“Quel meraviglioso 1882”. Concorsi agrari e industriali nazionali: le “Feste” di Arezzo

di Alessandro Garofoli

Abstract

I concorsi agrari e industriali, la strada per la modernità. Le “Feste” di Arezzo del 1882

Nel 1882, ad Arezzo, dall’idea del solo concorso agrario si svilupparono decine di eventi. Il risveglio civile fra le chiavi interpretative. Fu inaugurata la statua a Guido monaco, l’anfiteatro del Prato ospitò una festa popolare, il teatro la prima del Mefistofele. Il 3 settembre partì il concorso agrario, con valenza nazionale; poi l’industriale e quello per strumenti musicali. La ginnastica precedette la scoperta della lapide a Cesalpino, le conferenze musicali, le corse di cavalli, il congresso di canto liturgico, la mostra di libri sul canto corale, le conferenze pedagogiche, il tiro a segno. Una festa grandiosa, allargata a più attività, comprese le sportive e il divertimento. Il centro era illuminato con luce elettrica, percezione dell’ingresso in una nuova era. La visita reale chiuse il cerchio assecondando i liberali: la città si sentì parte del regno. Una simbiosi fra economie, energie di derivazione patriottica, modernizzazione, etica del lavoro, identificazione nazionale e municipale.

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Agricultural and industrial exhibitions, the road to modernity. The “Festival” in Arezzo 1882

In 1882, from the original idea of an agrarian competition, Arezzo developed dozens of events. The civil awakening as an interpretative keys. It was inaugurated the statue in Guido Monaco, the amphitheater of Prato hosted a popular festival and the theater Mephistopheles. The agrarian competition began Sunday, September 3, with national importance; then the industrial and for musical instruments. Gymnastics preceded the inauguration of a plaque dedicated to Cesalpino, music conferences, horse racing, the congress of liturgical chant, exhibition of ancient books on choral singing, educational conferences, shooting. A great “Festival”, enlarged to several activities, including sports and entertainment. The  center was illuminated with electric light, perception of the entrance into a new era. The royal visit closed circle pandering to Liberals: the city felt part of the kingdom. A symbiosis between economies, patriotic energy, modernization, work ethic, national and municipal identification too.

“Anteprima dei concorsi”

Arezzo visse con difficoltà l’acclimatazione nella nuova forma di stato. Poi, nell’ultimo quarto dell’Ottocento, accelerò i passi verso la modernità. Il culmine del processo fu celebrato durante le “Feste” del 1882: alle soluzioni adottate per imprimere lo sviluppo si univano trasformazioni percettibili, mutazioni nella mentalità e cambiamenti nel costume. Un’alleanza fra agricoltura, artigianato e piccola industria; fra energie morali del Risorgimento, tensione all’evoluzione e etica del lavoro; identificazione nazionale e municipale. Il 1882 non può essere compreso senza la doppia valenza locale e italiana. Con motivazioni solide la storiografia ha accolto l’anno come il passaggio della città dall’età moderna alla contemporanea. Fra i molti atti che ratificarono la transizione, la fondazione della Banca mutua popolare aretina e l’inaugurazione della Scuola serale e domenicale di arti e mestieri (Garofoli 2012).  Il clima di rivincita ebbe il coronamento nell’anniversario della nascita di Guido monaco, nel concorso agrario e nella mostra industriale. La riforma elettorale ebbe portata storica (i votanti del comune di Arezzo salirono da 1.167 a 3.193). Depretis avviò la Triplice alleanza, il 2 giugno morì Garibaldi, all’esordio del suffragio Depretis e Minghetti strinsero l’accordo che sostituiva la vasta “convergenza al centro delle rappresentanze politiche di larga parte dei ceti borghesi”, all’opposizione fra due partiti (Della Peruta F. et al., 601-603).

In quale ambiente agirono le esposizioni di Arezzo? L’agricoltura era dominante, per addetti e diffusione. Arretrata, semiprimi­tiva, immutata col fluire delle generazioni. I mali erano assegnati a fattori autoctoni quali tecnologia obsoleta, dimensione piccola quindi poco redditizia dei lotti. L’ordine di grandezza rendeva improbabile l’acquisto dei rari costosi macchinari, non stimolava l’incremento delle conoscenze, già incatenato dal rifiuto del mutamento sociale. Fra i gap endemici stava la difficoltà a coltivare terreni morfologicamente inidonei allo sfruttamento intensivo. Con ecce­zioni come la Valdichiana, la conformazione dell’esteso territorio provinciale includeva colline scomode fino alle propaggini dell’Appennino; si lavoravano aree più versate al bosco o alla pastorizia. La quota maggiore dell’economia era il contratto di mezzadria, la terminologia più corretta, sistema che per molti bloccava la modernizzazione. L’allevamento galleggiava in condizioni affini, con esperienze migliori grazie a “più accurate cure d’alimentazione e di governo”. I merini della Valtiberina e le vaccine della Valdi­chiana godevano di una fama che varcava i confini dello stato italiano (Signorini 1887).

Nei mesi iniziali del regno Arezzo era in una centralità isolata, immutata fino all’arrivo della ferrovia. Se l’unificazione ebbe come risultato provvisorio ma inconfutabile il peggioramento dei problemi, è stato notato che una successione di eventi può produrre mutamenti destinati a invertire la negatività, seminando conseguenze positive. Il treno spinse a ristrutturare il tessuto urbano, accelerare i commerci, garantì opportunità finanziarie e edili. Su questo solco si ebbe il rilancio propositivo e imprenditoriale degli anni Ottanta, la comparsa della borghesia emergente, la crescita della sociabilità, l’evoluzione delle forme di espressione della politica e di occasioni partecipative, l’espansione rigogliosa della stampa e della pubblicistica, passi avanti nel campo nevralgico dell’istruzione. Si sperava che il locale che, fino alla caduta del granduca, era occupato dal lanificio militare, dando lavoro a centinaia di famiglie, riospitasse quell’industria o altra congenere. Sulla Guida del 1882 Signorini, a decenni di distanza, continuava a rimpiangere la soppressione.

Il quinquennio 1877-1882 avviò gli abitanti sulla strada di una civilizzazione sensibile, certificando l’occasione di riconoscere all’Unità il merito di aver fatto da congiunzione fra la vitalità pragmatica degli homines novi e le motivazioni ideali, esiti del “nuovo che avanza”. Fra i movimenti sociali stavano i processi che si snodavano in seno all’élite, il frantumarsi della compagine granducale e l’affievolimento del dominio patrizio a vantaggio delle categorie fortemente legate al lavoro. I perni della palingenesi sono nella riformulazione dei ruoli potestativi cittadini e nella crisi progressiva di stirpi che per blasone, occupazione delle amministrazioni e disponibilità patrimoniali, erano state per secoli l’icona del potere (Garofoli 2006, 291-321). La classe dirigente di vecchio stampo era una concausa dell’indebolimento, non avendo la mentalità, la voglia di assumere gli oneri di guida, in un ambiente pubblico nel quale non si riconosceva quasi più. Le personalità del piccolo mondo antico persero carisma e furono accusate ancora più duramente di parassitismo dalla stampa democratica.

Nelle transizioni, come quella vissuta da Arezzo del tardo Ottocento, non manca, è stato scritto, l’evento straordinario che decodifica e legittima il trapasso; il fermentare di un lavorio pluriennale, la tappa e l’avvio di un altro processo. Capitò nel 1882, con l’esaltazione della modernizzazione. La presentazione della bozza del programma d’iniziative che, nel settembre dell’anno dopo, avrebbero regalato per una settimana il lustro smarrito nei secoli, risale al luglio 1881. L’attesa pareva covasse nello spirito della comunità. Il calendario delle manifestazioni, passibile di aggiunte fino all’ultimo tuffo, era stato predisposto dalla commissione ordinatrice. La presiedeva Angiolo Guillichini, aiutato da Flavio Bandini Piccolomini, Alessandro Brizzolari, Enrico Fossombroni, figlio del rimpianto Vittorio, Menicone Meniconi Bracceschi, Luigi Ridolfi e Giovan Carlo Siemoni. La settima circoscrizione agraria era tutta rappresentata, con delegati che garantivano l’obiettivo. Uno spessore confermato dallo sciame di titoli nobiliari e di studio. La presentazione era dedicata ai residenti nelle province di Arezzo, Firenze, Grosseto, Perugia e Siena, ma nel corso dell’anno platea divenne l’intera penisola e qualche realtà europea. Il moderato “La Provincia” del 7 agosto 1881 spiegava l’estrema utilità delle vetrine agrarie: spronare l’economia rurale e segnalarne i progressi alla collettività. Versione coeva del marketing, trait d’union nella filiera produttori-intermediari-consumatori. Una tipologia d’interventi irrinunciabile, per il completamento dell’Italia, proseguiva il foglio, e il fatto che le direttive dell’esecutivo per incoraggiare la diffusione fossero partite nei primi anni unitari ne erano la prova. La prima esposizione del regno era stata ospitata da Firenze nel 1861, presso la dismessa Leopolda, attestando la voglia di rinnovarsi nel “clima di fervore patriottico e celebrativo del nuovo Stato-nazione” (Zocchi 2009).

