Problemi, metodi e didattica della storia moderna e contemporanea. Percorsi abilitanti speciali (Pas) A050 Anno accademico 2013-2014.

Patrizia Fazzi

Abstract

Il presente contributo nasce dalla stesura delle lezioni del Percorso abilitante speciale in Problemi, metodi e didattica della storia moderna e contemporanea, organizzato dall’Università degli Studi di Torino, nell’intento di offrire spunti di riflessione metodologica e didattica. Si tratta di un’esigua scelta di contenuti, nell’ambito di una bibliografia ormai molto vasta nel settore della Didattica della storia, selezionati per rendere i futuri insegnanti consapevoli delle finalità, dei fondamenti e dei problemi della disciplina.

Abstract english

This contribution starts from the scripts of the lectures of the Qualification Course in Problems, methods and teaching of modern and contemporary History, organized by the University of Turin, in order to offer hints and teaching methodology. It is a very small selection of contents, as part of a bibliography, now very wide, in the field of History Teaching, selected to make future teachers aware of the purposes, the foundations and the problems of the discipline.

Didattica della storia: problemi e prospettive

In questi ultimi anni abbiamo assistito a un significativo aumento di riflessioni e contributi nell’ambito della Didattica della storia, in merito alla ricerca teorica e applicata. Sono stati pubblicati saggi, atti di convegni e materiali, sia nelle tradizionali riviste storiche sia su siti Internet, tra i quali è doveroso citare “Mundus” e “Storia e Futuro”. Numerose attività di scambio e confronto di esperienze didattiche sono state promosse da esperti e professionisti del settore, tra cui spicca l’associazione di insegnanti e ricercatori Clio ’92, Landis (Laboratorio nazionale per la Didattica della storia) e Iris (Insegnamento e ricerca interdisplinare di storia). Un’apprezzabile raccolta di contributi è consultabile nel portale della Sisem (Società italiana per la Storia dell’età moderna), in particolare nella sezione “Didattica della storia”, che offre un’ampia gamma di esperienze e di interventi, tra i quali sono molto significativi quelli relativi alla formazione degli insegnanti. Nell’ambito della Storia contemporanea, di alto profilo e ben strutturato si presenta il sito della Società italiana per lo studio della Storia contemporanea (Sissco), solo per individuare iniziali punti di riferimento.

In primo luogo è d’obbligo fare chiarezza e circoscrivere il campo specifico in cui collocare la Didattica della storia, un ambito di studi il cui obiettivo principale è formare i futuri insegnanti di tutti gli ordini di scuola. Emergono le riflessioni sui fondamenti, sui problemi metodologici ed epistemologici della disciplina e sulle modalità per trasferirne i contenuti, che dovrebbero essere patrimonio acquisito nel corso della formazione continua del docente.

Ponendosi queste finalità, la ricerca in questo specifico campo della didattica si è diffusa negli ultimi vent’anni a livello teorico e pratico, forse in risposta alla marginalità a cui la storia, a partire dalla riforma Gentile, è stata per troppo tempo relegata: subalternità della storia rispetto alla filosofia e alla letteratura italiana. Si è sviluppato così quel settore specificamente indirizzato a tutto ciò che riguarda l’insegnamento e l’apprendimento nelle scuole di ogni ordine e grado, che interferisce con altre discipline: la metodologia e l’epistemologia storiche, le scienze sociali, la geografia, le scienze psicologiche, pedagogiche e delle comunicazioni. Approfondimenti significativi riguardano proprio la storia dell’insegnamento della storia, dai programmi ai libri di testo, le questioni tecniche e gli strumenti didattici; ma, allo stesso tempo, non sono mancate le ricerche teoriche: dallo studio del canone delle conoscenze storiche alle finalità dell’insegnamento, dall’impatto sociale della disciplina all’attrezzatura mentale del pensiero storiografico. E tra i più noti esponenti possiamo ricordare, anche in questo caso come riferimenti iniziali: Ivo Mattozzi, Antonio Brusa, Gaetano Greco, Walter Panciera, Scipione Guarracino, Raffaella Lamberti, che, insieme a molti altri collaboratori, hanno ampliato l’orizzonte dell’insegnamento della storia, anche in virtù degli sviluppi tematici più attenti alle istanze emerse nel secolo scorso.

In questi anni sono stati numerosi i tentativi di ricucire la scissione tra un sapere esperto, accademicamente garantito, e la storia “materia”. Il primo ambito comprende una molteplicità di conoscenze enormemente superiori in quantità e qualità a quelle della storia scolastica, che deriva per trasposizione dalla storia dei professionisti, ma se ne differenzia per criteri didattici, cognitivi e formativi. Un’ardua impresa, se si aggiunge che, per lunghi periodi, anche i saperi specifici richiesti al docente di storia nella scuola secondaria sono stati deficitari; docenti privi di formazione storica o frutto di percorsi frammentari: da un lato la frequenza di qualche corso di storia tradizionale, ripartita secondo i settori accademici, dall’altro sporadici approfondimenti di micro-storia, specialistica a tal punto da coinvolgere soltanto gruppi molto ristretti di addetti ai lavori; marginale o assente la preparazione sulla didattica della storia. E nel caso specifico delle attuali Lauree magistrali in scienze storiche, la maggior parte degli insegnamenti sono concepiti per avviare alla ricerca universitaria, attraverso un percorso di studi che soddisfa sono in parte le necessità formative del futuro docente.

I due mondi si sono tuttavia avvicinati, anche grazie alla Scuola di specializzazione all’insegnamento (Ssis), istituita nell’A.A. 1999-2000 e sostituita, dopo nove cicli consecutivi, dal Tirocinio formativo per gli insegnanti di scuola secondaria (Tfa), oggi suddiviso in ordinario e speciale (Pas). La Ssis, pur con tutte le critiche sorte nel corso dei nove anni di vita, spesso anche da parte degli insegnanti della scuola secondaria, ha costituito un anello di congiunzione tra pragmatismo e ricerca accademica, come hanno rilevato in molte occasioni sia i docenti titolari dei corsi sia gli stessi abilitandi.

Nonostante questi tentativi, non si può tuttavia affermare che la conoscenza storica a livello scolastico sia proceduta di pari passo; a più riprese si è richiamata la disaffezione dei giovani per il passato, più marcato in certi corsi di studi superiori rispetto ad altri; in molte occasioni si è osservato che agli sviluppi delle teorie cognitive non corrispondeva un’adeguata ricaduta nel mondo della scuola, in definitiva una sorta di discrasia tra teoria e prassi. Così la storia, forse più di altre discipline, si trova di fronte a difficoltà di mediazione tra attività di ricerca e materia d’insegnamento. Ed è proprio dietro questo termine che si cela la reale novità teorica e la concreta innovazione pratica rispetto a un mondo giovanile sempre più immerso nella dimensione del presente. Questo è probabilmente il fattore principale che ha spinto diversi docenti, a volte in forma spontanea, in altri casi dentro l’associazionismo professionale, a sperimentare percorsi di apprendimento, nella consapevolezza della funzione formativa ed educativa della storia: rivisitazione dei piani di lavoro, un tempo solo legati alla cronologia dei contenuti, progettazione per competenze, introduzione delle attività di laboratorio, sia come luogo fisico o simbolico, sia come centro operativo e cooperativo di documentazione.

