione senza riserve della linea del leader; Togliatti non soffocava quindi il dibattito interno ma lo conduceva entro un alveo rispetto al quale non si davano alternative (Per tutti questi aspetti, si può vedere il capitolo dedicato al 1956 in Flores, Gallerano 1992, 105–29).

Negli anni successivi, i vertici del partito constatavano un certo ritardo nell’attuazione delle direttive dell’VIII congresso. Nel 1959 la segreteria decideva pertanto di convocare una serie di conferenze regionali, con l’obiettivo di affrontare le cause di quel ritardo e vincere le forme di resistenza al cambiamento che ancora si manifestavano all’interno del partito. A Bologna l’iniziativa dei vertici nazionali del Pci trovava un’accoglienza particolare da parte degli “innovatori”, cioè alcuni dirigenti locali del partito fortemente motivati e sostenitori di una accelerazione del processo avviato all’VIII congresso. La conferenza regionale che si teneva a Bologna nel giugno di quell’anno rappresentava così un momento importante nella storia del Pci emiliano. In quella occasione, infatti, alcuni temi dell’VIII congresso erano portati con decisione alla ribalta: la definitiva rinuncia alla prospettiva rivoluzionaria che da sempre aveva costituito un punto di riferimento per i militanti comunisti; la necessità di riforme economiche e sociali progressive; l’accettazione incondizionata della volontà degli elettori per la formazione dei governi e lo svolgimento della vita parlamentare; il confronto tra le opinioni e i diversi riferimenti culturali come elemento base della vita democratica. Inoltre, traendo le conseguenze di un processo di elaborazione già avviato in seno al partito, la conferenza prospettava la necessità di una partecipazione attiva dei ceti medi per la realizzazione di nuovi rapporti economici e sociali all’interno della regione, in un contesto caratterizzato dallo sviluppo della piccola-media impresa e della conversione professionale dall’agricoltura all’industria di un gran numero di lavoratori. In quella conferenza regionale, infine, si delineavano i principali temi della politica che negli anni successivi sarebbe stata attuata in Emilia-Romagna nel campo dell’economia, dei servizi, della scuola, della sanità, dell’assistenza sociale e dell’urbanistica.

Qualche mese dopo, nel gennaio 1960, il congresso della federazione bolognese (che si teneva in preparazione al IX congresso nazionale del Pci) dava ai rinnovatori una ulteriore occasione per promuovere i risultati della conferenza regionale e per fare emergere una domanda forte di sviluppo della democrazia interna al partito, motivata dalla volontà di partecipare attivamente al processo politico di rinnovamento del Pci. In quella circostanza Guido Fanti, già protagonista della conferenza regionale e leader dei rinnovatori emiliani, era eletto segretario di federazione; accanto lui, nella segreteria, entravano i suoi più stretti collaboratori, dando luogo a un profondo rinnovamento del gruppo dirigente bolognese.

Il IX congresso nazionale del Pci (gennaio-febbraio 1960) mostrava segni di apertura al dialogo con le altre forze politiche, caldeggiando la nascita di una maggioranza di governo in grado di portare avanti nel paese un programma di riforme. Sul piano organizzativo, però, il congresso vedeva prevalere l’opposizione alle richieste che provenivano dall’Emilia e ostacolava l’introduzione di elementi di novità nella vita interna del partito. Giorgio Amendola, che aveva sempre manifestato il proprio sostegno ai rinnovatori emiliani, accettava la proposta di occuparsi per il partito della politica economica e lasciava Enrico Berlinguer alla guida della sezione organizzazione. Ai vertici del Pci permanevano forti riserve sulla conferenza regionale emiliana del 1959 e una certa diffidenza verso il percorso su cui l’Emilia-Romagna si stava incamminando.

Le divergenze tra i vertici del partito e il gruppo dei rinnovatori si manifestavano anche in seguito: e le difficoltà riguardavano essenzialmente la presunta improponibilità dell’esperienza emiliana al di fuori dei confini regionali. Il rinnovamento del partito attuato in Emilia-Romagna, infatti, aveva reso possibile l’instaurazione di rapporti positivi con le altre forze politiche e l’adozione di un atteggiamento sostanzialmente riformista nelle amministrazioni locali. Tale esempio, tuttavia, non era considerato dai vertici nazionali riproducibile nel resto del paese, e ciò limitava di fatto l’influenza dei dirigenti comunisti emiliano-romagnoli sulla politica generale del partito4.