Le macchine e gli strumenti per l’agricoltura sarebbero stati il pezzo forte. Erano stati ammessi anche prodotti del suolo e di aziende agrarie. In ciascuno dei concorsi specifici, parti di quello maggiore, venivano accettati animali e merci provenienti da un gruppo selezionato di province. Dall’idea originaria dell’unico concorso regionale, il consorzio di enti promotori Camera di commercio, amministrazioni comunali e provincia, sviluppò una sfilza di altre azioni. Non era un format rigido, piuttosto un laboratorio d’idee e opere in divenire. L’impatto che avrebbe avuto sulla cittadinanza e la risonanza senza precedenti per la storia moderna della città, convinsero i promotori della necessità di dotarsi di un’organizzazione robusta. Si rendevano conto di essere di fronte a una tappa straordinaria, per unità d’intenti, per la partecipazione appassionata, per gli scenari che parevano aprirsi. Prima e durante gli avvenimenti la mobilitazione fu generale, attrazioni a corredo varate a pochi giorni dal vernissage. Qualsiasi istituzione cittadina si sentiva in dovere e in diritto di essere coinvolta, offrendo un contributo volontario e, di ritorno, pubblicizzando la propria esistenza. Come antefatto, “La Provincia” del 13 febbraio 1881 espresse gratitudine al Consiglio superiore di agricoltura, per aver posticipato la riformulazione delle circoscrizioni concorsuali; includendo ancora, oltre ad Arezzo, Siena, Firenze, Genova, Livorno, Lucca, Massa, Pisa e Porto S. Maurizio (Imperia).

Svolto il suo compito, nel febbraio 1882 la commissione ordinatrice elesse il comitato provinciale, incaricato della messa in pratica. L’organigramma era un elenco delle personalità più note dell’universo aristocratico e altoborghese della Toscana centro-meridionale, con aggiunta della Valtiberina umbra: dal marchese Giovanni Albergotti, presidente, a Giovan Battista Bucci Mattei Tabarrini, Piero Capei, Tito Cini, Cristoforo Di Petrella, Alessandro Gentili, Luigi Giovagnoli, Sidney Hertz conte di Frassineto, Pietro Mannozzi, Cristofano Gatteschi, Girolamo Mancini, Angelo Magi, Nicola Mariani, Santi Occhini, Andrea Paglicci Reattelli, Alessio Pandolfini, Orazio Puletti, Emilio Marcucci, il deputato Serristori e l’ispettore Siemoni. Era membro di diritto il presidente dell’organo camerale, Cesare Sanleolini. Si realizzava un’osmosi fra i membri tradizionali della proprietà terriera e la fascia di borghesi che avevano messo mano, di recente, a proprietà medio grandi. Pareva che l’aristocrazia, fino a quel momento non reattiva, si avventurasse finalmente sulla strada del rinnovamento. Il risveglio della mentalità come una delle chiavi interpretative del concorso: si cominciava a pensare alle sfide del mercato, a rispondere con i fatti alle accuse d’immobilismo, inettitudine, pigrizia. Chiudeva la nutrita lista dei quadri organizzativi il segretario Signorini, a lui era demandato di “procacciare ogni maniera di concorrenze”, avviare qualsiasi iniziativa utile, assistere i concorrenti nella compilazione delle domande di ammissione. Era il deus ex machina, il factotum dell’operazione. Dal 1877, per trent’anni, segretario della Camera di commercio, era un dirigente di nuova generazione e mentalità aperta, orientato verso un avanzamento equilibrato e un futuro più roseo e giusto per tutta la popolazione; riformista sensibile alla questione ambientale. Il suo fare era teso al miglioramento della società rimpiazzando il paternalismo con l’etica del lavoro e la meritocrazia. Fra i suoi riferimenti prevaleva il pensiero di Luigi Luzzatti. Fu un amministratore di valore, studioso di statistica economica, consulente ministeriale. Cavaliere della corona nel 1883 e dell’ordine dei santi Maurizio e Lazzaro, ancor giovane era stato invitato a far parte delle giurie del concorso agrario dell’Aquila e della mostra nazio­nale dei vini a Roma. Collaboratore di più testate, Signorini diresse “Il Progresso agricolo”, “La Rassegna” e il progressista “La Frusta amministrativa”. Ebbe incarichi nel credito. Vicino a Pietro Mori, primo sindaco di Arezzo che si spostò dall’area moderata a quella progressista a metà degli anni Settanta, aveva grande fiducia nell’istruzione e nell’associazionismo. Fu segretario della commissione direttiva della Scuola d’arti e mestieri e di più esposizioni, vicepresidente della Società operaia di Arezzo e direttore della Vittorio Emanuele.

Nell’adunanza del 26 maggio 1882 la Camera di commercio deliberò di mettere a disposizione del giurì una medaglia d’oro per la bachicoltura e una per la seta greggia, quattro d’argento e sei di bronzo per le macchine e gli strumenti agrari, l’industria oleifera, enologica e la coltivazione del tabacco. La Società di orticoltura toscana aggiunse una medaglia d’argento dorato, due d’argento e tre di bronzo destinate al giardinaggio. Trofei onorifici ma con utilità promozionale. Per “fare le cose per bene” il gruppo incaricato della fase progettuale raccolse dati e idee dall’Esposizione industriale internazionale di Milano dell’anno precedente. Una delegazione di operai qualificati era partita da Arezzo, su invito, per appuntarsi la dislocazione di merci ed espositori, instaurando contatti con i promotori, procurandosi gli Atti della giunta speciale, annotando impressioni. Al ritorno la spedizione consegnò una relazione, stampata dalla Camera di commercio (Camera di commercio ed arti di Arezzo 1882). I lavori preparatori non mancarono di stimolare una dialettica aspra, testimonianza del permanere di divisività e conflitti. Sull’articolo Feste e Politica il 27 maggio la “Gazzetta Aretina” accusava di disfattismo la “Riforma”. Chiedeva concordia e mentalità costruttiva anche alla sinistra:

Una corrispondenza aretina della Riforma, parlando delle prossime feste a Guido Monaco, mette in dubbio la buona riuscita delle medesime ed insinua che serpeggi del malumore per le esclusioni a bella posta fatte nelle varie commissioni nelle quali, dice, figurano, in grandissima maggioranza individui del partito moderato.

Anche in altre corrispondenze aretine ad altri giornali democratici (?) abbiamo veduto lamentate queste esclusioni, sempre fatte a bella posta, e lo confessiamo ciò ci ha recato una penosa impressione. (…) non arriviamo a comprendere come si possa fare entrare la malaugurata politica in cose che ne sono lontane le mille miglia, per il gusto forse, di inasprire gli animi quando vi sarebbe bisogno invece della massima concordia e tranquillità (…); e non arriviamo a comprendere poi come per levarsi questo bel gusto, si possano asserire cose notoriamente false, poiché anche se esclusioni fossero avvenute, (…) si è semplicemente cercato di mettere nelle varie commissioni le persone le più competenti e le più adatte.

“Programma manifestazioni a Guido Monaco”, Arezzo, 1882.

“Programma manifestazioni a Guido Monaco”, Arezzo, 1882.