Oggi qualcosa sta visibilmente cambiando nella scuola italiana, ma è difficile uscire dallo stereotipo della storia come disciplina mnemonica, così come sottrarre la storia, insegnata e appresa, dall’icona del racconto di eventi in sequenza. Nell’immaginario collettivo è diffuso questo luogo comune, perché la storia insegnata è tradizionalmente intesa come una storia di secondo grado, di tono minore, semplificata appositamente per gli studenti. Essa appare subito diversa per qualità, oltre che per quantità, rispetto alla storia erudita, soprattutto perché diversi sono i destinatari a cui si rivolge e gli obiettivi che si pone: una differenza necessaria per mantenere un profilo adatto ai suoi interlocutori, ma pericolosa per il rischio che si snaturi in una forma di sapere ripetitivo, impermeabile e sostanzialmente inutile.

È dunque su questa linea di confine, esposta tanto all’influsso alto della storia dei ricercatori quanto a quello basso della storia vissuta nel quotidiano sociale, che nasce il disagio di molti insegnanti, disagio che si aggiunge all’elenco di impedimenti e di ostacoli che devono quotidianamente affrontare: le difficoltà di lettura, di comprensione di testi, di orientamento nelle infinite questioni, immagini, conoscenze, notizie, che caratterizzano l’universo cognitivo degli studenti.

E allora come trasformare le conoscenze acquisite in un metodo di insegnamento ancorato a precise ed efficaci regole didattiche? Come definire i tratti della mediazione, affinché la “didattica militante”, sperimentata sul campo dai docenti più motivati, si trasformi in didattica storiograficamente accreditata?

La Sisem ha proposto le linee guida per il corso di Didattica della storia rivolto gli insegnanti, da cui prendiamo spunto per strutturare il corso[1]. In particolare, due possono essere considerati gli ambiti più significativi su cui focalizzare l’attenzione, a fronte dell’esiguo numero di lezioni: da un lato le questioni di carattere concettuale e metodologico, dall’altro quelle pragmatiche, al fine di individuare alcuni principi categorici da cui non si può prescindere, che orientano la pratica, ma non la condizionano in schemi preconfezionati.

 

 

I fondamenti della disciplina: riflessioni concettuali e metodologiche

La dimensione spaziale e temporale del discorso storico

I prerequisiti dell’educazione temporale, in particolare i concetti chiave di successione, simultaneità, durata e ordine sono indispensabili per lo studio della materia. L’adozione di un percorso sequenziale, che nasce dall’esperienza comune di collocare un prima e un dopo, è strettamente interconnessa alle origini stesse della disciplina. Fin dai suoi esordi, la storia intende spiegare i fatti alla luce della progettualità umana che si esprime in un tempo rettilineo, descrivibile e frazionabile. In generale, tuttavia, non esiste fatto storico che non sia da inserire nel suo quadro geografico, in cui estendersi e con cui confrontarsi. In definitiva, non c’è storia senza lo spazio in cui nascono e si sviluppano le diverse società: una dimensione orizzontale che oggi consideriamo non come un elemento inerte, un semplice scenario davanti al quale si svolgono le azioni degli uomini, ma come fondamentale oggetto di studio storico.

Il legame tra le società umane e lo spazio da loro occupato è inestricabile sin dalle età più antiche ed è un’acquisizione concettuale di fondamentale importanza per tutte le scienze dell’uomo. Le società vivono di spazio, lo utilizzano, lo consumano, in un intreccio continuo tra uomo e ambiente, che cambia nel corso del tempo a ritmi diversificati. E tali interconnessioni costituiscono proprio una delle principali caratteristiche del rinnovamento storiografico del Novecento introdotto dalla scuola francese delle “Annales”, che ha permesso di uscire da una visione statica e puramente descrittiva dello spazio.

Nel secolo scorso si è andata affermando, dunque, una concezione di ambiente come gamma di possibilità offerte alle diverse società umane: ogni società, in base alla propria storia, alle proprie istituzioni, alla propria cultura e tradizioni, si adatta al contesto ambientale, valorizzando o contrastando ciò che esso offre. Sono diventati così cruciali i concetti di “territorializzazione” e di “paesaggio”, inteso come la “risultante di processi derivanti da relazioni biunivoche tra la natura e la storia” (Rocca 2011). Di pari passo, una più attenta lettura retrospettiva del territorio e una più sfaccettata visione del tempo storico hanno permesso nuove riflessioni, ulteriori problematizzazioni, seppur con statuti scientifici e approcci metodologici diversi.

Diventa a questo punto d’obbligo soffermarsi proprio sul concetto principale della disciplina: la variabile tempo, che lo studioso e il docente non devono trascurare, poiché conferisce alla storia il senso dell’esistenza e le sue forze vitali.

Dalla nascita della storiografia moderna, la riflessione storica si è polarizzata su alcune categorie concettuali connesse al nostro modo di concepire lo scorrere del tempo e alla sua misurazione: collocare con precisione gli eventi, incasellare i dati all’interno di uno schema, periodizzare, ricostruire i processi. Tuttavia, dal punto di vista didattico, è facile scivolare nel nozionismo, che tende a essere fuorviante rispetto a una visione problematica dei fenomeni. La soluzione non è semplice, ma si possono suggerire buone pratiche per utilizzare le cronologie come strumenti di organizzazione del discorso storico. Spesso è utile che l’insegnante individui le poche date fondamentali, frutto di una ragionata selezione, che dovrebbero essere memorizzate e spesso richiamate per mettere in risalto lo snodo cronologico che rappresentano. Periodizzare significa in primis effettuare un’operazione interpretativa, perché si devono fissare i limiti temporali di un determinato oggetto di studio, che diventa un segmento più facilmente inquadrabile sull’asse temporale.

È su questo ordito del tempo che si innesta la trama del cambiamento nelle sue varie articolazioni; se la forza d’inerzia è quella che radica una società alle caratteristiche che la contraddistinguono, peraltro fondamentali aspetti di interpretazione storica, altre forze danno vita al cambiamento, che si sussegue o si alterna a essa, scandendone la durata.

Dal punto di vista teorico, un’innovativa interpretazione della variabile temporale è quella proposta da Fernand Braudel (2010; 2002). Nella sua tripartizione del tempo, la dimensione più lenta chiama in causa l’idea di una storia quasi immobile, di un tempo geografico in cui emergono in particolare le continuità e le permanenze del rapporto tra una civiltà e l’ambiente in cui essa si sviluppa.

Sopra questo strato temporale, quasi immobile, si colloca la storia “lentamente ritmata”: la storia sociale, strutturale, economica, demografica, degli organismi politici e delle loro trasformazioni. In definitiva, una dimensione in cui si privilegiano i fenomeni di “lunga durata”, ossia collocati in un tempo annalistico, che ha segnato una tappa fondamentale nella storiografia contemporanea. E solo sopra questi due livelli si trova la più incalzante storia idiografica, che si sofferma sull’azione dell’individuo e sugli avvenimenti politici e militari: una storia evenemenziale che appare ormai superata, se trasmessa come unica chiave di lettura. La comprensione più profonda di qualsiasi avvenimento richiede un’interpretazione su una scala temporale dilatata rispetto a quella connessa al tempo cronachistico. È molto riduttivo, infatti, fermarsi alla descrizione dei fatti, perché la storia è soprattutto spiegazione, argomentazione, riflessione critica.