Gli anni successivi però, e in particolare gli anni Settanta, vedevano introdurre nella linea politica del Pci significative differenze rispetto al passato, delle quali era protagonista Enrico Berlinguer. Già nel giugno 1969, a Mosca, alla Conferenza internazionale dei partiti comunisti e operai, Berlinguer, quando ancora non era segretario del Pci, sosteneva la necessità di rispettare l’indipendenza e la sovranità di ogni partito e di ogni Stato, manifestava apertamente il dissenso del Pci verso l’invasione della Cecoslovacchia e inaugurava la linea di presa di distanza dall’Unione sovietica che avrebbe caratterizzato in seguito la politica del partito. Negli anni successivi al 1972, divenuto segretario del Pci, lo stesso Berlinguer promuoveva una politica orientata al coinvolgimento dei ceti medi nelle battaglie del movimento operaio e alla costruzione di una politica il più possibile unitaria tra i partiti che si riconoscevano nei valori della Costituzione, lanciando la proposta del compromesso storico5 come unica strada percorribile per dare una risposta alla grave crisi economica e sociale del paese. La prospettiva del Pci diveniva così esplicitamente riformistica, mentre sul fronte interno al partito si incoraggiavano la partecipazione e il dibattito degli iscritti, pur senza abbandonare il principio del centralismo democratico6.

E qui torniamo alle ipotesi di partenza della ricerca. La constatazione di una certa dialettica esistente, all’interno del Pci, tra il centro e la periferia emiliano-romagnola mi portava alla formulazione di alcune considerazioni.

Gli importanti cambiamenti introdotti nella linea del partito all’inizio degli anni Settanta avevano tratti in comune con il processo di rinnovamento che i vertici regionali del Pci avevano promosso e posto in essere localmente con un decennio di anticipo. Era dunque ipotizzabile che, nei primi anni Settanta, in Emilia-Romagna il gruppo dirigente del Pci fosse già pronto ad accogliere le nuove proposte politiche provenienti da Roma. Quelle proposte, infatti, erano in linea con la prassi già seguita dal Pci nella regione, dove una lunga tradizione di governo locale aveva favorito lo sviluppo di processi anche in controtendenza rispetto alla situazione nazionale, sia per quanto attiene al rapporto con le altre forze politiche sia, più in generale, per le iniziative di riforma e di welfare locale. Tale ipotesi, tuttavia, restava da verificare, anche in considerazione del fatto che l’ascesa dei cosiddetti rinnovatori all’interno del Pci emiliano-romagnolo era avvenuta non senza qualche contrasto: nei gruppi dirigenti locali, in effetti, si errano manifestate, specie all’inizio degli anni Sessanta, delle sacche di resistenza al rinnovamento, caratterizzate da una forte sottolineatura dei tratti identitari più marcati del partito – e cioè la prospettiva rivoluzionaria e il legame indissolubile con l’Urss. Dunque, a che punto era giunto negli anni Settanta il processo di evoluzione nei gruppi dirigenti locali del partito?

Ma da questa considerazione ne discendeva un’altra, ancor più rilevante. Rispetto a tutte le dinamiche di cui si è detto, come si collocava la base del partito, la massa di militanti che costituiva il vero volto del Pci sul territorio e, in definitiva, la sua anima? È a questo livello che diventava interessante cercare di capire quanto la linea di rinnovamento del Pci proposta da Berlinguer trovasse realmente in Emilia-Romagna un terreno fertile. Era verosimile che il partito, nel complesso, fosse pronto a recepire quel rinnovamento, certamente più pronto che altrove in Italia. Ma anche questo restava da verificare. In effetti, le resistenze che un decennio prima si erano manifestate localmente all’interno degli stessi gruppi dirigenti avevano probabilmente dato corpo a stati d’animo e identità profondamente radicate nella base del partito, ed era plausibile ritenere che qualche forma di antagonismo rispetto alla nuova proposta politica del Pci fosse rimasta in essere. La vulgata di un Partito comunista sempre compatto e disposto all’obbedienza poteva pertanto ragionevolmente essere messa in discussione.

Anche queste supposizioni di partenza erano il frutto della articolata fase preliminare del lavoro. Con la consapevolezza acquisita, sia riguardo al merito che al metodo, era dunque possibile passare alla consultazione degli archivi nelle varie sedi regionali.

La ricerca poteva finalmente dispiegarsi. Questa, originata dall’idea di esplorare il rapporto tra partiti e società negli anni Settanta, ha assunto strada facendo connotati più precisi, finendo per focalizzarsi su un partito, il Pci, e su un territorio ben delimitato, l’Emilia-Romagna. Il lavoro è ancora in corso, e non è possibile al momento precisarne più che tanto gli esiti. Vi sono, però, alcuni primi risultati che si possono anticipare.