“Programma definitivo”

Il 6 agosto “La Provincia di Arezzo” pubblicò il programma definitivo. Un paio di settimane dopo, con toni epici, annunciava la venuta del monarca, che aveva visto Arezzo nel 1861 da principe. Trascorsa un’altra settimana, il sindaco Nucci faceva pubblicare un appello, sulle prime pagine locali: ogni amministrato avrebbe dovuto dimostrare di essere all’altezza della situazione. In agosto anche la “Gazzetta Aretina” aveva illustrato il calendario: dalla primavera del 1882 fino alla conclusione, il giornale raccontò la fase costruttiva e le manifestazioni. L’inizio era previsto per il 2 settembre, con ricevimento delle autorità, delle rappresentanze, dei delegati delle associazioni e altri invitati (fig. 1). Avrebbero formato un corteo per inaugurare la statua del musicologo, con accompagnamento della banda che si sarebbe patriotticamente esibita nella sinfonia dal Nabucco, ridotta dal direttore Gandolfi. Dopo Verdi sarebbero state suonate due marce scritte per il celebrato: una dal concittadino Burali Forti, l’altra da Gandolfi. In serata passeggiata con fiaccole a mano e illuminazione generale. Nella prima giornata l’anfiteatro del Prato avrebbe ospitato una festa popolare, mentre in teatro si teneva la rappresentazione del Mefistofele.

Per domenica 3 era stabilita l’inaugurazione del concorso agrario regionale, nel pomeriggio il Prato sarebbe stato calpestato dai cavalli della corsa in tondo alla romana. La “Gazzetta” confermava che le aperture del concorso industriale e di quello nazionale di strumenti musicali erano stabilite per lunedì 4. Nel pomeriggio la “grande” Accademia vocale e strumentale si sarebbe esibita in un inno-marcia dedicato a Guido monaco, composto dal maestro Mancinelli su parole di Boito. Il giorno seguente solenne tornata dell’Accademia di scienze, lettere ed arti, sempre in onore del musicologo. Alle 16, proseguendo in un canovaccio che alternava economia, cultura e intrattenimento, la compagnia dei fratelli Amato avrebbe tenuto il suo spettacolo equestre, già presentato nei migliori teatri italiani. L’inizio del concorso regionale di ginnastica, la mattina di giovedì per finire la sera del giorno dopo, doveva precedere l’adunanza straordinaria dell’Accademia di scienze e la scoperta di una lapide a Cesalpino, onde sopperire alla trascuratezza nei confronti dell’anatomista. Venerdì ci sarebbe stata la prima delle conferenze musicali presso il concorso industriale, poi altra corsa al Prato, fra tombole di beneficenza. La “Gazzetta” annunciava per lunedì 11 l’apertura del congresso internazionale di canto liturgico, presso S. Maria della Pieve, e dell’esposizione di libri antichi sul canto corale. Il congresso era anticipato dall’inno del maestro Mercuri. Sabato 16 era votato all’istruzione: le conferenze pedagogiche sarebbero proseguite fino al 26 nella Scuola normale femminile. La premiazione del 20 avrebbe chiuso il concorso industriale, quello di strumenti e la mostra didattica.

Su “La Nazione” di martedì 5 il servizio particolare telegrafico da Arezzo declamava: “Stamani è stata inaugurata la Mostra industriale e degli strumenti musicali”. (…) “Domani sera attendesi il ministro Berti. Dicesi che il Re verrà mercoledì”. Al coro degli agiografici apparteneva la “Gazzetta” del 2. Sulla ricostruzione non lesinava retorica, metafore, romanticismo, entusiasmo:

Bella, magnifica, imponente! anche il cielo ci ha favorito, sempre nemico delle feste aretine; un sole che da venti giorni così splendido non si mostrava; un venticello che temperava i cocenti ardori; pare che gli elementi stessi abbiano voluto mettersi in armonia colle intenzioni degli uomini per onorare il nostro grande. (…); la nostra mente è esaltata; le nostre orecchie sono intronate dai melodiosi concerti di trenta bande (…). Alle 11,20, al suono dell’inno reale l’importuna tenda è caduta e la maestosa figura del frate è apparsa; l’opera dello scultore Salvini si è manifestata in tutta la sua pienezza, e gli spettatori hanno applaudito al genio di Guido e della maestria dello scultore. Scoperta la statua, è stato suonato (sic) sotto la direzione dell’egregio maestro Gandolfi la sinfonia di Nabucco dalle 30 bande riunite, circa 900 suonatori; il Sindaco (…), il Conte Tenerani, rappresentante il Municipio di Roma, e il Comm. Kraus, rappresentante il Re di Portogallo e varie società estere musicali hanno letto sentite e generose parole di circostanza e poi (…) sono state eseguite due marce dedicate a Guido.

La citazione evoca il clima. Le feste aretine non sarebbero “state inferiori a quante si son fatte” e si “faranno in quest’anno” in altre zone d’Italia. Il resoconto di Stefano Magi, a un mese di distanza, dava un’importanza storica all’illuminazione, capace di resuscitare l’aspetto dell’“esultante città”. Gli edifici pubblici, il “palagio del ricco come la modesta casa del cittadino”, erano stati “a gara illuminati”, offrendo “svariati e ingegnosi addobbi”. Il Prato “dava un colpo d’occhio incantevole”, grazie alla “luminara di tanti e svariati lumi”, inoltre “quel sistema di prepararla e di accenderla sì celermente, quell’insieme fantastico e nel tempo istesso semplicissimo; quel genere infine di luminara pittoresca, nuovo affatto per la nostra Città, arrecò una soddisfazione tale nel Pubblico, che venne giudicata uno dei migliori divertimenti delle feste” (Magi 1882). La coreografia si guadagnò l’appellativo festival. In simultanea era stata fatta la passeggiata con fiaccole; più di duemila piccoli lampioni portatili, di fogge e colori vari, con la colonna sonora delle bande.

Un nuovo e bizzarro divertimento pose fine alla giornata inaugurale: terminata la marcia, nelle vie e piazze intitolate a Guido e a Umberto I furono accesi, “come d’incanto”, una trentina di lampadoni. Il benvenuto alla modernità immerso in un’intrigante atmosfera da fiaba senza tempo, l’elettricità vero progresso scientifico. Come altre invenzioni l’illuminazione voleva perfezionamenti, per evitare fastidi che anche i più entusiasti si trovarono a lamentare. Il miracolo si era espresso in una luce moscia, traballante; dannosa agli occhi, prodotta da motori inadatti. Sarebbe stato opportuno spostarli lontano, per evitare che fossero importuni “alle orecchie del Pubblico con quel loro continuo e soverchio frastuono”. Magi leniva il disagio con l’ironia: alle 9 la folla si era mossa verso il Petrarca per assistere al Mefistofele. Il dualismo fra Dio e il demonio, lotta spiritica fra angeli e demoni, era il punto di partenza dell’opera fantastica e bizzarra. Coincidenza comica, Düntzer assegnava a Mefistofele l’etimologia greca traendolo da mè-foto-filos, nemico della luce. I lampioni erano diabolici.

“Cronaca Aretina”, Arezzo, 1882.

“Cronaca Aretina”, Arezzo, 1882.