Se si considera tramontata l’idea che le trasformazioni storiche possano essere rappresentabili in modo unidirezionale, si possono suggerire concezioni multilineari e irregolari del tempo. Appartiene allo storico francese Michel Vovelle l’idea di una “sinfonia”, nella quale ogni catena di fenomeni, dotati di tempi propri, forma un insieme legato all’interpretazione complessiva di una certa sezione, area o aspetto del passato. Allo storico spetta, dunque, il compito di individuare nel tessuto del divenire i nodi fondamentali, i mutamenti che di volta in volta appaiono significativi, gli aspetti di continutà e cambiamento, le fasi di rivoluzione e transizione, di progresso e conservazione, concetti utili per la comprensione critica di qualsiasi fenomeno o periodo storico.

Utilizzando il primo paradigma, a scopo esemplificativo, si può evidenziare come una determinata società possa presentare una forte continuità in alcuni settori rispetto ad altri, nei quali i cambiamenti sono stati più rapidi. Si può far notare come nella Francia del Settecento la struttura sociale e giuridica fosse quella di ancien régime, mentre l’evoluzione culturale, che prese le mosse dall’Illuminismo, e la trasformazione del sistema economico procedettero su binari di discontinuità rispetto al passato. Può esser utilizzato per presentare e inquadrare casi di contemporaneità. Per fare un esempio: la Cina del nostro periodo, proiettata verso il capitalismo finanziario, ma bloccata sotto il profilo politico e dei diritti civili. Questo crea profondi squilibri e asimmetrie, che sovente preludono a fondamentali mutamenti anche in quei settori non toccati dal cambiamento. Esso può manifestarsi, a sua volta, in tempi brevi o lunghi: nel primo caso parliamo di rivoluzione, nel secondo di transizione. E padroneggiare queste categorie, peraltro non sempre utilizzate in modo appropriato nei testi scolastici, può essere utile per valutare il tipo di trasformazione. Si pensi a quella che, in alcuni manuali presenti nel mercato, è erroneamente definita “rivoluzione neolitica”. In realtà il passaggio dal nomadismo alla sedentarizzazione avvenne in tempi molto lunghi: trascorsero oltre due millenni affinché l’agricoltura si diffondesse dal vicino Oriente all’Europa settentrionale, ne consegue che è molto più appropriata l’espressione “transizione neolitica”. Legittimo è parlare, invece, di rivoluzione quando, in tarda età moderna, accaddero repentini cambiamenti strutturali sia politici, in America e in Francia, sia economico-sociali con la prima Rivoluzione industriale.

Un carattere più specificamente politico ha invece il termine reazione, con il quale si indica ogni comportamento collettivo che, in opposizione a una evoluzione, tende a far regredire la società a stadi che apparivano superati. Reazionaria è comunemente considerata la Restaurazione sancita dal Congresso di Vienna dopo il periodo napoleonico, che investì tutta l’Europa. La dinamica fondamentale tra conservazione, tra ciò che è immune da alterazioni e progresso, in tutte le sue articolazioni politiche e ideologiche, in senso ottimistico-progressivo, ma soprattutto nel significato di avanzamento verso la creazione di nuovi ordini, dovrebbe nutrirsi di una maggiore consapevolezza riguardo alla realtà storica, indipendentemente da ogni legittima scelta di campo.

L’insegnante dovrebbe, in definitiva, allenare a unire il momento statico a quello dinamico, la genesi alla struttura, i contenuti iterabili a quelli non iterabili; dovrebbe guidare la riflessione sugli eventi e sui processi nella loro duplice dimensione spaziale e temporale, proporre attività di comparazione sincronica e diacronica, per la realizzazione delle quali non può prescindere dalla conoscenza di leggi, di modelli, di ipotesi interpretative, di paradigmi, che sono concetti fondamentali per una comprensione non solo fattografica di qualsiasi periodo storico.

Classificazione, interpretazione e uso delle fonti

Il livello della ricerca si qualifica sempre più come capacità di fondare il discorso storico su una documentazione quanto più diffusa e condivisa. Le fonti sono tradizionalmente assoggettate, sin dagli inizi dell’Età moderna, a molteplici tentativi di categorizzazione, non esenti da ambiguità e sovrapposizioni, ma non è questa la sede per una disamina dettagliata in tal senso. Resta il fatto che la fonte, costituita da qualsiasi testimonianza, materiale o immateriale, può essere considerata la materia prima che lo storico di professione utilizza per le proprie ricerche: l’euristica è proprio l’arte di trovare il materiale storico nel mucchio dei dati che ci sono stati tramandati.

La ricerca storica inizia sempre da domande rivolte alla conoscenza del passato; altre volte i quesiti emergono direttamente dal presente, in un processo a ritroso da ciò che è evidente, per inoltrarsi nell’oscurità del tempo retrospettivo allo scopo di capirne meglio gli sviluppi. L’insieme delle domande che lo storico si pone sono molte, ma possono essere ridotte a tre fondamentali: che cosa avvenne? (domanda fattografica), perché avvenne così? (domanda esplicativa), quali leggi scientifiche si possono stabilire nella ricerca? (domanda teoretica). Nella storia della domanda si compiono poi ulteriori distinzioni fra domande decisionali e complementari, che al loro interno possono essere aperte o chiuse; ma anche le risposte, a loro volta, possono essere complete o parziali. Naturalmente, in corso d’opera, si possono aprire nuovi itinerari di studio, che rinviano a fonti diverse, da cui ricavare quelle utili informazioni da inserire in una rete interpretativa, che prende poi forma in un testo scritto.

Nella fase di progettazione e di riflessione operativa rientra in primo luogo l’esame aggiornato della bibliografia, che corrisponde alla storiografia esistente sull’argomento e costituisce la massa di conoscenze formatasi in precedenza grazie agli studi che altri hanno fornito.

Ne consegue, in ogni caso, che non si può scrivere un testo storico senza materiale documentario, a qualunque categoria esso appartenga, ma è altrettanto vero che questa attenta ricerca non costituisce il punto di partenza del lavoro. I resti del passato acquistano un senso solo quando sono adatti a fornire risposte ai problemi che sono all’origine di qualsiasi ipotesi di ricerca e a tal fine sono riordinati, collocati in una rete logica che li lega nello spazio e nel tempo ad altre testimonianze.

Semplificando al massimo, data la massa di fonti disponibili specie per l’età moderna e contemporanea, la principale distinzione è quella tra fonti primarie e secondarie. Nella prima casistica rientrano le fonti coeve al periodo che si intende studiare, secondarie quelle successive, costituite in primo luogo dalle opere prodotte dagli storici sul periodo in questione. Alla base di tale distinzione vi è, dunque, un criterio temporale, non di tipo qualitativo.

Fonti primarie sono ad esempio i discorsi parlamentari e l’epistolario di Cavour, mentre si collocano tra le fonti secondarie le biografie di Rosario Romeo o di Mack Smith dedicate allo statista piemontese. I discorsi di Robespierre alla Convenzione sono una fonte primaria per la Critica della Rivoluzione francese di François Furet (2004), mente a sua volta il volume di Furet diviene fonte primaria per la storia delle interpretazioni della rivoluzione francese nel Novecento. Bisogna pertanto prestare attenzione al carattere “relazionale” che le due tipologie di fonti assumono, dal momento che le secondarie possono trasformarsi in primarie in rapporto al ruolo svolto nel contesto di ricerca.