Lo stato degli archivi del Pci in Emilia-Romagna

Gli archivi del Pci emiliano-romagnolo7 sono conservati in diverse città della regione, secondo una logica che ricalca quasi fedelmente la suddivisione organizzativa in federazioni che il partito si era data. Gli enti che conservano i documenti sono nella maggior parte dei casi gli istituti storici per la resistenza e la storia contemporanea. Le condizioni di conservazione sono piuttosto differenziate da archivio ad archivio. Seguendo l’asse della via Emilia da nord a sud, riportiamo di seguito una sintetica descrizione dei materiali disponibili nelle diverse sedi.

Piacenza.

L’archivio della federazione piacentina del Pci è depositato presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Piacenza ed è contenuto in 197 faldoni8. All’interno di questo archivio si trovano anche i documenti della Fgci, consistente in 12 faldoni, e parte dell’archivio del Psiup (Partito socialista italiano di unità proletaria), formato da 11 faldoni ed un registro.

Gli estremi cronologici della documentazione vanno dal 1946 al 1989. Il gruppo più corposo di documenti riguarda il periodo 1950-1980. Per il Psiup, gli estremi cronologici variano tra il 1964, anno di nascita del partito, e il 1972, anno in cui il Psiup è confluito nel Pci in seguito al deludente risultato elettorale delle elezioni politiche.

Il materiale è stato organizzato secondo criteri archivistici: è pertanto classificato in serie e sottoserie, con una struttura “aperta”, in grado di recepire eventuali, ulteriori integrazioni senza la necessità di provvedere ad un generale riordino di tutti i documenti. Nella classificazione gli archivi del Pci, della Fgci e del Psiup sono trattati distintamente.

Parma

L’archivio della federazione parmense del Pci è conservato presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma; consta di 259 faldoni e 127 carpette (ciascuna delle quali da intendersi corrispondente circa ad un terzo di faldone). All’archivio del Pci si aggiunge il materiale della Fgci, contenuto in 3 faldoni.

Gli estremi cronologici spaziano dal 1945 al 1991.

Il complesso dei documenti non è organizzato secondo criteri rigorosamente archivistici. Tuttavia, la consultazione dell’archivio è resa agevole dall’esistenza di un inventario piuttosto dettagliato, riportante la descrizione e la data dei singoli documenti.

Reggio Emilia

I documenti della federazione comunista di Reggio Emilia sono conservati presso il Polo archivistico del Comune di Reggio Emilia. La consistenza è stimabile intorno ai 175 metri lineari (15 dei quali riguardanti la sezione del partito di Sant’Ilario d’Enza).

Gli estremi cronologici vanno dal 1945 al 1989.

Non esiste, per il momento, un inventario. Il materiale è ordinato e consultabile solo in parte, e la classificazione delle unità archivistiche deve intendersi provvisoria.

Modena

I documenti della federazione del Pci di Modena sono conservati presso l’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Modena. Oltre all’archivio del Pci, sono qui raccolti anche i documenti della Fgci e della federazione del Psiup di Modena.

L’archivio è divisibile in due parti.

Una prima parte, contenente documenti del periodo compreso tra il 1944 e il 1985, è ordinata e consultabile. Non esiste un inventario dettagliato ma uno schema di suddivisione dei materiali redatto secondo i criteri archivistici del Pci stesso. La consistenza di questa prima parte dell’archivio è di 421 buste.

Una seconda parte, riguardante il periodo successivo ma anche serie documentarie relative agli anni dal 1972 in poi, non è ordinata né inventariata, pertanto non è in pratica consultabile. La consistenza di questa seconda parte dell’archivio – stimabile solo in modo molto approssimativo – è di circa 110 metri lineari.

Bologna

Nel capoluogo regionale i documenti relativi al Pci sono conservati presso l’Istituto Gramsci Emilia-Romagna.

L’archivio del Comitato regionale del Pci Emilia-Romagna è giacente presso la Fondazione Istituto Gramsci di Bologna ma non è consultabile perché non inventariato. La consistenza è stimabile in 118 metri lineari complessivi.

L’archivio della federazione bolognese del Pci, invece, è consultabile; comprende anche il materiale della Fgci. La consistenza del fondo è stimabile in circa 1000 faldoni. Fanno parte dell’archivio anche tre sub-fondi: quello della Scuola provinciale e nazionale di partito Marabini, quello del Triumvirato insurrezionale e quello delle Autobiografie dei militanti. La consistenza dei tre sub-fondi non è quantificata.

I documenti, nel loro complesso, riguardano un periodo cronologico compreso tra il 1945 e il 1991.

Il materiale è inventariato e consultabile.

Imola

I documenti del Pci imolese sono suddivisi in due diverse sedi.