“La mappa”

Nell’estate 1882 era stato stampato un libretto che abbinava, alle istruzioni per forestieri, i dati generali per orientarsi in città e conoscere le bellezze; allegando informazioni storiche e riepiloghi statistici. L’autore, Signorini, e gli altri organizzatori non dovevano lasciare nulla d’intentato: Arezzo voleva mostrare capacità in ogni settore, offrire un’ospitalità calorosa ed efficiente. Le duecento pagine di Arezzo e i suoi dintorni fornivano le istruzioni utili al visitatore: lasciata la stazione, trovava a prezzi modici una vettura per dirigersi agli alberghi del “paese” (Signorini 1882, 7). Superata la sintesi descrittiva, la pianta allegata alla Guida per indicare gli stand orientava il visitatore. L’accesso era su via Garibaldi, una delle più lunghe del perimetro urbano, individuato per rendere omaggio al vicino monumento ai caduti. Sulla mappa aveva il numero uno. Oltrepassato il due si arrivava alla “tettoia” per i fiori, contenitore di una delle esposizioni di routine nelle fiere settembrine. Mercati e fiere tradizionali s’intercalavano con le novità. Il luogo di sosta e ristoro era detto “Birreria e Caffè”, d’ora in poi il visitatore entrava negli spazi destinati ai prodotti industriali e artigianali, la parte espositiva propriamente detta. Fra locomobili, tribbiatrici e sgranatrici, macchine e arnesi, si avviava ai piani superiori. Esaurita questa parte, si affacciava sul piazzale deputato alle prove di funzionamento. Ancora attraversando l’area delle caserme, un corridoio traghettava dalla zona occupata dai macchinari e dagli utensili verso il mondo animale, la zootecnia e le attività connesse. Si osservavano animali da cortile e da colombaia quanto gli insetti utili; i bovini, i suini e gli ovini, gli animali equini. Dal reparto tettoie per foraggi all’alimentazione animale. Nel padiglione 17 stava il “Ristoratore”, nuovo spazio per rifocillare e permettere il recupero di energie dopo il tour fra la folla. Nella locazione ultima era lo stabilimento balneare, formula elegante per indicare i bagni pubblici.

Nonostante il titolo il concorso agrario regionale aveva velleità nazionali: era la sede finale della rassegna genovese di tre anni prima. Il regolamento dei concorsi aveva l’approvazione del ministro di Agricoltura industria e commercio, con decreto 20 febbraio 1881, lo stesso che aveva delimitato la circoscrizione settima. Un inconveniente: i pur vasti locali dell’esposizione si rilevarono insufficienti. La mostra era ripartita in quattro spicchi, in base al metodo collaudato altrove della classazione del concorso: aziende, animali, macchine, prodotti. Le aziende comprendevano tre classi: produttrici e coltivazioni speciali, monografia, modelli e disegni di costruzioni rurali. Avevano l’invito i Lazzeri per Cesa e Foiano, Albergotti per il podere della Chiesa, di Petrella per Ritorti di Cortona, il conte di Frassineto, i Saracini del Bagnoro, Mori per S. Fabiano, Viviani del podere Cà di Pescione, i fratelli Occhini, Burelli da Civitella, Vannuccini di Valaia Anghiari, Droandi agente del Borro, Brizzolari per Montecalbi, i Sanleolini dell’oliveta di Bucine. Prima delle generalità fioccavano titoli onorifici e nobiliari; ognuno esponeva i frutti migliori della produzione. La seconda classe promuoveva la letteratura scientifica. Un’offerta scarsa, confermando ritardi nello stato dell’arte. Si andava dall’indagine di Cappannelli sullo stato agronomico del cortonese, alla promozione extraconcorsuale di Castiglion d’Orcia col volume del Bottoni. Nella classe era inserita l’analisi di Marri, inondata di maiuscole: Sull’Importanza Ed Organizzazione Del Servizio Veterinario Nella Provincia Di Arezzo, In Rapporto Alla Industria Zootecnica Ed Alla Igiene Pubblica, sotto l’egida del periodico “Dal Campo alla Stalla”. Un solo esemplare monopolizzava la classe “Modelli e Disegni”: Bonechi aveva inventato un tipo di concimaia.

La divisione seconda fu definita “la più splendente”. Fra i novecentottantadue equini, bovini, ovini, suini, animali da cortile e colombaia di un centinaio di espositori, primeggiò la razza Chianina, come avevano intuito con fiero campanilismo gli organizzatori. Nella zootecnia emergevano il duca Antinori con la fattoria di Pratovecchio, Collacchioni di Sansepolcro, uno degli uomini più potenti della provincia, il conte Serristori, la ditta Guiducci e figlio di Arezzo, Mancini e soci, Ferri da Grosseto, Napoleoni, gli eredi Servadio. Fra gli insetti utili avevano suscitato ammirazione quelli di Tosi di Marciano e Ulivi di Firenze: illustravano le arnie, i metodi di raccolta e confezionamento del miele. La divisione macchine aveva spessore internazionale e rappresentava, più delle altre, il grado di miglioramento tecnologico. I fabbricanti italiani cominciavano a farsi apprezzare con esemplari all’esordio e attrezzature rurali, tuttavia i tecnici pensavano che le fabbriche straniere con rappresentanza in Italia mettessero sul mercato strumentazioni e macchinari superiori. Il confronto era insito nello spirito della manifestazione: osservare per imparare, perfezionarsi, estendere le conoscenze e sperimentare la praticabilità delle soluzioni; misurarsi sulla qualità per pareggiare la concorrenza; applicare le intuizioni della scienza. Nel grande ricinto di piazza del Popolo stavano tribbiatrici a vapore, a mano, locomobili, sgranatrici, pompe di travaso, erpici e centinaia di utensili minuti. L’afflusso e la durata delle fermate dimostravano che la divisione colpiva positivamente gli ospiti. Erano esposti centotrentaquattro fra motori di piccola e grande mole, più trecentoventi attrezzi o arnesi agricoli. Le ditte in auge erano Grimaldi, Ruston Proctor, Bale et Edwards, Almici, Demorsier, Calzoni, Cosimini e figlio, Cerruti, la fiorentina Malenchini, Nesti e Magni, Bertilacchi e Battaglini, Borello, Anderlini, i fratelli Romei e vari laboratori del senese. Nella cernita erano stati accettati solo mezzi atti a testimoniare un netto miglioramento per qualità, quantità e tornaconto.

Al concorso agrario presero parte trecentoquaranta ditte, fra manufatti di origine animale come le lane, formaggi, burri, miele, bozzoli, sete grezze; poi prodotti vegetali come oli, vini, aceti, cereali, ortaggi di stagione, foraggi, piante idonee alla produzione di tessuti (dette tessili), da vivaio, fiori e ornamentali, frutta, legnami, carbone. Più avanti erano visibili i concimi artificiali e gli stand dell’insegnamento agrario. Nella didattica le pubblicazioni più lette erano la “Rivista Agricola Commerciale” di Mariani e Signorini, gli “Annali di Bachicoltura” del Nenci e la “Campagna” di Siena. Il Val d’Arno si differenziava dalle altre vallate: ammirazione per le maioliche Sequi di Castel Franco e Pierallini di S. Giovanni, per i lavori del legnaiolo Capponcini, fra i quali una porta di pregio per l’Università di Roma, per il cappellificio Rossi ancora di Montevarchi, la fabbrica di cappelli di feltro maggiore della provincia, e la produzione di spilli Ponsard, esportatore in Europa. “La Nazione” dedicò al settore vitivinicolo un interesse superiore alla stampa locale, più pagine elogiative sull’edizione del 21 settembre. Continuava la tradizione aretina nei vini da pasto. I giurati erano di sicura competenza: Lawley, Bologna di Montepulciano, Gentili di Subbiano, il fiorentino Focardi. Anche per questo il giornale considerava grave quanto era avvenuto: pur con passi in avanti, nonostante i duecentottanta saggi di rosso da pasto, nessuno aveva meritato l’oro, giacché l’onorificenza scontata agli eredi Ricasoli per il Brolio era l’ennesima conferma delle buone pratiche ereditate dal barone. Dal punto di vista geografico meritavano le viticolture fiorentine e senesi, con l’eccellenza Montepulciano. Ai vini erano accostati aceti e vermouth. Gli espositori aretini erano duecentonovantanove, al secondo posto si trovava Firenze con cinquantanove vini, Perugia venti, Siena sedici, Grosseto tre.