Altri criteri, diversi da quello temporale, presiedono a un’ulteriore classificazione delle fonti, criteri prevalentemente descrittivi, utili ad ampliare la consapevolezza dell’importanza di determinati documenti. Tra le fonti primarie scritte, secondo la nota distinzione proposta da Federico Chabod (2006), ritroviamo le fonti documentarie e narrative. Rientrano nelle prime, gli atti dell’amministrazione pubblica, le statistiche, i bilanci, ma anche quelli prodotti dai privati: dai contratti ai testamenti; le fonti narrative sono costituite invece da cronache, annali, biografie, memorie, e molto altro ancora, solo per dare l’idea della poliedrica varietà della documentazione. Ricordiamo poi che le fonti scritte possono essere a stampa o manoscritte, tra le quali ritroviamo per lo più i diari e gli epistolari.

Aggiungiamo all’elenco l’ampia casistica delle fonti materiali, un campo molto esteso che comprende gli oggetti di uso comune, le monete, i manufatti, i segni del paesaggio rurale e urbano, i monumenti, i resti delle attività economiche studiati dall’archeologia industriale. Sono considerate primarie le fonti orali, nelle quali rientrano le leggende, le tradizioni, le testimonianze, i ricordi tramandati a voce, e quelle iconografiche, che si sono arricchite in modo straordinario dopo l’invenzione della fotografia. Le fonti sonore e visive rappresentano un ambito di straordinario interesse per la messa a punto di nuovi strumenti critici di indagine, poiché non meno ambigue e difficili a decifrarsi di quanto non lo siano le fonti scritte.

Si annoverano fra le fonti storiche i testi letterari, in quanto testimonianza del tempo in cui sono stati prodotti, ma talune opere a carattere storico devono a tutti gli effetti essere considerate vere e proprie opere storiografiche e, quindi, fonti secondarie.

In realtà non esiste un numero finito di fonti, poiché è lo storico che crea una fonte nel momento in cui la scopre e decide di utilizzarla, che “inventa” il documento scovandolo tra i relitti del tempo, scarsi o sterminati che siano, che lo interroga secondo precise tecniche metodologiche. Esse presuppongono una serie di operazioni logiche che, nella maggior parte dei casi, avvengono simultaneamente: la decifrazione, l’esame del contenuto, la prova dell’autenticità e la definizione del grado di attendibilità. Si tratta di interventi complessi che richiedono competenze specifiche, pluridisciplinari e talora il ricorso a mezzi scientifici raffinati, anche solo nella prima fase.

Il problema dell’analisi critica delle fonti ha radici lontane, ma con l’affermarsi della storiografia scientifica, nel corso degli ultimi due secoli, la funzione probatoria delle fonti è diventata ancora più importante e su di essa poggiano la credibilità e il prestigio della disciplina. Essa nasce dalla consapevolezza che ogni documento è a sua volta un prodotto storico, un’elaborazione concettuale finalizzata a trasmettere non tanto una presunta memoria asettica, quanto un’immagine secondo i codici interpretativi del tempo e per finalità precostituite. Lo storico Le Goff ha messo in guardia contro l’apparente neutralità delle fonti, ponendo l’accento sulla dimensione intenzionale di ogni traccia del passato. Egli invita gli storici a smontare quel “monumento”, a demolire quel montaggio con le armi della critica, nel tentativo di trasformare il documento in “dato”, per trasferirlo dal campo della memoria a quello della scienza storica (Le Goff 1986).

È evidente che l’insegnante di storia si pone altre finalità rispetto allo storico professionista, in grado di procedere, con rigore filologico, a confronti incrociati tra documenti, di effettuare operazioni intellettuali di interpretazione e di valutazione del loro grado di attendibilità, di individuare i falsi e comunque di indicarne la loro valenza. Si pensi per esempio al falso antisemita dal titolo I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, scritto in Russia tra il 1902 e il 1903, come prova di un inesistente complotto giudaico di dominio universale. Considerata una delle principali fonti dell’antisemitismo, trova ancora oggi credito in alcuni circoli neonazisti europei. In sede storica, dunque, il vero problema è capire perché il falso è stato messo in circolazione e, in questo modo, considerarlo esso stesso una fonte storica.

Nel corso della ricerca si avvia sempre un percorso di indagine che richiede verifiche, correzioni e modificazioni in itinere delle ipotesi elaborate, confronti, comparazioni e integrazioni successive. Ed essa si arricchisce di quesiti inediti, che a loro volta rinviano a fonti diverse e a conoscenze extra-fonti, per giungere a schemi teorici in grado di riordinarne i risultati in una sorta di ricomposizione, di sintesi finale dell’oggetto storico analizzato.

Per questo ordine di considerazioni, è necessario che il docente aggiorni con costanza il suo bagaglio di conoscenze metodologiche e storiografiche, se intende intraprendere attività didattiche di ricerca simulata. A questa considerazione possiamo aggiungere che un efficace uso delle fonti non può prescindere da un rinnovamento del paradigma tradizionale di insegnamento: da racconto di fatti ed eventi a raccolta di informazioni su quei fatti e su quegli eventi. Solo attraverso questa procedura è possibile elaborare, in una fase successiva meno asettica, un discorso finalizzato a rendere l’utilizzo delle fonti momento qualificante dell’esperienza didattica. È necessario, dunque, seguire una logica diversa da quella tradizionalmente praticata purtroppo da molti docenti, ossia considerare la fonte come supporto alla narrazione o al testo discorsivo, una lettura che si potrebbe definire “semantico-letteraria”, una sorta di valore aggiunto alla storia generale per dare un’idea di completezza formale. Usare correttamente le fonti significa, invece, intraprendere un percorso metodologico diverso, significa entrare nel cuore del passato nel tentativo di considerare la storia come l’arte di interpretare e rifare quel passato.

Ciò presuppone un’adeguata conoscenza dell’ampio ventaglio delle fonti che il passato ci ha lasciato, con le specifiche differenze in base all’età presa in considerazione, al tema affrontato o al problema da discutere. È necessaria tanta accortezza, ma anche tanta conoscenza della disciplina, dalla quale comunque non si può prescindere.

È evidente che l’uso delle fonti non è finalizzato in senso stretto al racconto, e non è dunque a esso alternativo. In un certo senso, narrazione e uso delle fonti sono complementari, si sostengono a vicenda in un insegnamento basato sul raggiungimento di competenze più formalizzate, poiché fondate su capacità logiche di contestualizzazione e di comparazione. Leggere ad esempio il Discorso al parlamento tedesco di Otto von Bismarck, dopo la vittoria con la Francia sancita dal trattato di Francoforte del maggio 1871, non cambia la logica narrativa dello scontro tra la Germania e la Francia, ma richiede capacità di ragionamento in merito alla situazione internazionale, partendo da un preciso punto di vista. Insieme alla lettura di altri documenti coevi e relativi alle vicende trattate, lo studente potrà cogliere la delicata e particolare valenza degli eventi narrati, li inquadrerà in scenari di più ampio respiro e ne trarrà le dovute conseguenze in merito alla non linearità delle “spiegazioni” storiche. L’insegnante potrà aggiungere, se lo ritiene opportuno, altre metodologie di analisi delle fonti, ad esempio il paradigma indiziario, procedimento introdotto da Ginzburg (1979) alla fine degli anni Settanta: non a caso lo stesso Marc Bloch sosteneva che il documento è un testimone del passato e come tale parla soltanto se interrogato.