Presso il Cidra (Centro imolese documentazione Resistenza antifascista) di Imola si conservano i documenti della sezione comunista di Sesto Imolese. Si tratta di 9 faldoni.

L’arco cronologico va dal 1950 al 1980.

I documenti sono consultabili sulla base di un inventario.

Presso la sede della Fondazione politica per Imola è conservato l’archivio della federazione del Pci imolese, che ricomprende al suo interno anche materiale della Fgci e del Psiup, ma pure documenti dei partiti nati dopo lo scioglimento del Pci e ricollegabili a quella esperienza politica, cioè il Pds (Partito democratico della sinistra), nato nel 1991 e sciolto nel 1998, e il partito dei Democratici di Sinistra (Ds), esistito dal 1998 al 2007. La consistenza complessiva è di circa 200 faldoni.

Gli estremi cronologici rilevati vanno dal 1963 al 2005. (Si tenga presente che la federazione di Imola è nata nel 1960 distaccandosi dalla federazione di Bologna).

Non esiste un inventario redatto con criteri archivistici L’inventario disponibile è manoscritto e pare essere stato effettuato senza intenti di riorganizzazione del materiale rinvenuto ma seguendo invece un metodo prevalentemente descrittivo, volto a rappresentare l’archivio così come esso si trovava al momento dell’inventariazione. Questa circostanza comporta due conseguenze. Innanzitutto è impossibile separare nettamente i documenti del Pds e del partito dei Ds dal resto dell’archivio. Inoltre, la consultazione dell’archivio richiede una analisi estensiva e non selettiva dell’inventario. Indipendentemente da ogni considerazione circa il metodo di lavoro utilizzato, deve essere infine precisato che l’inventario stesso, pur costituendo un buon riferimento per le ricerche, non è completo né totalmente attendibile in tutte le sue parti.

Forlì

I documenti della federazione forlivese del Pci sono conservati in due distinte sedi: a Forlì e a Cesena. Si tenga presente che nel 1949 si costituì la federazione comunista di Rimini, ridefinendo in Romagna la struttura organizzativa del partito secondo un criterio diverso da quello della suddivisione amministrativa statale (nella quale la provincia di Forlì ricomprendeva anche il territorio di Rimini). La federazione forlivese fu quindi ridimensionata a 30 comuni, assumendo la fisionomia territoriale della attuale provincia di Forlì-Cesena.

A Forlì, presso l’Istituto per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea della Provincia di Forlì-Cesena, è conservata una prima parte dell’archivio. La consistenza è di 143 faldoni, 520 fascicoli, 25 tra volumi e registri e una novantina di altri elementi (quaderni, agende, opuscoli e mazzi). All’interno dell’archivio sono compresi materiali della Fgci (13 faldoni, 85 fascicoli, 3 registri e alcuni altri materiali) e documenti di parlamentari comunisti (36 faldoni e 11 fascicoli).

L’arco cronologico dell’archivio va dal 1945 al 1991.

È disponibile un inventario piuttosto dettagliato, eseguito con criteri archivistici e realizzato in seguito ad un riordino del materiale esistente.

A Cesena, presso la sede locale del Partito democratico, è conservata l’altra parte dell’archivio del Pci. L’archivio consta di 126 faldoni e comprende materiale della Fgci (5 faldoni) e del Circolo Gramsci (6 faldoni).

I documenti riguardano il periodo 1968-1991.

Esiste un inventario molto sintetico, indicante solo i principali gruppi di documenti. La maggior parte del materiale riguarda l’attività del partito nella zona di Cesena.

Rimini

I documenti della federazione Riminese del Pci sono conservati presso l’Istituto per la storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea della Provincia di Rimini. L’insieme dei documenti cartacei occupa 85 faldoni, dei quali 3 sono della Fgci9.

I documenti si riferiscono al periodo cronologico che va dal 1944 al 199110.

Il materiale è stato riordinato secondo criteri archivistici. È disponibile un inventario dettagliato all’interno di una pubblicazione illustrativa dell’archivio (Gianluca Calbucci e Gabriele Rodriguez, Inventario degli archivi dei partiti politici riminesi, Rimini, Istituto per la storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea della Provincia di Rimini, 2005).

Ravenna

L’archivio della federazione ravennate del Pci è custodito presso il centro Archivi del Novecento, che raccoglie documenti della Fondazione Casa di Oriani e dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in Ravenna. L’archivio del Pci è divisibile in due parti.

La prima parte consiste in 176 faldoni e 10 fascicoli (tra questi, 12 faldoni contengono documenti della Fgci).