L’ingresso era a pagamento. Una scelta presa a malincuore, per diminuire il forte disavanzo di gestione, con biglietti venduti all’entrata in edicole apposite e in angoli della mostra. Gli uffici della commissione ordinatrice assistevano gli operatori, i custodi diffondevano informazioni, alle dipendenze degli ispettori (o delegati di classe). La presidenza e il segretario della giuria stavano nel palazzo di Badia. Dalla composizione è lapalissiana la chiamata per lignaggio, più che per competenze; alcuni giurati avevano il doppio ruolo di partecipanti, senza subire contestazioni. Il presidente, deputato fiorentino marchese comm. Leopoldo Cattani Cavalcanti, primeggiava per titoli, ma non era distante la caratura degli altri giurati della sezione aziende: dal presidente Angiolo Albergotti a Vincenzo Testini relatore, a Benedetto Ponticelli. Il ragionamento valeva per i membri della seconda giuria, per la stima degli animali: Petrini, Tittoni, Doux, Collacchioni, Bosi, di nuovo Angiolo Albergotti. L’incarico non portò bene al Cattani Cavalcanti: ammalatosi durante le manifestazioni fu trasportato a Firenze, ove morì. Differente lo status della sezione macchine. La tecnica complessa e innovativa postulava la concessione di margini più ampi alla tecnocrazia: come esaminatori erano stati nominati esperti di valore, come gli ingegneri Pasqui, Ferri e Monaldi. La sezione prodotti era sottoposta al vaglio di Giuggioli, Focardi, Taruffi, Gentili, Bologna, del marchese Chigi Zondadari e Francesco Lawley: si otteneva una proficua mistura fra prestigio e capacità, in quanto personaggi eminenti nella storia dell’agricoltura toscana. Per assolvere bene al mandato, nei mesi antecedenti il comitato aveva delegato le preselezioni ad alcuni sottocomitati sparsi in provincia. Al concorso ordinario era abbinato uno provinciale speciale per bovi e vitelli soprani, alla cui realizzazione aveva contribuito il ministero. L’universo gentilizio toscano, largamente presente, confermava il risveglio imprenditoriale: fra i proprietari erano apprezzati, anche per le intenzioni modernizzatrici, i Budini, gli Antinori Pecori, Ruffino, Capponi, Gerardi, Peruzzi, Guicciardini, Polidori, Serristori, Dufour, Sonnino, Corsini, Ridolfi, Neri, Strozzi, Bonaiuti, Benesperi. Si contesero duecentoquarantasei medaglie, fra quelle d’oro con diploma del ministero, quelle della camera di commercio e della Società di orticoltura.

“Mefistofele, manifesto dell’Opera”, Arezzo, 1882.

“Mefistofele, manifesto dell’Opera”, Arezzo, 1882.

“Eventi per tutti”

Il concorso industriale provinciale era stato proposto dalla Società operaia, su sollecitazione del socio Buonafede Pichi. Era al coperto, nel palazzo di S. Ignazio, presieduto da Pietro Mori perché massimo dirigente della società di mutuo soccorso. Come per il concorso regionale, anche nel caso dell’industriale la lista degli espositori trasmetteva la mappatura dei rami produttivi e degli opifici: settori tradizionali o d’innovazione come le industrie estrattive, chimiche e affini (ad esempio l’alimentare). Quindi ceramica, vetro, carta, arti grafiche, arti usuali, arti liberali e statistica. Il nucleo delle attività proseguì nel XX secolo. Le esposizioni stavano in un contenitore culturale a largo spettro, volto a dare un pacchetto di proposte allettanti per più ceti. Il foglio d’informazione “Cronaca Aretina” era stato creato per pubblicizzare le onoranze e si riprometteva di servire da palestra per giovani aspiranti giornalisti (fig. 2). Non possedendo individualità di levatura, il vivace universo artistico del luogo preparò una mostra curata da maestri e studenti di belle arti. Per rendere omaggio “all’immortale GUIDO, di cui il mondo civile (…) grandemente ci onora” (Signorini 1882, 181), era stato bandito un concorso per la produzione di strumenti musicali, con target nazionale. Fu aperto dal presidente onorario del concorso industriale, Giovanni Severi (garibaldino, autorevole parlamentare della sinistra), e da quello effettivo, Mori. Ospitato nella chiesa di S. Ignazio ebbe una novantina d’iscritti da tutta la penisola. Giovan Battista Guiducci, presidente della commissione esecutiva, ordinò i concorrenti in cinque categorie: instrumenti a corda, a fiato, a percussione, a vento e automatici, saggi di scrittura, edizioni musicali. Non limitata a mete artistiche, l’esposizione contava sul ritorno economico, scriveva “La Provincia” del 10, giacché “fa conoscere lo sviluppo che va gradatamente prendendo una industria” incipiente in Italia. Per assurgere a festa grandiosa e completa l’orizzonte non escluse le attività sportive, ludiche e il puro divertimento. Pur nella consapevolezza di rischiare il livello della sagra paesana, si voleva coinvolgere anche il popolo meno colto. Un concorso straordinario era stato bandito dalla Società del tiro a segno comunale, per carabine e pistola. Iniziative modeste come la mostra didattica per divulgare la laboriosità della Scuola normale femminile (e inorgoglire docenti e allievi), affiancarono il maestoso Congresso europeo di canto liturgico nei giorni 18, 19, 20, 21 e 22 settembre, in omaggio a Guido Monaco aretino (Coradini 1882) Annunciato con l’aulico Laudemus viros gloriosos in peritia sua requirentes modos musicos (Ecclesiastico, cap. XLIV, 5), l’aveva voluto il Ristori, erudito fecondo, intraprendente sacerdote appoggiato dall’Associazione S. Cecilia di Milano. L’arciprete era una delle rare presenze religiose in un coacervo di momenti che, pur non dichiaratamente anticlericali, fuori dalla politica, potevano dirsi laici e liberali. Lo confermano la partecipazione risibile delle autorità religiose al cerimoniale e lo scarso ruolo delle pur potenti opere pie. Se gli addetti ai lavori, nella stragrande maggioranza, erano devoti, si affermava una visione del mondo sostanzialmente positivista, che cozzava con le posizioni illiberali della Chiesa contro il liberalismo, contrarie all’evoluzione sociale.

Sempre nel ricco patrimonio di eventi culturali a corollario di quelli produttivi, l’Accademia Petrarca offrì due sedute solenni. Dal giorno 8 si svolsero conferenze su temi musicali, quindi gli incontri pedagogici con l’autorevole prof. Riccardi dell’Università di Bologna. L’occasione che riscosse più visibilità fu la “solenne tornata” in onore a Guido. Fra gli uditori che affollarono la sala dell’Accademia, Boito e Mancinelli, Ferri dell’Università di Roma, segretario dei Lincei, il marchese D’Arcais, critico autorevolissimo; con loro tanti inviati della stampa. Il profluvio di manifestazioni musicali aveva il senso di rinnovare, nell’Arezzo ottocentesca, i fasti di una città un tempo colta, l’immagine di una comunità amante e protagonista nell’arte, riannodare i fili con la tradizione degli aretini illustri. Un micro Rinascimento sull’onda del non lontano Risorgimento. In quel 1882 si dovette restaurare il Petrarca: Arezzo non brillava per la disponibilità di un gran numero di teatri e sale da concerto, e le condizioni deprecabili dell’unico esistente avrebbero potuto minare la riuscita delle giornate. L’8 aprile la “Gazzetta Aretina”, sulla prima pagina, aveva stigmatizzato il rischio, una delle riserve circa le capacità degli amministratori di gestire tanta legna al fuoco senza una seria preparazione.

“La Provincia” del 3 settembre riservò la prima pagina alla descrizione della “bella e imponente” mattinata, con aggettivi trionfalistici, simili a quelli usati dalla “Nazione” e dalla “Gazzetta”. L’inno reale era stato eseguito di fronte a una moltitudine di delegati di enti e associazioni, ai rappresentanti del Senato e della Camera, del ministero degli Affari esteri, a svariati sindaci, persino a inviati di altre nazioni. L’accompagnamento bandistico aveva reso l’atmosfera affascinante, con la fiaccolata e la festa popolare nell’anfiteatro del Prato, in contemporanea all’evento impareggiabile: la prima, per Arezzo, del Mefistofele, diretto da Mancinelli (fig. 3). Boito era in città sin dal primo del mese, per preparare adeguatamente la messa in scena. Le rappresentazioni sarebbero state sei, oltre all’esordio; unite a due concerti di accademie di valore. Alle 11 di domenica 3 si ebbe il vernissage del concorso agrario. Dal 31 agosto al 14 settembre nell’arena nazionale si esibì la compagnia equestre. La tournée dei fratelli Amato includeva i teatri più importanti. Disciplinate da un regolamento composto su misura, nella pista circolare del Prato si svolgevano corse di cavalli (fig. 4). Nei giorni 9, 11 e 12 era in strada la consueta fiera settembrina. Non era un’attrazione minore, per adulti e piccini, il serraglio di bestie feroci. Uno sguardo superficiale poteva far ritenere erroneamente che l’illuminazione delle dieci sere fosse un abbellimento di contorno, secondo la “Provincia”, un puro estetismo. Sul piano emozionale e della storia cittadina dava invece la percezione di entrare in un’era diversa, un affascinante simbolo del progresso.