In definitiva, quello che si vuole sostenere è che si devono continuamente “impastare”, riadattare i saperi e le competenze disciplinari per la ricostruzione della storia, attribuendo alle fonti altri obiettivi rispetto alla semplice conoscenza degli eventi. Dovrebbe diventare pratica comune e condivisa considerare il documento come una testimonianza, un indizio, un atto ufficiale o intenzionale; ma questo approccio presuppone la capacità di spezzare talune rigidità, di riconoscere la qualità delle fonti e di sapersi destreggiare con dimestichezza nell’ampia gamma di documenti che abbiamo a disposizione.

Le forme narrative del discorso storico

Ci imbattiamo nel problema della narrazione quando dal piano pragmatico-metodologico, strettamente interconnesso alla procedura di ricerca, passiamo all’esposizione dei risultati delle indagini compiute, che si traduce in proposizioni storiche fra loro collegate in modo coerente su un dato frammento di realtà. Ciò significa che si devono mettere insieme i tasselli per comporre l’unità, nella quale le informazioni, le conoscenze e i dati siano fusi in una creazione strutturata e cristallina.

La narrazione rappresenta il problema centrale della metodologia apragmatica delle scienze e, in ogni caso, della metodologia apragmatica della storia, che utilizza il racconto come medium di comunicazione. Spetta allo storico, dunque, argomentare il messaggio e farlo comprendere ai destinatari, utilizzando un linguaggio con il quale siano veicolati i fenomeni del passato, gli scenari, gli strumenti di indagine utilizzati, le tematiche, i problemi e i soggetti. E fanno parte del linguaggio il vocabolario, la grammatica, le regole semantiche, a cui si attengono i vocaboli, che a essi e alle intere frasi attribuiscono determinati significati. Scegliere, per esempio, i termini “rivolta”, “tumulto”, “jacquerie”, “moto” o “rivoluzione” non solo determina una precisa presa di posizione storiografica e ideologica, ma implica anche una differente sollecitazione nei confronti del destinatario. Optare per un tono apologetico, consenziente, oppure di distacco e di disapprovazione rende evidente la posizione interpretativa dell’autore, tenendo per fermo che lo storico deve possedere quell’obiettività e onestà intellettuale necessarie nella ricostruzione dei fatti, a partire dalla prova fornita dalle fonti.

La storia rientra nell’ambito delle scienze che si servono dei linguaggi naturali e non artificiali e la narrazione è stata e rimane il modello esclusivo per la comunicazione dei risultati della ricerca storica, largamente praticato anche all’interno della comunità scientifica. Sono frequenti nella narrazione concetti ordinatori di vario genere ed essi adempiono la funzione di organizzazione della conoscenza. Allo storico preme, in primo luogo, trasmettere e far comprendere il reale decorso degli avvenimenti, per questo è opportuno far riferimento a definizioni il più possibile incisive, precisate nell’ambito di una determinata scienza che se ne occupa professionalmente, e alla loro spiegazione dettagliata quando assumono differenti curvature.

Per la costruzione della narrazione storica, sfruttando la costante prospettiva temporale, sono necessari numerosi strumenti, che sono componenti delle conoscenze extra-fonti oppure funzione delle medesime. A tali mezzi appartengono: l’immaginazione storica, il linguaggio, i concetti di classificazione, ma anche le conoscenze derivate da altre scienze ausiliarie della storia. E per collegare i vari elementi è necessaria la capacità di movimentare i saperi accumulati, nell’intento di generare una chiara visione d’insieme.

Il testo che ne deriva, in genere di tipo informativo-argomentativo, segue un percorso logico, che si sviluppa in proposizioni storiche correlate a precise coordinate spazio-temporali, sia per singoli eventi o brevi periodi, sia per fenomeni di lunga durata. La catena narrativa risulta così composta da una sequenza di asserzioni la cui organizzazione è varia, ma subordinata sempre e comunque al rigore del lavoro dello storico. In ogni caso, a livello didattico, può essere interessante estrapolare la trama fondamentale utilizzata e recuperare, nei passaggi che l’insegnante ritiene significativi, il materiale documentario su cui poggia l’argomentazione del problema o la narrazione dei fenomeni: un’attività che allena le capacità logiche e di ricostruzione.

Per una visione di più ampio respiro, è particolarmente significativo ricorrere al catalogo tipologico proposto dallo storico polacco Jerzy Topolski (Topolski, Righini 1997), che distingue le seguenti “coppie”: racconto descrittivo e giustificativo, fattuale e teorico, monografico e sintetico, solo per citare i binomi più utili al nostro contesto.

La prima coppia sottolinea una vera e propria diramazione nella trasmissione del sapere storico, poiché si propone, da una parte, un prodotto completo e definito dai risultati della ricerca assunti come definitivi, dall’altra, vi è la volontà di presentare i modi e gli strumenti con i quali sono stati conseguiti i risultati offerti al lettore, evidenziando quelle ipotesi, quelle piste che nel corso della ricerca sono state abbandonate, perché prive di un valido riscontro. Una sorta di narrazione aperta a più proposte di sintesi, più disponibile a successive integrazioni, a riprese e recuperi, anche dopo la conclusione dello studio. Chi adotta questa modalità può essere considerato, secondo lo storico Giovanni De Luna (2004), uno “storico-enzima”, poiché contribuisce a “far transitare il passato nel presente, rendendolo assimilabile, digeribile, utilizzabile”.

Il racconto teorico costituisce, rispetto a quello fattuale, ossia legato ai fatti nella loro realtà oggettiva, il motore di tutta l’operazione storiografica, la base su cui poggia l’intento di ricostruzione. E il linguaggio utilizzato in questo contesto risente ovviamente delle rappresentazioni mentali, dei modelli ordinatori e dei paradigmi che organizzano l’attività intellettuale del ricercatore. Sono tali, ad esempio, i concetti di continuità e di cambiamento, il principio di coerenza e di relazione all’interno del discorso, oppure la dinamica tra conservazione e rivoluzione. Esiste, tuttavia, anche una dimensione teorica vera e propria interna o desunta da altre discipline diverse dalla storia; è il caso dell’analisi quantitativa oppure di teorie economiche o sociologiche, da cui si possono prendere in prestito indicatori e modelli di spiegazione.

L’ultima coppia segna nel profondo la produzione scientifica accademica; si tratta, in questo caso, di coniugare i lavori di ricerca su temi specialistici con le messe a punto di tematiche, di processi, di situazioni di più ampio respiro, che giungono sino alla storia globale. Nell’ambito della narrazione monografica, è ormai assodato che la produzione storiografica possa oscillare fra la storia di Domenico Scandella detto Menocchio, il mugnaio friulano giustiziato per eresia dall’Inquisizione (Ginzburg 2009), e la secolarizzazione, fra le migrazioni interne al Ducato di Parma e le migrazioni transnazionali.

Il rapporto tra lavoro scientifico e la narrazione è, dunque, un’operazione complessa, che si traduce in trattazioni di stringente valore logico-argomentativo di micro e macro livello; in ogni caso, tuttavia, è fondamentale riconoscere che la specificità del testo storico risiede sempre nel costante e antiletterario richiamo alle fonti.