I documenti, nel loro complesso, riguardano un periodo compreso tra il 1921 e il 1962 (i documenti riguardanti il periodo 1921-1943 occupano solo 2 faldoni).

Questa parte dell’archivio è dotata di un inventario essenziale.

La seconda parte dell’archivio ha una consistenza non precisamente determinabile, che può approssimativamente essere considerata pari a circa 80 faldoni.

I documenti riguardano un arco cronologico compreso tra il 1963 e il 1991.

Non esiste un inventario di questa parte dell’archivio, e da ciò deriva una certa indeterminatezza riguardo il suo contenuto.

Ferrara

L’archivio della federazione ferrarese del Pci è conservato presso l’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara ed ha una consistenza di 350 faldoni, 15 dei quali contengono materiale della Fgci.

I documenti risalgono agli anni compresi tra il 1945 e il 1991.

Dell’archivio esiste un inventario, che però non è dettagliato, perché contiene riferimenti ai singoli faldoni ma non indicazioni circa il contenuto degli stessi, e non del tutto completo, in quanto una parte dei documenti presenti nell’archivio non trova riscontro nell’inventario stesso.

Come si può constatare dalle descrizioni dei diversi archivi regionali, le condizioni di conservazione non sono tali da consentire una precisa individuazione del materiale disponibile, sia sotto il profilo qualitativo che dal punto di vista quantitativo. Una stima largamente approssimativa dei documenti esistenti porta a ritenere che in Emilia-Romagna il patrimonio documentario relativo al Pci ed alla Fgci sia quantificabile in circa 800 metri lineari di scaffale. I documenti si riferiscono quasi ovunque al periodo compreso tra la fine della Seconda guerra mondiale e la data di scioglimento del partito, con la sola eccezione di Ravenna, dove si conservano due buste di materiale relativo al periodo 1921-23. Quanto al contenuto effettivo degli archivi, le situazioni si presentano piuttosto differenziate. In alcuni casi esiste un inventario dettagliato, in altri l’inventario è piuttosto generico, in altri ancora è solo indicativo o addirittura inesistente; e in generale i criteri di archiviazione non sono omogenei. Non si deve pensare, comunque, che l’archivio del Pci emiliano-romagnolo sia stato integralmente recuperato: per gli anni Settanta, ad esempio, tra i documenti dei congressi di sezione e dei congressi federali si registrano delle lacune; e, per fare un altro esempio, i verbali dei comitati federali sono conservati quasi solamente a Reggio Emilia e a Ravenna.

 In conclusione, quindi, si può dire che la possibilità di accedere alle carte del Pci emiliano-romagnolo risente di una serie di condizionamenti di varia natura; tuttavia è vero che molto materiale è stato preservato ed è auspicabile che, nel tempo, sia destinato a divenire sempre più agevolmente fruibile per gli studiosi.

La consistenza delle principali fonti per la ricerca

Negli anni Settanta, le dieci federazioni del Pci in Emilia-Romagna (Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Imola, Forlì, Rimini, Ferrara e Ravenna) contano un numero complessivo di sezioni piuttosto cospicuo. Si va dalla cifra di 1721 sezioni per l’anno 1972 alla cifra di 1944 per l’anno 197911, con variazioni di segno tendenzialmente positivo nel corso del decennio. Durante le quattro campagne congressuali del periodo sono stati quindi complessivamente prodotti quasi 7500 verbali dei congressi di sezione. Non tutti però si sono conservati. La situazione tra le varie sedi regionali è piuttosto differenziata: si va da casi come Reggio Emilia, dove la conservazione dei verbali è pressoché integrale, a situazioni come quelle di Rimini, dove di verbali se ne è ritrovato uno solo.

Anche per le quattro tornate di congressi federali non è stato possibile effettuare un recupero integrale degli atti, ma nel complesso si può dire che la maggioranza del materiale sia disponibile. I due estremi a tale proposito sono rappresentati da casi come quello di Ferrara, dove la documentazione è pressoché completa12, e casi come quello di Piacenza dove, per il 1979, non è stato possibile reperire nulla, nemmeno facendo ricorso all’archivio centrale del Pci depositato presso la fondazione Istituto Gramsci di Roma.

Alcune avvertenze per l’utilizzo delle fonti

I verbali dei congressi di sezione (e i pochissimi verbali reperiti relativi ai congressi di cellula o a riunioni precongressuali) sono, come si è evidenziato in precedenza, la fonte principale della ricerca. Ma, data la particolare natura di tali documenti, il loro utilizzo implica l’adozione di una serie di accortezze.

Non è possibile, infatti, procedere ad una analisi di questi documenti senza soffermarsi su alcuni elementi di contesto che presentano una serie di problemi. I verbali, infatti, per vari motivi non possono essere ritenuti completamente fedeli al pensiero della base.