“Manifesto del Grande Festival Ippico”, Arezzo, 1882.

“Manifesto del Grande Festival Ippico”, Arezzo, 1882.

“Umberto I e il suo seguito”

La visita del re chiuse il cerchio con il Risorgimento cittadino, assecondando le aspirazioni liberali: accusata a metà secolo di essere conservatrice e granduchista, la città si sentiva finalmente parte integrante del regno. Il sovrano arrivò mercoledì 6 alle ore 10, trattenendosi fino al primo pomeriggio, accompagnato dal duca d’Aosta e dal seguito militare. Si partì col piede sbagliato: la comunicazione della data e dell’ora era giunta solo due giorni prima; per motivi di sicurezza, per difficoltà nelle comunicazioni e semplice dabbenaggine. La cittadinanza si era fatta l’idea che Umberto sarebbe arrivato qualche giorno dopo, pertanto gli ansiosi addetti all’accoglienza furono colti di sorpresa. Alla stazione il comitato d’onore era composto dal ministro Berti col segretario generale Simonelli e uno sciame di personalità indigene. Fra ovazioni paragonabili solo alla visita di Garibaldi del 1867, il sovrano percorse in carrozza via e piazza Guido monaco, protagonista fantasmatico onnipresente. Dalla piazza parata a festa Umberto scese in piazza del Popolo, in mezzo agli stand del concorso regionale. Il moderato “La Provincia” era euforico: “il rumore delle numerose macchine messe in moto dal vapore, la gran cascata d’acqua colorata nella vasca di mezzo, sollevata da una potente turbina, le Bande musicali che suonavano l’Inno Reale, lo scalpitio dei cavalli, le acclamazioni fragorose del pubblico.” L’edizione 10 settembre continuava nominando i giornalisti convenuti da tutta Italia, in prima pagina stava la cronaca nei dettagli: “Il Re col Principe Amedeo e col loro seguito visitò minutamente tutta l’Esposizione accompagnato dal Ministero, dal Presidente della Commissione ordinatrice e dal Sindaco”, confabulando con giurati ed espositori “e a tutti chiedendo spiegazioni e notizie sugli oggetti esposti, e rimase soddisfattissimo dell’insieme di quella Mostra.” Dalla fiera agricola, passando per via Cavour, il monarca entrò a S. Ignazio. Da lì raggiunse la Scuola normale, nell’ex convento di S. Piero, per inaugurare la mostra didattica. La visita durò in tutto quattro ore. Quando la carrozza, preceduta dai carabinieri a cavallo, si affacciò da via della Bicchieraia su corso Vittorio Emanuele ci fu “un movimento generale nella folla da un punto all’altro”, fino alla dimora dei Guillichini, di proprietà dell’avvocato Luigi. Re e principe salirono nel quartiere, addobbato con i soldi della provincia pur essendo proprietà privata. Erano ad attenderlo le autorità e le rappresentanze cittadine, quelle provinciali e i sindaci, a fianco degli onorevoli Severi, Martini, Minucci, Puccioni più il senatore Collacchioni. Il re sostò per colloqui individuali. Con le cadenze cerimoniose con cui era stato accolto, nel pomeriggio fu accompagnato al treno. Anni dopo Marco Biondi ricostruiva il soggiorno, sfruttando i ricordi per elogiare la monarchia:

Fecero il giro di tutta la città, e furon tema (…) di molte conversazioni quelle famose parole che egli, il Romanelli, rivolse con sincero affetto al Re Umberto I, quando in quella circostanza gli fu presentato qual Presidente della Monarchica Costituzionale; e le parole suonavano così: Sicut erat in principio, et nunc et semper (Biondi 1891, 236-247).

Il rapporto fra il sovrano e i cittadini non era esente da criticità. Poco cordiale era stata l’accoglienza di “certi nostri messeri”, tuonava la “Gazzetta Aretina” del 17 settembre, che “non osando ancora annunziare apertamente la specie cui appartengono, si contentano di mostrarsi col nome di progressisti.” Fra gli eretici indicati il “già organo della Progressista”, la “Nuova Arezzo”, si era destato dal letargo al solo scopo

di spacciare ai quattro venti che l’accoglienza prodigata dal popolo Aretino ai suoi Sovrani non ebbe nulla né di patriottico, né di spontaneo, ma fu solamente il prodotto degli ordini dei caporioni del partito moderato, coll’aggiunta della solita antifona del popolo che langue e del Municipio che prodigalmente dispende i rimasugli dell’erario in feste e ricevimenti Reali.

All’opposto Arezzo, secondo la “Gazzetta”, aveva mostrato fedeltà e affetto “dal primo patrizio all’ultimo popolano”. I progressisti lamentavano tuttavia gli alti costi del ricevimento, a danno della collettività. Quest’accusa inorridiva i moderati, che replicavano con sarcasmo: “da tutt’altri ce l’aspettavamo che da un organino della progressista, che sebbene abbia modificato la propria ditta, spaccia sempre la medesima merce, organino di quel partito che in baldorie, pranzi e ricevimenti ha speso tanto del pubblico erario che sarebbe bastato a procurare un sontuoso ricevimento ed una terribile indigestione a tutti i Re d’Italia da Romolo in poi”. Per aprire gli occhi ai lettori svelava il “vero” movente dell’articolo della “Nuova Arezzo”:

L’amore della verità? (…) Dunque la vera causa di tanta bile è l’antipatia alla monarchia. Ma allora perché non dirlo apertamente (…). Avete forse timore che certe dichiarazioni, svestite dal comodo mantello dell’ambiguità contraddichano (sic) il vostro passato o pregiudichino grandemente l’avvenire?

Epocale o sgradita in base alla fonte del parere, la visita reale non poteva non essere il momento clou delle celebrazioni. Proclamava intra ed extra moenia lo sbocciare di un’Arezzo aggiornata e rispettata. Placando il dispiacere di chi l’avrebbe voluta a fianco del coniuge, impossibilitata perché era in Cadore, il 12 settembre Margherita transitò dalla stazione diretta a Foligno. Il convoglio si fermò a causa dell’invasione dei binari, così la regina s’intrattenne con la folla per più di dieci minuti.

Anche la “Gazzetta Aretina” del 17 si sperticava in lodi, riflettendo a mente fredda sull’oneroso programma delle feste. Rammentava l’inaugurazione del monumento a Guido (fig. 5): alle 11 era stata celebrata la prima liturgia di una serie prolissa d’inaugurazioni, partendo dalla statua realizzata da Salvini, cavaliere e professore. L’idea aveva preso corpo a metà degli anni Sessanta1. Pure “La Nazione” seguiva Arezzo con elogi costanti: le vie erano assai popolate, alle esposizioni e alle corse si erano fatti ottimi affari. Per il giorno 9, per dopodomani e lunedì 11 l’inviato immaginava una folla immensa, rimanendo aperta l’esposizione del bestiame “che riescirà veramente una cosa imponente.” Nella palestra comunale si era svolta una performance dell’Accademia di ginnastica e scherma e la premiazione del concorso ginnastico: bellissimi esercizi alla sbarra, alle parallele, alle campanelle e al cavallo. Meritati applausi ai “bravi giovani, che all’educazione della mente sanno congiungere anche quella del corpo.” Mens sana… Nell’Accademia di scherma erano stati fatti brillanti scontri alla sciabola e alla spada, ammirati dall’“eletta schiera di spettatori”. Non mancava ne la “Nazione” un tocco d’orgoglio: gran parte dei premi era stata vinta dalla Palestra ginnastica fiorentina. La corrispondenza del 10 descriveva con esaltazione analoga la mostra della floricoltura e orticoltura e gli eleganti addobbi dell’esposizione industriale. Preziosa la mostra della ceramica, mentre quella di belle arti lasciava a desiderare, nonostante i quadri di Bacci, Conti, Giunti, Lennaz e Viviani.