I generi storiografici

Nell’ambito della ripartizione disciplinare della storiografia secondo settori o aspetti della vita sociale, individueremo solo le linee generali che possono stimolare riflessioni didattiche utili alla formazione del docente: la storia generale, globale, nazionale, settoriale e locale, che rappresentano l’orizzonte storiografico, all’interno del quale collocare le tematiche di insieme o sempre più articolate e minute della vita e dell’esperienza dell’uomo. È bene sin dall’inizio precisare, tuttavia, che non si tratta di diverse storiografie, ma dell’individuazione della prospettiva da cui analizzare, attraverso lenti di vario spessore, il processo storico.

Partendo da contesti generali, ritroviamo in primo luogo il genere storiografico nel quale rientrano i manuali scolastici e universitari. La storia generale si può definire, infatti, come la rappresentazione dei processi di mutamento che hanno interessato l’umanità dalla preistoria al presente, in una forma di organizzazione della materia che genera un sistema composto da conoscenze plurime, che appartengono ai diversi ambiti dell’esperienza umana, il cui principio ordinatore è il divenire delle forme di potere e dei sistemi di organizzazione economico-sociali. Ne consegue che questo genere non può che inglobare l’intero sapere storico, in una sorta di enciclopedia della conoscenza del passato.

La storia generale è, in definitiva, la summa del sapere e costituisce uno dei pilastri su cui si fonda la didattica tradizionale della storia, ancora oggi molto diffusa nelle scuole di ogni ordine e grado, a cui si aggiungono il principio cronologico-sequenziale e il modello trasmissivo del sapere. È proprio attorno alla concezione e all’utilità della storia generale che si è focalizzato negli ultimi decenni un vivace dibattito sul suo “uso e abuso”: da un lato, chi sostiene che una solida base di sapere storico diacronico, indispensabile per confrontarsi con la realtà del presente, dovrebbe continuare a costituire il comune denominatore dei vari ordini di scuole, dall’altro, chi ritiene che la storia generale tradizionale tende a produrre stereotipi, approcci meccanicistici e un senso di completezza che non induce a cercare nuove conoscenze. A queste critiche, si aggiunge quella di essere una storia del divenire dell’umanità in una prospettiva prevalentemente eurocentrica. Le vicende trattate nei manuali riguardano, nella maggior parte dei casi, gli Stati e le società dell’Europa, e anche quanto la prospettiva si amplia, questa è pur sempre in funzione di eventi storici o modelli di sviluppo di matrice europea.

Questa obiezione apre la strada a uno dei filoni storiografici di maggior successo negli ultimi decenni, la cosiddetta storia globale o world history. Si tratta di un nuovo approccio storiografico, inaugurato da Oswald Spengler e Arnold J. Toynbee e proseguito da altri studiosi, tra cui spicca lo storico canadese William McNeill, caratterizzato dall’analisi di nuove entità spaziali a carattere policentrico. Ne Il tramonto dell’Occidente (Spengler 1918-22), per la prima volta la divisione in civiltà della storia umana (egiziana, babilonese, greco-romana, indiana, cinese, messicana, araba, occidentale) sopravanza nettamente le tradizionali periodizzazioni trasversali, all’interno di un parallelismo con gli organismi viventi e, quindi, con le dinamiche naturali di nascita, ascesa, declino e scomparsa.

Il problema della genesi, dello sviluppo e della crisi delle civiltà di derivazione spengleriana si ritrova nella storia universale di A.J. Toynbee (1933-61), nella quale lo storico compara tra loro i cicli delle civiltà capaci di svilupparsi nello spazio e nel tempo (occidentale, bizantina, islamica, induista, orientale) per scoprirne i punti comuni e, di conseguenza, le cause di vittoria e sconfitta. Si supera la visione deterministica, ravvisando nella cultural’azione cosciente degli individui in lotta con l’ambiente da essi occupato. Tra spazio geografico e insediamento umano si genera così una dialettica di challenge e response,che rappresenta la chiave dello sviluppo storico delle diverse civiltà.

Se questi due autori possono essere considerati i padri spiriturali della world history, il suo fondatore moderno è senza dubbio lo storico W. McNeill (1963), che individua nella comparazione un nuovo paradigma interpretativo. L’interazione tra uomo e ambiente è posta alla radice delle differenze di genesi e sviluppo delle civiltà umane, che sono esplorate soprattutto nei loro punti e momenti di contatto e di scontro. The Rise of the West marca importanti acquisizioni storiografiche, poiché supera qualsiasi schema evolutivo delle civiltà e individua il motore del progresso negli uomini di frontiera (viaggiatori, mercanti, migranti, missionari) che si muovono attraverso i confini delle civiltà: è l’incontro con il “diverso” nelle sue forme (commercio, investimenti, guerre, migrazioni, innovazioni tecniche e scientifiche, epidemie, piante, animali) a porre una sfida che può essere subita, contrastata oppure raccolta, ma che comunque mette sotto pressione gli equilibri tradizionali e li spinge al cambiamento.

Numerosi studi successivi hanno permesso di abbandonare lo schema dello sviluppo economico moderno unico di stampo europeo, mettendo in risalto modelli alternativi, ma non meno vitali, esistenti in altre aree del mondo; ma non è questa la sede per una loro disamina, seppur schematica, per ovvi motivi di tempo. Il docente può comunque leggere la world history come una storia finalizzata a raccontare lo sviluppo delle società umane, che dovrebbe includere non solo la storia politica e diplomatica, ma la religione, il commercio, l’istruzione, l’intrattenimento e i metodi di comunicazione, in un’ottica di superamento della centralità del mondo occidentale.

Se la storia globale pare oggi uno degli approcci più interessanti della storiografia mondiale, poiché permette di conoscere meglio il processo di globalizzazione in cui siamo immersi e di coglierne le logiche di lungo periodo, la sua ricezione in termini scolastici pone non pochi problemi. Da un lato, è poco recepita dai manuali, fortemente ancorati alle radici culturali europee, dall’altro, in assenza di un canone epistemologico formalizzato, risulta eccessivamente semplificata o genericamente sviluppata attraverso concetti astratti presi in prestito da altre discipline. Certo un’impostazione globale richiederebbe il superamento della periodizzazione basata sul canone della storia nazionale ed europea, perché insegnare la storia mondiale non significa giustapporre alla storia d’Europa le storie di altre parti del globo, generando in tal modo una sovrapposizione di materiale ingovernabile e poco intelligibile, ma consiste nell’individuare quei fenomeni fondamentali per tutta la storia dell’umanità e non solo per un’area geografica o un’epoca.

Queste chiavi di lettura meriterebbero di essere discusse e approfondite, tuttavia, considerate le Indicazioni nazionali e le linee guida ministeriali a cui il docente è tenuto ad attenersi, appare obbligato l’itinerario che parte dalla conoscenza della nostra civiltà, ma è altrettanto possibile riservare una maggiore attenzione alla storia degli Stati extraeuropei, anche in una prospettiva più consapevole di integrazione multietnica.

La distanza ancora considerevole tra la storia globale e l’insegnamento della storia centrato sulla prospettiva nazionale è comunque dovuta al fatto che lo Stato nazionale, come organismo storico, è ben lungi dall’essere scomparso e raccoglie l’eredità della grande stagione storiografica ottocentesca. Se si considera un arco di tempo più lungo rispetto alla storia recente, sono evidenti i continui processi di formazione degli Stati nazionali. E non esiste formazione di una nazione senza una storia della nazione, che nasce da una miscellanea di componenti, adattate secondo le diverse realtà linguistiche, culturali, geografiche ed etniche.