Innanzitutto, alle assemblee non partecipano tutti gli iscritti ma solo un gruppo ristretto di iscritti più politicizzati, il cui orientamento non coincide necessariamente con quello della grande massa degli assenti13.

Inoltre, solo pochi dei presenti prendono la parola, riducendo così ulteriormente il numero di coloro che partecipano attivamente al dibattito.

Sulla verbalizzazione del dibattito incide poi notevolmente il “fattore umano”. Non si tratta infatti di verbali stenografati, ma di sintesi effettuate da un funzionario di partito il quale, ovviamente, fornisce di quanto accade una versione soggettiva, dipendente anche dalle proprie individuali competenze e sensibilità.

Ancora, nei dibattiti non si contrappongono mai mozioni diverse, perché nei congressi non si vota tra opzioni alternative ma su un progetto politico (in forma di relazione o di tesi) che è sottoposto all’approvazione dell’assemblea. Tale approvazione risulta – di fatto – abbastanza scontata, poiché non ha alternative, e diventa quindi impossibile pesare le diverse posizioni14.

A queste considerazioni se ne possono aggiungere altre.

Vi sono alcuni resoconti nei quali sostanzialmente si afferma che il congresso “è andato bene” e che si è manifestato il consenso dell’assemblea verso la piattaforma politica. Sono, questi, documenti che non si rivelano molto utili per la ricerca.

In maggioranza, poi, i verbali esprimono un generale accordo verso il partito e le sue decisioni. Ma circa il grado di assenso verso la piattaforma politica, l’unico dato “oggettivo” è il livello dell’approvazione, che molto spesso è “all’unanimità” e in pochissimi casi “a maggioranza”; in quei pochi casi, non vi sono dati per quantificare il dissenso, mentre resta il dubbio su molti verbali nei quali il risultato della votazione non è nemmeno indicato.

Su vari problemi, inoltre, si trova traccia di una discussione senza che, però, di questa vengano riferiti gli esiti. Talvolta, per illustrare il dibattito, si utilizzano espressioni telegrafiche (come: “la linea politica del partito”, “la difficile situazione economica”, “il finanziamento pubblico ai partiti”, “il rapporto col sindacato”, “la necessità di rafforzare le strutture del partito”, ecc.) senza dare conto delle argomentazioni addotte.

Si registra anche la compresenza, nel corpus dei verbali, di documenti redatti con stile affatto diverso: il resoconto a volte è molto sintetico, a volte prolisso; talvolta riporta commenti del funzionario, altre volte pare essere più oggettivo (almeno nella forma) perché riporta solo le risultanze del dibattito; in certi casi è compilato con molta diligenza (e ciò fa pensare ad una sua redazione a posteriori, quindi più meditata), in altri pare evidentemente scritto durante lo svolgimento dei lavori; a volte è corredato da documenti politici che sono assenti altrove.

Ci sono, del resto, elementi oggettivi che in qualche modo limitano la portata del dibattito; tra di essi, non dobbiamo dimenticarlo, pure aspetti culturali. Anche in assenza di una analisi puntuale, è ragionevole pensare, ad esempio, che il livello di scolarizzazione dei partecipanti incida sulla capacità degli stessi di intervenire attivamente, perché – anche nella sezione più piccola e più consolidata, dove tutti si conoscono – non per tutti è facile parlare in pubblico. Noi, oggi, educati da almeno un ventennio di espansione vertiginosa dei mezzi di comunicazione, siamo ormai abituati al profluvio di opinioni che quotidianamente si riversa nelle sedi più disparate: interventi dei telespettatori e dei radioascoltatori nelle trasmissioni radiotelevisive, spesso costruite sugli spunti offerti dal pubblico; post nei forum o nei blog della rete internet; prolungate conversazioni telefoniche ormai effettuabili quasi ovunque. Negli anni Settanta, però, quando i primi segnali dell’importante mutamento in atto nel mondo della comunicazione erano ancora fenomeni di avanguardia, intervenire ad un congresso di sezione ed esprimere la propria opinione non era probabilmente così semplice e alla portata di tutti.

Tra l’altro, non si deve pensare che, anche in un partito la cui immagine è sempre stata legata all’idea di una forte ed efficiente organizzazione, tutte le sezioni fossero delle perfette macchine da guerra. Capita anche di leggere commenti, scritti dai funzionari di partito, nei quali si sottolinea la sostanziale incapacità degli iscritti di compiere un’analisi approfondita e consapevole della linea politica del partito, o comunque la difficoltà nel tradurre tale linea in un’azione politica concreta e nell’uscire da una gestione meramente ordinaria della sezione.