“Il re inaugura il monumento a Guido Monaco, Arezzo, 1882.

“Il re inaugura il monumento a Guido Monaco, Arezzo, 1882.

“Costi e benefici”

Mercoledì 20 fu proclamata la chiusura. Esaurite le premiazioni sul settembre 1882 calava il sipario, innescando malinconie. Il concorso agrario avrebbe lasciato “lunga e grata memoria”, eco nazionale e internazionale, “proficuo di utili ammaestramenti ai nostri agricoltori”, scriveva la “Gazzetta” del 17. Per non troncare in modo brusco l’ospitalità a turisti ed espositori, dal 2 al 20 settembre rimasero aperte al pubblico la biblioteca e il museo di Fraternita, la collezione artistica Bartolini e la pinacoteca. La giunta Nucci condivideva il merito della riuscita con i consiglieri Albergotti, Benci, Bonci, Bruschettini, Guillichini, Perticucci, Sarri. Due membri della commissione ordinatrice meritavano particolari felicitazioni: il promotore Angiolo De Bacci e il presidente della Filarmonico-drammatica e della banda G. Monaco Angiolo Mascagni, già sindaco, sostenuti dal maestro Burali Forti, Giovanni Albergotti, Guiducci, Lambardi, Occhini e Ricci. Con l’annuncio dei vincitori del concorso industriale, fatto il primo ottobre, si spensero i riflettori mediatici. La ditta Bertilacchi e Battaglini, del luogo, aveva conquistato il premio più alto, la medaglia d’oro del concorso agrario per le trebbiatrici. L’azienda rifletteva con sorpresa l’evoluzione tecnologica dell’Aretino, secondo la “Gazzetta” del 15 ottobre. Il ministro Berti, che aveva apprezzato la Società operaia di Arezzo per i suoi statuti2, citava altresì l’ordine e la tranquillità. Nonostante la massa di visitatori, non si erano verificati furti o risse: era una delle città più civili d’Italia. Il ministro ringraziava per l’accoglienza e si complimentava per il livello raggiunto dalla produzione del territorio. Il re inviava al sindaco tremila lire, da distribuire ai bisognosi, con lettera di accompagnamento firmata dal ministro Visone.

Le premiazioni avevano lasciato strascichi minimi. Parlando dell’Eco del Concorso Agrario la “Gazzetta Aretina” del 21 ottobre lamentava che, nella bachicoltura, la ditta Nenci era stata premiata solo con l’argento, pur apprezzata dal re e da giornali autorevoli. Dava lavoro continuo a quindici operaie, che potevano arrivare a cinquantacinque o sessanta. Non era utile solo per le persone che impiegava, lo era “e maggiormente, per le massime che diffonde per mezzo al reputato giornale Annali di Bachicoltura diretto dal prof. Tito Nenci.” L’artista Gatteschi era indignato per le tesi del giury della didattica, con una sola persona realmente competente. Per l’insegnante di disegno non aveva fatto un esame corretto dei suoi lavori, né delle scuole. Salvo piccole sbavature, il bilancio morale del concorso industriale aveva comunque superato le speranze più rosee. Se a poche ore dal taglio del nastro si era paventato un fiasco per l’ipotesi scarsità d’iscritti, molti e pregevoli erano stati gli oggetti esposti, commentava “La Provincia” del 17 settembre, mostrando un lodevole risveglio industriale nella provincia, lusinghiera premessa per lo sviluppo crescente “nelle nostre grandi e piccole industrie”. Le ferriere, le fabbriche di ceramica e le vetrerie di S. Giovanni, i panni sceltissimi dei lanifici di Stia e di Soci, i prodotti delle cartiere di Papiano, le svariate industrie di Montevarchi e di Borgo S. Sepolcro, bastavano a illustrare il livello. Arezzo non aveva una vocazione industriale, si ammetteva da più settori della vita economica e politica, i più preferivano “tener dietro” al commercio o destinare capitali all’acquisto e al miglioramento della terra. Ciò nonostante la città etrusca avrebbe potuto presentarsi in maniera più corposa a quella “festa del lavoro”, se molti industriali si fossero preoccupati di esporre. La maturazione di una mentalità imprenditoriale aveva da sopportare resistenze. L’impressione lasciata dal concorso era “in ogni modo” ottima, per la stampa e gli addetti ai lavori. Si prendeva atto che gli opifici andavano finalmente diffondendosi pure nei piccoli centri: ciò non provava che la natura della provincia stesse diventando industriale, semmai che sarebbe stata perennemente agricola. Tuttavia ove “più ristretto” era il territorio coltivabile o esistevano condizioni favorevoli o prosperava l’agricoltura, potevano fiorire le industrie con incremento della “pubblica ricchezza”. Il foglio aggiungeva il computo economico. Il costo finale era stato di cinquantatremila lire; ventiduemila spese per le feste e sussidi diversi, seimila per la quota comunale della venuta del re, diecimila di sussidio al teatro. L’ente provincia aveva messo in bilancio ventiseimila lire di uscite, il comune vi era entrato per un sesto con l’imposta provinciale. La statua a Guido non era nel conteggio: l’ornamento arricchiva il patrimonio della città e gli stanziamenti erano iscritti nelle contabilità precedenti. La quota più cospicua delle risorse era stata impegnata per pagare accollatari e operai del paese, senza contare la cifra che “i particolari o corpi morali” avevano sborsato per il teatro e le altre esposizioni speciali.

Gli introiti si potevano desumere dai flussi di visitatori e dall’incremento del dazio. Le entrate sarebbero state molto maggiori se dei falsi allarmi, insieme al soverchio rincaro degli affitti, non avessero tenuto lontana da Arezzo “in principio moltissima gente”. Erano stati importanti i guadagni spostati dalle tasche dei proprietari dei fabbricati per rimpinguare quelle degli operai, vale a dire un forte incremento del lavoro: la città era stata “ripulita da un capo all’altro”, i privati avevano approfittato per fare migliorie alle abitazioni.

Com’era prassi in tutt’Italia per giustificare la pesantezza finanziaria di queste iniziative, i vantaggi non andavano limitati al calcolo “in moneta”. Il ritorno promozionale era grandissimo, l’aiuto spontaneo di tanti volontari era stato decisivo per risparmiare fondi, concorsi e mostre avevano messo in luce la consistenza morale ed economica della provincia, nonostante che il ministero continuasse a metterne in forse l’esistenza amministrativa. Nel rivisitare il ricevimento reale e il bilancio delle feste, l’ottima riuscita del concorso agrario e la partecipazione di Arezzo, la “Gazzetta” del 17 settembre ricordava le parole fatidiche di Ricasoli, passati sette anni da quando si diffuse l’allarme che la riforma delle circoscrizioni amministrative “minacciasse seriamente” Arezzo: “Tale riforma in Italia, e segnatamente la soppressione della Provincia di Arezzo, non la vedranno ne (sic) i nostri figli ne i nostri nepoti”. La crescita dell’influenza geopolitica garantita dalle feste aiutava a conservare la circoscrizione. Apprezzamenti andavano alla cultura: l’opera, l’esposizione di strumenti, il congresso liturgico, le tornate dell’Accademia e gli studi su Guido avevano avuto una riuscita degna “di una città capitale”. Meno soddisfacente la partecipazione al Mefistofele, esito di prezzi troppo salati. Era fondamentale tramandare l’accaduto: “La Gazzetta” del primo ottobre annunciava con soddisfazione Le feste di Arezzo a Guido Monaco narrate dal tipografo Stefano Magi, dieci fascicoli settimanali di otto pagine. Magi attribuiva alle giornate un’importanza unica nel determinare l’avvenire di Arezzo.