La storia generale, in ognuna delle sue forme, non può essere considerata, tuttavia, l’unica modalità di approccio al passato dell’uomo. La necessità di isolare fenomeni di particolare interesse o complessità all’interno di una o più civiltà ha indotto gli storici a costruire singoli e specifici aspetti del passato, come dalla generica scienza medica sono nate le varie specializzazioni. Si sono così diramate le storie settoriali, che si distinguono per l’oggetto di indagine, oltre che per il peculiare ricorso a specifiche tipologie di fonti, e comunque sempre per l’utilizzo di strumenti e metodi mutuati da altre discipline. Dall’incontro con l’economia politica è nata la storia economica, da quello con l’economia aziendale la storia d’impresa; la demografia storica si avvale della strumentazione propria dei demografi, la storia della famiglia fa uso di modelli tratti dall’antropologia, e così per molte altre branche settoriali. Esse costituiscono perciò un prezioso terreno d’incontro interdisciplinare, sia sotto il profilo scientifico sia dal punto di vista della pratica didattica, poiché l’oggetto di indagine circoscritto facilita la comparazione anche di fenomeni molto lontani fra loro nel tempo e nello spazio. Risultano inoltre molto utili sul piano didattico, in particolare nella progettazione modulare, poiché rompono gli schematismi delle periodizzazioni tradizionali e consentono di affrontare analisi di lungo periodo; si pensi, a scopo esemplificativo, alla storia della tecnologia o alla storia della cultura materiale.

Giungiamo, infine, alla cosiddetta storia locale, una dimensione che spazia da quella municipale a quella regionale in base alla lente scelta per l’osservazione. Ciò non impedisce tuttavia che indagini in campi ristretti conducano ad aperture ad ampio raggio, poiché si tratta sempre di sottoinsiemi della storia di una civiltà, che interseca, secondo le specificità del luogo, una o più storie settoriali. Di conseguenza, la storia locale rimanda sempre alla dimensione più ampia della civiltà cui si riferisce nel suo divenire storico. E anche in questo caso, una buona conoscenza delle principali storie settoriali è indispensabile per ogni corretto ed efficace percorso sia scientifico sia didattico. Può favorire una conoscenza più precisa delle relazioni esistenti tra uomo e territorio e far maturare la consapevolezza di come strutture o eventi più generali si riflettano sulle singole comunità. Le tracce che si sedimentano nel corso del tempo, grazie alla possibilità di sperimentarne direttamente la consistenza, consentono una più sicura acquisizione degli strumenti di micro lettura del territorio che possono poi essere applicati su scale più ampie.

Una corretta percezione del rapporto tra “storie generali”, commisurate all’ampiezza complessiva del mondo storico, e “storie speciali”, che di quel mondo colgono solo i segmenti o i frammenti significativi, può essere considerata determinante per far acquisire la coscienza della dimensione storica, per far riflettere su differenze e asimmetrie, ma anche su parallelismi e percorsi condivisi, sempre nella consapevolezza che la regola scientifica fondamentale impone la piena controllabilità e la documentata verificabilità della ricostruzione proposta.

Metodi, azioni e strumenti didattici

Insegnare la storia: alcuni elementi di base

Il processo di insegnamento-apprendimento della storia richiede saperi professionali sempre più diversificati in risposta alle profonde trasformazioni che ha vissuto e sta vivendo il sistema scolastico, in particolare in merito ai modelli trasmissivi del sapere. In passato le preconoscenze storiche erano direttamente mutuate dalla famiglia, dai luoghi di vita e da quelli visitati; i nuovi mezzi di comunicazione di massa hanno radicalmente cambiato questo scenario, immergendo i giovani in un flusso continuo di informazioni, di immagini, di suoni, tutti a diverso titolo intrecciati con la storia. Essi incidono profondamente sui modi di formazione e circolazione della conoscenza, rendendola sempre più veloce e complessa, ma proprio per questa loro caratteristica sono particolarmente graditi ai giovani, che su essi foggiano abitudini percettive e stili di pensiero.

Certo affiorano oggi segnali di profonda inquietudine da parte dei docenti, ma è indubbio che il modello tradizionale, inteso come trasmissione delle conoscenze, memorizzazione e verifica dell’avvenuta assimilazione dei contenuti, tende a essere sempre meno funzionale nella scuola attuale. Tra le numerose proposte legate all’innovazione didattica della storia, si possono anche in questo caso suggerire alcuni spunti, lasciando ai docenti la libertà di approfondire quelli che ritengono più efficaci. Si può ipotizzare un complesso di pratiche che, pur tenendo ferma la fedeltà ai principi formativi della disciplina storica, faccia tesoro della flessibilità tipica della didattica e riesca a dar conto della effettiva pluralità delle metodologie che possono essere esperite e delle risorse offerte dai diversi alfabeti mediatici.

I capisaldi della nuova didattica formativa, a cui hanno contribuito numerosi pedagogisti e teorici della Didattica della storia, risiedono proprio nel ridimensionamento del modello di trasmissione delle conoscenze, intese come insieme di saperi codificati dai programmi curricolari. La centralità è assegnata, invece, alle abilità e alle capacità degli studenti di appropriarsi delle conoscenze e di rielaborarle. Ne consegue che il compito principale del docente non è insegnare, ma insegnare ad apprendere; anche in questo caso, il modello non deve essere inteso come paradigma totalizzante, perché non basta saper insegnare, bisogna anche sapere “cosa insegnare”: padroneggiare i nuovi strumenti della didattica senza un’approfondita conoscenza della disciplina rischia di indebolirne i fondamenti.

Al docente sono assegnati, dunque, compiti complessi: scegliere oggetti di apprendimento, progettare e costruire curricoli verticali, moduli e unità disciplinari, miranti allo sviluppo di competenze da mettere in relazione con i saperi già posseduti. Deve altresì guidare in aula la realizzazione effettiva del processo di apprendimento, fornendo feed-back, stimoli, aiuti, e valutare, infine, gli apprendimenti dell’intero percorso. Per espletare al meglio questa serie di operazioni, i docenti di storia dovrebbero completare, arricchire, potenziare e approfondire le loro conoscenze, soprattutto sui temi relativamente nuovi sui quali devono impegnare gli studenti, ma avrebbero ancor più bisogno di apprendere le tecniche della ricerca storica, come si interviene sui diversi tipi di fonte, come si ricavano informazioni e come si connettono per trovare il filo conduttore della descrizione, narrazione e spiegazione. Questo non perché debbano diventare a loro volta degli storici di professione, ma per appropriarsi degli strumenti del mestiere che, se utilizzati correttamente, stimolano il pensiero dinamico.

Il modello dell’insegnamento della storia come ricerca presuppone un elevato grado di competenze concernenti i fondamenti metodologici ed epistemologici della materia, che dovrebbero diventare patrimonio anche di chi non ha maturato esperienze di ricerca in campo storico.

Una metodologia didattica plurale

La conoscenza storica è un processo in costruzione, è un’operazione continuamente in fieri, è un approccio specifico alla realtà sociale e geografica che muta con il mutare delle domande e delle esigenze che provengono dalla comunità scientifica, ma anche dal mondo politico, sociale e culturale. La convinzione di fondo, il retropensiero generale, epistemologico e cognitivo, è che non esiste uno schema fisso e predeterminato per l’insegnamento della storia, come non esiste per la ricerca storica.