Tutte le considerazioni fin qui addotte parrebbero quindi limitare, in qualche modo, la portata probatoria dei verbali dei congressi di sezione.

Tuttavia, è necessario porre sull’altro piatto della bilancia una serie di fattori.

Innanzitutto, anche se in molti casi si esprime un generico assenso verso la linea del partito, è anche vero che esistono altri resoconti dai quali emergono segnali di dissenso, motivato da argomentazioni che si rivelano particolarmente interessanti. In questo contesto, assumono una singolare rilevanza le osservazioni e le opinioni espresse nelle fasi non ufficiali del congresso, fuori dal dibattito vero e proprio: molte di queste voci sono andate perdute, ma in qualche caso i funzionari più zelanti hanno ritenuto utile darne conto, magari accompagnandole con un proprio commento.

Vi è poi un’altra considerazione. Il pur ristretto gruppo dei partecipanti alle assemblee è in qualche misura il cuore pulsante del partito. Le donne e gli uomini che si recano in sezione per il congresso sono gli stessi che diffondono casa per casa la stampa comunista, organizzano e popolano le manifestazioni, distribuiscono i volantini, affiggono i manifesti, lavorano alle feste dell’Unità. Sono quelli che, forse più dei quadri o dei dirigenti, vivono quotidianamente i problemi reali, e conoscono, nei limiti delle loro soggettive possibilità e capacità, i problemi della gente. Sono, insomma, oltre che il cuore, anche il volto del partito: ad essi è affidata – anche – la effettiva capacità di trascinamento del movimento comunista nella società. A dispetto del numero relativamente ristretto, perciò, essi sono altamente rappresentativi del corpo del partito.

Non solo. È possibile sostenere che questi militanti danno voce a tanti altri iscritti. Non è raro trovare nei dibattiti l’espressione di opinioni che vengono riferite come diffuse nel corpo del partito: in questi casi, coloro che effettivamente prendono la parola si fanno portavoce di altri che non sono presenti o che, pur presenti, tacciono, magari per le timidezze e le insicurezze di cui si è parlato in precedenza.

A tutto ciò si aggiunga che, per tutta una serie di condizionamenti derivanti dall’atmosfera generale e dall’assetto organizzativo, l’espressione del dissenso nelle assise ufficiali del partito non era propriamente agevole, e richiedeva un profilo motivazionale piuttosto marcato. Anche per questo, dunque, soprattutto le manifestazioni di dissenso rispetto alla linea ufficiale acquisiscono la rilevanza particolare che spetta alle posizioni di avanguardia. Ed è ancor più plausibile considerarle espressioni di umori diffusi non diversamente palesati.

Quando poi i rilievi critici, anziché essere registrati come contributi individuali a un dibattito, vanno a sostanziare le mozioni politiche conclusive dei congressi – che divengono a tutti gli effetti, dopo l’approvazione dell’assemblea, documenti ufficiali – ci si trova in presenza di spunti ancor più significativi.

Infine, bisogna aggiungere un’altra considerazione, molto pragmatica. Questi sono i documenti disponibili: dobbiamo cercare – con ragionevolezza, certo – di “farli parlare”. Del resto, tale è la prospettiva di ogni lavoro di ricerca storica.

Naturalmente uno studio che riguardi il Pci in Emilia-Romagna non può non tenere conto dei documenti ufficiali del partito. Ciò significa che, accanto ai verbali dei congressi di sezione, deve trovare spazio un’analisi degli atti dei congressi federali, i quali rappresentano il passo successivo nella “risalita verso l’alto” (fino al congresso nazionale o a quello regionale) del dibattito congressuale. I congressi federali ci restituiscono un’immagine del partito nella quale è in primo piano, giocoforza, il “discorso” dei suoi organi dirigenti. Peraltro, il partito si muove in gran parte sulle gambe di quei dirigenti, i quali, anche per l’opinione pubblica dell’epoca, sono a tutti gli effetti i rappresentanti del Pci. Ma dai congressi federali giungono anche altri spunti, poiché in quella sede gli interventi nel dibattito costituiscono ulteriori occasioni per sondare gli umori del corpo del partito. Certo, in quelle occasioni gli interventi sono compiuti in grande parte da funzionari e dirigenti di vario livello: sindaci, presidenti di provincia, assessori, consiglieri comunali o provinciali, dirigenti di cooperative o di organizzazioni di massa. Tuttavia, il meccanismo della delega15 porta alla ribalta dei congressi anche semplici militanti; ed anche se il livello dell’assise impone una serie di obblighi formali – implicando la scrittura preventiva degli interventi e la conseguente, inevitabile pesatura delle parole e dei pensieri – e una serie di requisiti anche personali – si tratta di parlare in pubblico davanti a centinaia di astanti – da alcuni dei discorsi pronunciati provengono ulteriori spunti di riflessione.