Dalla terza settimana di settembre gli spazi destinati dalla stampa italiana si erano ristretti, per lo scemare della risonanza e per l’attenzione alle inondazioni nel Nord e nell’alta Toscana. Consumato l’effetto a caldo la giunta comunale si confrontò con il fardello delle spese, diluite in debiti pluriennali, molto lievitate rispetto al preventivo. Le Illustrazioni al conto finanziario anno 1882 spiegavano la necessità di orientare l’indirizzo politico finanziario, con riformulazione dei capitoli in uscita. Gli storni erano considerevoli e si riferivano a una somma importante: se ogni anno si fosse verificato un bisogno di quella natura e importo, si doveva dedurre che il bilancio fosse errato a ripetizione. Tuttavia il 1882 era stato eccezionale: Arezzo per la prima volta “doveva mostrarsi al mondo civile” richiamando l’attenzione, perciò la giunta, per presentarsi nel modo migliore, aveva allargato i cordoni della borsa, lasciando correre spese che in circostanze ordinarie “si sarebbero potute risparmiare”, col fermo intento di bilanciare la “temporanea larghezza con altrettanta restrizione dopo passate le feste” (Archivio storico del Comune di Arezzo 1883, 16). Alle uscite occorreva rispondere con storni alla somma annuale di 25.677. I tagli, per delicatezza chiamati “economie”, avrebbero diminuito la spendibilità ai maestri elementari, gli assegni per le scuole invernali sussidiate e le supplenze. Erano vessati l’assegno per le spedalità nel nosocomio, la tassa sui redditi di ricchezza mobile, il fondo spese casuali; le spese per costruzioni e sistemazioni di fabbriche, fermando i traslochi delle guardie di pubblica sicurezza, dell’archivio comunale e di due classi elementari femminili; novecentottantadue lire erano tolte alla scuola di musica; ridotte le rette per i degenti nella pia Casa che erano a carico del comune; lire cinquecentonovantasette per spedalità di incinte illegittimamente. Gli ultimi storni ridussero di un quarto sgravi e rimborsi per le quote inesigibili: calcolate in entrata in detrazione del fondo disponibile sui residui 1880, riferendosi a crediti di esazione incerta, furono iscritte alla deputazione provinciale. Accanto ad artifici contabili, istruzione, cultura e assistenza scontavano il deficit più di altre voci.

I protagonisti aretini che avevano permesso il 1882, uomini attivi in politica, economia e cultura (spesso le medesime teste erano utilizzate per più funzioni), avevano restituito energia e visibilità al campanile, all’identità municipale e provinciale, muovendosi nella dimensione territoriale contemporanea del nation building. Era una delle conferme che “la nazione si costruisce in verità a partire dal livello locale nella misura in cui gruppi intellettuali saldano la dimensione locale con quella nazionale” (Cavazza 2009, 111-126). Sostenendo la tesi che l’affermazione dello stato-nazione sia entrata in un rapporto dialettico “con la sfera locale interagendo con essa” (Confino 2006), le mostre ponevano su un piedistallo, che poteva essere osservato da tutto il paese, la produzione locale, confrontandosi e sentendosi parte dell’economia italica. Nei giorni delle feste dedicate a Guido aretino, poi più spesso Guido d’Arezzo, coesistevano l’omaggio al genius loci, il riconoscimento del patrimonio di creatività e impegno del territorio, con l’aver generato uno dei figli più meritevoli dell’intera umanità. Da parte sua il re aveva ratificato l’imprimatur massimo alla saldatura, la certificazione dell’amalgama, finalmente realizzata, fra il particolare e il nazionale. La modernizzazione dello spazio geopolitico, il local building, svolgeva il suo ruolo, seppur micro ma atteso e dovuto, nella costruzione dell’Italia. Una frazione funzionale all’insieme patria.

Bibliografia

Riviste

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1883    Resoconto 1882, Arezzo, s.e.

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2006      Lo Local, una essencia de toda nacíon, in “Ayer”, n. 64.

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Franceschini G.

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Biografia

Laurea in Scienze politiche a Firenze, indirizzo storico-politico, due postlaurea più dottorato in Scienze giuridiche storiche e sociali all’Università di Siena. Lavora presso lo stesso ateneo. Autore di circa 140 pubblicazioni sulla storia politica, sociale e sul Risorgimento; comprese monografie, saggi in collettanei e riviste, curatele, recensioni. Numerosi interventi a convegni, conferenze, seminari, tavole rotonde, contributi televisivi, presentazioni di volumi, insegnamento.

Lo scrivente è membro dell’Associazione di Studi storici SISSCO, della Società Italiana di Scienza Politica, dell’International Political Science Association, della Società Italiana di Studi Elettorali, dell’Accademia Petrarca di lettere Scienze e Arti. Fra gli ideatori-fondatori della Società storica aretina e della rivista “Notizie di Storia”, membro da sempre del comitato di redazione, è il curatore del Dizionario Biografico degli Aretini (Primo Novecento), on-line, con circa cinquecento voci e cinquanta biografi. Collaborazioni nazionali e internazionali, cito la partecipazione all’analisi-ricerca del Department of Political Science di Dublino, in qualità di “Expert Survey”.

Fra le opere recenti Risorgimento e antirisorgimento: Garibaldi ad Arezzo fra cronaca e storia, pref. P. Bagnoli (Roma 2012); L’incanto della modernità (Firenze 2012); “Il sapere utile.” L’istruzione tecnica e professionale in Italia (collettaneo 2015). Sono in corso di pubblicazione Oltre la carità: la Società Operaia (monografia); Guido Guidotti Mori, podestà antifascista (su volume collettaneo); Garibaldi ad Arezzo (in “Atti e Memorie dell’accademia Petrarca”). Nel 2013 ha ricevuto il premio speciale della giuria “Tagete” e, nel 2014, il premio Tagete per la saggistica con L’incanto della modernità. È stato insignito di premi per opere di narrativa (p.e. Pontedera, Roma, Monterchi).

Biography

Degree in Political Science in Florence, Political History, two postgraduates and PhD in historical, legal and social sciences at the University of Siena. He works at the same university. Author of about 140 publications on political and social arguments, and Risorgimento; including monographs, essays in anthologies and reviews, curatorships; he has numerous conferences, lectures, seminars, TV contribution, presentations, teaching activities.

He is a member of the Association of Historical Studies SISSCO, the Italian Society of Political Science, the International Political Science Association, the Italian Society of Electoral Studies, Petrarca Academy of Sciences, Letters and Arts. Among the creators-founders of the Historical Society Aretina and the review “Notizie di Storia”, is the curator of the Biographical Dictionary of Arezzo (1900-1950), on-line, with about five hundred voices and fifty biographers. National and international collaborations, that is participation in research analysis of Department of Political Science in Dublin, “Expert Survey”.

Among recent works Risorgimento and antirisorgimento. Garibaldi in Arezzo between events and history, pref. P. Bagnoli (Rome 2012); The enchantment of modernity (Florence 2012); “Knowledge helpful”. Technical and professional education in Italy (2015, collective). To be published Beyond the charity: the Società Operaia (monograph); Guido Guidotti Mori: the antifascist podestà (in collective volume); Garibaldi and Arezzo (in “Proceedings of the Academy Petrarca and Memories”). In 2013 he received the special jury prize “Tagete” and in 2014 the award “Tagete” for essays with The enchantment of modernity. He has received premium for literature (for example Pontedera, Rome, Monterchi).

Le foto sono tratte, per amichevole concessione, dall’archivio storico dell’Associazione Foto Club “La Chimera” di Arezzo, on-line, url http://www.fotoantiquaria.com/, ultima consultazione 7 luglio 2015 ore 16:00, e dall’archivio del dott. Luigi Armandi, Arezzo, per trasmissione personale.

  1. Monumento Europeo da erigersi in Arezzo a Guido Monaco, Arezzo, Sgricci, 1864; Provincia di Arezzo, Regolamento per l’attuazione dell’impresa di erigere un monumento europeo all’immortale inventore delle note musicali, promossa dal Consiglio Municipale di Arezzo nella tornata del 12 agosto 1864, Arezzo, Bellotti, 1866. []
  2. Cfr. Concorso industriale della Provincia di Arezzo e Concorso nazionale di strumenti musicali: elenco ufficiale dei premiati Arezzo 20 settembre 1882, Arezzo, Racuzzi, 1882; Concorso industriale della Provincia di Arezzo e Concorso nazionale di strumenti musicali: catalogo ufficiale de’ concorrenti, Arezzo-Firenze, Cellini, 1882. []