In linea generale, tuttavia, è possibile affermare che ci sono principi categorici da cui non si può prescindere, che operano come regole generali che orientano la pratica, ma non la condizionano a tal punto da renderla obbligata in schemi rigidi. La scansione potrebbe essere la seguente, non necessariamente gerarchica o normativa, ma neanche casuale: la problematizzazione, l’uso delle fonti di varia natura e contenuto, la periodizzazione, l’uso appropriato del lessico specifico, l’organizzazione secondo l’asse cronologico, la prevalenza dell’aspetto cognitivo rispetto a quello contenutistico, la rielaborazione dell’oggetto di studio, la ricerca e la sistematizzazione storiografica.

Programma curricolare e manuale in adozione costituiscono perciò due elementi forti delle potenzialità programmatorie che devono essere utilizzati, in particolare, per selezionare gli assi cronologici interni che si intendono seguire, per isolare gli argomenti e i materiali documentari, per quantificare il carico di lavoro e indicarne la corrispondente tempistica. Tale pratica didattica non esclude, tuttavia, che il docente, tra le pieghe del programma o del manuale, scelga altre tematiche o spezzoni cronologici da riorganizzare metodologicamente secondo criteri rivisitati, in base alla propria sensibilità o agli interessi che nascono nel contesto classe.

È fuori discussione considerare l’asse cronologico-sequenziale come il primo elemento ordinatore della disciplina, poiché in sua assenza la storia si trasformerebbe in sociologia del passato, in antropologia dei popoli scomparsi o in economia storica; ma vanno aggiunti altre forme di progettualità, complementari e non solo alternative, per approfondire le quali è ormai disponibile una vasta bibliografia nell’ambito della “didattica formativa”.

Attraverso una metodologia “vivace”, costruttiva e non ripetitiva, unita alla differenziazione degli strumenti che il docente ritiene più adatti al reale contesto di azione didattica, sarà possibile cogliere criticità e validità di ogni modello, innovativo o tradizionale che sia.

Spunti e suggerimenti conclusivi

Il modello standard universalmente diffuso, la performance identitaria con la quale ciascun docente sente di doversi confrontare, continua a essere la lezione frontale, uno dei mezzi fondamentali della comunicazione. La sua efficacia dipende da molti fattori, tra i quali: la tipologia dell’ordine di scuola, la finalità dei programmi nel curriculum generale di quell’ordine, il livello, le aspettative e le motivazioni degli studenti, il contesto generale delle implicazioni storico-sociali e storico-politiche che ruotano intorno alla disciplina e al suo insegnamento. Sarà compito del docente valutarne la reale efficacia e “dosarla” all’interno di un coerente progetto didattico.

Nessuna demonizzazione, dunque, ma anche nessuna esaltazione: la lezione frontale può contribuire efficacemente a organizzare i contenuti e può essere funzionale a inquadrare lo scenario del tema in oggetto; tuttavia, se il docente assume il ruolo di ripetitore dei capitoli in cui è suddiviso il manuale, sarà difficile mantenere viva l’attenzione, anche negli studenti che ne avevano colto la fascinazione. Dobbiamo prendere atto che oggi ha una minore forza attrattiva rispetto al passato, in relazione alla riduzione delle capacità di concentrazione e di ascolto dei “nativi digitali”, nei confronti dei quali l’innovazione didattica offre sicuramente nuovi stimoli.

Funzionale a verificare l’acquisizione di competenze e conoscenze pregresse, la lezione dialogata si presenta, invece, come uno strumento educativo che, sollecitando i singoli alunni, permette al docente di recuperare gli elementi di precognizione e di valutare in itinere la stabilità nell’acquisizione dei contenuti. Solo attraverso questo particolare atto, insieme cognitivo e contenutistico, si manifesta la possibilità reale di sondare l’efficacia della nuova conoscenza. Essa ha alle spalle un’intenzionalità forte e mirata, non è sinonimo di improvvisazione o di caos comunicativo; anche in questo caso, è compito del docente distinguere tra brain storming e recupero di nozioni precedentemente incontrate, che possono condurre alle fasi successive.

Accanto alla lezione frontale e dialogata, aggiungiamo il lavoro sui documenti, operazione di particolare importanza per il docente di storia, come abbiamo più volte sottolineato, che deve impostare con particolare attenzione. In genere si registrano due fondamentali modalità di lettura, che in qualche modo ne condizionano la scelta. Nel primo caso, le fonti sono analizzate per corroborare le tesi già date, ossia quelle che risultano dal manuale scolastico, nel secondo, invece, il percorso è inverso: dall’analisi dei documenti deve essere possibile giungere alla tesi, che è stata presentata all’inizio della lezione, come ipotesi di indagine ed elemento problematizzante.

Avviene così uno scambio metodologico, seguendo una virtuale procedura deduttiva o induttiva, secondo l’epoca di riferimento e le scelte effettuate dal docente, che permette agli studenti di seguire percorsi diversi per giungere alla conoscenza di quelle “verità” storiche, peraltro già enunciate. La procedura si può arricchire in corso d’opera, scegliendo di analizzare ulteriori testi storiografici in grado non solo di corroborare, ma anche di confutare la tesi sostenuta, dall’analisi dei quali si possono accendere curiosità che dovrebbero indirizzare la ricerca autonoma di approfondimento.

Questo approccio dinamico, unito all’utilizzo e alla sperimentazione di strumenti innovativi, dall’organizzazione di laboratori ai mezzi offerti dalle nuove tecnologie multimediali, può offrire interessanti spunti per progettare e realizzare una nuova architettura didattica basata sull’utilizzo diretto da parte degli studenti di materiali storici e storiografici finora impensabile.

Biografia

Patrizia Fazzi, docente a contratto presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino, insegnante di materie letterarie in un liceo torinese, si occupa di storia contemporanea e di sociologia delle migrazioni.

Tra le pubblicazioni si segnalano: Migrazione e trasformazione sociale in Italia. Dall’età moderna a oggi, FrancoAngeli, Milano 2008; in collaborazione con il Dipartimento di Scienze sociali dell’Università di Torino: Il Movimento degli obiettori alle spese miliari in Italia, in Anna Anfossi, T.K. Oommen (cur.), Azioni politiche fuori dei partiti, FrancoAngeli, 1997; tra i saggi si segnala La guerra in Cecenia:un nazionalismo mai sopito, in “Giano”, Idis (Istituto per la diffusione e la valorizzazione della cultura scientifica), n. 22, 1996.

Biography

Patrizia Fazzi, lecturer at the Department of Humanities at the University of Turin, professor of Humanities at secondary school in Turin, is interested in contemporary History and Sociology of migration. Among the publications we remark: Migration and social transformation in Italy. From the modern age to nowadays, FrancoAngeli, Milan 2008; together with the Department of Social sciences, University of Turin: The Movement of the objectors to military spending in Italy, in Anna Anfossi, TK Oommen (ed.), Actions out of political parties, FrancoAngeli, 1997; among the essays we report The War in Chechnya: a nationalism that never appeased, in “Giano”, IDIS (Institute for the diffusion and improvement of scientific culture), no. 22, 1996.

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[1] Il documento, redatto da Alessandra Ferraresi, Gaetano Greco, Camilla Hermanin, Cecilia Nubola, Walter Panciera e Lavinia Pinzarrone, è stato approvato dalla Sisem in data 23 marzo 2013.