Per ricostruire la dialettica interna al Pci risulta quindi assolutamente opportuno cercare di tenere insieme, confrontandoli, i tre diversi livelli di elaborazione e di dibattito: quello nazionale, dove si decide la linea del partito; quello federale, dove la linea è interpretata dai dirigenti comunisti di livello locale; quello delle istanze di base, dove i militanti manifestano le proprie opinioni e, anche, i propri dubbi.

Ne emergerà, forse, un mosaico parzialmente incompleto, ma è auspicabile che qualche immagine possa affiorare.

Per citare questo testo attenersi alle seguenti indicazioni: Sebastiano Giordani, Partiti e società. Come nasce (e come cambia) una ricerca storica, in “Storia e Futuro”, Rubriche: Laboratorio, n. 30, novembre 2012.

Bibliografia

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  1. Su tale considerazione si soffermava, del resto, lo stesso Scoppola (2003) anche nella prefazione alla ponderosa raccolta di saggi L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, atti del ciclo di convegni tenutisi a Roma nel novembre e dicembre 2001. Nella stessa raccolta, ricca di spunti per analisi in tutte le direzioni, Francesco Bonini dedicava proprio alla crisi irreversibile dei partiti il suo saggio, intitolato Apogeo e crisi dell’istituzione partito. []
  2. Questa considerazione di Baget Bozzo ha indubbiamente una validità generale, anche se potrebbe introdursi qualche distinzione tra un partito e l’altro. Un partito come il Pci, ad esempio, offriva senz’altro una maggiore resistenza verso questa tendenza. []
  3. Un approfondimento sulla vicenda della formazione dell’archivio nazionale del Pci può essere svolto consultando il sito della Fondazione Gramsci di Roma: www.fondazionegramsci.org, archivio del Pci. []
  4. Su questi temi, si possono vedere Anderlini 1990; Fanti, Ferri 2001, in particolare 45-126, dove si parla anche del contrasto tra Berlinguer e i rinnovatori bolognesi all’inizio degli anni Sessanta. []
  5. Cioè l’incontro tra le tre maggiori tradizioni politiche italiane: la democristiana, la socialista e la comunista. []
  6. Si trattava di un principio, di derivazione leninista, che da un lato promuoveva il dibattito interno al partito, dall’altro vincolava l’azione del partito e dei suoi militanti al rispetto dell’esito di tale dibattito, rendendo cogenti le decisioni assunte e non ammettendo la formazione di correnti interne che manifestassero posizioni di dissenso. []
  7. La descrizione che segue si riferisce solamente all’archivio del partito, della Federazione giovanile e, dove individuabile, del Psiup, partito confluito nel Pci nel 1972. Non si considerano gli archivi personali di esponenti del partito (archivi che talora sono rinvenibili nelle diverse sedi). []
  8. Nella presente descrizione il termine “faldone” è da intendersi sinonimo del termine “busta”. []
  9. Ai documenti cartacei si aggiungono i documenti audiovisivi, costituiti da fotografie, audiocassette e videocassette e racchiusi in altri 13 faldoni. []
  10. I documenti del 1944 sono contenuti nella serie “Convegni e conferenze”. []
  11. Sul dato del 1979 influisce l’incertezza relativa alla federazione di Piacenza, per la quale, per quell’anno, non è stato possibile ricostruire il numero di sezioni. Si assume pertanto che nel 1979 il numero delle sezioni piacentine rimanga uguale a quello dell’anno precedente, e cioè pari a 66. È ragionevole ritenere che tale assunzione non comporti, in ogni caso, un grave errore rispetto alla realtà; di certo, resta inalterato l’ordine di grandezza. []
  12. E include, oltre alla relazione introduttiva, agli altri documenti congressuali e alle conclusioni, anche gli interventi nel dibattito. []
  13. Come ordine di grandezza, si consideri che ai congressi partecipa circa il 20% degli iscritti (la percentuale è ovviamente solo indicativa, perché varia da luogo a luogo). []
  14. Le considerazioni fin qui esposte furono poste in evidenza già in un saggio di impianto sociologico apparso negli anni Settanta: Barbagli Corbetta 1978; successivamente confluito in Barbagli, Corbetta, Sechi 1979. []
  15. Cioè il mandato di rappresentanza che le unità organizzative del partito di livello inferiore conferivano ad alcuni iscritti, i quali erano – appunto – delegati a rappresentare tali unità organizzative nelle assise di livello superiore. []